• 02 Feb

     

    Ti offro, Signore, i pensieri,

    perché siano rivolti a Te;

    le parole,

    perché siano ispirate da Te;

    le azioni,

    perché siano secondo la tua volontà;

    le sofferenze,

    perché siano per Te.

    Voglio tutto ciò che tu vuoi,

    lo voglio perché tu lo vuoi,

    lo voglio fino a quando tu lo vuoi.

    Ti prego, Signore,

    illumina l’intelligenza,

    infiamma la volontà,

    purifica il cuore,

    santifica l’anima.

    Che io pianga le colpe passate,

    respinga le tentazioni future,

    corregga le cattive tendenze,

    coltivi le necessarie virtù.

                                           Clemente XI, papa

     

  • 02 Feb

    Inno di lode
    da un campo di prigionia

     

    Lodato sia il Signore per tutte le cose,

    la sua umiltà e la sua provvidenza.

    Lodato il suo amore per tutte le cose,

    lodata la sua lunga pazienza.

    Lodato sia il Signore che perdona le colpe,

    largisce successi e afflizioni;

    lodato il Signore il quale ha disposto
    che vivessimo tempi fatali.

    Lodate il Signore pene e rovesci,

    voi gioie serene e dolori,

    voi mali affliggenti la vita
    che fate più umile il cuore.

    Lodate sia il signore che aiuta noi stanchi
    in cammino alla meta agognata,

    lodato lui che accende nel cuore
    l’anelito al vero e alla pace.

    Lodato sia il Signore per le croci che pesano,

    l’aiuto che accorda nella lotta interiore,

    la quiete e il fuoco che provano.

    Per tutte le cose sia lodato il Signore!

     

    Anonimo, da “Samizdat” negli Anni Sessanta

     

  • 02 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

    Mc 10,17-22
     

    Si resta sorpresi al termine di questo brano evangelico.

    L’inizio infatti sembra molto promettente… c’è una corsa, un desiderio, un atteggiamento di umiltà, parole piene di stima, ed è il caso di dirlo, così… stranamente “azzeccate” e deferenti.

    Tuttavia, nonostante le ottime premesse, è l’unica storia di una chiamata che finisce con un netto insuccesso.

    Come mai una conclusione così sconcertante?

     

    v. 17: “in cammino”

    Gesù si sta dirigendo verso Gerusalemme. Sa che sarà consegnato nelle mani degli uomini per essere ucciso. Egli vive questo come dono di sé sino alla fine, fedeltà all’amore al Padre e agli uomini a cui è stato mandato.

    Sarà questa la sua esperienza di massima povertà come espropriazione totale di sé, per amore.

     

             Uno

    Matteo dice che era giovane (19,22), Luca che era un notabile (18,18).

    E’ quindi giovane, ricco e nobile: un uomo realizzato pienamente sotto tutti gli aspetti. Cosa chiedere di più alla vita?

    “Se si chiede… oggi alle persone che cosa è che… le rende veramente felici, la risposta che riceviamo è che si possono permettere tutto quel che desiderano. Il concetto popolare di felicità, diffuso oggi probabilmente tra la maggior parte della gente è che nel consumismo non solo è fondata la libertà, ma anche la felicità e che l’unica cosa che impedisce la libertà e la felicità consiste nel non aver aver abbastanza soldi per consumare tutto quel che si desidera consumare” (E. Fromm).

    Tuttavia la coscienza di quest’uomo permane ancora viva: si sta ponendo delle domande, intuisce che quella perseguita non è forse l’unica via per raggiungere la felicità e la vita.

    Non avvertiamo talvolta anche a noi un certo disagio che ci dice che stiamo percorrendo una strada non buona?

     

    Gli corse incontro, si inginocchiò

    Queste azioni raccontano le buone disposizione che abitano la coscienza di quest’uomo. Ma buone e ottime disposizioni possono ben convivere con disposizioni esattamente contrarie, opposte. Ne facciamo esperienza ogni giorno.

    E quando si deve giungere ad una decisione allora si scatena nella coscienza la battaglia, la lotta.

    Quali disposizioni vinceranno? La nostra esperienza che cosa dice a proposito?

     

             Che devo fare?

    Il giovane ricco chiede “la vita eterna”: l’uomo cerca la vita vera, quella che dura. Alla fine ogni ansia si riferisce ad essa. E l’angoscia scaturisce dalla paura di perderla.

    Ecco allora innanzitutto la domanda in questa direzione: “Che cosa devo fare per avere (lett. ereditare) la vita eterna”: siamo dell’ottica dell’avere, del possedere, del fare; è la linea finora percorsa da quest’uomo.

    Perché non porre la domanda in altro modo es.: “Come devo essere per…”.

    Il ricco vuole essere il protagonista dell’incontro, di ciò che sta avvenendo. E’ lui che cerca di collocare Gesù all’interno della sua esperienza, dei suoi desideri e delle sue aspettative…

     

    v. 18 Perché mi chiami buono?

    Gesù afferma l’unicità della bontà divina, e facendo questo suggerisce la sua identità. E’ come se dicesse: “Se non sai chi sono, non chiamami buono, perché lo è solo Dio. Se sai chi sono, chiamami pure buono e traine le conseguenze”.

    Solo se in Gesù si scopre il tesoro prezioso dalla Buona Notizia, il “Sommo Bene” (san Paolo della Croce) allora per comprarlo si può vendere tutto, sbarazzarsi di tutto. La povertà è espressione concreta della fede in Gesù “per il quale mi sono spogliato di tutto e ho stimato tutto come spazzatura allo scopo di conquistare Cristo” (Fil. 3,8).

     

    v. 19: Conosci i comandamenti

    Gesù rispetta la libertà di quest’uomo, accetta inizialmente la sua logica cercando di mettersi in sintonia con lui.

    Gesù dunque rimanda il giovane a ciò che ha già sperimentato e che gli appartiene: l’osservanza dei comandamenti.

    Rimanda ai comandamenti di cui cita quelli riguardanti i rapporti interpersonali: la fedeltà a questa indicazione sta a dire quale sia la condizione preliminare al fine di ricevere la vita eterna.

    Viene tralasciato il comandamento fondamentale quello dell’amore di Dio, perché questo comandamento riceverà da Gesù una nuova formulazione come sua sequela.

     

    v.20 Tutto questo ho custodito fin dalla mia giovinezza

    La risposta del giovane è istantanea: “E’ ciò che ho sempre fatto!”. Con un senso di sufficienza l’uomo si meraviglia della risposta così “semplicistica” di Gesù…

    Egli come Paolo si gloria dell’irreprensibilità nei confronti della legge (cfr Fil 3,6). Ma la Legge è incapace di produrre vita preoccupata com’è di barricare la morte.

     

    v. 21 Guardandolo dentro

    Ora tocca a Gesù rispondere.

    La sua risposta è avvolta dall’amore: lo fissa, lo fa’ sentire al centro della sua attenzione (emblépsas: guardare dentro). Vuole porre la premessa per andare oltre: questa premessa è l’amore (egàpesen). Il suo sguardo rivolto al cuore è invito al giovane ricco di far altrettanto: si metta in ascolto delle profondità del suo cuore (1Cor 13,12).

    “Lo amò”: E’ il centro del racconto. Si tratta di lasciarsi prendere o meno da questo amore.

     

             “Una cosa sola ti manca”

    Ora è Gesù a prendere l’iniziativa e a fare la sua proposta: egli invita il giovane chiaramente alla sua sequela, a possedere unicamente il regno che è venuto ad annunciare e a portare, lasciando dietro di sé ciò che era solo premessa ad una pienezza di vita: l’osservanza dei comandamenti.

    “Una cosa sola ti manca”: paradossalmente quel che manca è proprio quel che si possiede.

     

     

    va vendi…”

    A differenza del testo di Matteo che usa il verbo al condizionale, Marco riporta la parola di Gesù sotto forma di comando.

    Il possesso dei beni materiali impedisce sul serio di prendere sul serio la parola di Dio, così da farla divenire criterio di scelte di vita. I beni di questo mondo non sono per nulla neutri per il discepolo che vuole impegnarsi nella sequela: egli deve prendere dinanzi ad essi una posizione ben precisa e non ambivalente. “Non si può servire Dio e a Mammona” dirà categoricamente Gesù: è un aut-aut!

    Chi ascolta questo comando diviene come Gesù: piccolo, povere, erede del regno

     

             E avrai un tesoro

    L’arricchirsi presso Dio significa saper dare. Uno avrà quanto avrà donato, non posseduto: e dare ai poveri! A coloro che non possono ricambiarti, nella gratuità più assoluta.

     

             Vieni, seguimi

    Essere povero come e con Gesù significa seguirlo. È modo concreto di attuare il primo comandamento dell’amore. Povertà non fine a se stessa ma come premessa di libertà di scegliere Cristo, la perla preziosa per la quale si è disposti a rinunciare a tutto.

    Possiamo dire di vivere questa libertà nella nostra sequela?

     

     

             Inorridito per la parola

    La Parola getta l’uomo nello sconcerto. Essa è scintilla capace di far scoppiare una battaglia feroce nel cuore dell’uomo.

    Il ricco rimane sorpreso, sconcertato. Non è troppo? Volendo incontrare Gesù non aveva nessuna intenzione di fare un salto del genere. Credeva che il discorso si fermasse soltanto alla sua esperienza, a qualche piccolo aggiustamento; ma Gesù vuole provocare un sovvertimento: quando mai…!?

    E poi perché rinunciare a tutto? La ricchezza non è poi dono di Dio, segno della sua benedizione? Non è possibile trovare un accordo, un compromesso che permetta di avere tutto senza lasciare niente?

     

             Se ne andò intristito

    L’abbraccio di Gesù è troppo stretto. E’ troppo esigente. E l’uomo si divincola: è arrivato alla soglia di una nuova tappa della sua vita ma non ha il coraggio di varcarla. Non si fida.

    Se ne va afflitto, rattristato (lett. “corrugando la fronte”).

    In fondo non può bastare la religiosità che già si possiede?

    Questa tristezza perdurerà sino a quando perdurerà l’attaccamento ai suoi beni. Finché non scoprirà dove sta il vero tesoro.

     

             Aveva infatti molti beni

    La ricchezza è impedimento alla sequela e ad ereditare il regno. La ricchezza da segno della benedizione dall’alto, diviene impedimento, ostacolo all’accoglienza del regno

    Le ricchezze sono le spine che soffocano la Parola (4,19). Gesù non aveva parlato dell’ “inganno della ricchezza” (4,19)?

    “L’uomo, anche se non vuole ammetterlo in alcun modo, serve sempre e adora sempre qualcuno o qualcosa: è essenzialmente feticista! Detto in altre parole, ha sempre qualcosa che assorbe tutta la sua esistenza, come “cura”, ossia preoccupazione ultima del suo agire. Questo è il suo peccato contro Dio – la sua idolatria – che gli fa porre come valore supremo un idolo che non è il Dio dei vivi, e che quindi lo tiene nella sua morte” (Fausti).

     

    Alcune considerazioni

     

    Ma perché la ricchezza rappresenta un serio impedimento alla sequela e quindi al regno?

    Proviamo una volta a dimenticare le continue giustificazioni e le scuse motivate dalle apparenti necessità, dalle costrizioni e dagli obblighi oggettivi che ci spingono a possedere denaro, e vedremo che il vero nocciolo della nostra dipendenza da Mammona sta nel fatto che il denaro possiede il potere di placare in apparenza le nostre angosce esistenziali più importanti, angosce che abbiamo solo noi esseri umani e che perciò ci costringono di continuo a cercare risposte smodate e illusorie… rispetto alla nostra angoscia, non riusciamo mai a mettere da parte riserve sufficienti “per l’inverno” (come gli animali ndr), e non ci sarà mai un limite alla nostra angoscia, mai un termine al nostro terrore, neppure se siamo molto ricchi.

    In realtà esiste un’unica strada che ci consente di trattare in modo sensato la continua minaccia che incombe sulla nostra esistenza, ed essa consiste nell’accettare la nostra intrinseca povertà a partire da Dio e nel rendere in questo modo più vasto il nostro cuore per la povertà relativa degli altri…

     

    La verità è che il ricorso continuo a ciò che abbiamo, ci impedisce alla fine di essere e di vivere. Come morti viventi ci seppelliamo letteralmente con il “possesso”, sia esso morale, finanziario o spirituale, come se, secondo l’esempio degli egizi, dovessimo innalzare attorno a noi, mentre siamo ancora in vita, una camera sepolcrale tutta d’oro, e il denaro che diciamo nostro ci rende necessariamente ciechi alla miseria che sta al nostro fianco, rende i nostri orecchi sordi al grido di dolore degli impoveriti e rende il nostro cuore verso i sentimenti più semplici della compassione e della misericordia.

    Alla fine non ci accorgiamo neanche più di essere diventati degli autentici mostri, ma consideriamo il nostro stato assolutamente normale e giusto…

    Finiamo col cadere nella più grossa delle bugie, quella cioè, che il denaro è lo strumento che ci rende liberi e indipendenti. E’ vero il contrario: siamo diventati servi prezzolati del denaro, dipendenti nel tritatutto del capitale, e più ci inseriamo nella logica del denaro più diventiamo dipendenti e dominati dall’angoscia. Alla fine, niente ci pesa di più che “rinunciare” ad una cosa qualunque…

    Ma cosa abbiamo da perdere veramente?…

    Per vivere abbiamo bisogno di una sensazione di sicurezza. Ma più ci organizziamo nella sicurezza di questo mondo, più ci risulterà evidente che nei confronti della morte non esiste sicurezza. L’unica cosa che ci resta è quello che noi siamo… (Mt 6,19-21)…

    Finché le persone hanno paura, penseranno di doversi proteggere con ogni sorta di possessi.

    Ma c’è la felicità di uno starsene protetti e al sicuro, che sa di non aver bisogno di simili corazze. Questa è la povertà che soltanto Dio ci può dare; essa è un dono, non una prestazione morale…

    Delle persone che ricevono la certezza che la bontà di Dio sostiene e mantiene la loro vita, non hanno più bisogno di preoccuparsi ogni giorno del proprio sostentamento, ma possono chiedere come bambini: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano.

     La scelta della povertà non è frutto di ascesi, o espedienti umani, ma puro dono di Dio: è anzi frutto dell’essere “presso” Dio. L’uomo non è mai tanto lontano dal regno di quando pretende di possedere dei titoli per entrarci, o semplicemente possiede qualcosa. Il semplice possedere, invece di dare, è un titolo di esclusione: non si è “presso Dio” che è dono di vita.

     

     

  • 01 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    Quando si parla di carità si è sempre, comunque, a priori, d’accordo!

    Ma in concreto ci accorgiamo di quanto essa avrebbe bisogno di verifiche e di purificazioni nella nostra vita: troppo spesso facciamo passare sotto il nome di carità ciò che non lo è (simpatie, bisogni, apostolato, servizi vari interessati….).

    Forse potremmo accorgerci che in tanta pseudo-carità siamo noi stessi che ricerchiamo e non l’altro.

     Da un altro la spesso si presenta un conflitto: devo dare la precedenza alla preghiera o alla carità?

    La scrittura domanda una preghiera incessante, continua. Ma ci è stato anche detto che il grande comandamento è la carità. Perché allora tanto tempo a pregare quando c’è tanto da fare? Forse che il lavoro non è già preghiera?

     

    Dobbiamo partire da un’umile constatazione: è nella nostra esperienza di ogni giorno che l’amore non è facile. Esso esige da noi un superamento non quantitativo ma qualitativo. Difatti vi è un’originalità cristiana nella carità di cui si tiene poco conto.

    Se prendiamo in considerazione la parabola del buon samaritano (Lc), ci viene detto che carità è rendersi prossimo. Per il N.T. se qualcuno non ti è prossimo, tocca a te farti prossimo a lui, cercando motivazioni profonde.

    Non si tratta affatto di solo “non mancare nella carità”: “Non ho fatto del male a nessuno!”. Al cristiano viene richiesto uno spostamento non indifferente: mettere l’altro al primo posto, davanti a me, con le sue sofferenze prima delle mie.

     

    Seconda legge della carità è: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34).

    Il nostro amore sarà cristiano nella misura in cui si conforma a quello di Cristo, sarà quello di Cristo. Questo suo amore è fatto di puro dono, offerta di sé, senza attesa di contraccambio; esso non condanna, non giudica.

    “E’ lui che ci ha amati per primo” (1 GV 4,19) “Avendo amato i suoi sino alla fine” (Gv 13,1).

    L’amore di Gesù è capace di far suscitare in chiunque quella parte di bontà, di speranza che erano nascoste. Il suo amore così ci rivela l’amore del Padre che dona e suscita la vita. Chi ama con l’amore di Gesù condivide la vita di Dio.

     Cristo si dona e lo annichilendosi, facendosi più piccolo di noi (povero, mendicante). Accetta di aver bisogno, non per strategia, ma per risvegliare in noi ciò che di più vero, buono e bello è nel profondo di noi stessi.

    “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: egli ha donato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16)

    “Non c’è amore più grande di questo” (Gv 15,13).

     

    Tutto questo ci appare impossibile! Ci viene forse chiesto troppo. Richieste divine non umane? Tra l’amore umano e quello che ci propone Gesù ci appare un salto qualitativo troppo esigente:

    “Vi do un comandamento nuovo” (Gv).

     

    Scriveva s. Teresa del B.G.:

    “E’ solo l’amore che conta, ma per amare come tu mi ami mi occorre ricevere in prestito il tuo stesso amore, solo allora potrò riposarmi”

    La carità è dono che ci viene dall’alto. Essa, nella novità del comandamento, ci chiede di amare dello stesso amore della Trinità. La novità del N.T. non è nel fatto che Dio comandi d’amare (questo c’è già nel V.T.), ma che egli domandi d’amare con lo stesso amore con cui si ama e ama tutto ciò che egli ha creato.

     

    Tale è la ragione della misteriosa equivalenza, stabilita da Gesù tra ciò che è fatto agli “altri”, ai “piccoli” e ciò che è fatto a Lui stesso. Come per una misteriosa reciprocità di rapporti Dio attenda che diveniamo testimoni e delegati della sua stessa paternità.

    E’ qui che si coniugano inscindibilmente preghiera e carità, ben lontani dall’opporsi esse si compenetrano, interagiscono, si sostengono.

    La carità è impossibile senza preghiera e la preghiera è impossibile senza carità:

    “Preghiera e vita cristiana sono inseparabili, perché si tratta del medesimo amore e della medesima abnegazione, che scaturisce dall’amore. La medesima conformità filiale e piena d’amore al Disegno d’amore del Padre. La medesima unione trasformante nello Spirito Santo, che sempre più ci configura a Cristo Gesù. Il medesimo amore per tutti gli uomini, quell’amore con cui Gesù ci ha amati.

    “Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo concederà. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,16s).

    “Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera. Soltanto così noi possiamo ritenere realizzabile il principio di pregare incessantemente” (Origine)” (CCC 2745).

    Come amare il fratello “come Dio lo ama” se non conosco questo amore? Ciò che implica? Per amare realmente devo scoprire come io stesso sono amato, ora e in questo momento e luogo. Questo amore mi è rivelato contemplando l’amore di Cristo per me, un amore crocifisso.

    La preghiera mi mantiene nella costante memoria di ciò che Dio ha fatto e del prezzo che ha pagato amandomi. Siamo chiamati a far continua memoria del suo amore.

     

    “Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). Non bisogna illudersi: avere pazienza, dolcezza, desiderio d’accoglienza e di ascolto, condizioni tutte per una autentica carità, è impossibile se, giorno dopo giorno, noi non facciamo la scoperta nella preghiera della pazienza, longanimità, tenerezza di Dio nei nostri riguardi.

    La carità, la comunione, non solo nella Chiesa, ma nell’intera umanità, è un mistero: è oggetto di fede. Non è infatti sull’immagine di qualsiasi sistema o comunità che l’umanità deve unirsi: ma ad immagine del legame che unisce il Padre e il Figlio, nello Spirito. E’ dal mistero di Dio che procede la carità. E’ lo Spirito che ci introduce a questo mistero d’amore.

    Io amo il mio prossimo nella sua relazione costitutiva che l’unisce al suo e mio Dio, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono. La preghiera  fa sì che io possa porre sempre la mia carità sotto il sigillo dello Spirito.

     

    La preghiera ha la sua verifica nella carità, senza questa essa potrebbe inquinarsi troppo sino a divenire menzogna:

    “La preghiera è inseparabile dall’amore, a tal punto che le nostre preghiere saranno in certo modo la misura del nostro amore” (C. De Foucauld).

    Pregare è essere in relazione con la volontà di Dio, e questa è: “Amatevi gli uni gli altri, da questo conosceranno che siete miei discepoli” (Gv 13,35).

     

    Preghiera o carità? La questione è falsa. La preghiera è dire col cuore: Sia fatta la tua volontà. Compiere nel quotidiano questa volontà di amore, perdono, misericordia.

  • 01 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    Gesù agli apostoli ormai disperati per il mare in tempesta che sta affondando la loro barca dice: “Uomini di poca fede, perché dubitate?”.

    La risposta alle nostre invocazioni è certa: “qualsiasi cosa domanderete al Padre nel mio nome, egli ve la darà”. La semente anche tra i sassi e i rovi troverà un pezzetto di buona terra. Il nemico potrà seminare zizzania di notte, ma non potrà impedire il raccolto. Una tempesta può sconvolgere il mare, ma la barca arriverà al porto.

    Dio ci sorprende per la sua sicurezza, e Gesù insiste sulla certezza della risposta divina.

    Ciò cosa vuol dire se non che attraverso la nostra preghiera entriamo in possesso dell’onnipotenza divina?

    “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Gal)

    Non si tratta di una promessa con buone possibilità di realizzazione, ma di una promessa certa che non può non realizzarsi: l’efficacia della preghiera infatti non dipende anzitutto da noi, ma riposa sulla fedeltà e amore di Dio:

    “non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia” (Rm 9,16).

    Pregando realmente noi penetriamo nel disegno di Dio, nei suoi pensieri e nelle sue vie, gli ricordiamo il suo “patto santo”. Facciamo esperienza che non siamo noi che attendiamo Dio, ma è lui che mi attende:

    “La preghiera non tende ad avvicinare noi a Dio: “Dio è più intimo di noi stessi” (s. Agostino). La preghiera è un avvicinamento di noi a Dio, prendendo coscienza della sua vicinanza” (O. Clement).

     

    Nella preghiera è sempre Dio che mi precede, dandomi occasione di aprirmi a lui. E’ questa speranza viva: quella che riposa in Dio.

    “Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. Questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. Man mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di Alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore” (CCC 2567).

    Il movimento autenticamente cristiano della speranza è: mi abbandono a Dio, affinché egli si dia a me. Dunque il bene sperato è Lui stesso. E’ questa l’Alleanza:

    “L’orazione è un rapporto di alleanza concluso da Dio nella profondità del nostro essere” (CCC 2713)

    “La preghiera cristiana è una relazione di Alleanza tra Dio e l’uomo in Cristo. E’ azione di Dio e dell’uomo; sgorga dallo Spirito santo e da noi, interamente rivolta al Padre in unione con la volontà umana del Figlio di Dio fatto uomo” (CCC 2564).

    Dio mi offre la sua Alleanza per portarmi a poco a poco al desiderio della visione del regno.

    Dio promette sì anzitutto la ricompensa: “Non temere, la tua ricompensa sarà grande” (Gn 15,1). Ma non si scoprirà che più tardi che: “IO sarò la tua ricompensa”; “Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, la mia eredità è magnifica” (Sal 39).

    Allora limite, difetto della preghiera sarà insistere nel domandare a Dio solo dei beni limitati. La speranza che attende il miracolo non è virtuosa se non nella misura in cui ha di mira la meta finale ed essenziale, l’unica che rimane in eterno.

    Se Dio non risponde subito alle nostre richieste immediate è per educarci ad una speranza più grande, per aprirci al suo mistero:

    “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (Gc 4,2-3). Se noi chiediamo con un cuore diviso, adultero, Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita… Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi: “Non rammaricarti se non ricevi subito da Dio ciò che gli chiedi; egli vuole beneficiarti molto di più, per la tua perseveranza nel rimanere con lui nella preghiera” (Evagrio P.). “Egli vuole che nella preghiera si eserciti il nostro desiderio, in modo che diventiamo capaci di ricevere ciò che egli è pronto a darci” (s. Agostino”” (CCC 2737).

     

    Potremmo quasi affermare: più la risposta di Dio è oscura, più essa è certa; perché l’efficacia della preghiera è trascendente. Solo al termine della pesca o della semina, o della mietitura avremo modo di constatare la fedeltà di Dio:

    “Che egli dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come neanche lui lo sa” (Mc 4,27).

    Durante la nostra esistenza siamo come delle sentinelle che attendono i primi barlumi dell’aurora:

    “Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno. Voi che rammentate le promesse al Signore non prendetevi mai riposo e neppure a lui date riposo” (Is 62,6s).

    Come ogni sentinella possiamo vedere sino ad un certo punto, non più in là. Vediamo poco, intravediamo, intuiamo “come in uno specchio”. Ma con una certezza nel cuore: ciò che sarà lo sarà in modo infinitamente più grande di quando riusciamo ora a sperare.

    “A colui che in tutto ha potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che già opera in noi” (Ef 3,20).

    Il figliol prodigo al suo ritorno è esaudito ben al di là delle sue attese. La manna, la pesca miracolosa, la moltiplicazione dei pani: sempre Dio risponde “al di là”. Egli sconcerta i nostri desideri.

     

    Da quanto detto si potrebbe tirare una conseguenza errata: dobbiamo allora disinteressarci, rinunciare al nostro impegno?

    Se l’autentica preghiera ci rivela il reale motivo della nostra speranza, e se la preghiera ci conduce a scoprire che è Dio che vuole essere efficace in noi, allora comprendiamo come essa salvaguardi nel medesimo tempo il radicarsi umano del nostro desiderio e della nostra speranza, perché essa sola lo rende possibile, reale. Infatti essa non conserva soltanto in noi Dio, ma conserva altresì noi stessi.

    E’ questo uno degli effetti più importanti della preghiera: rendere reale, vero, il desiderio che noi esprimiamo tramite essa.

    Ma non soltanto essa rende reale il desiderio, ma è in grado di modificarlo, di renderlo più autentico: “Sono sbalordito di come le mie idee cambiano quando le metto dinanzi a Dio” (Bernanos).:

    “La trasformazione del cuore che prega è la prima risposta alla nostra domanda” (CCC 2739).

    Unendoci alla preghiera di Gesù: il nostro desiderio, le nostre attese vengono non soppresse ma purificate:

    “La preghiera di Gesù fa della preghiera cristiana una domanda efficace. Egli ne è il modello, egli prega in noi e con noi. Poiché il cuore del Figlio non cerca se non ciò che piace al Padre, come il cuore dei figli di adozione potrebbe attaccarsi ai doni piuttosto che al Donatore?

    Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore… Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella confidenza e nell’audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo Nome; ben più di questa o quella cosa: lo Spirito santo, che comprende tutti i doni” (CCC 2740-1).

    Il ritardo di Dio, il suo silenzio non è dunque da leggersi come un metterci alla prova, ma come spinta affinché il nostro desiderio si affini, si identifichi sempre più con quello di Cristo.

    E’ questo un sommo rispetto di Dio per la nostra libertà: Dio non vuole la nostra gioia senza la nostra collaborazione, egli vuol farla scaturire dall’interno di noi stessi:

    “Siamo convinti che “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26)? Chiediamo a Dio “i beni convenienti?” Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chiediamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio” (CCC 2736).

    Dio non può tener conto di questo desiderio che Egli stesso ha posto in noi al fine d’essere complice del suo dono.

     

     

  • 31 Gen

    Possibile accompagnamento spirituale per una guarigione interiore dopo l’interruzione volontaria della gravidanza

     

     

     

    La donna che fa riferimento all’operatore pastorale (sacerdote, religioso/a…) lo chiede generalmente per il forte disagio, talvolta devastante, dovuto al senso di colpa che vive interiormente. Sente di non poter ricevere perdono da Dio (es. confessioni reiterate), teme per la perdita definitiva del bambino rifiutato in un  disperato tentativo di riappropriazione (“che ne è di lui?”), vive un senso di vuoto e dunque di “di-sperazione”: “Ma tu credi che mio figlio si sia salvato???.. Dio potrà perdonarmi?”[1]

    Se dovessimo riassumere il significato dell’itinerario proposto esso si può riassumere come un cammino della rieducazione della coscienza in vista di una libertà “per” e non semplicemente e distruttivamente solo “da”. È questa l’urgenza psico-spirituale al giorno d’oggi nella nostra società. Per la donna significa intraprendere per se stessa la gestazione faticosa di una “nuova nascita” della sua identità.

    Parto dal presupposto che esista nella donna che ha abortito, come d’altronde in ciascuno di noi, un profondo bisogno di riconciliazione con la vita stessa e con le ferite subite come per quelle da noi stessi inferte.

    La violenta esperienza dell’IVG rappresenta un vero e proprio trauma sotto tutti gli aspetti della persona che necessita a questo punto di essere riascoltata, interpretata, guarita.

    “Al risveglio dall’anestesia l’infermiere mi disse: “Signorina, è tutto finito!”…..Non dimenticherò mai queste parole, che crearono in me sollievo per aver finalmente concluso un capitolo della mia vita, ma amareggiata per come era stato concluso…non aspettandomi MAI che il dopo sarebbe stato tragico…più di prima….da allora non sono più la stessa ragazza, quella ragazza che anche con mille problemi amava, era felice, aveva mille ideali….ora sono una che tenta di sopravvivere all’angoscia profonda di aver distrutto un essere umano….un figlio!”

    La necessità di riconciliazione emerge più o meno in modo dirompente e drammatico, mettendo prima o poi fine ad uno status quo stazionario in cui il conflitto era solo rimosso: “Posso distrarmi, impegnarmi, fare di tutto per non pensarci, posso fare di tutto per far cicatrizzare una ferita…ma questa, purtroppo, non potrà mai essere cancellata!”

    Qualsiasi ferita, la ferita interiore provocata dal IVG, provoca sempre una destrutturazione nella persona. La donna che ha negato la sua maternità non solo ha rifiutato la vita nascente ma anche parte del proprio Sé. Questo rifiuto comporta come conseguenza appunto una destrutturazione che conduce talvolta la donna a non cogliere più il senso del suo esistere e del suo agire con le conseguenze devastanti di cui psichiatri e psicologi si trovano spesso ad aver a che fare (cfr psicosi, stress e sindromi post abortivi).

    Il bisogno di riconciliazione diviene richiesta pressante al fine di porre fine ad un vivere “divisi” dentro di sé, ad una solitudine che generalmente la donna che ha abortito ha sperimentato drammaticamente prima e dopo l’intervento.

    L’aborto è quasi sempre l’esito di una solitudine e di un abbandono in cui la donna è stata lasciata: “Arrivai in sala operatoria piangendo e chiedendo all’infermiera di pregare per il mio bambino, le altre ragazze, come me offuscate dal falso perbenismo di parenti e amici mi sostenevano dicendo: “non ti preoccupare…l’operazione è semplice e dura poco!!” Cosa poteva in quel momento interessarmi dell’operazione, in quel momento pensavo solo al mio bambino e chiesi di pregare per lui..sperando che almeno lì, dove credo sia ora l’avrebbero accolto e amato, cosa che io non sono stata in grado di fare”

    Quando si intraprende un cammino di “riconciliazione”  si entra necessariamente nell’area conflittuale della persona e delle sue ferite.

    Nei confronti della donna che ha vissuto il trauma dell’aborto volontario significa entrare in ascolto e in dialogo con aree esistenziali sofferte bisognose di guarigione:

             il rapporto con se stessa e la propria storia

             il rapporto con il bambino rifiutato

             con gli altri (partner, famiglia, società …)

             l’immagine di Dio quasi sempre distorta

    Queste aree esistenziali spesso necessitano di un ascolto specialistico in quanto in esse sono contenuti aspetti clinici, psicodinamici con ampi risvolti inconsci e altamente conflittuali. Il rapporto e l’interazione con il medico e/o lo psicoterapeuta risulta in questi casi necessario tenendo presente che agli interrogativi più profondi che scaturiscono dall’esperienza dell’IVG non si può rispondere solo in termini tecnici o farmacologici: il dramma dell’aborto va ascoltato molto al di là nelle sue più o meno immediate conseguenze psico-patologiche investendo quella serie di interrogativi espressi in modo più o meno consapevole che vanno a collocarsi nella direzione del senso dell’esistenza stessa.

    Provo ora ad elaborare alcune possibili tappe verso una riconciliazione-guarigione da far compiere alla donna che ha abortito: lo strumento elettivo è l’ascolto attento e profondo, l’empatia nei confronti della sua sofferenza, e un dialogo capace di riaprirla progressivamente alla speranza. Tutto questo all’interno di una fondamentale esperienza di perdono ricevuto e dato.

     

    La prima fase è rappresentata dall’ascolto empatico della sofferenza che emerge dal vissuto della donna che ha ricorso all’IVG aiutandola in questo a giungere ad una coscienza corretta del male compiuto

     

    Si tratta di una presa di coscienza dolorosa. La donna ha fatto una scelta vissuta allora come esperienza liberatoria e positiva per sé.

    Quella scelta si è rivelata al contrario devastante in quanto in modo più o meno improvviso e drammatico la donna ha preso coscienza che ha fatto e si è fatta del male in modo oggettivamente irrimediabile. In questo vissuto segnato quasi sempre da un senso di colpa di stampo nevrotico la donna si pone dinanzi ad un debito insolvibile: non gli è possibile tornare indietro.

    Questo dolore investe diverse fasce che si compenetrano:

    – quello della ferita emotiva che ne è scaturita

    – quello conflittuale legato alla negazione dell’essere donna e madre

    – quello per la responsabilità negata nella relazione col figlio

    – quello di un peccato imperdonabile

    Generalmente la donna che domanda un ascolto o un accompagnamento spirituale sta già vivendo questa fase in modo drammatico sperimentando in se stessa un’incapacità di riconciliazione: “ho cominciato a piangere, urlare, gridare a squarciagola”.

    Niente di peggio in questa prima fase del minimizzare, anestetizzare questo “grido”: i facili e comodi  riduzionismi non sanno ascoltare veramente e profondamente il dolore che vuole emergere dalle ferite anche “se fa male da morire”: “Ero consapevole dell’omicidio….certo alcuni medici hanno tentato anche con varie teorie e pseudo teorie scientifiche di dimostrarmi che quello non era un bimbo, ma un semplice agglomerato di cellule, compreso mio padre e mio fratello lo sostenevano…(in cuor mio so che in realtà non lo credevano)….queste teorie convincevano la mia mente e soffocavano il mio cuore e la mia coscienza che urlava e piangeva…il cuore di una mamma sa benissimo che quel embrione è un figlio! E le mamme che lo negano a se stesse è perché non vogliono ascoltare il loro cuore e la loro coscienza….perchè fa male, fa davvero tanto male, fa male da morire!”

    L’operatore pastorale deve fare attenzione in questa fase ad aiutare, in concomitanza all’aiuto specialistico medico, la donna a non continuare a vivere scelte di “depistamento” quali potrebbero essere ad esempio atteggiamenti di ripiegamento su di sé e soprattutto di vissuti autopunitivi dai molteplici risvolti ad esempio cadendo nel vortice di pensieri ossessivi in cui teme un “castigo” che se da un lato teme dall’altro spera.

    In tutti i casi non si parte mai dal presupposto di un sano senso di colpa: questo esigerebbe una maturità affettiva che vi è legittimamente da domandarsi  possa esistere in una donna che abbia ricorso “consapevolmente” all’aborto: “Io credente ed amante dei bambini quando si parlava di aborto, affermavo che Mai l’avrei fatto…mai…..ed invece quando dovevo prendere la decisione,….entrai nel panico più totale, sentivo che Dio era vicino a me e che nonostante tutto mi stava facendo un regalo, un dono…quel figlio che da tanto desideravo, anche se in situazioni diverse, era lì…”.

    L’ascolto che non giudica e l’esperienza di essere accolta nel suo dramma segna per la donna un primo passo verso la riconciliazione.

     

    La seconda fase può essere rappresentata come un aiutare la donna a “rientrare in se stessa” al fine di rielaborare il “lutto” e trovando di conseguenza nuove interpretazioni della realtà.

     

    In questa fase si cerca di aiutare la donna a rileggere la propria storia e la propria vicenda scoprendovi un appello per una libertà nuova gestita “per” la vita e non contro di essa come purtroppo ha drammaticamente e ora consapevolmente fatto:  ….a tutti pensavo fuorché a quell’esserino che era dentro di me e che se anche la mia mente rifiutava, non voleva pensarci, il mio cuore ed il mio essere non poteva negare ciò che c’era, ciò che era venuto al mondo, attraverso me, ciò che era nel mio ventre, colui che era lì e già mi amava e chiedeva solo che io facessi in modo che gli eventi della vita continuassero e che non spezzassi quel cordone unico che lo teneva legato alla vita, la mia volontà… Cercavo in continuazione e inesorabilmente qualcuno e qualcosa che legittimasse la mia scelta….”.

    Si colloca qui il fondamentale e faticoso passaggio caratterizzato dalla rielaborazione del lutto. Questo che essa è chiamata a rielaborare ha connotazione tutte sue; infatti è duplice: si tratta non solo di una perdita di sé in rapporto all’oggetto (la vita rifiutata), ma anche della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé (l’essere donna e madre): “da quel 21 febbraio, la mia vita è cambiata, mi sento orfana, orfana di un figlio conosciuto per soli  2  mesi e rifiutato”.

    Un aspetto importante è aiutare la donna a non cogliere nel “fantasma” del bambino rifiutato un nemico, ma un possibile alleato per il proprio futuro e le proprie scelte diverse. Il confronto/incontro interiore con lui è utile: non bisogna ignorarlo, evitarlo con la falsa scusa di non voler rinnovare una dolorosa consapevolezza e un dolore. In questo caso la guarigione sta nell’accogliere e leggere questo dolore. L’invito che faccio è di rapportarsi con il bambino (in un’ottica cristiana e di fede) dandogli un nome: “In quel momento sentivo l’amore di Dio, sentivo l’amore del bambino, sentivo l’amore per la vita e solo dopo…..dopo aver abortito che ho sentito, sempre più forte col tempo, un senso di vuoto, un senso di inesistenza di tutto…..di Dio, dell’Amore,…del mio bambino! Cerco disperatamente qualcosa o qualcuno che mi dia nuovamente ciò che ho perso…il senso della vita”.

    Questo processo comprende il riconoscere effettivamente ed affettivamente la perdita senza negarla. In definitiva si tratta di rieducare la donna al desiderio di essere donna e madre: “La donna ha bisogno di essere aiutata, sorretta e consigliata nel migliore dei modi in quei giorni…ha bisogno di grande aiuto, vive dei momenti indescrivibili di indecisione e di scelta, io ho incontrato medici e psicologi che mi hanno illustrato la facilità di scelta..come fosse semplice rinunciare ad un figlio… e secondo loro, a volte giusto…bastavano 10 minuti di intervento per eliminare un problema…si 10 minuti che intervengono a condizionare la donna per sempre… ho sbagliato a rivolgermi a loro, avrei tanto voluto conoscere in quei momenti ragazze madri e ragazze che avessero già vissuto la tragica scelta dell’aborto, avrei voluto consultarmi con loro, mi avrebbero aiutato a decidere e scegliere ciò che è giusto, più loro, che i “dottori”, che non avevano vissuto sulla propria pelle l’aborto, ma parlavano secondo teorie, statistiche, pensieri …ecc..ecc.. Perchè nei consultori non fanno entrare il Movimento per la Vita? Perchè??”

    Gli scogli da evitare sono rappresentati da un irrigidimento nei confronti di nuove possibilità di lettura del proprio essere e della propria identità, con il derivante negarsi il pensiero di nuove prospettive.

    Questa fase è la più lunga e laboriosa: può durare molto a lungo e varia da persona a persona.

     

                                                           

    La terza fase è aiutare la donna ad assumersi nuove decisioni.

     

    Questo comporta  la capacità di farsi carico di sé e della propria storia ferita, e il coraggio di mettere in atto operativamente scelte e gesti concreti  che non devono essere interpretati come una sorta di “riscatto” (si farebbe ancora il gioco contorto dell’autopunizione) ma come scelta di vivere la propria libertà in termini diversi da quelli usati precedentemente: “ Ora non mi resta che pregare ed augurarmi che sempre meno mamme vivino l’incubo di un figlio mai nato per propria scelta…Sono laureata in Giurisprudenza e dovrei difendere la legge se considerata giusta, ma la Legge 194 non posso condividerla…non posso…perchè si soffre troppo con l’aborto, se mi soffermo a pensare a quello che ho fatto, scoppio a piangere, la donna soffre per l’aborto, anche quella che lo condivide, anche quella che crede di avere fatto la scelta più giusta…la donna sa di avere avuto un figlio in grembo e che gli ha negato la vita, lo sa, anche se vuole adombrare e nascondere, spesso anche a se stessa, questa atroce verità!”

    Gli scogli qui sono rappresentati da possibili e infiniti rimandi e attendismi che hanno lo scopo di impedirsi la prospettiva di scelte concrete diverse.

     

     

    La quarta tappa, o meglio lo sfondo che sta al cammino di riconciliazione, è un sempre maggior confronto realistico con l’immagine di sé che porta come conseguenza una riconciliazione che si pone a più livelli: non solo con se stessa, ma anche con gli altri e con Dio.

     

    Questa fase consiste nel coraggio di lasciarsi amare, e amarsi, anche nei propri errori accettando il bisogno di riconciliazione che proviene dall’ “Altro”. E’ un vero e proprio disarmo, un arrendersi e un riconsegnarsi alla vita, alla propria libertà, rendendosene responsabili costruttivamente. E’ un rifare un vero e proprio patto con la vita. Questo è possibile nella misura in cui si è capaci di rinuncia alle proprie difese, aggressività.

    L’itinerario spirituale proposto vuole alla fin fine aiutare la donna a passare dal rimorso al pentimento, dal senso di colpa alla confessione del peccato: a questo punto finalmente è possibile annunciare un perdono possibile che ha come frutto una riconciliazione con sé, con l’ “altro” e con Dio.

    Riconciliazione che non è da intendersi come un colpo di spugna che cancelli l’irrimediabilità di un male compiuto verso se stessi e l’altro. E ancora non è frutto di un pentimento che cavalchi il senso di colpa, che esiga un pagamento del danno che in questo caso è insolvibile: il pentimento vero nella visione cristiana è riconoscere in verità il proprio peccato ma nella consapevolezza/esperienza di poter essere accolti, amati gratuitamente e gratuitamente riconsegnati alla responsabilità della propria libertà nei confronti della vita, di se stessi e degli altri. La riconciliazione sacramentale è quasi il sigillo di questo cammino di riconciliazione e di apertura nuova al futuro.

    Un aspetto a cui si dovrebbe accennare è che l’IVG non dovrebbe interpellare solo la donna ma anche tutte le persone che attorno a lei hanno fatto sì che ella arrivasse a tale scelta. Il partner spesso delega la donna scaricando la sua responsabilità, i genitori scelgono spesso di consigliare la strada che appare più facile e meno compromettente… questo lascia strascichi “rivendicativi” difficili talvolta da sanare. Anche il rapporto con i figli avuti e successivi potrebbe essere ulteriormente disturbato: questo appunto porta a considerare il dramma del “non nascere” in un orizzonte più vasto di quello a cui generalmente si pensa. Un cammino di riconciliazione e di guarigione interiore sarebbe a questo punto auspicabile per tutti ma sappiamo quanto poco vi sia di disponibilità a “cambiare la vita”, ciò che in termini cristiani si chiama “conversione”.

      

    Bibliografia

     

    S. Gindro e S. Mancuso (a cura di): Aborto volontario: le conseguenze psichiche, CIV ediz., Roma 1996

    Kellerhals, Pasini: Perché l’aborto?, Mondandori 1977

    Gius: Maternità negata, Piccin 1978

    G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione: aspetti psicodinamici, EDB, Bologna 2001

    G. Davanzo, Aborto, in “Dizionario enciclopedico di Teologia Morale”, Paoline, Roma 1976


    [1] Riporto in corsivo la testimonianza diretta di una donna di 27 anni dopo la drammatica esperienza dell’IVG.

  • 31 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

    “Nel suo cammino quaggiù la nostra vita non può sottrarsi alla prova, dal momento che il nostro progresso si realizza attraverso la prova; nessuno conosce se stesso senza essere stato messo alla prova, può essere coronato senza aver vinto, può vincere senza aver combattuto” (s.Agostino, Enarr. in Ps. 60,3)

    Ogni vita spirituale conosce la prova del deserto. Basterebbe ripercorrere la storia dei grandi protagonisti nella S. Scrittura (cfr Abramo, Mosé, i profeti, lo stesso popolo d’Israele … Gesù, gli apostoli ecc…), e dei grandi santi senza alcuna eccezione.

    Sono questi dei periodi in cui Dio sembra lontano, talvolta drammaticamente assente.

    Mentre nei periodi di fervore ci si sentiva attirati dalla preghiera e dalle cose di Dio, durante i periodi di aridità non si sente più nulla, la preghiera non attrae, sembra di aver perso ogni gusto di Dio.

    “Un’altra difficoltà, specialmente per coloro che vogliono sinceramente pregare, è l’aridità. Fa parte dell’orazione nella quale il cuore è insensibile, senza gusto  per i pensieri, i ricordi e i sentimenti anche spirituali. E’ il momento della fede pura, che rimane con Gesù nell’agonia e nella tomba: “Il chicco di grano se muore produce molto frutto” (Gv 12,24)” (CCC 2731).

    Subito allora sorge spontaneo l’interrogativo: E’ colpa mia? Perché Dio si è allontanato da me? Vuole forse punirmi per qualche mia mancanza? Sorge allora purtroppo in noi l’immagine di un Dio severo, esigente che non si lascia sfuggire nulla.

    Ecco allora correre ai ripari cercando di fare ogni sforzo di buona volontà, oppure ci si lascia andare sfiduciati cercando sfoghi nell’attività, sperando che almeno così gli si possa dimostrare il nostro amore.

     

    CAUSE

     

    Un’aridità può subentrare per mancanza di generosità, allontanamento da Dio, insufficienza di contatti con Lui.

    “Un’altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è l’accidia. Con questo termine i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancanza di custodia del cuore” (CCC 2733).

    Può essere effetto di un’attività eccessiva, di una lavoro intellettuale troppo intenso, di stanchezza fisica.

    E’ sempre importante vedere se non si ha qualche responsabilità in questa aridità che si instaura.

    “Se l’aridità è dovuta a mancanza di radice, perché la Parola di Dio è caduta sulla pietra, il combattimento rientra nel campo della conversione” (CCC 2731).

    Ma la prova del deserto può avere anche altre cause.

    Dio può agire in modo meno sensibile in noi. La sua azione, benché sempre presente, è tuttavia non colta dall’individuo.

    Oppure potrebbe essere conseguenza dello stesso avanzamento nel mistero di Dio. Raggiunto un livello profondo si ha il tempo di gustarlo, viverlo ma presto si rivelerà insufficiente perché il mistero di Dio sarà ancora al di là. Si avrà perciò l’impressione di non sentire più nulla. Le stesse cose non producono più gli stessi effetti. Si tratta in questo caso di un deserto solamente a livello sensibile, perché invece la persona è stata resa capace di percepire più profondamente Dio sempre presente: è un deserto abitato.

    Un attaccamento eccessivo alle consolazioni di Dio invece che al Dio delle consolazioni può rendere la prova del deserto molto più arida e sofferta. Ciò accade spesso agli inizi del cammino spirituale. Il nostro itinerario conoscerà molteplici “notti” per usare le note espressioni di s. Giovanni della Croce: E’ facile cadere  nel nulla, perciò risulterà sempre importante cadere ai piedi del crocifisso disceso agli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: “Dio mio perché mi hai abbandonato?” “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”.

    Attraverso la prova Dio vuole che il nostro io venga purificato, che si renda sempre più capace di accogliere la sua grazia:

    “La volontà propria – l’Io – viene distrutta solo per mezzo delle contrarietà inviate da Dio per turbare la falsa quiete dell’Io e abbattere i monumenti di illusione che questi innalza a propria gloria dinanzi agli uomini” (Matta El Meskin, Consigli per la preghiera).

    La liberazione dalla “filoautia” , l’amore di sé, rende l’essere umano più accordato a Dio: meno ancorato certo al sensibile, ma profondamente in pace alla presenza costante a Dio.

     

    RICONOSCERE DIO NEL DESERTO

     

    E’ di capitale importanza riconoscere Dio nel deserto, fin dall’inizio del nostro cammino spirituale.

    Tre segni ci permettono di assicurare che i legami con Dio non sono tagliati, e che perciò egli è sempre presente benché nascosto:

    – La pace profonda

    – L’apertura ad ogni eventuale manifestazione della sua volontà

    – La fedeltà alla sua volontà così come viene colta in quel momento preciso.

    Quando questi segni sono tutti presenti, possiamo essere sicuri che Dio è presente in noi, ci abita, ci muove, ci trasforma.

    Rendendoci attenti a questa realtà interiore da noi vissuta nella fase del deserto, cammineremo ancora nella fiducia e nella perseveranza non scossi più di tanto dal fatto che la nostra sensibilità non vibri sempre di gioia ed entusiasmo.

     Potremmo tuttavia sempre domandarci: E’ Dio che mette alla prova? Molti autori spirituali affermano che è Dio che vuole, in questi momenti di aridità, purificarci, provare la nostra fedeltà.

    Una spiegazione di tal genere non può essere comunque assolutizzata infatti se affermiamo che Dio è Amore e Vita, il presentare un Dio che vuole la prova sofferta è un riaffiorare dell’immagine falsa di un Dio esigente e spietato, che non corrisponde alla rivelazione fattaci da Gesù di Dio come Abbà, padre.

    Occorre elaborare un nuovo linguaggio per parlare della prova dell’aridità.

    Dio abita l’uomo e vuole contribuire alla sua crescita e alla sua felicità. Se l’uomo si allontana da lui, la sua crescita si arresta, la felicità viene ricercata in molteplici e infruttuose direzioni.

    Mentre quando l’uomo si apre all’azione divina, la vita scaturisce rendendolo felice in tutto il suo essere.

    Dio può prendere l’iniziativa di rinforzare la sua azione e la felicità, attraverso la prova, aumenta:

    La prova “agisce in noi quale il timone di profondità per l’aeroplano, o meglio ancora, quale la potatura per la pianta. Esso convoglia la nostra linfa interiore, libera le “componenti” più pure del nostro essere, tanto da farci balzare più alti e più diritti” (T. De Chardin, Ambiente divino).

    Dio allora può anche rendersi meno sensibilmente presente, senza cessare per questo di essere lì. E’ una prova che infligge? Preferiamo dire che Dio è libero e considerare il fatto che Egli è sempre lì, piuttosto che il fatto che non ci sia più come prima. Certo è una prova per noi, perché restiamo un po’ sconcertati e bisogna imparare e tener duro senza essere apparentemente sostenuti da lui. Ma Dio non vuole la prova, può volere solo la nostra felicità.

    Dio è Abbà, Papà.

  • 30 Gen

     

    “Un uomo vide un giorno un bambino che teneva in mano una lampada accesa. “Dove hai preso questa luce?” gli domandò. Il bambino soffiò sulla fiamma e disse: “Dimmi dove è andata e ti dirò dove l’ho presa””.

    La volontà di Dio è come quella lampada nella nostra vita: una realtà estremamente semplice e tuttavia dinanzi alla quale possiamo domandarci: da dove viene? Dove mi porta? L’esperienza di ogni giorno di dovrebbe dimostrare che questo cammino con Dio, che è la santità, conosce dei punti fissi, dei riferimenti costanti. La santità domanderà sempre una cooperazione attiva da parte nostra con la grazia di Dio. Si tratta di una cooperazione che assume per la maggior parte il tenore di una purificazione.

    Di che cosa è fatto il terreno della nostra collaborazione se non da ciò che di più vero ed umano troviamo in noi? i nostri desideri, aspettative, la nostra capacità di amare e di essere amati.

    La preghiera è la possibilità dataci ogni giorno per collaborare con Dio. E’ attraverso essa che prepariamo il terreno affinché Egli possa compiere la sua opera.

    Ma saremmo in grave errore se dicessimo che è sufficiente pregare. Si potrebbe infatti dimenticare che il non porre ostacoli alla grazia richiede in realtà altrettanto impegno libero, una iniziativa da parte nostra.

    Occorre tener presente sempre che la nostra natura umana è stata ferita dal peccato, e che perciò in essa troviamo già degli impedimenti. La vita divina incontra, quando tenta di entrare in noi attraverso la preghiera, un’altra legge chiamata da s. Paolo la “legge del peccato” (Rm 7).

    “Dio concede la preghiera a chi, vincendo la ribellione o l’assopimento della propria natura, si impone di pregare, e attinge così il profondo impulso del proprio essere creato a immagine di Dio. Perché l’immagine è calamitata dal suo modello” (O. Clement).

    Dobbiamo allora dedurre che anche il “non porre ostacoli” è privilegio della santità.

    Per giungere a questa meta bisogna lavorare con ogni forza onde preparare le vie, creare il terreno ed offrirsi al dono di Dio. La semente è ottima, è il terreno che occorre preparare.

    L’illusione sarebbe credere che “non porre ostacoli” sia facile, poiché si tratterrebbe solo di accogliere. L’accogliere liberamente è invece opera difficile, attiva, sofferta.

     

    SPERANZA E PREGHIERA

     

    Ognuno di noi cerca la felicità, siamo fatti per essa. La cerchiamo sempre ma spesso non dentro di noi ma al di fuori.

    Questa speranza di trovare la nostra felicità è minacciata da due pericoli:

    – l’impazienza

    Sia per formazione, sia per tanti altri motivi più o meno profondi, non crediamo di poterci mettere dinanzi a Dio se non quando abbiamo l’impressione di “aver fatto o fare qualche cosa”. Ci è stato spesso ripetuto che non bisogna contentarsi di bei pensieri, e in nome di questa convinzione, noi crediamo che il “soprannaturale” ce lo possiamo fabbricare attraverso i nostri sforzi. Prendiamo l’abitudine di agire in base ai nostri progetti, scelte, aspirazioni.

    Ci ricerchiamo, vogliamo dominare, secondo schemi prettamente adolescenziali, malgrado che gli avvenimenti, le circostanze ci mostrino che la strada è un’altra.

    Rimaniamo allora sbalorditi e disorientati il giorno in cui la via di Dio non sembra più coincidere con la nostra.

    All’opposto dell’impazienza troviamo la rinuncia:

    In nome dello spirituale si rinuncia ad un esame e critica della nostra coscienza, dei nostri errori. Ci si scorda del necessario sforzo “ascetico”.

    Si rinuncia all’azione e all’impegno, con la pretesa di acquisire la vita spirituale mediante l’abdicazione delle proprie responsabilità.

    Il problema non è se utilizzare o no le realtà terrene, ma è credere che possiamo assicurarci con le nostre sole forze la felicità che queste realtà promettono.

    Non credo che questa tentazione si presenti solo in rare e specifiche situazioni, nei momenti di importanti decisioni. Ogni minimo atto di scelta ci pone nuovamente la domanda: devo decidere in base di un bene che mi supera tenendo conto di una chiamata che mi giunge dall’esterno oppure devo stabilire da me stesso le regole della felicità, facendo,mi dio a me stesso?

    Il peccato di di-sperazione è di continuamente domandare alle creature di assicurarci una promessa che non possono mantenere.

    La sottile e tremenda tentazione è di voler essere dio, di essere padroni e origine di se stessi, di non aver bisogno di nessuno, di essere.

    Questa tentazione si può infiltrare anche nella nostra preghiera.

    Dobbiamo perciò far attenzione a non usare la preghiera per i nostri scopi, siano essi apparentemente i più spirituale.

    Se così fosse ci renderemmo insensibili alla speranza, all’attesa di un qualcosa che ci verrà donato da qualcun Altro. La preghiera allora scomparirebbe.

    “Lo spirito santo, che ci insegna a celebrare la Liturgia nell’attesa del ritorno di Cristo, ci educa a pregare nella speranza. A loro volta, la preghiera della Chiesa e la preghiera personale alimentano in noi la speranza. In modo particolarissimo i salmi, con il loro linguaggio concreto e ricco, ci insegnano a fissare la nostra speranza in Dio: “Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato ha dato ascolto al mio grido” (Sal 40,2). “Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13)” (CCC 2657).

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Scriveva il Surin: “Come gli animali attaccati ad un piolo, che non possono spingersi se non fino a dove la corda può tendersi e non possono far altro che girare con noia… questo è simile a colui che prepara i suoi tre punti senza osare uscirne”.

    Occorre rimanere in guardia contro l’eccesso di ogni metodo. Niente è più contrario alla fantasia dello Spirito santo che il voler sottomettere tutti ad una identica ginnastica interiore:

    “Lo Spirito santo… è il maestro interiore della preghiera cristiana. E’ l’artefice della tradizione vivente della preghiera. Indubbiamente, vi sono tanti cammini di preghiera quanti sono coloro che pregano, ma è lo stesso Spirito che agisce in tutti e con tutti” (CCC 2672).

    La nostra reticenza dinanzi ad un metodo è legittima: i diversi temperamenti, le diverse storie, i desideri di ciascuno, le aspirazioni, devono trovare il massimo rispetto nel nostro rapporto con Dio.

    Dobbiamo aver sempre presente una certezza di base: l’essenziale non è il metodo di preghiera ma è l’incontro tra me e Dio, si tratta di un dialogo fatto per nutrire un’amicizia.

    “Un metodo non è che una guida; l’importante è avanzare, con lo Spirito santo, sull’unica via della preghiera: Gesù Cristo” (CCC 2707)

     

    Tuttavia, dinanzi all dispersione della nostra vita, dinanzi alla nostra pigrizia e ai nostri alti e bassi, sperimentiamo l’insufficienza di una  reazione puramente negativa dinanzi al problema del metodo. Inoltre non è sufficiente evitare le divagazioni e sollecitazioni, la mancanza di silenzio, le illusioni, ecc… Occorre nutrire il nostro desiderio profondo di incontro con Dio, per approfondirlo e dilatarlo sempre più.

    Vero ostacolo alla nostra vita di preghiera è un amore disordinato per noi stessi, e non si rimpiazza un amore se cono con un altro amore.

    E’ perciò che saremo contenti in certi giorni di poter contare sull’aiuto di un metodo, semplice, facile, vero.

     

    In ogni metodo occorre tener presenti due qualità: anzitutto la sua flessibilità. Deve lasciare in noi lo spazio della libertà. Non sia un fine ma semplice mezzo.

    Poi che abbia la capacità di introdurci al dialogo cristiano: quello di Cristo con il Padre, e della Chiesa con Cristo.

    In questo rapporto troveremo subito delle prime difficoltà: si tratta di passare dal piano astratto a quello della vera relazione personale.

    Come in ogni amicizia vi è un periodo in cui non siamo completamente sicuri dell’altro, in seguito questo cambia. Si diventa capaci di fiducia illimitata e capaci di accettare le inevitabili divergenze. Si accetta ovvero la reciprocità.

    Così il valore di ogni metodo di preghiera si può giudicare non dalla quantità di idee astratte che può far nascere in noi, ma da questa domanda basilare: è un aiuto o un ostacolo per lo sviluppo dell’autentico dialogo di Cristo in noi?

     

    Esistono alcune regole per pregare (cfr Gasparino, Primi passi nella preghiera).

     

    1. entrare in rapporto “io-tu” con Dio.

    La preghiera è un calarmi nella realtà di Dio: Dio vivo, presente, vicino, persona. La preghiera diviene pesante, difficile quando non avviene l’incontro tra due persone. Io rimango assente, vuoto, mentre Dio è lontano, una realtà con cui non comunico.

    E’ importante nella mia preghiera che io usi poche parole, povere, ma ricche di contenuto. Possono bastare parole come: Padre, Gesù salvatore, Spirito d’amore, Gesù via verità, vita…).

     

    2. Instaurare una comunicazione affettuosa con Dio.

    La preghiera non è uno svolazzo della fantasia. La mente ed il cuore sono gli strumenti diretti per comunicare con Dio. Se fantastico, se mi ripiego sui miei problemi, se dico parole vuote, se leggo, non comunico con Lui. Comunico quando penso e amo nello Spirito santo.

    E’ importante nella preghiera che lo sguardo sia rivolto più a lui che a noi. Poche parole, molto cuore, tutta l’attenzione tesa a lui, ma nella serenità e nella calma. Non lasciare cadere il contatto con Dio col pensiero. Se succede tornare con calma e pace a Lui. Iniziare la preghiera sempre invocando lo Spirito che suggerisca in noi “i pensieri di Dio”.

     

    3. Imparare a ringraziare.

    Siamo sommersi dai doni di Dio dal mattino alla sera: ogni cosa è dono di Dio. Dobbiamo allenarci alla gratitudine. Non occorrono cose complicate: basta aprire il cuore al grazie sincero.

    E’ importante interrogarsi sovente sui doni più grandi che Dio ha fatto. La vita, l’intelligenza, la fede. Abituarci a ringraziare per tutto, anche per chi non ringrazia mai.

     

    4.Fare della preghiera un’esperienza di amore.

    Esistono tante gradualità nella preghiera, ma essa è soprattutto esperienza di amore. Se è solo un discorrere con Dio, è preghiera ma non la migliore. Finché a Dio parliamo soltanto, diamo ben poco, non siamo ancora nella preghiera profonda. Così, se ringraziamo, se imploriamo, è preghiera, ma la migliore consiste nell’amare.

    Legare spesso la preghiera a questa domanda: Signore che cosa vuoi da me? Signore, sei contento di me? In questo problema quale è la tua volontà?

    Abituarci a scendere sempre nella concretezza: lasciare la preghiera con qualche decisione ben precisa, per migliorare qualche dovere.

    Preghiamo quando amiamo, amiamo quando diciamo qualcosa di concreto a Dio, qualcosa che lui attende da noi, o che gradisce in noi. La preghiera vera comincia sempre dopo la preghiera, dalla vita.

     

    5.Far scendere la potenza di Dio nelle nostre viltà.

    Pregare è amare Dio nelle nostre situazioni concrete. E ciò significa specchiarci nelle nostre realtà quotidiane (doveri, difficoltà, debolezze) confrontandole con schiettezza con la volontà di Dio; significa poi chiedere con umiltà e fiducia la forza di Dio, per portare avanti i nostri Doveri come Dio vuole.

    E’ bene iniziare sempre la preghiera dai punti che scottano, cioè dai problemi che urgono di più. Riflettere, decidere, implorare: sono questi i tre tempi della nostra preghiera, se vogliamo sperimentare la forza di Dio nelle nostre difficoltà.

     

    6.Passare dalla preghiera di semplice presenza alla concentrazione profonda.

    Gandhi diceva: “E’ meglio una preghiera senza parole, che tante parole senza preghiera”. Se la preghiera di semplice presenza è mettersi davanti a Dio senza parole, pensieri o fantasie, essa avvia alla concentrazione che predispone alla preghiera profonda.

    Questo esercizio viene fatto dinanzi all’Eucaristia o ad un’icona, ad occhi chiusi, immersi nel pensiero della presenza di Dio che ci avvolge. Occorre curare la compostezza e la calma: E’ utile ripetere qualche semplice parola, ritmata col respiro (Preghiera del Nome).

     

    7. Mettersi in ascolto.

    Il centro della preghiera non siamo noi, ma è Dio. L’ascolto è attesa di Dio, della sua luce; l’ascolto presuppone il nostro desiderio che la nostra volontà aderisca alla sua.

    L’ascolto si può fare interpellando umilmente Dio su un problema che ci assilla, oppure cercando luce di Dio attraverso la Scrittura. E’ bene impostare la preghiera su qualche domanda che inchiodi ogni evasione: Signore cosa vuoi da me? Cosa mi dice attraverso questa pagina del Vangelo?

    La preghiera che va diritto alla ricerca della volontà di Dio, dà nerbo alla vita cristiana, abitua alla concretezza.

     

    8. Pregare con il corpo.

    E’ importante cominciare la preghiera dal corpo, chiedendogli una posizione che aiuti la concentrazione. La posizione non è la preghiera, ma aiuta o ostacola la preghiera.

     

    9. Valorizzare il luogo, il tempo, il fisico.

    E’ utile crearsi un angolo di preghiera nella propria casa, o camera. Abituarsi ad un’ora fissa : l’abitudine crea la necessità, e crea il richiamo alla preghiera.

     

     

  • 30 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    “La tradizione della Chiesa propone ai fedeli dei ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua. Alcuni sono quotidiani: la preghiera del mattino e della sera, prima e dopo i pasti, la liturgia delle ore. La Domenica, al cui centro sta L’Eucaristia, è santificata soprattutto mediante la preghiera. Il ciclo dell’anno liturgico e le sue grandi feste rappresentano i ritmi fondamentali della vita di preghiera dei cristiani” (CCC 2698).

    Nei confronti della preghiera liturgica, ufficiale della Chiesa, possiamo trovare in noi un duplice atteggiamento: la possiamo infatti assolutizzare come unica e valida forma di preghiera oppure scartare come impedimento alla libera e personale crescita spirituale.

    Possiamo però partire da un dato di fatto: ogni essere vivente necessita di un determinato ambiente per crescere. Così anche la vita spirituale. Non si può respirare in qualsivoglia clima: ma esistono dei luoghi in cui la vita può crescere rigogliosa e altri in cui essa deperisce fino a morire.

    La liturgia vorrebbe, dovrebbe essere un luogo privilegiato, un’atmosfera ideale affinché la vita divina possa svilupparsi nel cuore.

    Vogliamo vedere nella liturgia una scuola, un sostegno, un’illuminazione per la vita cristiana.

    Io non posso inventarmi la vita, ma la ricevo. Così anche la mia fede: io la posso soltanto ricevere dalla Chiesa (Nei primi secoli questo veniva sottolineato attraverso il rito della Traditio Simboli).

    Non ho da inventare la mia preghiera,  io ricevo tramite la Chiesa la preghiera di Cristo (consegna del Pater nel battesimo):

    “La Liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivolta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo della Liturgia, l’uomo interiore è radicato e fondato nel “grande amore con il quale il Padre ci ha amati” (Ef 2,4) nel suo Figlio diletto. Ciò che viene vissuto e interiorizzato da ogni preghiera, in ogni tempo, “nello Spirito” (Ef 6,18) è la stessa meraviglia di Dio” (CCC 1073).

    Liturgia non sono i riti, il folclore, le usanze. Si tratta di molto di più, si tratta di una realtà vitale: essa è il luogo, la condizione perché io possa respirare, nutrirmi spiritualmente.

    Il senso della liturgia potrebbe essere riassunto in questo: la Chiesa mi propone la preghiera di Cristo, e mi accoglie in un ambiente vitale, nella comunità, dove questa preghiera può nascere e crescere.

    Siamo cristiani nella misura in cui siamo membra di Cristo, e non è membro di Cristo se non colui che accoglie la sua vita attraverso la comunione di fede e di preghiera dei suoi fratelli.

    Allora potremmo interrogarci su certe reticenze che possiamo trovare in noi nei confronti della preghiera liturgica. Pigrizia, presunzione (quella di credere di bastare a noi stessi, che si possa far da soli), oppure una non conoscenza e approfondimento della preghiera liturgica.

     

    La preghiera liturgica è fatta sì per condurre alla preghiera personale, interiore, ma anche per esprimerla.

    Non bisogna infatti ridurre l’insieme dei gesti esteriori che accompagnano la preghiera ad un fine esclusivamente pedagogico, formativo. Il ruolo della liturgia non è solo di luogo di “tradizione”, ma anche e senza dubbio ancor prima, deve essere luogo di incarnazione visibile della mia piena adorazione interiore.

    Senza questa realtà la liturgia sarebbe solamente semplice coreografia.

     

    La Liturgia, preghiera della Chiesa che esprime l’adorazione di ogni suo membro, si apre agli orizzonti di quella che è la liturgia del cielo. E’ un’unica, grande, solenne, eterna preghiera di lode (cfr. Ap 4-5; Ebr 9-10).Non siamo noi che “saliamo in cielo” ma è il cielo che durante la divina liturgia discende si fa visibile sulla terra: qui l’uomo scopre la sua vocazione di liturgo. Il farsi voce della preghiera di tutte le cose.

     La preghiera di Cristo ha servito da modello alla preghiera della Chiesa, la preghiera della Chiesa serve da modello e metodo alla  nostra preghiera personale: questa è continuazione e preparazione alla preghiera liturgica.

    Non vi è così che un’unica preghiera, quella di Cristo vivente nelle sue membra.

    Ogni contrapposizione non ha più alcuna ragione di esservi.

     Cristo si rivela in tal modo la chiave di lettura di tutta la Liturgia della Chiesa:

    “Questo mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e rendano testimonianza nel mondo: “La Liturgia infatti, mediante la quale, massimamente nel divino sacrificio dell’Eucaristia, si attua l’opera della nostra redenzione, contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il Mistero di Cristo, e la genuina natura della vera Chiesa” (SC2)” (CCC 1068).

    Quindi i tempi (il ciclo liturgico), i testi (salmi, preghiere…), i simboli(acqua, fuoco, pane….): tutto questo ci spinge a cercare Cristo, penetrare nel suo mistero:

    “E’ in lui che noi pronunciamo la preghiera, è in noi che lui pronuncia la preghiera del salmo che ha per titolo: Preghiera di Davide. Che nessuno dica, udendo queste parole: Cristo qui non parla!. Che non dica: Non sono io qui che parlo! Ma che ciascuno creda di essere nel Corpo di Cristo, e dica di conseguenza: E’ il Cristo che parla, sono io che parlo.

    Senza di lui non dirai nulla e Lui senza di te non potrà dire nulla” (s.Agostino).

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