• 15 Mag

    VITA SPIRITUALE

    di E. Bianchi

    Non si dà vita cristiana senza vita spirituale! Lo stesso mandato fondamentale che la chiesa deve adempiere nei confronti dei suoi fedeli è quello di introdurli a un’esperienza di Dio, a una vita in relazione con Dio. È essenziale ribadire oggi queste verità elementari, perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo piuttosto che all’accesso a una relazione personale con Dio vissuta in un contesto comunitario, radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede.
La fede, invece, ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, ci immette cioè nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. Chi crede in Dio deve anche fare un’esperienza di Dio: non gli può bastare avere idee giuste su Dio. E l’esperienza, che sempre avviene nella fede e non nella visione (cfr. 2 Corinti 5,7: «noi camminiamo per mezzo della fede e non ancora per mezzo della visione»), è qualcosa che ci sorprende e si impone portandoci a ripetere con Giacobbe: «Il Signore è qui e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16), oppure con il Salmista: «Alle spalle e di fronte mi circondi […]. Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, tu sei là, se scendo agli inferi, eccoti» (Salmo 139,5 e sgg.). Altre volte la nostra esperienza spirituale è segnata dal vuoto, dal silenzio di Dio, da un’aridità che ci porta a ridire le parole di Giobbe: «Se vado in avanti, egli non c’è, se vado indietro, non lo sento; a sinistra lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a destra e non lo vedo» (Giobbe 23,8-9). Eppure anche attraverso il silenzio del quotidiano Dio ci può parlare. Dio infatti agisce su di noi attraverso la vita, attraverso l’esperienza che la vita ci fa fare, dunque anche attraverso le «crisi», i momenti di buio e di oscurità in cui la vita può portarci.
L’esperienza spirituale è anzitutto esperienza di essere preceduti: è Dio che ci precede, ci cerca, ci chiama, ci previene. Noi non inventiamo il Dio con cui vogliamo entrare in relazione: Egli è già là! E l’esperienza di Dio è necessariamente mediata dal Cristo: «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» dice Gesù (Giovanni 14,6). Cioè l’esperienza spirituale è anche esperienza filiale. Lo Spirito santo è la luce con cui Dio ci previene e orienta il nostro cammino verso la santificazione, cammino che è sequela del Figlio: l’esperienza spirituale diviene così null’altro che la risposta di fede, speranza e carità al Dio Padre che nel battesimo rivolge all’uomo la parola costitutiva: «Tu sei mio figlio!». Sì, figli nel Figlio Gesù Cristo: questa la promessa e questo il cammino dischiusi dal battesimo! Come diceva Ireneo di Lione, lo Spirito e il Figlio sono come le due mani con cui Dio plasma le nostre esistenze in vite di libertà nell’obbedienza, in eventi di relazione e di comunione con Lui stesso e con gli altri.
Alcuni elementi sono essenziali per l’autenticità del cammino spirituale. Anzitutto la crisi dell’immagine che abbiamo di noi stessi: questo è il doloroso, ma necessario inizio della conversione, il momento in cui si frantuma l’«io» non reale ma ideale che ci siamo forgiati e che volevamo perseguire come doverosa realizzazione di noi stessi. Senza questa «crisi» non si accede alla vera vita secondo lo Spirito. Se non c’è questa morte a se stessi non ci sarà neppure la rinascita a vita nuova implicata nel battesimo (cir. Romani 6,4). Occorrono poi l’onestà verso la realtà e la fedeltà alla realtà, cioè l’adesione alla realtà, perché è nella storia e nel quotidiano, con gli altri e non senza di essi, che avviene la nostra conoscenza di Dio e cresce la nostra relazione con Dio. È a quel punto che la nostra vita spirituale può armonizzare obbedienza a Dio e fedeltà alla terra in una vita di fede, di speranza e di carità. È a quel punto che noi possiamo dire il nostro «sì» al Dio che ci chiama con quei doni e con quei limiti che caratterizzano la nostra creaturalità. Si tratterà dunque di immettersi in un cammino di fede che è sequela del Cristo per giungere all’esperienza dell’inabitazione del Cristo in noi. Scrive Paolo ai cristiani di Corinto: «Esaminate voi stessi se siete nella fede: riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?» (2 Corinti 13,5).
La vita spirituale si svolge nel «cuore», nell’intimo dell’uomo, nella sede del volere e del decidere, nell’interiorità. È lì che va riconosciuta l’autenticità del nostro essere cristiani. La vita cristiana infatti non è un «andare oltre», sempre alla ricerca di novità, ma un «andare in profondità», uno scendere nel cuore per scoprire che è il Santo dei Santi di quel tempio di Dio che è il nostro corpo! Si tratta infatti di «adorare il Signore nel cuore» (cfr. I Pietro 3, I 5). Quello è il luogo dove avviene la nostra santificazione, cioè l’accoglienza in noi della vita divina trinitaria: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Fine della vita spirituale è la nostra partecipazione alla vita divina, è quella che i Padri della chiesa chiamavano «divinizzazione». «Dio, infatti, si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio», scrive Gregorio di Nazianzo, e Massimo il Confessore sintetizza in modo sublime: «La divinizzazione si realizza per innesto in noi della carità divina, fino al perdono dei nemici come Cristo in croce. Quand’è che tu diventi Dio? Quando sarai capace, come Cristo in croce, di dire: “Padre, perdona loro”, anzi: “Padre, per loro io do la vita”». A questo ci trascina la vita spirituale, cioè la vita radicata nella fede del Dio Padre creatore, mossa e orientata dallo Spirito santificatore, innestata nel Figlio redentore che ci insegna ad amare come lui stesso ha amato noi. Ed è lì che noi misuriamo la nostra crescita alla statura di Cristo.

  • 21 Apr

    LA LUCE DELLA RAGIONE E L’ILLUMINAZIONE DIVINA

    A. La facoltà di conoscere

    La filosofia occidentale, sin dalla sue origini, è convinta che l’uomo sia capace di conoscere la realtà e che tutto ciò che esiste è conoscibile con l’intelletto (ens est intelligibile). Ma questo principio può essere applicato a Dio Essere Supremo?

    La risposta della filosofia scolastica[1] è semplice: Dio infinito può essere conosciuto pienamente soltanto con l’intelletto infinito, ovvero solo Dio conosce se stesso. La ragione umana, che è finita ed imperfetta, può conoscere Dio solo parzialmente. Il suo metodo può essere solo l’analogia, cioè a partire dalle cose create.

    L’apologetica è il trattato teologico che approfondisce il tema della conoscenza naturale di Dio.

    Si afferma che la dottrina mistica non predilige il percorso razionale per parlare di Dio. Ad esempio nel monachesimo troviamo scritto da san Colombano[2]: “Cerca la suprema scienza non attraverso dispute di parole, ma attraverso la perfezione dei buoni costumi; non con la lingua ma con la fede; essa nasce dalla semplicità del cuore; non vi si giunge attraverso i dotti ragionamenti che non si radicano nella pietà. Se cercherai con le argomentazioni della ragione l’Ineffabile, egli si farà  da te più lontano di quanto era; se cercherai con la fede troverai, la “Sapienza sta alle porte” (Pr 1,21), dove sempre dimora e in parte potrai vederla”. E nell’Imitazione di Cristo si elogia “più l’umile semplice che il superbo filosofo”. In effetti il sistema scolastico è troppo imperniato sulla ragione, rischiando di enfatizzare questa dimensione che non è l’unica presente nell’essere umano.

    Oggi la situazione è diversa. Vi sono pericoli di altro genere del tipo di una sorta di “sentimentalismo”, per cui è utile invitare a coltivare una sana ragione, una riflessione ben fondata anche nell’ambito della fede. Teofane il Recluso diffidente contro i troppo sentimentali dice: “La vita secondo la volontà divina è vita ragionevole… La luce della verità e la purezza della santità incoruttibile sono due aspetti della trasformazione spirituale del mio “io”. Per comprendere i comandamenti bisogna conoscere tutte le verità cristiane…A pensare sono tutti capaci. Usino, quindi questa facoltà per riflettere sulle cose serie, per conoscere la realtà”.

    B. Il senso del mondo visibile

    L’inizio della conoscenza umana è l’osservazione della realtà. Gli antichi filosofi osservando la natura cercavano di scoprire il principio che unisce la molteplicità, che dà l’unità, che crea per mezzo dei vari e ineguali fenomeni naturali, l’universo ordinato, il cosmo. Ma questi filosofi non erano d’accordo su dove cercare questo principio di unificazione (per Talete era l’acqua, Anassimandro proponeva l’Hapeiron….). Aristotele osservando che tutto ciò che esiste è destinato a decomporsi intuì che tale principio doveva essere cercato altrove, fuori della natura: scoprire la substantia, il pensiero che domina su tutto.

    I cristiani scorprono che questo logos  che soggiace a tutta la creazione è Cristo, Parola eterna di Dio. Per san Basilio Dio ha concepito tutta la creazione come una “scuola” per le anime, destinata a coloro che ricercano la sapienza divina, nascosta in tutte le cose nell’”opera dei sei giorni” (Exameron). Nemesio[3] fa un gioco di parole dicendo che non c’è nessuna cosa che sarebbe “non-logica” (alogon). Tutto ciò che esiste ha quancosa da dirci.

    Si tratta di comprendere giustamente il senso di ciò che ci circonda. Nelle canzoni spesso la gente non comprende il contenuto perché ascolta troppo il suono, la melodia, perdendo l’interesse per le parole e il cantante. Non capire il logos del creato è la stessa cosa! Si usano le cose del mondo senza aver riguardo all’intenzione divina per esse. I padri greci chiamavno questo esercizio “theoria fisica” (contemplazione naturale).

    Enrico Medi[4], astrofisico, possedeva questo sguardo contemplativo.egli scrive:Oh, voi misteriose galassie …, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare”.

    Potremmo aggiungere anche la testimonianza di una grande astronomo, Giovanni Keplero[5]  che compose una preghiera sullo stile dei salmi: “ Grande è il nostro Dio! Grande la sua potenza, la sua sapienza infinita. Lodatelo, cieli! Lodatelo, sole, luna e pianeti, con la lingua che vi è data per lodare il vostro Creatore. E anche tu, anima mia, canta, canta più che puoi l’onore del Signore! Da lui, in lui e per lui sono tutte le cose: quelle ancora sconosciute e quelle che già conosciamo.  A lui lode, onore e gloria, d’eternità in eternità! Ti rendo grazie, Creatore e Signore, di avermi dato questa gioia alla vista della tua creazione, questo godimento nel contemplare l’opera delle tue mani. Cerco di annunciare agli uomini lo splendore delle tue opere, nella misura che il mio spirito finito
    può cogliere l’infinito”.

    C. Senso spirituale delle cose

    Giungere ad intuire il mistero inerente alle cose creato è proprio di chi ha ricevuto il dono dell’intelletto (intus-legere). A ciascuno è dato di potervi accedere secondo la sua peculiarità scorgendo una dimensione del mistero (la totalità appartiene solo a Dio). Le vie possono essere diverse, ma sono in armonia. Provengono tutte da una sola parola, il Verbo di Dio, Gesù Cristo nel quale è la pienezza della rivelazione.

    Tutta la realtà dunque contiene in sé un senso “cristologico”. Nell’iconografia questo mistero è rappresentato dalla sapienza divina seduta in trono in mezzo ad un cerchio che rappresenta il creato. Con i suoi raggi penetra tutto, eppure rimane nascosta sotto l’iride della bellezza sensibile ed esterna. Accanto alla Sapienza coloro che la riconobbero per primi: la vergine Maria e Giovanni Battista.

    D. La “pratica”, via alla “teoria”

    Per acquisire questo senso spirituale non è sufficiente il naturale dono per la riflessione. Paolo apostolo ricorda che: “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non nello Spirito santo” (1Cor 12,3). Il senso cristologico delle cose, la Sophia di Dio, è conoscibile solo da parte di coloro che hanno ricevuto l’ispirazione dello Spirito santo.

    Tuttavia tale illuminazione esige da parte nostra lo sforzo di purificarci, di liberarci dal peccato e dalla passioni, la purezza di cuore e la pratica delle virtù: “beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). La purificazione dal peccato e la vita nelle virtù fu denominata dai padri greci con il termine “pratica” (praxis); la contemplazione con il termine “theoria”. Venne stabilito il principio che la “pratica” è la via alla “theoria”. In altre parole: per capire il senso del mondo e delle cose bisogna vivere bene. In questo senso gli uomini “carnali” (soggetti alle passioni) subiscono le illusioni dei sensi e dunque sono impediti a raggiungere la comprensione della verità.

    Tutto quello che incontriamo nel mondo riceve un doppio significato. La realtà è come il pane e il coltello. Chi sa tagliare riceve il nutrimento, chi non sa maneggiare il coltello non solo rimane affamato, ma anche si taglia.

     E.  Simboli spirituali

    Il significato del mondo e colto individualmente, tuttavia esistono alcune costanti che danno la possibilità di usare un linguaggio simbolico comprensibile a tutti nel parlare dell’esperienza spirituale. Nel medioevo erano amati i testi in cui si spiegavano i “simboli della natura”. Basterebbe poi leggere testi di mistici, oppure le opere di san Francesco di Sales che abbondantemente attinge alla natura per illustrare dottrine spirituali.

    Nella vita di s. Caterina da Siena si dice che ella “traduceva” tutto ciò che vedeva in linguaggio spirituale. Usiamo delle traduzioni per capire una lingua per noi incomprensibile. Il peccato e le passioni disordinate hanno reso il linguaggio del mondo parole straniere. Per mezzo della comprensione spirituale esse tornano a far parte della nostra lingua originaria. Ma la condizione è possedere uno sguardo di fede che perfezione l’intelletto.

    Una preghiera di Jacques Olier[6] esprime bene questo desiderio: “Mio Dio, io ti adoro  in tutte le tue creature, ti adoro vero e unico sostegno di tutto il mondo; senza di te nulla esisterebbe e nulla sussiste che in te. Ti amo, mio Dio, e lodo la tua maestà che appare  sotto l’esteriorità di tutte le creature. Tutto ciò che io vedo, o mio Dio, non serve che ad esprimere  la tua bellezza segreta e ignota agli occhi dell’uomo. Tu sei al fondo di tutto e ti manifesti sotto ogni cosa in qualcuna delle tue perfezioni 

    1. La fede e i suoi vantaggi

    Potremmo elencare in sei punti il valore della fede per la vita spirituale.

    1. La fede costituisce il fondamento della vita spirituale. Se il motto dei filosofi cinici[7] era “Ristampare le monete” ovvero dare un altro valore alle cose, questo vale molto di più per la fede: essa ci apre ad uno sguardo profondo, infinito ed eterno sulla realtà. Per questo di fatto la fede è l’inizio di una vita nuova.
    2. La fede ci unisce a Dio. Dio puro spirito può essere accostato solo attraverso la fede che opera nel profondo del cuore.
    3. La fede illumina l’intelletto. La mente si sviluppa con la conoscenza. Per mezzo della fede ci appropriamo della conoscenza di Colui che è la verità e la Vita (cfr Gv 14,6).
    4. La fede rafforza la volontà. Non può avere un carattere fermo chi non ha convinzioni costanti. La fede ci fa partecipare alla immutabile verità di Dio, essa si approfondisce e cresce pur rimanendo sempre la medesima. Tale diviene anche colui che vive secondo la fede.
    5. La fede è sorgente di consolazione.  La vera consolazione procede solo dalla verità. La fede è la verità che scaturisce dalla “Buona Notizia”.
    6. La fede è opera meritoria. L’insegnamento cattolico riconosce i “meriti”. La grazia è un dono di Dio che esige la nostra collaborazione. La cooperazione con Dio è un privilegio così grande che “merita” come ricompensa il regno di Dio, anche quando si tratta di una piccola opera che non necessariamente è esteriore.

    2.  Doppia concezione di fede

    Al tempo della Riforma vi furono discussioni sul rapporto tra fede e buone opere. Oggi appare chiaro che l’equivoco era dato dall’ambiguità dei concetti. Se ad un cattolico domandiamo cos’è la fede ci dirà che si tratta di aderire alle verità del credo e del catechismo, se domandiamo la stessa cosa ad un protestante dirà che la fede è un’illimitata fiducia accordata a Dio sull’esempio di Abramo. È chiaro che una tale fede in se stessa giustifica, mentre al contrario l’adesione semplicemente mentale ad un sistema di verità non ottiene la stessa cosa, essa resterebbe “morta senza le opere” (Gc 2,26).

    Allora come è possibile accordare queste posizioni? Ripartendo da una retta comprensione della realtà della fede. Il suo fondamento rimane una fiducia illimitata in Dio, la prontezza di accettare tutto ciò che egli propone. Ma proprio questa prontezza ci obbliga a raccogliere e conservare tutto ciò che Dio ci ha rivelato, la ricchezza del deposito della fede. Sono quindi ambedue aspetti inseparabili della fede: la fiducia in Dio e l’accoglienza delle verità di fede contenute nel catechismo.

    Origene bene esprime la necessità di ambedue gli aspetti della fede al fine di ottenere salvezza: Padre onnipotente, preghiamo la tua misericordia: donaci non solo di ascoltare la tua parola, ma anche di metterla in pratica. Distruggi in noi ciò che deve essere distrutto
    e vivifica ciò che deve essere vivificato. Concedici, Padre santo, di credere con il cuore, di professare con la parola, di confermare con le opere la tua alleanza con noi. Così gli  uomini, vedendo le nostre opere buone, glorificheranno te, Padre nostro che sei nei cieli

    3.La fede nella quotidianità

    La mancanza di fede si riflette in tutte le nostre relazioni con Dio: la preghiera diventa noiosa, i sacramenti vengono trascurati.

    Ma anche la relazione col prossimo viene intaccata dalla mancanza di fede: le relazioni diventano puramente umane, facilmente deteriorabili. La carità si affievolisce sino a spegnersi. Cercheremo di imporci in tutti i modi. L’umiltà scompare. La testardaggine, l’intolleranza, la sconsideratezza, la durezza nel giudizio, sono note di una fede debole.

    La fede imposta correttamente la nostra relazione anche con il creato, con le cose, il mondo e i suoi problemi. Si cammina nel mondo sapendo di non essere allo sbando di forze sconosciute, ma in mano alla Provvidenza di Dio.

    Scrive san Roberto Bellarmino[8]: Le montagne ci sembrano grandi perché sono vicine; le stelle, al contrario, anche se incomparabilmente più grandi, sembrano piccoli punti. Se fossimo in cielo, le stelle apparirebbero enormi, come infatti sono, e le montagne ci sembrerebbero granelli di sabbia. Gli uomini di questa terra, che hanno il loro cuore attaccato al mondo, considerano come enormi gli affari terreni. Quando ottengono un’eredità o raggiungono onori, sono colmi di gioia. Quando perdono una moneta, disturbano tutti coloro che sono vicini. Al contrario, colui che serve Dio, chi abita sull’alta torre della fede, è così lontano dalle cose di quaggiù, che tutti i cosiddetti grandi e importanti problemi gli appaiono come giochi di bambini. Paragonando con l’eternità tutte le sfortune del mondo, non le teme più dei morsi di una zanzara.

    Di fronte a questa testimonianza poniamone un’altra, quella di Lev Tolstoj[9], in cui si parla del processo della perdita della fede:   Persi la fede nello stesso modo in cui l’hanno perduta e continuano a perderla coloro che hanno ricevuto il nostro stesso tipo di educazione. Nella maggior parte dei casi ciò accade nel modo seguente: si vive come vivono tutti, e tutti vivono basandosi su principi che non solo non hanno nulla in comune con la fede professata, ma che anzi le sono generalmente contrari e opposti; la religione non entra nella vita, e non accade mai, sia nei rapporti con gli altri che in privato, di doverci confrontare o fare i conti con essa. Viene professata e praticata in qualche regione indeterminata, lontano dalla vita e indipendentemente da essa. Quando entriamo in contatto con la fede, la consideriamo normalmente come un fenomeno esteriore, non collegato all’esistenza.  Fondandosi sulla vita di un uomo e sulle sue azioni è assolutamente impossibile capire – sia ai giorni nostri che in passato – se costui sia credente o meno. Se vi è una differenza tra coloro che professano esplicitamente la fede e quelli che la negano, ebbene, tale differenza non va certo a favore dei primi. Sia ai giorni nostri che in passato, l’esplicita accettazione e professione della fede ortodossa si riscontra generalmente in persone ottuse, crudeli, immorali, con un alto concetto di se stesse, mentre l’intelligenza, l’onestà, la bontà, la rettitudine e il sentimento etico si ritrovano generalmente in persone che si professano non credenti.  Nelle scuole s’insegna il catechismo e si costringono gli allievi ad andare in chiesa; agli impiegati vengono richiesti dei certificati di comunione. Ma una persona del nostro ambiente, che abbia smesso di studiare e non occupi un posto nell’amministrazione dello stato, sia oggi sia – e ancor più – in passato, può vivere decine d’anni senza ricordarsi neppure una volta di vivere in mezzo a cristiani e di venir considerato egli stesso un seguace della religione ortodossa.  Quindi, sia oggi che in passato, la fede religiosa accettata passivamente e fondata su pressioni esteriori si dissolve a poco a poco sotto l’influenza delle conoscenze e delle esperienze della vita ad essa contrarie, e molto frequentemente accade che si viva a lungo immaginandosi di conservare intatta quella fede che ci è stata trasmessa sin dall’infanzia, mentre in realtà già da gran tempo in noi non ne è rimasta più traccia. Il mio amico S., uomo intelligente e sincero, mi ha raccontato come smise di credere. Aveva già ventisei anni e, trovandosi una volta a passar la notte fuori di casa durante una partita di caccia, la sera, prima di coricarsi, s’inginocchiò per recitare le preghiere secondo un’antica abitudine contratta fin dall’infanzia. Il fratello maggiore, che era a caccia con lui, se ne stava coricato sul fieno a guardarlo. Quando S. ebbe finito e si fu coricato a sua volta, il fratello gli chiese: “Così tu lo fai ancora?”.  Non si dissero altro, ma da quel giorno S. smise di recitare le preghiere e di recarsi in chiesa, e ormai da trent’anni non prega, non si comunica e non frequenta la chiesa. E questo non perché conoscesse le convinzioni del fratello e le avesse accettate, o perché avesse preso una qualsiasi decisione cosciente, ma soltanto perché le parole pronunciate dal fratello erano state come la pressione di un dito contro una muraglia che stava già per crollare sotto il suo stesso peso; quelle parole gli avevano fatto capire che là dov’egli credeva che ci fosse ancora la fede ormai da tempo c’era in realtà soltanto un vuoto, e che quindi le parole che diceva, i segni di croce e le genuflessioni che faceva durante la preghiera erano assolutamente privi di senso. Avendone riconosciuta l’assurdità, non poteva più continuare a ripeterli.  La stessa cosa è accaduta e accade – così almeno io credo – alla stragrande maggioranza delle persone. Parlo di quanti hanno ricevuto la mia educazione e sono sinceri con se stessi e non di coloro per i quali la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di qualche fine temporale. (Costoro sono in realtà i più radicali miscredenti, giacché se per loro la fede è soltanto un mezzo per il raggiungimento di fini mondani, è chiaro che non può chiamarsi fede). Il mondo della scienza e quello della vita hanno ormai distrutto per loro l’edificio artificiale della fede, e qualora se ne siano resi conto hanno già sgombrato il posto vuoto, oppure non se ne sono ancora accorti. Io persi la fede trasmessami nell’infanzia più o meno allo stesso modo, ma con questa differenza: poiché avevo cominciato, appena quindicenne, a leggere opere di filosofia, la mia rinuncia alla fede religiosa fu ben presto cosciente. Fin dall’età di sedici anni per convinzione interiore smisi di pregare, di andare in chiesa e di digiunare. Non credevo in ciò che mi era stato insegnato nell’infanzia, ma credevo pur sempre in qualcosa, anche se non avrei assolutamente saputo dire in cosa. Credevo in Dio, o meglio non lo negavo, ma di quale Dio si trattasse non avrei saputo dirlo; non negavo il Cristo e il suo insegnamento, ma in che cosa consistesse questo suo insegnamento non avrei saputo dirlo.  Oggi, ricordando quei giorni, vedo chiaramente che l’unica mia vera fede – ossia quanto, escludendo gli impulsi animali, guidava la mia vita – era a quell’epoca la fede nell’autoperfezionamento. Ma in cosa consistesse e quale fosse il suo scopo, non avrei saputo dirlo. Cercavo di perfezionarmi intellettualmente, imparando tutto quel che potevo imparare e studiando tutto ciò verso cui la vita mi spingeva; cercavo di perfezionare la mia volontà ponendomi regole di comportamento che mi sforzavo di osservare; mi perfezionavo fisicamente compiendo esercizi di tutti i generi, esercitando la forza e la destrezza, abituandomi alla resistenza e alla temperanza con privazioni di ogni sorta. Era questo che io consideravo autoperfezionamento. All’inizio, naturalmente, si trattava di un perfezionamento morale, ma ben presto venne sostituito dall’autoperfezionamento in generale, ossia dal desiderio di diventare migliore non davanti a me stesso o davanti a Dio, bensì davanti agli altri. E ben presto questa aspirazione a diventare migliore al cospetto degli uomini si mutò in quella a diventare più forte, più famoso, più importante e più ricco di loro.

    d.  Mistica della luce

    Nel linguaggio della teologia spirituale si parla di “mistica della luce” e di “mistica delle tenebre”.

    Nel linguaggio dei mistici i termini “luce” e “tenebre” non hanno significato morale (bene-male): sono divenuti invece simboli della doppia via che conduce a Dio: della conoscenza intellettuale e della conoscenza intuitiva.

    Certamente a Dio andiamo per mezzo della mente intellettiva. Ma d’altra parte il cristiano non si riduce ad essere un razionalista: la mente umana afferra ben poco del mistero di Dio. Tuttavia più è purificata più viene introdotta nel mistero: dice Evagrio[10]: “La conoscenza della ss.ma Trinità è adeguata al grado di purezza e di integrità della mente”. Evagrio sa benissimo che non è facile raggiungere la meta di una mente totalmente purificata e integra. La mente ha bisogno di superare anche la sua “carnalità” rappresentata dall’immaginazione, dalla fantasia. Ora nessuna immagine prodotta dall’uomo può esprimere perfettamente Dio, per questo motivo i veri contemplativi cercano di liberarsi da tutte le immagini anche sante. Scrive Matta El Meskin: “durante la preghiera, non devi imma­ginarti nessuna forma esteriore di Dio Padre o del Figlio o dello Spirito santo, come se si tro­vassero al di fuori di te o come se il tuo occhio potesse contemplarli, perché è all’interno della tua anima che Dio si rende presente e non al­l’esterno. Senti allora la sua presenza, ma senza vederlo. «Prega il Padre tuo che è nel segreto» (Mt 6,6)”.

    Ma neppure questo sembra bastare. Noi pensiamo attraverso concetti e categorie mentali. Ma Dio nel quale tutto esiste non può essere contenuto in nessun nostro concetto.  Allora cosa rimane? Evagrio vede la soluzione in un intelletto totalmente liberato da immagini e concetti e ritornato perciò allo stato originale, illuminato perciò dalla grazia dello Spirito: qui allora vede Dio nella pura luce.  Questa è la direzione in cui si muove la mistica della luce

    l.     Mistica delle tenebre

    L’esperienza di Dio attraverso tenebre oscure è conosciuta dalla scrittura (cfr Es 19,9). Dio si rivela nella “nube”. Anche noi usiamo l’intelletto per avvicinarci a Dio, ma facciamo l’esperienza che questa luce è debole e non raggiunge mai realmente il mistero: si esaurisce prima. Con la ragione allora comprendiamo che Dio è sempre l’al-di-là-di-tutto: questa consapevolezza fu definita nel medioevo come “dotta ignoranza”.

    Allora bisogna accontentarsi? No. Il contemplativo continua il suo cammino, ma su un percorso diverso. Abbandona l’intelletto e va a Dio per la via dell’amore. I mistici orientali come san Gregorio di Nissa o lo PseudoDionigi areopagita parlano di ex-stasis,  ovvero di una uscita dallo stato intellettuale nelle tenebre dell’amore. L’ascesa mistica si svolge dunque in due tappe: prima l’intelletto sale per la montagna della conoscenza fino al termine delle sue possibilità, fino alla vetta. Ma non trovandovi ancora Dio, l’uomo prende le ali dell’amore per volare più in alto.

    In questo desiderio immenso mai appagato qui in terra, l’anima giunge alla conoscenza dell’immensità di Colui che lo ha suscitato. L’anima conosce Dio nella grandezza del proprio amore per lui.

    Via della luce e via delle tenebre non sono contraddittorie. La conoscenza del mistero di Dio esige l’operazione intellettiva, l’intelletto deve essere “illuminato” ci ricorda Evagrio, e Gregorio di Nissa è convinto che la vera “illuminazione” avviene tramite l’esercizio della carità che supera ogni intelletto. Nella mistica delle tenebre viene quindi messo in rilievo che Dio è carità (cfr 1Gv 4,8), e che può essere dunque conosciuto più perfettamente da coloro che lo amano.

    Come testo emblematico di questa corrente teologica possiamo riprendere un brano di san Gregorio di Nazianzio[11]: “Tu, l’al-di-là di ogni cosa, come chiamarti con un altro nome? Quale inno può cantarti? Nessuna parola può esprimerti. Quale spirito può afferrati? Nessuna intelligenza può immaginarti. Solo tu sei ineffabile, tutto ciò che si dice è uscito da te. Solo tu sei in conoscibile, tutto ciò che si pensa è uscito da te. Tutti gli esseri ti celebrano, quelli che parlano e quelli che non parlano. Tutti gli esseri ti rendono omaggio, quelli che pensano come quelli che non pensano. Il desiderio universale, il gemito di tutti aspira a te. Tutto ciò che esiste ti prega, e verso di te ogni essere che sa leggere il tuo universo, fa salire un inno di silenzio. Abbi pietà, Tu l’al-di-là d’ogni cosa,  come chiamarti con un altro nome?”.



    [1] Il carattere fondamentale della filosofia scolastica consisteva nell’illustrare e difendere le verità di fede con l’uso della ragione, verso la quale si nutriva un atteggiamento positivo. A tal fine, essi privilegiarono la sistematizzazione del sapere già esistente rispetto all’elaborazione di nuove conoscenze. L’intento degli scolastici era quello di sviluppare un sapere armonico, integrando la rivelazione cristiana con i sistemi filosofici del mondo greco-ellenistico, convinti della loro compatibilità, e anzi vedendo nel sapere dei classici, in particolare dei grandi pensatori come Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, una conferma dei dogmi cattolici. Sulla base del rapporto tra fede e ragione che essi intravedevano nei testi greci, essi erano convinti di poter contrastare le tesi eretiche e cercavano di convertire gli atei. Dallo studio dei testi greci nasce il problema degli universali (cioè del logos, della forma) che viene sviluppato in modi differenti per tutta la scolastica. forma ante rem: l’essenza è prima della realtà (o della materia) come ritenevano Platone e Agostino d’Ippona; forma in re: l’essenza al di fuori della materia non ha alcun senso, come insegnava Aristotele; forma post rem: un semplice nome, ovvero convenzione che deduciamo dall’analisi delle caratteristiche di una serie. Tommaso, sulla scorta di Boezio, riteneva che gli universali esistessero sia ante rem come Idea nella mente di Dio, sia in re come forma delle varie realtà, sia post rem come concetto formulato nella mente dell’uomo. A Tommaso, sostanzialmente fautore di un indirizzo filosofico realista, si contrapposero i sostenitori del nominalismo, secondo cui l’universale era solamente un flatus vocis,[1] cioè appunto un nome e nient’altro. Poiché del resto la scolastica si sviluppò in varie scholae europee e quindi in realtà diverse, era inevitabile che in ogni schola, avendo esse differenti esigenze e finalità, i pensieri e i metodi acquistassero caratteristiche diverse. Vi erano quindi scholae più vive e attive dove spesso si accendevano contrasti tra gli intellettuali più conservatori e i maestri d’arte, i più innovativi. Gli scolastici svilupparono in tal modo un peculiare metodo di indagine speculativa, noto come quaestio,[2] basato sul commento e la discussione dei testi all’interno delle prime università. I vari dibattiti, tuttavia, dovevano seguire delle regole e dei riferimenti precisi, tra i quali vi era in particolare la logica formale di Aristotele.[3] Valevano poi le auctoritas, che erano rappresentate dagli scritti dei Padri della Chiesa (filosofia patristica), dai testi sacri, e da scritti della tradizione cristiana. Le auctoritates erano, in sostanza, la decisione di affidarsi ad una voce ufficiale e decisa dai concili, per cui esisteva l’auctoritas in campo medico (Galeno), quella in campo metafisico (Aristotele) e quella in campo astronomico (Tolomeo). Come già aveva fatto notare Scoto Eriugena, però, non era la ragione a fondarsi sull’autorità, ma l’autorità a fondarsi sulla ragione: gli Scolastici così mantennero sempre una forte coscienza critica verso le fonti del loro sapere.[4] Sarà il declino della fiducia nella ragione, a partire da autori come Guglielmo di Ockham, che porterà alla fine della Scolastica e dello stesso Medioevo. La Scolastica e la scienza. La  filosofia scolastica era particolarmente incentrata sullo studio del dogma religioso cristiano ma non solo. Gli scolastici diedero infatti un forte impulso anche allo sviluppo della scienza. Roger Bacon, ad esempio, pur restando fedele al metodo aristotelico, si occupò di filosofia della natura, basandosi sulle osservazioni degli eventi, e contestando alcuni elementi anti-scientifici del pensiero greco. Nel XII – XIII secolo, nell’ambito degli studi teologici che si tenevano nelle prime Università europee come Bologna, Parigi, Oxford, si svilupparono così diverse ricerche sulla natura, ovvero sul creato considerato opera di Dio, che avrebbero dovuto portare all’intelligibilità dell’opera di Dio creatore. Per i filosofi della natura del XII – XIII secolo la creazione era come un libro che andava letto e compreso, un libro che conteneva leggi naturali immutabili decise da Dio al momento della creazione. Tali studiosi pensavano che conoscere quelle leggi naturali avrebbe portato ad una conoscenza capace di avvicinare sempre più a Dio. In quest’ambito valevano come auctoritas anche filosofi dell’epoca greca e persino pensatori di origine islamica.[5] Oltre alla scienza, il metodo scolastico venne anche applicato agli studi di diritto, almeno a partire da Raniero Arsendi in avanti.
    [2] Colombano nacque tra il 540 e il 543 nella cittadina di Navan, nel Leinster (Irlanda centro-orientale).  Secondo la leggenda agiografica della sua vita, la madre, in attesa della sua nascita, avrebbe visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce.  Colombano andò a scuola presso un maestro laico (fer-lèighin), apprendendo a leggere e a scrivere. Come gli altri giovani si occupava inoltre dei lavori della famiglia (allevamento del bestiame, conciatura delle pelli, caccia e pesca) e apprese anche a cavalcare e ad usare l’arco e la spada.  A quindici anni decise di farsi monaco, nonostante l’opposizione della madre. Abbandonò la famiglia e si recò al monastero di Clinish Island (Cluane Inis, in gaelico), sull’isola di Cleen dei laghi Lough Erne, dove venne accolto dall’abate Sinneill, che aveva studiato nel monastero di Clonard con Columba di Iona (Columcille). Qui Colombano studiò le Sacre Scritture e apprese il latino.  Terminati gli studi si trasferì presso il monastero di Bangor (Irlanda del Nord), dove sotto la guida dell’abate Comgall si praticava una stretta disciplina ascetica e la mortificazione corporale. Secondo la tradizione monastica irlandese, Colombano decise di seguire la peregrinatio pro Domino, partendo per fondare altri monasteri e diffondere la fede cristiana. Partito da Bangor verso il 590, all’età di 50 anni, si imbarcò con 12 monaci suoi compagni nel monastero di Bangor: Gall (san Gallo), Autierne, Cominin, Eunoch, Eogain, Potentino, Colum (Colomba il giovane), Deslo, Luan, Aide, Léobard, e Caldwald).  Visitò l’isola di Man e la piccola isola di San Patrizio, che secondo la leggenda custodiva la tomba di Giuseppe di Arimatea. Sbarcato quindi in Cornovaglia, visitò il monastero di Bodmin Moor fondato da san Gonion. Percorrendo l’antica strada romana che collegava Padstow con Fowey e Lostwithiel, visitò anche Tintagel e arrivò a Plymouth, da dove si imbarcò nuovamente per la Bretagna.  Approdò nella Francia merovingia nei pressi di Saint-Malo e di Mont-Saint-Michel, nel luogo dove in seguito venne posta una grande croce. Si recò quindi a Rouen, Noyon e Reims in Austrasia e passò in Burgundia dove regnava il re Gontrano. Grazie alle concessioni del re fondò tre monasteri (Annegray, Luxeuil-les-Bains e Fontaine-Chaalis).  Ad Annegray san Colombano e i suoi compagni riadattarono un antico castello diroccato, ed edificarono un monastero tra il 591 ed il 592, con una chiesa dedicata a san Martino. All’inizio i monaci vivessero di elemosina e questue, ma in seguito si dedicarono anche alla coltivazione dei campi. San Colombano si ritirava nelle grotte dei dintorni per vivervi da eremita.  La comunità monastica si ingrandì e fu presto necessario creare un nuovo centro monastico a 8 miglia verso sud-est, presso le rovine della città termale di Luxeuil, dove venne costruito un monastero con una chiesa dedicata a San Pietro. Un altro monastero, con una chiesa dedicata a San Pancrazio, venne fondato anche a Fontaines.  San Colombano si trasferì nel 593 a Luxeuil e vi eresse un nuovo monastero, da dove diresse i tre comunità con i suoi priori. Vi scrisse due regole, la Regula monachorum e la Regula cenobialis, e il Paenitentiale. La vita monastica era basata su pratiche ascetiche e sulla penitenza e comprendeva inoltre la pratica della lettura e scrittura quotidiane dei monaci, per alimentarne lo spirito: nei monasteri vennero anche fondati scriptoria.  I monasteri entrarono in conflitto agli inizi del VII secolo con l’episcopato francese: Colombano desiderava seguire le tradizioni della propria terra di origine ed ebbe particolare rilievo il differente calcolo della data della Pasqua. Colombano entrò in conflitto per questo motivo con il re merovingio della Burgundia Teodorico II, mentre Brunechil, nonna del re, fu fortemente irritata dalle sue critiche sul proprio comportamento. Nel 609 Colombano fu espulso da Luxeuil e fu messo in carcere a Besançon, da dove però, allentatasi la sorveglianza riuscì a fuggire per tornare a Luxeuil. Nuovamente arrestato, nel 610 fu condotto in barca lungo la Loira verso Nantes, da dove avrebbe dovuto ritornare per mare verso l’Irlanda con i suoi dodici compagni.  Secondo la leggenda agiografica durante il viaggio, giunti presso Tours, essendogli stato negato dai soldati il permesso di visitare la tomba di san Martino, il battello si diresse miracolosamente verso l’approdo, dove si incagliò e i soldati riuscirono a muoverlo di nuovo solo dopo che gli fu concesso quanto desiderava. A Nantes l’assoluta mancanza di vento impedì la partenza verso l’Irlanda e quando la scorta si fu miracolosamente addormentata, Colombano, sfuggì di nuovo alla sorveglianza.  Sfuggito al re burgundo, Colombano passò quindi in Neustria, verso Rouen, Soissons e Parigi. Qui regnava Clotario III, che gli concesse la sua protezione.  In Neustria santa Fara (Borgundofara), figlia di amici di Colombano, fondò l’abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il santo e i suoi compagni e seguaci fondarono altri monasteri, tra i quali Remiremont, Rebais, Jumièges, Noirmoutier-en-l’Île, Saint-Omer (Passo di Calais).  Colombano si spostò quindi nel 611 alla corte di Teodeberto II, re d’Austrasia, passando per le città di Coblenza, Magonza, Strasburgo, Basilea e Costanza. Il re lo invitò ad evangelizzare le terre ancora pagane dei Sassoni e degli Alemanni lungo il fiume Reno e Colombano fondò un nuovo monastero a Bregenz, sulla riva del lago di Costanza, l’eremo di Sant’Aurelia.  Nel 612 Colombano decise di recarsi a Roma, per ottenere l’approvazione della propria regola da parte del papa Bonifacio IV. Lungo il cammino il suo discepolo san Gallo fu costretto a fermarsi perché ammalato e fondò in quel luogo l’abbazia di San Gallo.  Secondo la leggenda agiografica per essersi voluto fermare in seguito alla malattia, Colombano avrebbe imposto al discepolo di non celebrare più messa fino alla sua morte. Nel momento della morte di Colombano, Gallo avrebbe avuto in sogno la visione di Colombano che in forma di colomba bianca saliva al cielo e avrebbe celebrato dunque la sua prima messa in suo onore.  Giunto a Pavia, Colombano si pose sotto protezione del re longobardo Agilulfo, che era tuttavia ariano, e della regina Teodolinda, che gli chiesero un suo intervento nella spinosa questione tricapitolina. In cambio il santo ottenne la possibilità di creare sul suolo demaniale un nuovo centro di vita monastica. Il luogo, segnalato da un certo Giocondo, venne esaminato dalla stessa regina Teodolinda, salita sulla vetta del monte Penice, la quale chiese al santo di dedicare alla Madonna la piccola chiesetta in cima alla vetta, futuro santuario di Santa Maria.  L’area si trovava nel cuore dell’Appennino in una zona fertile e molto produttiva, dove abbondavano acque correnti e c’era pesce in quantità. Nella zona si trovavano anche antiche terme e sorgenti, sia termali che saline da cui si traeva il sale. La scelta del luogo ne faceva un avamposto religioso e politico controllato dal regno longobardo verso le terre liguri, ancora bizantine. Con il documento del 24 luglio del 613 che donava a Colombano il territorio per fondarvi il nuovo monastero, vennero attribuiti a questo anche la metà dei proventi delle saline del luogo, che appartenevano in precedenza al duca Sundrarit.  Colombano giunse a Bobbio nell’autunno del 614 con il proprio discepolo Attala, riparò l’antica chiesa di San Pietro (situata dove ora vi è il castello malaspiniano) e vi costruì attorno delle strutture in legno, che costituirono il primo nucleo dell’abbazia di San Colombano.  Secondo la leggenda agiografica, nonostante la presenza di una fitta boscaglia, che ostacolava il trasporto dei materiali da costruzione, san Colombano avrebbe sollevato i tronchi come fuscelli, facendo il lavoro di trenta o quaranta uomini. La leggenda riferisce anche dell’episodio dell’orso e del bue, che fu in seguito numerose volte raffigurato nell’arte: un orso uscito dalla foresta avrebbe ucciso uno dei due buoi aggiogato all’aratro di un contadino, ma san Colombano avrebbe convinto l’orso a lasciarsi aggiogare all’aratro per terminare il lavoro al posto del bue ucciso.  Nella quaresima del 615 Colombano si ritirò nell’eremo di San Michele presso Coli, lasciando a Bobbio come suo vice Attala, e tornando al monastero solo alla domenica. Qui gli giunse la visita di Eustasio, suo successore a Luxeuil, inviato dal re Clotario II, il quale aveva nel frattempo riunito sotto il suo dominio i tre regni merovingi precedentemente esistenti e desiderava il suo ritorno in Francia.  Colombano morì a Bobbio, nell’abbazia che aveva fondato, all’età 75 anni, la domenica 23 novembre del 615. Come secondo abate del monastero gli succedette Attala (615-627). La sua tomba si trova tuttora nella cripta dell’abbazia insieme a quelle degli abati suoi successori (Attala, Bertulfo, Bobuleno e Cumiano e di altri diciotto monaci e di tre monache.  Giona, monaco nell’abbazia di San Colombano a Bobbio, fu incaricato dall’abate Attala di scrivere una biografia in latino del santo che è la fonte principale per le vicende della sua vita.  
    [3] Nemesio (Νεμέσιος; IV secoloV secolo) è stato un filosofo greco antico e fu vescovo di Emesa. Della sua produzione ci è pervenuta l’opera Περὶ φύσεως ἀνθρωπου (Della natura dell’uomo). Si tratta di un’opera apologetica di ispirazione neoplatonica, importante per le testimonianze che dà sulle eresie e sulla filosofia greca.
    [4] Servo di Dio Enrico Medi (Porto Recanati, 26 aprile 1911Roma, 26 maggio 1974) è stato un scienziato e politico italiano, grande figura di scienziato cattolico italiano, unì al sapere scientifico una grande Fede. Direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vicepresidente dell’Euratom, fu un grande divulgatore di temi scientifici in assoluto e di temi scientifici correlati alla Fede cattolica. Fece parte dell’Assemblea Costituente e fu deputato del primo Parlamento della Repubblica Italiana. Si diplomò al liceo classico Istituto Massimo dei Gesuiti, divenendo il primo presidente della “Lega Missionaria Studenti“, da lui fondata insieme a Gabrio Lombardi.  Allievo di Enrico Fermi, si laureò in fisica pura nel 1932, a soli ventuno anni, con una tesi sul neutrone. Ottenne la libera docenza in fisica terrestre nel 1937 e nel 1942 vinse la cattedra di fisica sperimentale dell’Università di Palermo. Nel 1949 ottenne la cattedra di fisica terrestre all’Università di Roma.  Nel 1946 Medi fece parte dell’Assemblea Costituente ed in seguito fu deputato al parlamento nella prima legislatura della Repubblica Italiana.  Dal 1949 fu direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e nel 1958 divenne Vicepresidente dell’Euratom. Negli anni cinquanta condusse uno dei primi programmi televisivi di divulgazione scientifica, Le avventure della scienza. Il 20 luglio 1969 commentò e partecipò alla lunga diretta dello sbarco sulla Luna da Roma insieme a Tito Stagno, Andrea Barbato e Piero Forcella.  La sua carriera politica giunse al culmine nel 1971, risultando primo degli eletti al Consiglio Comunale di Roma, con 75.000 voti.  Tra i suoi lavori, ricordiamo le prime esperienze con il radar e l’ipotesi di fasce ionizzanti nell’alta atmosfera, oggi note come fasce di Van Allen, entrambi stroncati dal regime fascista e successivamente confermati da studiosi stranieri.  Venne nominato membro della Consulta dei laici per lo Stato della Città del Vaticano nel 1966[1].  Ricevette sepoltura nella tomba di famiglia nel cimitero di Belvedere Ostrense. È in corso presso la Diocesi di Senigallia la fase diocesana del processo di canonizzazione, che è stata aperta il 26 maggio 1996 introdotta dal Vescovo Mons. Odo Fusi-Pecci, per cui la Chiesa cattolica gli riconosce il titolo di Servo di Dio[1]..  
    [5] Nel 1591 intraprese lo studio della teologia a Tubinga, università protestante, dove insegnavano alcuni seguaci del copernicanesimo; tra questi vi era Michael Maestlin, che convinse Keplero della validità delle teorie di Niccolò Copernico. Nel 1594 Keplero divenne insegnante di matematica a Graz (Austria) e accettò un posto di matematico degli stati di Stiria. Tra le sue mansioni c’era quella di fare “pronostici”; gli capitò così di prevedere un inverno molto rigido, le rivolte contadine e la guerra con i Turchi. Anche negli anni a seguire non si sottrasse alla stesura di oroscopi, che si configurano come ritratti dal forte tratto psicologico. Nell’aprile 1597 sposò Barbara Mühleck, che gli dette due figli, ma morì prematuramente nel 1611. Sempre nel 1597 pubblicò l’opera Mysterium Cosmographicum, nella quale tentò una prima descrizione dell’ordine dell’Universo. Nel 1599 Tycho Brahe gli offrì un posto come suo assistente, che accettò l’anno dopo. Nel 1601, dopo la morte di Brahe, ne divenne il successore nell’incarico di matematico ed astronomo imperiale a Praga. Nel 1604 osservò una supernova che ancora oggi è nota col nome di Stella di Keplero. Le basi per le sue scoperte astronomiche furono gettate nel 1609, quando pubblicò Astronomia nova, in cui formulò le sue prime due leggi. Alla morte dell’imperatore Rodolfo II (1612), Keplero divenne “matematico paesaggistico” (Landschaftsmathematiker) a Linz (Austria). Il 15 maggio 1618 scoprì la terza legge che prende il suo nome, che rese nota l’anno dopo nell’opera Harmonice mundi. Nell’agosto 1620 la madre di Keplero venne accusata di stregoneria dalla Chiesa protestante e rilasciata solo nell’ottobre 1621. Lo scienziato morì a 58 anni a Ratisbona e venne qui sepolto. La sua tomba si perse nel 1632 quando le truppe di Gustavo Adolfo (impegnate nell’invasione della Baviera durante la guerra dei trent’anni) distrussero il cimitero; rimane però la lapide dove ancora oggi si può leggere l’epitaffio da lui stesso composto: “Mensus eram coelos, nunc terrae metior umbras. Mens coelestis erat, corporis umbra iacet”. (Misuravo i cieli, ora fisso le ombre della terra. La mente era nella volta celeste, ora il corpo giace nell’oscurità). 
    [6] Jean-Jacques Olier de Verneuil nacque a Parigi il 20 settembre 1608 in una nobile famiglia appartenente all’alta magistratura. Dopo gli studi di teologia in Sorbona, maturò la vocazione religiosa sotto la guida spirituale di san Vincenzo de’ Paoli, e venne ordinato sacerdote il 21 maggio del 1633. Dopo aver predicato per qualche tempo le missioni popolari in Alvernia, nel 1641 fondò a Vaugirard un seminario destinato alla formazione sacerdotale della gioventù: quando, nel 1642, Olier venne nominato parroco di Saint-Sulpice, la sede del suo istituto fu trasferita nei pressi della parrocchia, dove diede vita ad una compagnia di sacerdoti (detta di Saint-Sulpice) destinata alla direzione dei seminari. Nel 1652 lasciò il ministero pastorale per motivi di salute, pur mantenendo la direzione del seminario parigino. Morì a Parigi il 2 aprile 1657. Fu autore di numerosi scritti spirituali e mistici. 
    [7] I cinici (dal greco κύων, “cane”, soprannome di uno dei loro esponenti maggiori, Diogene) sono i seguaci della scuola filosofica di Antistene, una delle scuole socratiche minori, così chiamate per essere in qualche modo ispirate alla filosofia di Socrate. Il loro esponente più importante è Diogene di Sinope. Il nome sembra derivare o dal Cinosarge, l’edificio ateniese che fu la prima sede della scuola, o dalla parola greca per “cane”, appellativo che fu dato in senso dispregiativo ai cinici dalle correnti filosofiche avversarie. I cinici professavano una vita randagia e autonoma, indifferente ai bisogni e fedele al rigore morale. Dopo un periodo di declino per la scuola cinica, essa ebbe una ripresa in concomitanza alla corruzione del potere imperiale: si fece appello allora alla libertà interiore e all’austerità dei costumi. L’interesse della scuola fu prevalentemente etico, e il concetto di “virtù” assunse un nuovo significato in una vita vissuta secondo natura; l’ideale era divenuto l’autosufficienza (l’autosufficienza del saggio, condotta fino all’assoluta indipendenza dal mondo esterno, secondo il termine greco autàrkeia, ovvero autarchia, capacità di detenere il totale controllo su se stesso), portando alle estreme conseguenze il pensiero individualistico e utilitaristico proprio della sofistica. La tesi fondamentale di questa corrente di pensiero è la ricerca della felicità come unico fine dell’uomo; una felicità che è una virtù, e al di fuori di essa sussiste un disprezzo per ogni cosa che richiama comodità e agi. Comunemente il termine “cinismo” è stato associato in termini di sinonimia alla sfacciataggine, all’indifferenza. 
    [8] Era figlio di Vincenzo Bellarmino, magistrato e gonfaloniere di Montepulciano, e di Cinzia Cervini, sorella del papa Marcello II, molto pia e religiosa.  Nacque in una famiglia numerosa, terzogenito di cinque figli; di nobili origini poliziane, sia per parte paterna che materna, ma in via di declino economico. Fu battezzato dal cardinale fiorentino Roberto Pucci al quale probabilmente deve l’onore del suo primo nome, mentre il secondo è in riferimento a San Francesco d’Assisi, il santo onorato il 4 ottobre giorno della sua nascita; Romolo fu dato in onore di un antenato della famiglia.  Fin da piccolo ebbe una salute precaria e una forte vocazione religiosa. Dopo una iniziale educazione in famiglia, fu inviato per gli studi, insieme al cugino Ricciardo Bellarmino, a Padova secondo il desiderio del padre e con il permesso di Cosimo I granduca di Toscana come era obbligo a quel tempo, per chi volesse in età molto giovane studiare fuori del granducato di Toscana. A diciotto anni, proseguendo con questa sua vocazione al sacerdozio, ed affascinato dalla figura di Sant’Ignazio di Loyola, al carisma del quale legò poi tutta la sua vita, decise di far parte della Compagnia di Gesù. Insieme al cugino Ricciardo che condivise queste aspirazioni giovanili, ma che morì quattro anni dopo, entrò nel Collegio Romano il 20 settembre 1560 e il giorno dopo fece la sua prima professione religiosa; tutto questo però solo dopo che suo padre concesse il permesso a seguito delle pressioni materne, poiché egli avrebbe preferito, per suo figlio, una carriera politica laica.  Nonostante la sua parentela con papa Marcello II, si dimostrò sempre umile e studioso, tanto da essere in breve tempo elogiato da tutti coloro che lo conoscevano.  Fin da giovanissimo mostrò le sue ottime doti letterarie ed ispirandosi agli autori latini come Virgilio, compose diversi piccoli poemi sia in lingua volgare che in lingua latina. Uno dei suoi inni, dedicato alla figura di Maria Maddalena, fu inserito poi per l’uso nel breviario.  Studiò nel Collegio Romano dal 1560 al 1563, e fu condiscepolo di Cristoforo Clavio. Iniziò successivamente ad insegnare materie umanistiche prima a Firenze e poi a Mondovì, sempre in scuole del suo ordine religioso. In questa cittadina piemontese, si distinse come predicatore, nonostante non fosse ancora ordinato sacerdote, e si applicò allo studio del greco.  Nel 1567 iniziò a studiare in modo sistematico teologia a Padova, dove approfondì la teologia di San Tommaso d’Aquino. Dopo aver visitato Genova per un incontro di confratelli, avendo dimostrato ottime qualità di predicatore, fu inviato nel 1569 da San Francesco Borgia Preposito Generale dell’Ordine dei Gesuiti, a Lovanio nelle Fiandre, allora facente parte dei Paesi Bassi spagnoli; qui aveva sede una delle migliori università cattoliche e il giovane Bellarmino vi completò gli studi teologici, trovando inoltre l’ambiente adatto per acquisire una notevole conoscenza sulle eresie più importanti del suo tempo.  Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta a Gand il 25 marzo del 1570, Domenica delle palme, guadagnò rapidamente notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici che protestanti, persino da altre aree geografiche. Gli fu conferito l’insegnamento della teologia a Lovanio nel 1570, e qui rimase per sei anni, fino al 1576. Distintosi in questi anni per la sua dotta eloquenza e sorprendente capacità di controbattere efficacemente le tesi calviniste, che si diffondevano ampiamente nei Paesi Bassi spagnoli, fu richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di “Controversie”, cioè di Apologetica, da poco istituita nel Collegio Romano, attività che svolse fino al 1587. Da poco tempo si era concluso il Concilio di Trento e la Chiesa cattolica, attaccata dalla Riforma protestante aveva necessità di rinsaldare e confermare la propria identità culturale e spirituale. L’attività e le opere di Roberto Bellarmino si inserirono proprio in questo contesto storico della Controriforma. Egli si dimostrò adeguato alle difficoltà del compito. Gli studi che intraprese per applicarsi nell’insegnamento e nelle lezioni, confluirono successivamente nella sua grande e più famosa opera di più volumi: Le controversie, cioè “Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos”. Questa monumentale opera teologica rappresenta il primo tentativo di sistematizzare le varie controversie teologiche dell’epoca, ed ebbe un’enorme risonanza in tutta Europa; senza sviluppare nessuna aggressione polemica nei confronti della Riforma ma solo usando gli argomenti della ragione e della tradizione, Bellarmino espose in modo chiaro ed efficace le posizioni della Chiesa cattolica.  Presso le chiese protestanti in Germania ed in Inghilterra furono istituite specifiche cattedre d’insegnamento per tentare di fornire una replica razionale agli argomenti dell’ortodossia cattolica difesi da Bellarmino. A tutt’oggi non esiste altra opera di tale completezza nel campo apologetico anche se, come si può facilmente intuire, l’avanzamento degli studi critici ha diminuito il valore di alcuni degli argomenti storici.  L’instancabile azione di Bellarmino a difesa della fede cattolica, gli valse l’appellativo di “martello degli eretici”.  Nel 1588 Roberto Bellarmino fu nominato direttore spirituale del Collegio Romano. In questo periodo collaborò intensamente con l’autorevole papa Sisto V nella riedizione di tutte le opere di Sant’Ambrogio, anche se non sempre ben compreso dal pontefice. Sembra che Sisto V non avesse simpatie per l’Ordine dei Gesuiti e per lo stesso Bellarmino. Nel 1590 fu inviato, e qualcuno suppone per essere allontanato da Roma, con la legazione guidata dal cardinal legato Enrico Caetani che papa Sisto V aveva inviato in Francia per difendere la Chiesa cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici ed ugonotti subito dopo l’assassinio del re Enrico III.  Mentre si trovava in Francia fu raggiunto dalla notizia che Sisto V, che aveva in precedenza calorosamente accettato la dedica della sua opera “Le controversie”, stava ora per proporre di metterne il primo volume all’Indice.  Il motivo era che nell’opera si riconosceva alla Santa Sede un potere indiretto e non diretto sulle realtà temporali; Bellarmino, la cui fedeltà alla Santa Sede era intensa e autentica, ne fu profondamente amareggiato.  Tale imminente condanna fu evitata solo per l’improvvisa morte di Sisto V il 27 agosto 1590, a seguito di complicanze di una malattia infettiva, forse malaria. Tale malattia infettiva colpì Roma in quel periodo molto pesantemente causando molti decessi. Anche il pontefice successivo, Urbano VII, morì per la stessa malattia dopo pochi giorni dall’elezione pontificia. Circa “Le controversie” invece il nuovo papa Gregorio XIV fu francamente entusiasta di quest’opera, tanto che concesse ad essa, persino l’onore di una speciale approvazione pontificia.  Quando la missione del cardinale Enrico Caetani era oramai al termine, Bellarmino riprese nuovamente il suo lavoro come insegnante e padre spirituale. Ebbe la consolazione di guidare negli ultimi anni della sua vita san Luigi Gonzaga, che morì appena 23enne al Collegio Romano nel 1591 dopo aver contratto un male per salvare un uomo affetto da peste ed abbandonato per strada. Bellarmino assistette Luigi Gonzaga fino al trapasso; e di lui negli anni successivi egli stesso ne promosse il processo di beatificazione presso la Santa Sede. Si augurò inoltre di poter avere la propria tomba vicino a quella del giovane e grande gesuita; cosa che effettivamente si realizzò.  In questo periodo egli fece parte della commissione finale per la revisione del testo della Vulgata. Questa revisione era stata oggetto di una specifica richiesta del concilio di Trento, per controbattere le tesi protestanti i papi post-tridentini avevano operato per questo compito alacremente, portandolo quasi a realizzazione completa.  Sisto V per quanto non dotato di competenze specifiche in materia biblica, aveva introdotto delle modifiche al Sacro Testo in modo eccessivamente leggero e rapido, con vistosi errori. Per accelerare i tempi aveva comunque fatto stampare questa edizione e in parte la fece distribuire con il proposito di imporne l’uso con una sua bolla.  Tuttavia morì prima della promulgazione ufficiale e i suoi immediati successori procedettero subito a togliere dalla circolazione l’edizione errata. Il problema consisteva nell’introdurre un’edizione più corretta senza però screditare inutilmente il nome di Sisto V. Bellarmino propose che la nuova edizione dovesse portare sempre il nome di Sisto V, con una spiegazione introduttiva secondo la quale, a motivo di alcuni errori tipografici o di altro genere, già papa Sisto aveva deciso che una nuova edizione dovesse essere intrapresa.  La sua dichiarazione, dal momento che non c’era prova contraria, dovette essere considerata come risolutiva, tenendo conto di quanto serio e responsabile egli fosse stimato dai suoi contemporanei.  In tal modo la nuova edizione corretta non poteva essere rifiutata in quanto non macchiava la reputazione dei membri della commissione preposta alla nuova stesura, i quali accolsero il suggerimento di Bellarmino. Lo stesso pontefice Clemente VIII, si trovò pienamente d’accordo con tale risoluzione, e concesse il suo “imprimatur” alla prefazione del Bellarmino nella nuova edizione.  Questa bozza, alla quale quella del Bellarmino fu preferita, è tuttora esistente, allegata alla copia dell’edizione Sistina in cui sono segnate le correzioni della Clementina, e può essere consultata nella Biblioteca Angelica di Roma.  Nel 1592 Bellarmino divenne Rettore del Collegio Romano, incarico che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne Preposito dell’Ordine gesuita per la provincia di Napoli.  Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma dopo la morte nel settembre 1596 del suo consultore teologo pontificio il cardinale gesuita Francisco de Toledo Herrera. Bellarmino fu allora nominato consultore teologo, oltre che “Esaminatore per la nomina dei Vescovi” , “Consultore del Sant’Uffizio” e teologo della sacra Penitenzieria.  Sempre nel 1597 dopo la morte del duca Alfonso II d’Este, non avendo questi eredi e con l’appoggio del re francese Enrico IV, lo Stato della Chiesa rientrò in possesso dei territori del ducato di Ferrara. In tale occasione Bellarmino accompagnò il papa in visita al ducato, nuovo territorio dello Stato della Chiesa.  Nel concistoro del 3 marzo 1599 il papa lo fece cardinale presbitero e il 17 marzo gli consegnò la berretta rossa con il titolo di Santa Maria in Via, indicando la motivazione di questa nomina con le parole: La Chiesa di Dio non ha un soggetto di pari valore nell’ambito della scienza. Si racconta che Bellarmino tentò in tutti i modi di far cambiare idea al papa, non volendo ricevere questa carica, ma il pontefice alla fine glielo impose con la superiore autorità.  Negli anni successivi Bellarmino fu bonariamente descritto come “il gesuita vestito di rosso”, in relazione all’abito cardinalizio che contrastava con la tonaca nera dei gesuiti. Nonostante questa nomina, egli non cambiò il suo austero e sobrio stile di vita e tutte le sue rendite e gli introiti economici conseguenti alla sua nomina e alle sue attività, furono massimamente devolute per i poveri.  Il caso di Giordano Bruno, filosofo e frate domenicano condannato al rogo per eresia, fu un evento che scaturì dalla reazione dura controriformista ai tentativi di modificare i temi della fede religiosa iniziati alcuni decenni prima con la riforma protestante. Il frate domenicano condannato per le sue idee anche dalla chiesa luterana e da quella calvinista, si era fatto promotore di nuove idee religiose e filosofiche che si ponevano in netta antitesi con quella della Chiesa di cui tra l’altro faceva parte integrante. L’istruzione dell’inchiesta e del processo ebbe luogo nel 1593 e la sentenza fu emessa nel 1600: coinvolse Bellarmino dal 1597, da quando cioè fu nominato consultore del Santo Uffizio. Il Bellarmino ebbe alcuni colloqui con il frate domenicano e durante questi, egli tentò di fare abiurare le molte tesi francamente eretiche del frate domenicano, con l’intento di salvargli la vita, poiché la condanna per eresia era inevitabilmente capitale. La lunga durata del processo fu causata dal fatto che Giordano Bruno non ebbe un comportamento lineare nell’ammettere l’eresia delle proprie posizioni. Durante i venti interrogatori a cui Giordano Bruno venne sottoposto, gli inquisitori ricorsero anche alla tortura.  Durante la fase processuale la Congregazione fece esaminare da Bellarmino una dichiarazione di Giordano Bruno su otto proposizioni che gli erano state contestate come eretiche. Il 24 agosto 1599 il cardinale Bellarmino riferì alla Congregazione che, nello scritto, Giordano Bruno aveva ammesso come eretiche sei delle otto proposizioni, mentre sulle altre due la sua posizione non appariva chiara: “videtur aliquid dicere, si melius se declararet”. La completa ammissione avrebbe risparmiato la condanna a morte. Ma alla fine Giordano Bruno preferì mantenere le precedenti posizioni francamente eretiche decidendo di affrontare la condanna a morte. A condanna ormai prossima all’imputato venne concesso di affrontare una morte meno straziante, ma Giordano Bruno preferì affrontare la pena prevista, cioè il rogo, che ebbe luogo a Roma in piazza Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600.  Galilei ebbe due processi presso il Santo Uffizio: uno nel 1616 e l’altro nel 1633. I processi ebbero luogo fondamentalmente poiché la teoria eliocentrica era considerata eretica dai teologi. Infatti, sostenendo che il sole fosse fisso al centro dell’universo si smentivano alcune frasi contenute nella Bibbia dove si cita o che Dio fermò il sole, o che la terra è immobile al centro dell’universo. La dottrina prevalente in quel tempo era infatti che l’infallibilità della bibbia comprendesse anche il significato letterale, e non solo quello simbolico.  Comunque il Galilei non fu mai condannato per eresia, avendo egli obbedito ai precetti del Sant’Uffizio. Ed egli non rinnegò mai la fede cattolica, anzi fino alla sua morte si professò cattolico praticante ottenendo l’indulgenza plenaria in prossimità della sua morte. Era del resto intimo amico con molti cardinali e in particolare con Maffeo Barberini futuro papa Urbano VIII oltre che con lo stesso Bellarmino.  Inoltre a differenza di quanto alcuni pensano, il Galilei non fu mai sottoposto a tortura, e non proferì mai la famosa frase: “Eppur si muove”, che invece gli fu attribuita circa un secolo dopo dal giornalista Giuseppe Baretti nel 1757 a Londra. Anche nel processo contro Galileo Galilei, alcuni storici hanno voluto vedere una partecipazione decisiva del cardinale Bellarmino e su una posizione oscurantista. Bellarmino fu coinvolto solo nel primo processo poiché nel secondo, quando Galilei fu condannato al carcere, egli era già deceduto. Tutti i documenti oggi in nostro possesso dimostrano chiaramente che il cardinale Bellarmino ebbe rapporti molto cordiali se non amichevoli con lo scienziato, sia epistolari che diretti, anche dopo la denuncia di Tommaso Caccini davanti al Santo Uffizio nel 1615. Durante la prima inchiesta su Galilei, nell’anno 1616, si ebbe l’esame presso il Santo Uffizio della teoria eliocentrica e durante tale valutazione fu ascoltato il Galilei stesso che giunse a Roma. Questi ebbe colloqui diretti anche con il papa Paolo V che invitò il cardinale Bellarmino, che faceva parte del Santo Uffizio, sempre in relazione alla frase della Bibbia, ad ammonire il Galilei di non insegnare le due tesi principali sull’eliocentrismo. In tale occasione la teoria eliocentrica copernicana fu condannata dal Santo Uffizio che si espresse in modo definitivo nel marzo 1616. Essa fu condannata come falsa e formalmente eretica, lasciando la possibilità di fare riferimento ad essa come semplice modello matematico.  Il cardinale Bellarmino aveva espresso una posizione aperta, almeno in linea di principio, nei confronti dello scienziato, senza comunque mai rinnegare le decisioni del Santo Uffizio, in particolare non ammettendo eccezioni alla infallibilità della bibbia, nemmeno nel senso letterale della scrittura. Tale posizione è espressa in una lettera inviata il 12 aprile 1615 a padre Paolo Antonio Foscarini, cattolico sostenitore dell’eliocentrismo ed amico di Galilei, nella quale sosteneva di non potere escludere a priori l’attendibilità della teoria eliocentrica, ma rimandando qualsiasi tentativo di proporla come descrizione fisica solo dopo che si avesse avuta la prova concreta e definitiva.  Inoltre poco dopo la condanna dell’eliocentrismo presso il Santo Uffizio del 1616, Galilei stesso chiese ed ottenne un colloquio privato con il cardinale Bellarmino. Il 24 maggio 1616 il cardinale Bellarmino firmò su richiesta dello stesso Galilei, una dichiarazione nella quale si affermava che non gli era stata impartita nessuna penitenza o abiura per aver difeso la tesi eliocentrica ma solo una denuncia all’Indice.  Quel colloquio fu poi ricomposto in modo inventato ad arte e successivamente divulgato, da un grande nemico di Galilei, padre Segneri. In questo verbale apocrifo si diceva che Bellarmino ammoniva Galilei, pena il carcere, di non persistere sulla tesi eliocentrica; cosa niente affatto vera. Questo documento falsificato fu poi utilizzato anni dopo nel secondo processo contro Galilei, ma il cardinale Bellarmino era ormai morto e non poteva più testimoniare in favore di Galilei e smentire la veridicità di tale verbale.  Poco tempo dopo la sua elezione a cardinale, Bellarmino venne nominato, insieme al cardinale e vescovo della Diocesi di Ascoli Girolamo Bernerio domenicano, assistente dei cardinali Ludovico Madruzzo e Pompeo Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”, congregazione istituita nel 1597 dal papa Clemente VIII per ricomporre una controversia sorta tra Tomisti guidati dal domenicano Domingo Bañez e Molinisti a proposito della natura dell’armonia tra grazia efficace e libertà umana. In tale diatriba che si trascinerà per diversi decenni, si contrapponevano gesuiti molinisti e domenicani tomisti. I primi accusavano di eresia calvinista i tomisti, mentre questi ultimi accusavano di eresia pelagiana i molinisti.  Il parere di Bellarmino sin dall’inizio fu che tale questione di natura squisitamente dottrinale non dovesse essere risolta con un intervento autoritativo, ma lasciata ancora alla discussione tra i diversi indirizzi e che ai contendenti di entrambi i campi fosse seriamente proibito di indulgere a censure o condanne dei rispettivi avversari. Pur conciliante, Bellarmino prese però apertamente le difese di un suo discepolo, frate Leonardo Leys gesuita, coinvolto nella diatriba scoppiata all’Università di Lovanio; e in tale occasione scrisse una bozza, “De Controversia Lovaniensi” che indirizzò ai cardinali Mandruzzo e Arrigoni, presidenti della Congregazione “De Auxiliis Divinae Gratiae”. In questa disputa Bellarmino si confrontò tramite altri scritti con un famoso teologo spagnolo dell’Università di Salamanca, padre Domingo Bañez a sua volta direttamente in disputa con il padre gesuita Luis Molina. Clemente VIII all’inizio si mostrò propenso ad accettare questa idea conciliante di Bellarmino, ma successivamente cambiò idea, e decise di dare una più precisa definizione dottrinale in favore della tesi tomista. La Congregazione “De Auxiliis” condannò quindi le tesi di Luis Molina come eretiche. La presenza del cardinale Bellarmino nella Curia Romana in tal senso, forse divenne imbarazzante, ed egli probabilmente anche per tale motivo lo nominò il 18 marzo 1602 arcivescovo di Capua, sede resasi proprio allora vacante.  Clemente VIII volle comunque consacrarlo con le sue mani, un onore che abitualmente i papi concedono come segno di stima speciale. Il nuovo arcivescovo partì subito per la sua sede, e si distinse degnamente nel suo ministero.  Nel marzo 1605 Clemente VIII morì e gli succedette prima Leone XI che regnò solo ventisei giorni, e poi Paolo V. Nel primo e nel secondo conclave, ma soprattutto in quest’ultimo, il nome di Roberto Bellarmino fu spesso dinanzi alle intenzioni degli elettori, specialmente a motivo delle afflizioni subite, ma il fatto che fosse un gesuita costituì un impedimento secondo il giudizio di molti cardinali. Racconta Ludwig Von Pastor, storico vaticanista, che nei primi giorni del secondo conclave del 1605 un gruppo di cardinali tra i quali Baronio, Sfondrati, D’Acquaviva, Farnese, Sforza e Piatti si adoperarono per far eleggere il cardinale gesuita Bellarmino; ma questi era contrario tanto che saputo della sua candidatura rispose che avrebbe volentieri rinunciato anche al titolo cardinalizio; invece il suo appoggio durante il conclave fu rivolto verso il cardinal Baronio con il quale condivideva una reciproca stima ed una sincera amicizia. Del resto si accertò in seguito che il re spagnolo Filippo II aveva espresso un vero e proprio veto nei confronti di entrambi i cardinali Baronio e Bellarmino, ritenuti troppo intransigenti e quindi poco inclini a favorire qualsiasi parte politica. In conclave si trovò poi l’accordo sul cardinale Camillo Borghese.  Il nuovo papa Paolo V, eletto quindi con l’accordo delle maggiori potenze cattoliche, insistette nel tenere Bellarmino con sé a Roma, e il cardinale chiese che almeno egli fosse esonerato dal ministero episcopale, le cui responsabilità egli non era più in grado di adempiere. Fu nominato allora, membro del Santo Uffizio e di diverse congregazioni, e successivamente consigliere principale della Santa Sede nel settore teologico della sua amministrazione.  La disputa “De Auxiliis”, che alla fine Clemente non aveva avuto modo di portare a termine, fu conclusa con una decisione che ricalcò le linee dell’originaria proposta di Bellarmino.  Il 1604 segnò l’inizio della contesa tra la Santa Sede e la Repubblica di Venezia, che senza consultare il Papa e versando in cattive condizioni finanziarie, aveva abrogato la legge di esenzione del clero dalla giurisdizione civile e tolto alla Chiesa il diritto di possedere beni immobili. La disputa portò ad una guerra di libelli durante la quale le difese della parte repubblicana furono sostenute da Giovanni Marsilio e dal frate servita Paolo Sarpi, che si erano posti in netto contrasto con la Chiesa cattolica. In questa disputazione la Santa Sede fu difesa nobilmente dal cardinal Bellarmino e dal cardinal Baronio. A tal proposito alcuni contemporanei descrivono chiaramente l’atteggiamento di profonda e non celata stima che Bellarmino aveva per il frate servita, nonostante la netta contrapposizione.  Contemporaneamente alle dispute con la Repubblica Veneziana, ci furono quelle concernenti il Giuramento inglese di lealtà. Nel 1606, in aggiunta alle vessazioni già imposte ai cattolici inglesi dai monarchi inglesi, fu chiesto, sotto pena di prœmunire, di prestare un giuramento di fedeltà abilmente formulato con tale astuzia che un cattolico, nel rifiutarlo, sarebbe potuto apparire come un cittadino che si sottraeva ai suoi doveri civili e quindi perseguibile, mentre, se lo avesse effettuato, avrebbe non solo rifiutato ma persino condannato come empio ed eretico l’insegnamento sul potere di deporre, ossia, del potere di deporre un sovrano che, giustamente o erroneamente, la Santa Sede aveva rivendicato ed esercitato per secoli con la piena approvazione della cristianità, e che, anche in quel periodo, la stragrande maggioranza dei teologi continuava a sostenere. Poiché la Santa Sede aveva proibito ai cattolici di prestare questo giuramento, il re inglese Giacomo I d’Inghilterra, divenuto re dopo la morte di Elisabetta I ed essendo re di Scozia, di fede protestante, scrisse la difesa di tale giuramento in un libro intitolato Tripoli nodo triplex cuneus; Bellarmino replicò al monarca con il suo Responsio Matthei Torti.  Altri trattati seguirono dall’uno e dall’altro campo, e risultato di uno di essi, fu lo scritto a confutazione del potere di deporre i sovrani da parte di William Barclay, famoso giurista scozzese, residente in Francia, al quale si contrappose la replica di Bellarmino. Le confutazioni del giurista scozzese furono poi utilizzate dal Parlamento parigino, di orientamento regalista.  La conseguenza fu che, a seguito della dottrina della via media del potere indiretto di deporre i sovrani, Bellarmino fu condannato nel 1590 come troppo incline alle posizioni regaliste e nel 1605 come eccessivamente papista. Tali posizioni antiregaliste di Bellarmino si rifletteranno nei secoli successivi sulla sua causa di beatificazione. Altro argomento di contrapposizione fu, proprio agli inizi del Seicento, la diffusione in Francia del gallicanesimo. In sostanza si verificò nella Chiesa francese un progressivo distacco dall’autorità centrale della Santa Sede, con profusioni di scritti e opere teologiche che appunto portavano ragioni per tale distacco. Si giunse a non riconoscere nella figura del papa la massima autorità teologica, con un contemporaneo riconoscimento della grande autorità del re anche sulla chiesa stessa.  Anche in questa disputa si inserì l’opera di Bellarmino, che nel 1610, in risposta alle tesi del gallicanesimo, scrisse Tractatus De Potestate Summi Ponteficis in rebus temporalibus, nel quale si esponevano chiaramente i motivi della supremazia dell’autorità papale su quella monarchica.  Negli ultimi anni il cardinale Roberto Bellarmino continuò il suo austero modo di vivere che aveva sempre praticato, dedicando molto del suo tempo alla preghiera e ai digiuni, nonostante la sua salute piuttosto precaria. Continuò a fare molte elemosine ai poveri, ai quali lasciò praticamente tutti i suoi averi, tanto che fu sempre molto amato dai romani; contribuì a far concedere l’approvazione pontificia alla fondazione del nuovo Ordine della Visitazione di San Francesco di Sales; si impegnò per la beatificazione di San Filippo Neri; inoltre portò a termine la stesura di un “grande catechismo” e di un “piccolo catechismo”, quest’ultimo in particolare ebbe notevole successo e fu ampiamente utilizzato fino a tutto il XIX secolo; infine compose un piccolo e anch’esso famoso testo “De arte bene moriendi” oltre che una sua “Autobiografia”. Fu nominato Camerlengo del Sacro Collegio dal 9 gennaio 1617 all’8 gennaio 1618. Successivamente fu Prefetto della Sacra Congregazione dei Riti e poi della Sacra Congregazione dell’Indice.  Egli visse ancora per assistere ad un altro conclave, quello che elesse Gregorio XV nel febbraio 1621. La sua salute stava rapidamente declinando e nell’estate dello stesso anno gli fu permesso di ritirarsi a Sant’Andrea al Quirinale, sede del noviziato dei gesuiti, per prepararsi al trapasso. Qui spirò il 17 settembre 1621 tra le ore 6 e le 7 del mattino.
    [9] La vita di Tolstoj fu lunga e tragica, nell’accezione più vera del termine, ossia nel senso che essa fu dominata da una profonda, segreta tensione: la si potrebbe definire una tragedia dell’anima Tolstoj ebbe un’incessante, tormentosa evoluzione interiore, lottò con se stesso e con il mondo, e questa lotta, talora impetuosa, alimentò senza sosta l’impulso creativo.  Lev Nikolaevič Tolstoj nasce il 28 agosto 1828 nella tenuta Jasnaja Poljana nel distretto di Ščëkino (governatorato di Tula). I genitori sono d’antica nobiltà: la madre, di cinque anni maggiore del marito, è la principessa Marja Nikolàevna Volkonskaja (Jasnaja Poljana era la sua dote di matrimonio), mentre il padre Nikolàj Il’ìč è discendente di Pëtr Andreevič Tolstoj, che aveva ottenuto il titolo di conte da Pietro il Grande.[5] La madre, di cui Lev non conserverà alcun ricordo, muore quando egli ha appena due anni. Dopo qualche anno gli muore anche il padre (corse voce che l’avessero avvelenato i suoi due servi prediletti; Lev lo ricorderà come mite e indulgente)[5] lasciandolo precocemente orfano. Fu così allevato da alcune zie molto religiose e da due precettori, un francese e un tedesco, che diventeranno poi personaggi del racconto Infanzia.  Nel 1844 si iscrive all’università di Kazan’ (nell’attuale Tatarstan), prima alla facoltà di filosofia (sezione di studi orientali, dove supera gli esami di arabo e turco), poi, l’anno dopo, a quella di giurisprudenza, ma per via dello scarso profitto non riuscirà mai ad ottenere la laurea; provvede quindi da solo alla propria istruzione, ma questa formazione da autodidatta gli provocherà spesso un senso di disagio in società.[5] La giovinezza dello scrittore è disordinata, tempestosa: a Kazan passa le serate tra feste e spettacoli, perdendo grosse somme al gioco d’azzardo (circa dieci anni dopo, a Baden-Baden, perderà ancora rovinosamente al gioco e lo salverà l’amico Turgenev concedendogli un prestito) ma intanto legge molto, soprattutto filosofi e moralisti.[5] Particolare influenza ha su di lui Jean-Jacques Rousseau. Non a caso, l’opera della conversione di Tolstoj, scritta trent’anni dopo, si intitolerà appunto – similmente all’autobiografia roussonianaLa confessione (1882). Autori come Rousseau, Sterne, Puskin, Gogol insegnano allo scrittore in erba un principio fondamentale: in letteratura sono importanti soprattutto la sincerità e la verità. Proprio sotto questi influssi nascono le opere letterarie di Tolstoj: nel 1851 avviene la prima redazione del racconto Infanzia (che uscirà sulla rivista di Nekrasov Il Contemporaneo nel 1852, firmato con le sole iniziali)[5] e la stesura di un altro racconto, incompiuto, Storia della giornata di ieri. Lo scopo di quest’ultimo, secondo le parole dell’autore, era estremamente semplice ed insieme complicatissimo, quasi irrealizzabile: «descrivere una giornata, con tutte le impressioni e i pensieri che la riempiono». Da questo germe si può già intravedere lo sviluppo della possente pianta: tendenza all’introspezione e alla vita reale. Tolstoj resterà fino alla fine un incrollabile realista. L’immaginazione slegata dalla realtà è quasi inesistente nei suoi libri. L’unica possibilità di utilizzare la fantasia consiste nell’elaborazione di qualche particolare, di qualche sfumatura che appartiene però ad un oggetto assolutamente reale. Anche il successivo racconto, pubblicato sempre sul Contemporaneo, è ispirato a criteri di verità quasi naturalistici: L’incursione (1853), che nasce dal ricordo di un’autentica scorribanda compiuta da un battaglione russo in un villaggio caucasico. Tra il 1851 e il 1853 Tolstoj, seguendo il fratello maggiore Nikolaj, partecipa alla guerra nel Caucaso, prima come volontario, poi come ufficiale d’artiglieria. Nel 1853 scoppia la guerra russo-turca e – dietro sua richiesta – Tolstoj viene trasferito in Crimea, a Sebastopoli, dove si combatte sul famoso quarto bastione.[5] Qui conduce la vita del soldato, combatte coraggiosamente, affronta rischi d’ogni sorta, osserva tutto con attenzione, guarda in faccia il pericolo, e tuttavia gli avvenimenti più tragici avvengono dentro di lui: si sente inquieto, costantemente in bilico tra la vita e la morte, ma col desiderio di dedicare la propria esistenza a nobili ideali. Nel Diario del 1854 – anno in cui pubblica Adolescenza (Отрочество [Otročestvo]) – annota: «La cosa più importante per me è liberarmi dai miei difetti: la pigrizia, la mancanza di carattere, l’irascibilità». Nel marzo del 1855 decide finalmente riguardo al proprio destino: «La carriera militare non fa per me, e prima me ne tirerò fuori, per dedicarmi totalmente alla letteratura, tanto meio sarà»[7]. La guerra di Crimea – cruenta e rovinosa per l’esercito russo – lascia un solco profondo nel giovane Tolstoj e gli offre, d’altra parte, abbondante materiale per una serie di racconti: il ciclo dei tre Racconti di Sebastopoli (Севастопольские рассказы [Sevastolpol’skie Rasskazi], 1855) e poi Il taglio del bosco (1855), La tempesta di neve (1856) e I due ussari (1856). Ispirate alle violenze della guerra, queste opere sconvolgono la società russa per la spietata verità e l’assenza di qualsiasi forma di romanticismo guerriero o di patriottismo sentimentale. Nessuno prima di lui ha descritto la guerra in quel modo: è una voce nuova nell’epoca d’oro della letteratura russa. Nel gennaio del 1856, Fëdor Dostoevskij scrive dalla Siberia ad un corrispondente, parlando di Tolstoj: «mi piace molto, ma secondo me non scriverà molto (ma del resto, chissà, forse mi sbaglio)»[11]. La censura esita ad autorizzare la pubblicazione dei tre Racconti di Sebastopoli: cerca di vietare il secondo «per l’atteggiamento derisorio nei confronti dei nostri coraggiosi ufficiali», ma alla fine lascia correre, pur imponendo tagli e modifiche. Nel 1856 vengono raccolti in un unico volume con il titolo Racconti di Guerra. Nel 1856 Tolstoj assiste il fratello Dmitrij, che muore di tisi. Si interessa poi per migliorare le condizioni dei contadini di Jasnaja Poljana, ma questi sono diffidenti e rifiutano le sue proposte, come accade al protagonista de La mattinata di un proprietario terriero, racconto che Tolstoj pubblica in quell’anno,[5] e come accadrà anche al protagonista di Resurrezione, romanzo di molti anni più tardi, di ispirazione parzialmente autobiografica. Si apre per Tolstoj un periodo ricco di riflessioni, con ricerche, viaggi, un crescente interesse per l’istruzione popolare e l’attività di giudice di pace nelle contese tra proprietari e contadini – proprio a cavallo dell’abolizione della servitù della gleba (1861) – che stimolano in lui lo svilupparsi di una particolare sensibilità verso le ingiustizie sociali.[12] Sul versante della produzione letteraria, nei nove anni che vanno dai Racconti di guerra alla prima parte della grandiosa epopea Guerra e pace (1865), lo scrittore pubblica diversi altri racconti: Giovinezza (Юность [Junost’], 1857, ultimo della trilogia comprendente Infanzia e Adolescenza), Tre morti (1858), Al’bèrt (1858), Felicità familiare (1859), Idillio (1861) e Polikuška (ПоликушкаIl 1863 è anche l’anno di pubblicazione de I cosacchi (Казаки [Kazaki]) – opera ispirata ai ricordi del Caucaso e lungamente rielaborata nel corso di un decennio – in cui sono evidenti gli echi della lettura rousseauiana ed in cui si esprime, con entusiasmo, la nostalgia per la vita a contatto con la natura, semplice e felice. Intanto, lo scrittore viaggia per l’Europa, dove ha modo di conoscere Proudhon, Herzen, Dickens. Ma, non di meno, lo angoscia la vita russa, specialmente quella dei contadini. In questi anni comincia così a manifestarsi, in maniera sempre più evidente, una caratteristica fondamentale della personalità tolstoiana: l’insoddisfazione di sé stesso, della propria esistenza, della propria opera. Come Olenin – l’eroe dei Cosacchi, che rifiuta la società falsa ed ipocrita per rifugiarsi nel Caucaso – anche Tolstoj, all’inizio degli anni sessanta, decide di abbandonare gli impegni mondani, compresi quelli letterari, per rifugiarsi nella propria tenuta, con l’intento di dedicarsi – nella scuola da lui stesso fondata – all’istruzione dei bambini del villaggio. Il 23 settembre 1862, dopo appena una settimana di fidanzamento, sposa la diciottenne Sof’ja Andrèevna, seconda delle tre figlie del medico di corte Bers. Lo scrittore, non volendole nascondere nulla, le fa leggere, alla vigilia delle nozze, i suoi diari intimi. La madre di Sof’ja, Ljubòv’ Islàvina, era stata amica d’infanzia di Tolstoj.[5] Avranno tredici figli, cinque dei quali morti in età precoce:[15] 
    [10] Evagrio Pontico, in (latino: Evagrius Ponticus, in greco: Εὐάγριος ὁ Ποντικός) (Ibera nel Ponto, 346Egitto, 399), è stato un monaco e scrittore ecclesiastico turco, appartenente alla cerchia dei Cappadoci. Rielaborò in modo autonomo il patrimonio di idee mistiche di Gregorio di Nissa, formulando la terminologia dell’ascetica e della mistica greca in uso fino al medioevo.  Ordinato lettore da Basilio il Grande e diacono da Gregorio Nazianzeno visse una sconvolgente vicenda amorosa. Dapprima si ritirò a Gerusalemme presso Rufino poi si trasferì nel deserto egiziano di Nitria, presso San Macario, dove condusse una intensa vita di preghiera di studio e di penitenza fino alla morte.  Evagrio scrisse molto, quasi sempre in forma di aforismi e sentenze sull’esempio della letteratura filosofica. Prese l’abitudine di riunire le sue sentenze in gruppi di cento, le Centurie appunto, inaugurando così un tipo di composizione che avrà lunga vita nella tradizione bizantina. Le sue opere coinvolte nella condanna contro Origene sono andate in massima parte perdute nell’originale greco. Alcune sono pervenute in traduzione siriaca e armena.  L’opera principale di Evagrio si intitola “Problemi gnostici” ed è composta di sei centurie. In essa risulta evidente l’origenismo di questo pensatore che ripropone i temi fondamentali della cosmologia e dell’ antropologia di Origene.  La dottrina di Evagrio afferma la preesistenza delle anime, ossia delle creature razionali, rispetto ai corpi. Concepisce il susseguirsi di più mondi, la loro distruzione e rigenerazione insieme a tutte le creature razionali. Afferma inoltre, la distruzione dei corpi di cui erano state fornite le creature razionali in conseguenza del peccato. Tutte queste teorie furono condannate dal V Concilio ecumenico.  A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.  
    [11] Nacque a Arianzo, cittadina presso Nazianzo, attuale Güzelyurt in Cappadocia. Figlio di Gregorio e Nonna. Il padre, che era ebreo della setta degli Hypsistiani, fu convertito dalla moglie al cristianesimo e divenne vescovo di Nazianzo. Il fratello Cesario (†;368) fu dottore presso la corte dell’Imperatore Giuliano e governatore di Bitinia. Gregorio, nato qualche anno dopo il concilio di Nicea nel quale si condannò l’eresia ariana, fu fortemente condizionato per tutta la vita dalle lotte che si scatenarono attorno alla definizione della vera natura della Trinità. Studiò prima a Cesarea in Cappadocia, dove conobbe e divenne amico di Basilio, poi a Cesarea in Palestina e ad Alessandria presso il Didaskaleion, infine, tra il 350 e il 358, ad Atene, sotto Imerio; qui conobbe il futuro imperatore Giuliano. Raggiunse poi l’amico Basilio nel monastero di Annisoi, nel Ponto. Ma abbandonò presto questa esperienza per tornare a casa, dove sperava di condurre una vita ancora più ritirata e contemplativa. Nel 361 fu ordinato sacerdote suo malgrado, dal padre, Vescovo di Nazianzo. Dapprima reagì fuggendo, ma poi accettò di buon grado la decisione paterna. “Mi piegò con la forza”, ricorderà nella sua autobiografia. Nel 372 l’amico Basilio, allora Vescovo di Cesarea, costretto dalla politica ariana dell’Imperatore Flavio Valente a moltiplicare il numero delle diocesi sotto la sua giurisdizione per sottrarle all’influenza ariana, lo nominò vescovo di Sasima. Gregorio non raggiunse mai la sua sede vescovile in quanto solo con le armi in pugno sarebbe potuto entrarvi. Morto il padre, tornò a Nazianzo, dove diresse la comunità cristiana. Nel 379, salito al trono Teodosio I, Gregorio fu chiamato a dirigere la piccola comunità cristiana che a Costantinopoli era rimasta fedele a Nicea. Nella capitale dei cristiani di Oriente pronunciò i cinque discorsi che gli meritarono l’appellativo di “Teologo”. Fu lui stesso a precisare che la “Teologia” non è “tecnologia”, essa non è un’argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera e da un dialogo assiduo con il Signore. Nel 380 Teodosio lo insediò vescovo di Costantinopoli e lo fece riconoscere come tale dal II Concilio Ecumenico nel maggio del 381. Le discussioni conciliari furono quanto mai accese e lo stesso Gregorio fu accusato di occupare illegittimamente, in quanto vescovo di Sasima, la sede di Costantinopoli. infine, confessandosi incapace di mediare tra le opposte fazioni, abbandonò il concilio nel giugno del 381.  Nell’autunno del 382 divenne vescovo di Nazianzo per poi, dopo un anno, ritirarsi in solitudine ad Arianzo, dove morì nel 390.
  • 19 Apr

    L’AMORE DIVINO E L’AMORE UMANO

    A. La perfezione consiste nella carità

    La collaborazione tra Dio e l’uomo traspare, in maniera migliore, in quella virtù che può essere considerata il compendio di tutte le altre: la carità. È il più grande comandamento (cfr Mt 22,38). Certo la carità è dono, ma proprio questo richiede da parte dell’uomo la disponibilità a riceverlo.

    Carità è disponibilità a dare la propria vita. I martiri furono venerati dalla chiesa a tal motivo. Sant’Ireneo scrisse contro gli gnostici che “credevano di essere perfetti a causa della loro migliore conoscenza”. Non è la scienza che conduce alla salvezza, ma l’amore. Senza la carità anche l’ascesi più pura sarebbe inutile.

    San Paolo nel cap. 13 della prima lettera ai Corinti, lo ricorda espressamente ad una comunità più che altro alla ricerca di esperienze sensazionali e fuori della norma.

    Quando Teodoreto di Ciro[1] scrisse nella sua “Storia dei monaci di Siria”, descrivendo le prodezze ascetiche (es. di Simone lo stilita), nell’ultimo capitolo si premura di dire dove sta il valore di queste terribili penitenze: solo l’amore dava loro significato e valore, nulla più.

    B. In che cosa consiste la carità: eros e agape

    Cosa è la carità? Scrive san Giovanni Climaco: “Chi parla della carità, parla di Dio stesso. È opera difficile e rischiosa per chi non valuta bene i termini. Parlare della carità è opera degli angeli e, anche per essi, è più o meno difficile a seconda del grado di illuminazione ricevuta. Dio è carità (cfr 1Gv 4,16). Chi volesse con le parole esporre la profondità di questa rivelazione, rassomiglierebbe ad un cieco che, stando su una nave, volesse misurare sino a che limite si stende la sabbia del mare”.

    La storia del termine “amore” è illuminante. Nelle lingue moderne esso è unico e si presta perciò a diverse ambiguità, ma nel greco biblico troviamo sin dall’inizio due termini ben distinti: eros e agape.

    Troviamo tre diverse angolature dal punto di vista filosofico e teologico:

    –       il primo principio, che Aristotele considera come evidente, suona in modo pessimistico al nostro orecchio: Dio non può amare gli uomini, il mondo perché non rientra nel suo sé divino. Siccome amiamo ciò di cui abbiamo bisogno, siccome Dio non ha bisogno di nulla allora non può amarci.

    –       Il secondo principio, esplicitato da Platone nel suo “Simposio” si presenta più accettabile: l’uomo non può vivere senza amare Dio. Abbiamo bisogno delle cose materiali, ma molto più, con tutto il nostro cuore, desideriamo la bellezza, la verità, il bene. La pienezza di questi valori è soltanto in Dio e perciò amiamo Dio.

    –       Il terzo principio ne è la conseguenza: la felicità dell’uomo non è nell’amore, ma nella autosufficienza (autarcheia). Chi desidera qualche cosa confessa che non la possiede. Non possiamo quindi essere felici con ciò che non abbiamo. L’amore dunque testimonia una certa povertà. Nella mitologia il dio Eros nacque dalla madre Penia (indigenza).

    Contro queste tre tesi della filosofia greca si collocano tre affermazioni della rivelazione cristiana:

    –       Dio è agape (amore gratuito: cfr 1Gv 4,16)

    –       Ogni amore viene da Dio e non dal solo desiderio dell’uomo

    –       La perfezione consiste nella carità, da cui deriva la felicità.

    Come mai questa divergenza di posizioni?

    In greco il termine eros significa amore di desiderio motivato da una mancanza. È evidente che Dio non può avere questo tipo di amore. Perciò i testi biblici usano un’altra parola: agape. Il verbo agapao significa avere la mente tranquilla, contenta. E contento è chi non desidera altro. Anzi diventa capace di rendere contenti altri. Così è Dio: egli è gratuità d’amore talmente sovrabbondante da essere donato alle creature. Agostino afferma che Dio ha creato il mondo non perché ne avesse il bisogno, ma poter spargere su di esso il suo amore. È lui perciò per primo che ci ha amati, il nostro amore per lui è sempre in seconda (1Gv 4,10).

    Un testo di A. Nygren ci può illuminare: Eros è desiderio, aspirazione e tensione verso l’altro. Agape è sacrificio, abbassamento e donazione per l’altro. Eros è la via dell’uomo a Dio, Agape è la via di Dio verso l’uomo. Eros è conquista dell’uomo. Agape è grazia. Eros è auto-affermazione egocentrica, gloriosa, nobile. Agape è amore disinteressato e dono di sé. Eros è determinato dalla bellezza dell’oggetto amato. Agape amare e cerca il valore dell’oggetto amato.

    Noi in genere amiamo di un amore-eros, ovvero di desiderio. Siamo irrequieti, desideriamo, cercando di appagare la nostra inquietudine. Ma essa si appaga solo in Dio! Quando si scopre l’amore di Dio lo si vorrebbe ricambiare. Ma come? Siamo così deboli e poveri! Caterina da Siena[2] era afflitta da questo fatto. Ella ammiarva il fatto che Dio la amasse senza chiedere nulla. Però non lo poteva amare senza sdebitarsi. Perciò un giorno nel parlò con Gesù stesso. Egli sorrise e le disse: “A ma non puoi dare niente, ma puoi servire il tuo prossimo. Ti è impossibile amarmi senza ricambiare? Ti ho messo accanto il tuo prossimo e ciò che tu farai a lui, lo prenderò come se fosse fatto a me”. Questo è il frutto dell’agape di Dio per noi (cfr Gv 13,35)!

    Amore di Dio e del prossimo non sono due amori contraddittori. Nell’uomo veramente spirituale crescono entrambi contemporaneamente. Quanto più uno desidera Dio, tanto più riceve da lui e, di conseguenza, tanto più può donare al prossimo. E la pratica della carità fraterna aumenta di nuovo il desiderio di Dio. Si uniscono, quindi, il più prezioso dono di Dio che è la carità, insieme alla nostra collaborazione.

    Il teologo riformato D. Bonhoeffer scriveva: («Lettera a Renata ed Eberhard Bethge): Il rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell’esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l’amore terrestre ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, attorno al quale le altre voci della vita cantino in contrappunto […] Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore […] Vorrei pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita il cantus firmus e solo allora ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene.

    C. Amare Dio

    L’amore di Dio e del prossimo sono dunque inseparabili. La scrittura ci da tuttavia una modalità diversa: amare Dio “sopra ogni cosa”, e il prossimo “come se stessi”.

    Per Dio vi è un amore “abituale”. “Abitualmente” ama dio colui che, anche se non pensandoci espressamente, non fa nulla che sia essenzialmente contro l’amore di Dio, non commettendo peccati gravi. E’ ciò che fa la maggioranza dei battezzati. In modo “attuale” ama Dio colui che serve Dio consapevolmente: uno stato che sarà perfetto in paradiso. L’obiettivo qui in terra sta nel desiderare e operare perché tutto si faccia “a maggior gloria di Dio”.

    Significa dare “la precedenza” sempre a Dio. La regolazione del traffico stradale esige che si dia la precedenza a chi viene da destra. Nel senso metaforico, possiamo dire che Dio entra nella nostra vita sempre “da destra” e che le sue leggi seguono sempre la strada principale. Hanno quindi la precedenza davanti a tutti gli altri interessi anche se avessimo fretta di andare altrove. Nella vita spirituale il pegno per la sicurezza è il rispetto assoluto degli interessi di Dio.

    I santi null’altro desiderio portavano nel cuore. Il santo curato d’Ars pregava: Ti amo, mio Dio! Mio solo desiderio è amarti fino all’ultimo respiro. Ti amo, Signore! La sola grazia che ti chiedo è amarti in eterno. Mio Dio se la lingua non può dirti in ogni momento
    che ti amo te lo ripeta il cuore ad ogni mio respiro. Ti amo, divin Salvatore, perché sei stato crocifisso per me;ti amo, Dio perché mi tieni crocifisso per te. Mio Dio, appressandomi alla fine, fammi una grazia: aumenta il mio amore.(
    St. Jean Marie Vianney [3]1786-1859).

    D. L’amore di Dio come eros e agape

    Quindi “eros” è cercare il proprio bene, “agape” è desiderare il bene dell’altro. San Basilio[4] tratta dell’amore di Dio all’inizio delle sue “regole maggiori”. Il precetto dell’amore di Dio (cfr Mt 22,37), sembra di fatto difficile da ottemperare. Eppure esso è il più naturale di tutti gli altri. La scrittura esprime con le parole la voce del nostro cuore. Infatti non abbiamo bisogno di una legge che ci ordini di amare la bellezza della natura, le stelle, la luce, i colori. Dio è più bello di tutto ciò che esiste. Basta rendersene conto, per amarlo più delle altre cose. In modo analogo alla bellezza ci attira anche il bene. Amiamo gli uomini buoni. Dio è più buono di tutti. Naturalmente ci sentiamo obbligati da sentimenti di gratitudine. San Basilio enumera tre motivi per amare Dio: il desiderio della bellezza, quello del bene e la gratitudine. Aggiunge però un altro motivo. Immaginiamo – dice – di essere presenti al giudizio finale e che fra i dannati mi trovi io stesso. In quel momento il diavolo, davanti a Gesù, mostrando me con il dito, ride: “Ecco quel Basilio!”. Si vanterà del fatto che, pur non avendomi creato e redento, io ho seguito lui anziché Cristo. Basilio ci assicura che si sarebbe pentito meno della sua dannazione eterna che dell’offesa fatta a Cristo: non avrebbe potuto sopportarla. Il pensiero appare chiaro: è possibile amare Cristo come tale, non soltanto perché egli si mostra buono ai miei occhi! È possibile che l’uomo dimentichi se stesso, come a dire: “Non m’importa della mia persona; la cosa principale è che Dio e la sua gloria non soffrano alcun male”.

    Nel catechismo si insegna che l’amore perfetto ama Dio per Dio stesso. È possibile? La risposta è: soltanto a chi è dato. Un tale amore è dono della grazia, dello Spirito Santo. È Dio che ama se stesso per mezzo del nostro cuore. Un uomo così è riconciliato con Dio. Un tale amore che è “agape” equivale: da Dio è uscito e a Dio ritorna (cfr Rm 5,5).

    E.  Dammi il tuo cuore!

    Il cuore è il centro della nostra vita e della nostra attività. L’uomo è quale è il suo cuore. E’ nel cuore che ha sede l’amore. Paul Claudel[5] scrive: Il Maestro dice: Dammi il tuo cuore! (pr 23,26). Ciò significa: Figlio, dammi ciò che rappresenta il tuo centro, la tua origine, il principio regnante della tua vita, il tuo ritmo sensitivo, emozionale, ragionevole, la sorgente della tua vita”. Il profeta dichiara: “Ho trovato il mio cuore. Che scoperta! Il proprio cuore, niente di meno che il cuore! Il nodo della personalità..Qualche cosa che si può paragonare al roveto ardente, al roveto che brucia e non si consuma!”.

    Il termine “cuore” nella teologia spirituale assume diverse connotazioni, e viene espresso attraverso molteplici altre accezioni: mente, coscienza… In ogni caso con il termine cuore vogliamo certamente una realtà estremamente profonda che è molto più del solo intelletto, volontà e emozionalità. Il cuore esprime l’uomo intero, indiviso.

    Il mistico tedesco Mastro Eckhart [6]dice: “Dio è verità, perciò è conoscibile per mezzo dell’intelletto. Dio è attività e lo conosciamo se lo imitiamo con le nostre azioni. Ma Dio è, in primo luogo “quello che è” (Es 3,14), perciò bisogna unirsi a lui con tutto l’essere, con tutte le forze e facoltà: questo significa amarlo con tutta l’anima, con tutto il cuore, con tutta la mente!”.

    Nella spiritualità orientale si predilige sottolineare del cuore l’aspetto emozionale, il sentimento per cui si afferma che “la religione è affare non dell’intelletto, ma del sentimento”, la vera preghiera non è “nella testa ma nel cuore”. Per Teofane il recluso il cuore diventa il “barometro della vita spirituale”. Ma questo sentimento non è da confondere con il sentimentalismo la da identificare con quello che i padri definiscono come “senso spirituale”: si tratta della voce della coscienza, dell’intuizione della verità e della realtà, del fine e del senso dell’esistenza.

    D’altra parte anche la filosofia scolastica distingue la doppia coscienza: discorsiva e intuitiva. La prima riflette, elabora i concetti, cerca le argomentazioni. L’intuizione al contrario è una conoscenza immediata, chiara come una visione. La nostra coscienza intuisce subito ad esempio ciò che è bene o male. Si tratta di una conoscenza che talvolta non riusciamo a giustificare. Blaise Pascal[7] lo afferma chiaramente: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Generalmente gli spirituali acquisiscono un tipo di coscienza intuitiva delle cose divine, del bene, del senso della vita. D’altra parte san Tommaso afferma che “quale è l’uomo, così egli conosce”. Questa sensibilità per i valori spirituali costituisce, secondo Teofane il recluso “il primo segno della rivivificazione dell’anima dopo il torpore del peccato”. Non per nulla allora il mistico Eckhart scrive: “Dio sta davanti alla porta del cuore, e resta lì e aspetta ansiosamente… aspetta con più impazienza di te. Egli aspira a te mille volte più ardentemente di quanto tu aspiri a lui”.

    F.  La coscienza

    Se in oriente si predilige parlare di “cuore”, in occidente si preferisce usare il termine “coscienza”. Questa viene definita come “giudizio interiore sulla moralità di un’azione concreta”. Kant parlava della “legge morale dentro di me”.

    La coscienza è, quindi, la prima e fondamentale norma della moralità. Le leggi scritte sono generali, espresse in termini astratti. Al contrario, il giudizio della coscienza si porta sugli atti concreti, visti nel loro contesto vitale, in relazione alla propria persona, alle prorpie conoscenze, capacità e possibilità. La coscienza è insostituibile e vivere moralmente significa imparare ad ascoltare questa voce interiore.

    Ma la coscienza può essere errata. Origene[8] dice che la coscienza rassomiglia ai pozzi dell’acqua viva nel deserto scavati da Giacobbe e che, purtroppo, i Filistei inquinarono con la sabbia (cfr Gn 26,15). Per poterla bere bisogna purificarla. Per tale scopo Dio ci ha dato la Legge, ha mandato i profeti, infine il suo stesso Figlio e lo Spirito santo. Questo aiuto non serve a “sostituire” la coscienza con l’obbedienza esteriore. L’obbedienza al contrario, serve a purificare la voce della coscienza, affinché essa diventi di nuovo autentica, limpida.

    Non si deve mai opporre legge e coscienza. Si tratta della stessa voce divina. Il cristiano si lascia guidare dalla propria coscienza, non può fare diversamente, ma nello stesso tempo, permette che sia guidata ed educata anch’essa. In questo senso la direzione spirituale è indispensabile soprattutto nei primi tempi del proprio cammino. Il direttore spirituale tiene il luogo di Dio non per sostituire la voce della coscienza, ma per assicurare la giustezza della sua voce. Scrive san Doroteo di G.[9]: “Abbiamo cura, fratelli, della nostra coscienza, finché siamo qui in terra, è essa che ci giudicherà nel regno futuro”.



    [1] Fu allevato negli ambienti monastici siriani, dove apprese la cultura greca classica e quella cristiana. Probabilmente fu discepolo di San Giovanni Crisostomo e di Teodoro di Mopsuestia. Nel 423 fu eletto vescovo di Ciro, una cittadina presso Antiochia, e subito si mise all’opera per estirpare le eresie che circolavano nella sua diocesi, soprattutto il marcionismo e l’arianesimo.  Quando nel 430 Cirillo di Alessandria scrisse i suoi dodici (Anatemi) contro Nestorio, Teodoreto prese le difese di quest’ultimo, e, su richiesta di Giovanni di Antiochia, scrisse nel 431 una confutazione degli Anatemi, il cui titolo completo era: Reprehensio duodecim capitum seu anathematismorum Cyrilli (“Confutazione in dodici capitoli o degli anatematismi di Cirillo”), che è andata perduta. Quanto ci è pervenuto lo si deve a Cirillo stesso, che lo cita per esteso nella sua Epistula ad Euoptium adversus impugnationem duodecim capitum a Theodoreto editam (“Lettera ad Euopzio contro l’impugnazione dei dodici capitoli scritta da Teodoreto”). fu condannato dal Concilio di Costantinopoli II nel 553. Teodoreto attaccò duramente sia Cirillo che le decisioni del Concilio in uno scritto, anch’esso andato perduto, dal titolo Pentalogus. Nel 449 venne deposto dalla sua sede episcopale. Scrisse un’apologia del cristianesimo dal titolo Graecorum affectionum curatio (“La cura delle malattie dei greci”), nella quale in dodici discorsi mette a confronto le risposte pagane e quelle cristiane alle fondamentali questioni filosofiche.  Fu inoltre autore di una Storia ecclesiastica, che continua quella di Eusebio di Cesarea dal 323 al 428, e di un trattato sulla Trinità, De sancta et vivifica Trinitate.  Scrisse due opere contro la dottrina monofisita di Eutiche: il Polymorphos e l’Haereticarum fabularum compendium. Teodoreto rifiutò di utilizzare formule teopaschiste, cioè di usare espressioni come “Il Figlio di Dio morì sulla Croce“, e protestò di continuo nei suoi scritti contro ogni forma di teopaschismo. Egli afferma che la risurrezione è soltanto la risurrezione del corpo di Cristo, ma non della sua anima o della sua divinità. Per Teodoreto la morte di Cristo consistette nella separazione dell’anima immortale dal corpo mortale.  La riflessione di Teodoreteo non considera l’unione ipostatica, e le azioni di Cristo sono pensate come frutto di due nature. Le parole physis e hypostasis vengono utilizzate da Teodoreto come sinonimi di umanità, realtà umana, natura umana.

    [2] Caterina nasce nel rione di Fontebranda (oggi Nobile Contrada dell’Oca) come ventiquattresima figlia dei 25 figli di Jacopo Benincasa, tintore, e di Lapa Piagenti (o Piacenti).. La sorella gemella Giovanna (la venticinquesima ed ultima figlia della coppia) vivrà solo pochi mesi.  Nel 1348 Siena e l’Europa sono devastate dall’epidemia di peste che decima la popolazione.  A soli sei anni ebbe una prima visione: vide, nella Basilica di san Domenico a Siena, Gesù Cristo in trono, con i santi Pietro e Paolo. Caterina a sette anni fa voto di verginità. Nello stesso tempo comincia un percorso di mortificazione, fatto di digiuni (soprattutto di carne) e di penitenze. Nella prima fase della sua vita, queste pratiche erano condotte in modo solitario.  Nelle sue opere racconta che verso i dodici anni i genitori, non essendo a conoscenza del suo voto, cominciano a pensare di maritarla. Caterina reagisce anche con il taglio completo dei capelli e chiudendosi in casa con il capo coperto da un velo; per vincere la sua ostinazione, i genitori la costringono ad estenuanti lavori domestici, ottenendo il risultato di rafforzare la sua convinzione interiore. Un giorno il padre la sorprende in preghiera con una colomba aleggiante sul capo. Decide allora di lasciare libera la giovane di scegliere la propria strada.  A sedici anni Caterina entra nel terzo ordine delle Domenicane (o Mantellate, per via del mantello nero sull’abito bianco), pur restando presso la sua abitazione.  Lei stessa racconta di essersi avvicinata alle letture sacre pur essendo semianalfabeta e, dopo giorni di estenuanti e poco fruttuose fatiche, di aver ricevuto dal Signore il dono di sapere leggere. Imparerà più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi scritti e delle sue corrispondenze sono dettate.  Al termine del Carnevale del 1367 racconta che le apparve Gesù con sua Madre e altri santi per sposarla a sé nella fede, avrebbe ricevuto un anello, adorno di rubini, che sarebbe stato visibile soltanto ai suoi occhi; per questo Caterina è iconograficamente rappresentata con l’anello e con un gigli. Caterina non si mostra intimorita al cospetto dei potenti e si rivolge loro da pari a pari.  Verso il 1372 espone al legato pontificio in Italia, Pietro d’Estraing, la necessità di riformare i costumi del clero, di trasferire la Santa Sede a Roma da Avignone dove risiedeva dal 1309 e di organizzare una crociata contro gli infedeli.  Le autorità ecclesiastiche, colpite, e forse indispettite, dal fatto che Caterina, analfabeta e visionaria, si rivolgesse in questi toni a personaggi di tale rango, la chiamano nel 1374 a Firenze di fronte al Capitolo generale dei Domenicani. L’Ordine ne riconosce l’ortodossia e l’affida alla direzione di frate Raimondo delle Vigne da Capua (13301399); questi venne poi nominato lettore di teologia a Siena e lasciò una biografia della santa.  Secondo la tradizione devozionale il 1º aprile 1375 avrebbe ricevuto le stimmate nella chiesa di Santa Cristina a Pisa, dove si trovava su invito di Papa Gregorio XI al fine di preparare la crociata da lei sollecitata; queste stimmate sarebbero rimaste invisibili fino alla sua morte.  Il progetto della crociata fu abbandonato quando Firenze, dopo aver stretto alleanza con i Visconti di Milano e aver sobillato le città dello Stato Pontificio a ribellarsi contro il papa, dichiarò guerra al “papa francese”. A nome dei fiorentini, Caterina va ad Avignone in missione di pace da Gregorio XI con altre ventitré persone incluso Raimondo da Capua. Il papa, seppure affascinato da Caterina, è convinto del doppiogiochismo dei fiorentini e rifiuta la pace; ciononostante, lei continua con la sua opera di convincimento e non interrompe l’invio di lettere al pontefice, in cui lo invita a tornare a Roma. Riesce alla fine nel suo intento: il 17 gennaio 1377 il papa rientra nella città.  All’inizio del 1378 viene incaricata di ristabilire i rapporti tra Santa Sede e Firenze, ma durante la sua missione in riva all’Arno rischia la vita, e la missione fallisce. Il nuovo Papa Urbano VI riesce a siglare una pace il 28 luglio 1378. Il 20 settembre dello stesso anno, a Fondi, avviene lo scisma, con l’elezione dell’antipapa Clemente VII. Caterina definisce i tredici cardinali scismatici demoni incarnati. Nonostante la vittoria militare di Urbano VI a Marino il 30 aprile 1379, lo scisma si protrarrà per quarant’anni.  Muore, provata da una vita di digiuni e di astinenze forzate, a soli 33 anni, dopo essersi astenuta dal bere per un mese. Nella biografia della senese scritta dal beato Raimondo da Capua, è riportato che non fu santa Caterina a rifiutare il cibo, ma “dopo l’apparizione di Nostro Signore, che le fece dono di bere al suo costato lo stomaco di Santa Caterina si chiuse … non ebbe più bisogno di cibo né poté più digerire. Nessuno se ne meravigliava, perché accostandosi alla fonte della Vita, lei aveva bevuto a sazietà una bevanda vitale, che le tolse per sempre il bisogno di mangiare”.  Caterina da Siena fu canonizzata da Pio II nel 1461.  Papa Paolo VI ha dichiarato Caterina Dottore della Chiesa il 4 ottobre 1970.  Santa Caterina è inoltre patrona principale d’Italia per nomina di Papa Pio XII nel 1939 (assieme a San Francesco di Assisi) e compatrona d’Europa per nomina di Papa Giovanni Paolo II il 1º ottobre 1999.

    [3] Nato in una famiglia poverissima e vissuto durante la Rivoluzione Francese, e quindi in pieno anticlericalismo, studiò presso il Seminario di Lione, dove ebbe come compagni Jean Claude Colin e Marcellino Champagnat: studente mediocre (era mediamente di tre o quattro anni «più indietro» rispetto ai suoi compagni di classe), fu ordinato sacerdote a Grenoble il 13 agosto 1815.  Nel 1818 gli venne affidata la cura pastorale del villaggio di Ars, nell’Ain, dove rimase per quarant’anni svolgendo il suo incarico parrocchiale: fu particolarmente attivo nell’insegnamento del catechismo e divenne uno stimato confessore; diffuse la devozione a Santa Filomena di Roma.  Morì in fama di santità (Ars era già diventata meta di pellegrinaggi quando era ancora in vita) nel 1859.

    [4] Figlio di un ricco rètore e avvocato, suo nonno morì martire nella persecuzione di Diocleziano e sua nonna, Macrina, fu discepola di Gregorio Taumaturgo del Ponto. La nonna Macrina, la madre Emmelia, i fratelli Gregorio, vescovo di Nissa e Pietro, vescovo di Sebaste e la sorella primogenita, Macrina, sono pure venerati dalla Chiesa cattolica come Santi. Fu molto amico di San Gregorio Nazianzeno, venerato come santo e commemorato nello stesso giorno, il 2 gennaio. Ancora fanciullo venne mandato dalla nonna Macrina a Neocesarea sul Ponto dalla quale apprese i principi cristiani, a riguardo Basilio affermerà: Io non dimenticherò mai in vita mia, i forti stimoli che davano al mio cuore, ancora tenero i discorsi e gli esempi di questa piissima donna. Ebbe come primo maestro suo padre Basilio, ma in seguito continuò gli studi a Cesarea, Costantinopoli ed Atene, la capitale culturale del mondo ellenico e pagano, dove conobbe San Gregorio Nazianzeno. Fece ritorno in patria nel 356, dopo un breve periodo come insegnante di retorica, su esortazione della sorella Macrina si ritirò a vita ascetica, dopo essere stato battezzato. Fece visita a molti anacoreti dell’Egitto, della Siria, della Palestina e della Mesopotamia per comprendere meglio il loro stile di vita, in particolare frequentò i cenobi fondati da San Pacomio. Ritornato in patria si ritirò sulle rive del fiume Iris vicino ad Annosi nel Ponto, dove iniziò a fondare delle comunità monastiche cenobitiche.  Intorno al 360 il vescovo Eusebio di Cesarea chiamò Basilio e gli conferì l’ordine del presbiterato. Dieci anni dopo, nel 370, dopo la morte di Eusebio, venne eletto Arcivescovo di Cesarea in Cappadocia, Metropolita ed Esarca dell’intera regione del Ponto.  Combatté molto contro le dottrine ariane che, con l’appoggio dell’Imperatore Valente, stavano prendendo piede nella Chiesa. Lo stesso Imperatore tentò a più riprese di piegare Basilio a queste dottrine considerate dalle Chiese Cristiane conciliari eretiche, ma non lo contrastò mai direttamente, limitandosi a dividere in due diocesi la Cappadocia per sottrargli potere. Basilio difese l’ortodossia delle Chiese Cristiane conciliari anche contro i Macedoniani e l’Imperatore Giuliano.  Basilio fece costruire una cittadella della carità con locande, ospizi, ospedale e lebbrosario, chiamata Basiliade, questa fu la sua più grande opera, che gli valse il nome di Magno.  Dopo l’uccisione dell’imperatore Valente da parte dei Goti nel 378, Teodosio I rese il Cristianesimo religione unica e obbligatoria dell’Impero romano, e sulla sede di Costantinopoli, con l’appoggio di Basilio, fu insediato Gregorio Nazianzeno. Di lì a breve, provato dalle austerità, dalle malattie e sfinito dalle preoccupazioni, Basilio morì il 1º gennaio 379.  San Basilio, per dare ordine ai suoi cenobi, dettò la “Grande Regola” (Regulae Fusius Tractatae) che comprende 55 articoli sui doveri generali del monaco, anche se Basilio parla genericamente di “fratello”. In un secondo momento redasse la “Piccola Regola” (Regulae Brevis Tractatae) che è una specie di casistica sulla vita monastica. In esse San Basilio presenta la vita monastica come lo stato ideale per raggiungere la perfezione cristiana, o meglio invita tutti, anche chi oggi definiremmo laico, a condurre, indipendentemente dalla propria condizione di vita, uno specifico stile di vita. Diede così origine all’Ordine dei monaci basiliani che da lui presero il nome.  All’eremo, tipico del primo monachesimo orientale, Basilio preferì il cenobio, che presuppone celle o romitori autonomi, ma con luoghi di preghiera e di lavoro in comune. Secondo San Basilio, il cenobio infatti era in grado di favorire la correzione dei difetti e l’aiuto scambievole tra i monaci.  San Basilio fece propria l’esperienza cenobitica di San Pacomio in Egitto, ma le attribuì un “carattere ordinale”, consistente nel voler conferire una dimensione familiare alle piccole comunità di monaci. Basilio figura tra le più influenti figure che hanno dato sviluppo al monachesimo nella cristianità. Non solo è riconosciuto come il padre del monachesimo orientale; ma gli storici gli attribuiscono anche una grande importanza per lo sviluppo di quello occidentale, in particolare per l’influsso che ebbe su San Benedetto. Con il suo esempio e i suoi insegnamenti Basilio esercitò una notevole influenza nella vita monastica del tempo, moderando l’austerità che fino ad allora aveva caratterizzato la vita monastica. Fornì anche un grande contributo nel coordinare le attività di lavoro e quelle di preghiera per assicurarne un più equilibrato ritmo nella giornata del monaco. Volle inoltre, cosa molto importante, che i monaci fossero integrati nella vita della Chiesa e vivessero inseriti nella comunità civile, dedicandosi anche, sotto l’autorità del Vescovo, all’esercizio del ministero pastorale. Per questo motivo molti erano anche sacerdoti, un elemento che distingue i monaci basiliani, oltre che dai pacomiani, anche dai benedettini, i cui appartenenti non necessariamente sono sacerdoti.  Per questo motivo San Basilio fondò i suoi monasteri non in luoghi deserti o impervi, ma nelle città o nelle loro vicinanze, in modo che la scelta del silenzio e del raccoglimento fosse legata alla dimensione caritativa soprattutto verso i poveri. Infatti, fondò delle vere e proprie cittadelle dove i monaci davano lavoro ai bisognosi, assistevano i malati, i poveri e gli orfani; queste cittadelle, in seguito, furono denominate “città basiliadi”. Fondamentali, nella regola basiliana, come si è detto, furono tanto il lavoro manuale, che rafforza il corpo, quanto la preghiera, che rinfranca lo spirito, come lo studio delle Sacre Scritture, che illumina la mente.  In Oriente l’Ordine Basiliano ebbe subito grande sviluppo. In Occidente fu trapiantato nell’VIII secolo in Sicilia, nella penisola Salentina e poi in Calabria dove conobbe la sua massima fioritura in seguito alle persecuzioni iconoclaste (contro tutti i cristiani che professavano il culto delle Icone), scatenate dall’Imperatore Leone III di Bisanzio l’Isaurico. I basiliani perseguitati vi si rifugiarono dalle altre provincie dell’Impero e dalla Sicilia, dove temevano l’avanzare degli arabi e l’avvento della religione musulmana. In Calabria essi trovarono condizioni favorevoli per fondare nuovi monasteri come il Patirion di Rossano o il monastero di San Giovanni Therestis a Stilo, così i basiliani diedero un contributo notevole allo sviluppo socio-economico-culturale della Calabria. Tanto che si diede ad essa l’appellativo di”Nuova Tebaide”. Dall’Italia meridionale poi il monachesimo basiliano si diffuse nel resto d’Europa.

    [5] Ultimo di quattro figli, tra cui la scultrice Camille, a causa dell’attività di alto funzionario dell’amministrazione statale svolta dal padre, è costretto a spostarsi continuamente, fino al trasferimento del 1882 della famiglia Claudel a Parigi. Resta comunque legato a Villeneuve, suo paese natale, specialmente per il rapporto con il nonno materno, morto nel 1881. Durante la sua giovinezza a Parigi perde la fede ed entra in contatto con il positivismo imperante nella società dell’epoca, che però rifiuta decisamente preferendo il movimento anarchico. Contemporaneamente si interessa alla letteratura privilegiando, fra gli altri, Shakespeare, Dante, Dostoevskij, e tra i contemporanei Zola, Hugo e Ernest Renan. Conosce Mallarmé e partecipa ai suoi martedì, incontrando anche Verlaine e rimanendo affascinato dalla lettura di Rimbaud, cui rimarrà sempre legato. Durante questo periodo vive un travaglio interiore che lo porta alla conversione al cattolicesimo nel 1886. Tale avvenimento, secondo il racconto dello stesso Claudel, avviene a Notre-Dame de Paris, ascoltando il Magnificat durante la Messa di Natale. La sua vena artistica, pur se molto discontinua, si sviluppa da questo momento in poi con temi profondamente cristiani. Quanto alla vita professionale, dopo aver svolto studi nel campo del diritto, lavora per il Ministero degli Esteri e intraprende la carriera diplomatica. Nel 1893 è console negli Stati Uniti, suo primo incarico all’estero. Da allora soggiorna in moltissimi paesi: Cina e Giappone (paesi dai quali rimane profondamente colpito), Germania, Italia, Brasile. Ritorna ancora una volta negli Stati Uniti nel 1927, come ambasciatore. L’ultimo suo incarico è a Bruxelles. Nel 1935 si congeda dal lavoro. La sua movimentata carriera non gli impedisce di avere una famiglia: nel 1906 si sposa con Regina Perrin, dalla quale ha molti figli. Una sua nipote, Dominique, fu fidanzata di Vittorio Emanuele di Savoia. Nell’arco della sua vita si occupa di molti campi del sapere, pubblicando scritti anche di politica, scienza, letteratura ed arte. Nel 1946 viene eletto accademico di Francia. Muore nel 1955, all’apice del successo, a causa di una crisi cardiaca. Il suo epitaffio, scritto da lui stesso, recita semplicemente “Qui riposano i resti e la semenza di Paul Claudel”.

    [6] Non esiste né un’immagine autentica di Eckhart né un manoscritto originale. Anche l’attribuzione delle sue prediche e dei trattati in tedesco è talora controversa. I testi in latino – che sono pervenuti soltanto in parte – lasciano intravedere la sua mano. Malgrado queste numerose lacune si riescono a ricostruire alcuni passi della sua vita e della sua dottrina: Eckhart nasce, circa nel 1260, figlio del cavaliere Eckhardus, dictus de Hocheim; precocemente, forse già nel 1275, Eckhart entrò a Erfurt nell’ordine dei domenicani; dal 1277 al 1289 Eckhart acquisisce una formazione di base in artium, naturalium (filosofia naturale), solemne (teologia) e generale (studium generale), che si conclude con la sua ordinazione presbiterale. Questi studi furono effettuati presso i conventi che disponevano dei relativi insegnanti. Tali luoghi di insegnamento erano stabiliti dai capitoli provinciali dell’ordine. Gli atti dell’epoca della provincia teutonica non sono pervenuti se non qualche fragmento. Dunque è possibile che Eckhart abbia passato uno o più anni a Colonia, dove potrebbe avere conosciuto Alberto Magno; circa nel 1290 Eckhart riesce a iscriversi all’Università di Parigi, dove nel biennio 1293/1294 fu lettore delle sentenze di Pietro Lombardo; nel 1294 Eckhart diventa priore del convento domenicano di Erfurt e vicario dell’ordine per la Turingia. nel 1302 è di nuovo insegnante a Parigi, ora come magister[1]. Nelle sue „Quaestiones parisienses“ si ravviserebbe, secondo alcuni interpreti, il passaggio teologico da un’ontologia della sostanza a una filosofia dello Spirito. 13031310 Eckhart assume la guida della neocostituita provincia sassone dell’ordine, la cui sede viene da lui fissata, quale provinciale, presso il convento domenicano di Erfurt. A quest’epoca risalgono fra l’altro due prediche per il capitolo generale dell’ordine a Tolosa e a Piacenza e le lectiones sul Siracide, opere nelle quali è ulteriormente sviluppata la filosofia dello Spirito abbozzata nelle quaestiones. 13111313 Eckhart segue un secondo magisterium a Parigi. All’epoca soltanto Tommaso d’Aquino poteva vantare un tale curriculum. A quest’epoca risalgono i testi più importanti in latino; in specie le interpretazioni dei libri veterotestamentari del Genesi, Esodo, Sapienza nonché del Vangelo di San Giovanni e più tardi un voluminoso di prediche sempre in lingua latina. 1314 Eckhart diventa vicario generale del monastero domenicano di Strasburgo. Datano di questo periodo la maggior parte dei suoi scritti più conosciuti le „Deutschen Predigten“, ossia le prediche in tedesco. 1322 Eckhart assume la guida dello Studium generale di Colonia, dove egli stesso si era formato 1325 alcuni confratelli denunciano Eckhart presso l’arcivescovo di Colonia Heinrich II von Virneburg per affermazioni eretiche. 1326 la lista di 49 imputazioni a carico di Eckhart viene ridotta a 28. Per evitare il peggio nel 1327 Eckhart ritrattò le proprie tesi. 1328 Eckhart muore. Non si sa se durante un viaggio verso la corte di papa Giovanni XXII ad Avignone o già durante il ritorno verso Colonia. 23 marzo 1329 delle 28 tesi incriminate 17 sono ritenute eretiche dalla bolla papale In agro dominico[2]. Delle altre 11 è criticata la lettera, in quanto avrebbe dato adito a fraintendimenti.

    [7] Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623Parigi, 19 agosto 1662) è stato un matematico, fisico, filosofo e teologo francese. Bambino precoce, fu istruito dal padre. I primi lavori di Pascal sono relativi alle scienze naturali e alle scienze applicate. Contribuì in modo significativo alla costruzione di calcolatori meccanici e allo studio dei fluidi. Egli ha chiarito i concetti di pressione e di vuoto per ampliare il lavoro di Torricelli. Pascal scrisse importanti testi sul metodo scientifico. A sedici anni scrisse un trattato di geometria proiettiva e, dal 1654 lavorò con Pierre de Fermat sulla teoria delle probabilità che influenzò fortemente le moderne teorie economiche e le scienze sociali.[1] Dopo un’esperienza mistica seguita ad un incidente in cui aveva rischiato la vita [2], nel 1654, abbandonò matematica e fisica per dedicarsi alle riflessioni religiose e filosofiche. Morì due mesi dopo il suo 39º compleanno, nel 1662, dopo una lunga malattia che lo affliggeva dalla fanciullezza. Nato a Clermont-Ferrand, nell’Auvergne, Pascal perse la madre, Antoinette Begon, all’età di 3 anni, quando essa non si riprese dal parto della figlia Jacqueline Pascal (16251662). A causa di questo il padre, Étienne Pascal (15881651), magistrato e matematico, si occupò personalmente della sua educazione. Il giovane Blaise si rivelò assai precoce nello studio e nella comprensione della matematica[3] e della fisica, tanto che fu ammesso alle riunioni scientifiche del circolo intorno a Marin Mersenne, che era in corrispondenza con i più grandi ricercatori del tempo, tra cui Girard Desargues, Galileo Galilei, Pierre de Fermat, René Descartes ed Evangelista Torricelli.[4] Dal 1639 al 1647 fu a Rouen, dove suo padre aveva avuto un incarico da parte del cardinale Richelieu. Qui, nel 1640, Blaise Pascal compose la sua prima opera scientifica “Sulle sezioni coniche” (Essai pour les coniques),[4] basata sul lavoro di Desargues, e nel 1644 costruì la sua prima macchina calcolatrice, la Pascalina.[4] Nel 1646, inoltre, suo padre, che si era ferito in una caduta, fu curato da due gentiluomini della setta di Giansenio, che in breve convinsero sia lui che i figli ad abbracciare le idee religiose e morali gianseniste.[5] Nel 1650, a causa della sua salute cagionevole, Pascal lasciò temporaneamente lo studio della matematica. Nel 1653, quando la salute migliorò, scrisse il Traité du triangle arithmétique, nel quale descrisse il triangolo aritmetico che porta appunto il suo nome. A seguito di un incidente avvenuto nel 1654 sul ponte di Neuilly, nel quale i cavalli finirono oltre il parapetto ma la carrozza si salvò miracolosamente, Pascal abbandonò definitivamente lo studio della matematica e della fisica per dedicarsi alla filosofia e alla teologia. [6] Da quel momento, Pascal entrò a far parte dei “solitari”, dell’abbazia di Port-Royal, laici dediti alla meditazione e allo studio, fra i quali vi era già sua sorella, e qui diventò membro della setta dei giansenisti, fondata e guidata dal vescovo Giansenio. Proprio in quel periodo si era accesa un’aspra controversia tra i giansenisti e i teologi dell’Università della Sorbona di Parigi, ed egli intervenne in tale disputa in difesa del Giansenismo. Il 23 gennaio 1656 pubblicò le sue prime lettere, con lo pseudonimo di Louis de Montalte, scritte da un provinciale ad uno dei suoi amici, sulle dispute della Sorbona. A queste seguirono altre 17 lettere (l’ultima è datata 24 marzo 1657). Nel 1660, il re Luigi XIV ordinò però la distruzione delle Lettere provinciali di Pascal, scritte in difesa del giansenista Antoine Arnauld. Proprio mentre pubblicava le sue Lettere, Pascal aveva concepito l’intenzione di scrivere una grande opera apologetica del Cristianesimo (oltre che del giansenismo). La sua salute già malferma, era divenuta ancor più fragile: morì il 19 agosto 1662, a soli trentanove anni. L’autopsia a cui fu sottoposto rivelò gravi disturbi a carico dello stomaco e dell’addome, nonché danni al tessuto cerebrale [7], tuttavia la causa della morte e della salute cronicamente malferma non furono mai del tutto chiarite. Si pensa alla tubercolosi, ad un tumore allo stomaco, oppure ad una combinazione delle due malattie. Egli seguiva comunque, per ragioni etiche e morali, una dieta leggera, di tipo vegetariano [8]. Le emicranie che afflissero Pascal furono molto probabilmente causate dai danni al cervello. Fu sepolto nella chiesa di Saint-Étienne-du-Mont. Le bozze e gli appunti delle sue lettere furono raccolte da familiari e amici nei suoi celebri Pensieri, una profonda opera filosofica, morale e teologica dove è già tracciata la linea apologetica in favore del cristianesimo.

    [8] Primogenito di sette figli venne avviato dal padre Leonida allo studio delle lettere e alla conoscenza della Sacra Scrittura. Era appena diciassettenne quando, nel 202, la persecuzione di Settimio Severo si abbatté sulla Chiesa di Alessandria. Suo padre fu incarcerato e successivamente decapitato, sempre sorretto dall’incoraggiamento del giovane figlio che gli inviò una lettera di esortazione al martirio.  Quando Leonida morì e le sue fortune vennero confiscate dalle autorità imperiali, il ragazzo lavorò duramente per sostenere la madre ed i fratelli. Aprì quindi una scuola di grammatica, e poco tempo dopo, assunse la direzione della scuola catechetica. Fu incaricato della preparazione al battesimo dei catecumeni dal vescovo Demetrio (Eusebio, Historia ecclesiastica, VI, II; Girolamo, De viris illustribus, LIV). Ebbe come allievi: Basilide, Potamiena, Plutarco, Sereno, Eraclide, Erone, un altro Sereno, ed Herais (Eusebio, Hist. eccl., VI, IV). Accompagnò molti di loro al martirio incoraggiandoli con le sue esortazioni.  Poiché gli ascoltatori aumentavano sempre più, fu costretto a dividere il corso, affidando ad Eracla la preparazione di base e mantenendo per sé quello superiore. L’insegnamento ad un pubblico eterogeneo, formato non solo da cristiani ma anche da pagani, eretici e gnostici, lo convinse della necessità di una conoscenza più approfondita, sia della Scrittura sia della filosofia. A tal fine si applicò anche allo studio della lingua ebraica e visitò la Palestina per rendersi conto di persona dei luoghi geografici descritti dalla Bibbia.  Frequentò le lezioni di Ammonio Sacca padre del neoplatonismo alessandrino. Tutto ciò non lo distolse dall’insegnamento e dalla pubblicazione dei suoi primi commenti alla scrittura. Tuttavia, l’eccessiva importanza data alla filosofia nella spiegazione della verità della fede dovette suscitare nella Chiesa di Alessandria qualche riserva sul suo pensiero.  Con il passare del tempo il sospetto si mutò in aperta rottura, tanto che quando fu ordinato sacerdote nel 230, da Teoctiso di Cesarea e da Alessandro di Gerusalemme, senza l’autorizzazione del vescovo Demetrio, furono presi nei suoi confronti provvedimenti durissimi. Venne privato dell’insegnamento, deposto dall’ordine presbiterale e cacciato dalla comunità. Queste decisioni vennero ratificate dal pontefice romano Ponziano e da altri vescovi, ad eccezione di quelli della Palestina, Fenicia, Arabia e Acaia. Secondo alcuni autori, per il suo estremo rigore ascetico e per aver applicato alla lettera Mt 19,12 ed essersi evirato il vescovo Demetrio non lo aveva mai voluto ordinare sacerdote[1].  Abbandonata Alessandria si ritirò presso l’amico Teoctiso, a Cesarea di Palestina dove aprì una scuola di teologia che divenne la continuazione di quella di Alessandria. [2]. I dettagli di questa vicenda furono riportati da Eusebio nel secondo libro perduto dell'”Apologia per Origene”; secondo Fozio, che aveva letto l’opera, furono convocati ad Alessandria due concili, il primo di questi esiliò Origene, mentre l’altro lo depose dal sacerdozio (Bibliotheca Cod. 118). Girolamo, comunque, affermava espressamente che non fu condannato per alcun punto della sua dottrina.  All’insegnamento univa la predicazione alla comunità dei fedeli. Contemporaneamente si dedicava alla stesura di opere di diverso genere: commenti alla Scrittura, omelie, lettere, opere ascetiche e apologetiche. Durante la persecuzione di Decio (249-250), ormai vecchio, venne imprigionato e brutalmente torturato per la sua fede. Liberato, morì poco dopo per i maltrattamenti subiti. Venne sepolto a Tiro e la sua tomba era visibile fino al XII secolo nella cattedrale della città.

    [9] Monaco di Palestina e fecondo scrittore ascetico del VI secolo, nacque ad Antiochia nei primi anni del secolo, da famiglia facoltosa e molto cristiana, crebbe con la passione per gli studi, ricevendo un’eccellente educazione.  Decise per una vita di perfezione, quindi verso il 525 entrò nel monastero fondato e diretto dall’abate Seridos, nell’oasi di Thawata a poca distanza da Gaza, nel Meridione della Palestina.
    Venne affidato dall’abate a due grandi asceti del monastero: s. Giovanni detto il Profeta e s. Barsanufio, che da maestri di vita spirituale, spinsero il giovane al distaccamento progressivo da ogni cosa, all’ubbidienza, all’umiltà, alla mortificazione interiore, aiutandolo a superare gravi tentazioni e crisi di scoraggiamento.  Doroteo venne esonerato dalle tremende mortificazioni corporali in uso nel monachesimo orientale, a causa delle sue precarie condizioni di salute, debilitato dall’intenso lavoro intellettuale. Ebbe vari incarichi nel monastero, sia in portineria che in foresteria, dietro ordine dei due asceti sopra menzionati “i gerontes”, costruì un nosocomio per i monaci, che quando si ammalavano non avevano assistenza, usufruendo dell’aiuto finanziario del proprio fratello.  Fu incaricato anche della direzione spirituale dei monaci ed ebbe come novizio e discepolo Dositeo, santo monaco famoso in Oriente; in seguito fu messo al servizio di s. Giovanni il Profeta che assistette fino alla di lui morte.
    Morti l’abate Seridos e i due “gerontes”, Doroteo lasciò il monastero, non si sa bene il perché, andando a fondarne un altro tra Gaza e Maiuma che porterà il suo nome e dove trascorse il resto della sua vita.  Morì tra il 560 e il 580; del suo corpo, della sua tomba e del suo monastero non è rimasto più nulla, probabilmente tutto fu distrutto dagli arabi, quando presero Gaza nel 634. Di lui rimane la vasta raccolta di scritti, conferenze spirituali, omelie, Istruzioni ascetiche, esortazioni scritte dirette ai monaci.  La ‘Vita di s. Dositeo’ può considerarsi come il capolavoro di Doroteo perché fu scritta da un discepolo sotto sua ispirazione.  Questi scritti ascetici ebbero un enorme successo, che dura tuttora, soprattutto fra i monaci del Sinai nel secolo VII e poi da Costantinopoli mediante s. Teodoro Studita e tramite i monaci basiliani italo-greci, l’opera spirituale di s. Doroteo fu portata alla conoscenza del monachesimo occidentale, determinando un influsso vasto e benefico anche nella spiritualità della Compagnia di Gesù.  La bibliografia che riguarda le sue opere è molto vasta, essa va dai manoscritti greci, alle innumerevoli opere librarie, raccolte, ristampe ed edizioni che dalla invenzione della stampa ad oggi, sono state pubblicate in varie Nazioni.  I menei slavi riportano al 5 giugno la celebrazione di un s. Doroteo egumeno, che è senz’altro Doroteo di Gaza, mentre in quelli greci non vi è traccia del suo nome.

  • 18 Apr
    1. GRAZIA  DIVINA E COLLABORAZIONE DELL’UOMO

     

    A. Sinergia:  l’azione umano-divina

    L’uomo “religioso” ha sempre creduto di dover “ascendere” per trovare Dio. E ascendere vuol dire fatica e lavoro. Ma questo sforzo risulta smisurato alle forze umane. Come pretendere di giungere noi “finiti” all’ “infinito” di Dio? Nella fede cristiana invece è vero il contrario: non siamo noi ad ascendere al cielo, ma è Dio che discende verso di noi per incontrarci e donarci la sua salvezza.

    Nella teologia ascetica viene posta una domanda importante: che funzione hanno, che valore, i nostri sforzi per acquisire la grazia, ovvero la vita divina? (è lo stesso problema rappresentato dal rapporto tra l’ascetica e la mistica, tra la praxis e la theoria).

    L’esperienza spirituale sia orientale che occidentale, soprattutto derivata dal vissuto monastico, insegna che vi è profonda unità tra ascesi e mistica.  Nel progresso della vita spirituale deve esistere sempre una stretta collaborazione tra l’agire umano e la grazia di Dio.

    Qualcuno potrebbe dire: “Allora la grazia non è più grazia!”. Lo Pseudo Macario risponde all’obiezione: gli sforzi umani sono come il lavoro dell’agricoltore. Non basta zappare e seminare. Il raccolto dipende anche dal sole e dalla pioggia. Vi sono annate in cui si raccoglie poco nonostante l’impegno. Ma la regola normale resta sempre valida: meglio si lavorano i campi, migliore sarà la raccolta. Vale perciò la regola: sforzati e Dio verrà in aiuto al tuo sforzo da lui stesso suscitato in te. “Che il sole risplenda o no nel cielo non dipende dal suolo coltivato o meno; ma se il sole risplende, non è indifferente che il suolo sia coltivato o incolto: un campo incolto fa ostacolo all’efficacia fecondatrice del sole. Così è per la grazia: avere o non avere la grazia non dipende dall’uomo, ma dalla liberalità di Dio; l’uomo, tuttavia, se Dio offre la grazia, può porre ostacolo e frustrare i suoi effetti” (C.V. Truhlar)

    Ricordiamo che l’amore di Dio deve incontrare l’amore attivo da parte dell’uomo.

    B. Lavoro

    Ad immagine di Dio che è Creatore-lavoratore anche noi siamo chiamati a collaborare-lavorare con Lui. Vivere vuol dire lavorare con Dio che lavora.

    A causa del peccato il lavoro è divenuto penoso, esso richiede fatica e sudore (cfr Gn 3,19). La pena per il peccato, però non è il lavoro stesso – come nota san Giovanni Crisostomo – ma la fatica, il dolore, il disgusto di lavorare. Il cristiano che si purifica dal peccato e dalle sue conseguenze, libera dalla sua maledizione il lavoro affinché esso diventi di nuovo libera e gioiosa costruzione della propria perfezione, l’espressione dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

    E non esiste lavoro più importante di un altro. Esso se è secondo la volontà di Dio è il più importante per me. Fu il principio spirituale che santificò l’umile e semplice vita di san Giovanni Berchman[1]: “Fa’ bene ciò che devi fare!”.Una volta gli chiesero cosa avrebbe voluto fare se avesse saputo di dover morire subito dopo pranzo; rispose: “Andrei a ricreazione con i miei compagni”. Adempiere il proprio obbligo è la migliore devozione e preparazione alla morte.

    Alcuni maestri insegnano ad eseguire tutto come se si trattasse dell’ultima opera della propria vita: consapevolmente, con gioia, con diligenza, ma anche con una santa leggerezza e senza ansia per il domani, o per il risultato esteriore.

    Teniamo poi conto che il nostro lavoro è espressione concreta dell’amore al prossimo. Un lavoro fatto bene, con solerzia, aiuta altri a vivere meglio. Non è indifferente questa attenzione, soprattutto nella propria famiglia, comunità o luogo di lavoro.

    Per questo non ci è lecito disprezzare, come in antico, il lavoro manuale. Fu soprattutto il monachesimo a cambiare tale concezione, ribaltando una tendenza eretica (gli euchiti) che volevano esclusivamente dedicarsi alla preghiera. I cristiani non si vergognano di avere un Maestro che fu per trentanni un umile lavoratore. Paolo era un tessitore. Alcuni apostoli pescatori. San Giovanni Crisostomo se la prende con i cristiani che fanno troppo i “signori”: “Dio ti ha dato le mani, gli schiavi li hanno fatti gli uomini”. Paolo VI nel suo pellegrinaggio in terra santa ebbe a dire a Nazaret: “Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù,  cioè la scuola del Vangelo… Vi impariamo una lezione di lavoro. Oh! Dimora di Nazaret, casa del “Figlio del falegname”! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana… Infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello”.

    E’ vero che il lavoro manuale affatica e talvolta distrae: il suo scopo può apparire a prima vista solo un’utilità materiale. Tuttavia se deve divenire spirituale è necessario attribuirgli uno scopo spirituale perché abbia conseguenze positive a livello spirituale. Perciò è necessario trattare della “retta intenzione” in ogni attività umana, affinché sia trasfigurata.

    C. Attività esteriore ed interiore

    A causa delle occupazioni quotidiane siamo spesso portati a concentrarci sull’esterno. I maestri spirituali ci ammoniscono della necessità, almeno di tanto in tanto, di rientrare in noi stessi, a riprendere contatto con la nostra interiorità.

    È impossibile che l’attenzione per l’esteriore sia completamente eliminata. Ma d’altra parte atti puramente interiori non esistono. Anche un puro pensiero in qualche modo dipende dalla materia e dall’esperienza. E vale il contrario: ciò che abbiamo in mente lo manifestiamo esteriormente.

    Quindi fra pensiero “interno” ed azione “esterna” vi è una relazione simile a quella che c’è tra l’anima e il corpo. Il volto è lo specchio dell’anima ma non rivela mai totalmente il suo segreto.

    D. L’intenzione dà il valore alle opere

    La vera moralità del nostro agire scaturisce dal cuore, ma il cuore non riesce mai completamente ad immetterla nel nostro agire esteriore.

    Rinnovare spesso le buone intenzioni corrisponde allo sforzo di ristabilire l’unità fra l’azione “esterna” e quella “interna”. Anche se sappiamo che questa unità, qui in terra, non sarà mai perfetta. La buona intenzione santifica i mezzi (evidentemente quelli che non sono immorali), l’intenzione cattiva rende immorale anche l’opera in sé buona.

    Affinché un atto sia meritorio non è sufficiente un motivo solo umano. Non basta pentirsi di aver rubato poiché la polizia mi ha scoperto! Il lavoro non è meritorio se lo compio con l’ottica di far soldi. Eppure la maggior parte dei nostri atti sono compiuti con motivazioni puramente umane. Ma teniamo presente che in ogni atto possono partecipare diverse motivazioni Alcuni di questi motivi sono sentiti più vicini, altri sembrano lontani. In teologia si distingue l’intenzione “attuale”, quella che mi spinge immediatamente all’azione (corro se non perdo il treno), dall’intenzione “virtuale”. A quest’ultima non penso, eppure essa è il vero motivo (devo andare a trovare una persona in difficoltà).

    Allora alcuni teiologi affermano che l’opera meritoria deve avere un motivo soprannaturale, questo però non deve necessariamente essere attuale, può essere anche virtuale. Il cristiano ha deciso, una volta per sempre, di voler salvare la propria anima e di evitare tutto ciò che è peccato. Questa intenzione non viene facilmente revocata e allora è valida anche se, nella fretta della vita non ci pensiamo.

    Scrive l’autore dell’ Imitazione di Cristo: “Non fidarti dei tuoi sentimenti; ciò che oggi tu senti potrà cambiare presto. Finché vivrai sarai soggetto, anche tuo malgrado, a questa instabilità, sicché sarai ora lieto, ora triste, ora sereno, ora turbato; ora devoto, ora freddo, ora diligente, ora pigro, ora grave, ora leggero. Ma chi ha lo spirito saggio e illuminato, sta saldo fra questi mutamenti, senza preoccuparsi di ciò che sente dentro di sé, né da qual parte spiri il vento dell’incostanza, procurando che tutta l’attenzione della sua mente sia fissa al giusto e desiderato fine. Soltanto in tal modo, infatti, egli potrà conservarsi fermo e stabile, tenendo fisso in me (nel Signore) lo sguardo puro della sua retta intenzione, attraverso i suoi più vari eventi”. (Imitazione di Cristo, III, 33,1).

    E.  Formulare le intenzioni buone

    Chi vive la vita religiosa più autenticamente diventa sempre più cosciente e consapevole dei motivi superiori, inizialmente nascosti. Egli cerca di rendersene conto e di rafforzarli. Questa pratica viene denominata come un “formulare la buona intenzione”. Dovremmo apprendere l’arte spirituale di svegliare quotidianamente la buona intenzione. Il Movimento dell’”Apostolato della preghiera” ad esempio propone una preghiera specifica: “Cuore divino di Gesù, io ti offro, per mezzo del cuore immacolato di Maria madre della Chiesa, in unione al Sacrificio eucaristico, le preghiere e le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno: in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del divin Padre”.

    La buona intenzione, se formulata, allarga la dimensione soprannaturale del nostro agire; le nostre buone opere divengono meritorie, il nostro lavoro si inserisce maggiormente nel piano della salvezza. Ma questo non deve ridursi a devotissimi sospiri e nulla più! Forse è meglio non partire dall’alto con propositi che rischiano di disperdersi, ma dal “basso” offrendo al Signore quello che in quel momento si sta compiendo. Il teologo K. Rahner[2] definisce questo come “purificazione delle motivazioni”. Gli impulsi molteplici che si vivono durante la giornata ricevono in tal modo tutti la giusta direzione e il giusto valore. Ciò porta come frutto la pace, l’abbandono in Dio, la consapevolezza della sua presenza.

    F.  Forza della volontà umana

    Nella morale cristiana si distinguono tre facoltà: affettività, la ragione e la volontà.

    Ora l’esperienza ci dice che spesso pur conoscendo il bene facciamo il contrario. San Giovanni Crisostomo affermava che: “Nessuno può fare danno all’uomo se non lui stesso”. E i maestri insegnano che “per salvarci non abbiamo bisogno di altro se non il volere”. Ma questo non sembra pelagianesimo[3]?  Secondo Agostino al contrario l’uomo da solo non è altro che peccato, e senza la grazia di Dio non saremmo neppure capaci di pensare il bene tantomeno di farlo.

    La frase di san Giovanni Crisostomo afferma che al cristiano che ha già ricevuto la grazia nel battesimo, per salvarsi necessita anche il voler salvarsi. Paolo apostolo condensa il problema in una frase: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,14).

    G. Libertà

    Nel discorso riguardante la libertà occorre tener presente e salvaguardare sia la piena libertà dell’uomo ma altresì, logicamente, anche la piena e totale libertà di Dio. Dato poi che la libertà umana è riflesso di quella divina, essa deve avere proprietà simili.

    Piena libertà è la possibilità di fare sia il bene che il male: ma come mai allora si definisce peccaminosa la scelta del male fatta in libertà? Occorre uscire da una visione troppo ristretta di libertà.

    San Gregorio di Nissa[4] usa un paragone illuminante: lo fidanzato che ama la sua ragazza si sente libero solo nel momento in cui nulla gli impedisce di prenderla per moglie. In un senso simile era libero anche l’uomo innocente. Aveva libero accesso a Dio, comunicava con lui. Il peccato ha chiuso le porte del Paradiso. Abbiamo, quindi, perduto la libertà di essere con Dio. Non del tutto, però: qualche residuo di quella libertà ci è rimasto, l’uomo lo ha portato con sé dal Paradiso. Ancora adesso possiamo fare la scelta tra il bene e il male. Se decidiamo di fare il bene ci facilitiamo di nuovo, l’accesso a Dio: cresciamo, quindi, nella libertà. Se, al contrario, facciamo il male, approfittiamo della nostra possibilità di scegliere per un ulteriore indebolimento della vera libertà, ponendo ostacoli al nostro libero accesso a Dio. La possibilità di scegliere fra l’uno e l’altro è, quindi, un grande dono. Serve per far crescere la libertà in Cristo. Se ne abusiamo, conduce all’apostasia da Dio, al peccato, e quindi, alla schiavitù.

    Se l’uomo non riconosce su di sé l’unica autorità di colui che lo modella, che lo fa essere, questo uomo perderà la sua libertà molto rapidamente, si foggerà lui stesso dei miti o delle pseudodivinità, si metterà a strisciare davanti a delle altre potenze, e non sarà più se stesso. Esiste una sola potenza che può imporsi a tutta la creazione senza farle violenza: la potenza di colui per mezzo del quale esiste, nella pienezza della sua libertà, la creazione stessa” (J.D. Barthélemy, Dio e la sua immagine)

    Il progresso spirituale è una graduale crescita verso la libertà dei figli di Dio (Rm 8,21). Questa crescita è lenta e faticosa. Faticosa perché, soggiogati dalla menzogna del male, raramente conosciamo la pura libertà e soccombiamo alle illusioni. La relazione con gli altri dovrebbe aiutarci a crescere nel bene, eppure spesso accade il contrario: si vive in un contesto di indifferenza, di violenza. La relazione con Dio è ostacolata da un ambiente ateo, agnostico, materialista e consumista che innalza nuovi idoli contrari al Vangelo. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani». (Benedetto XVI)

    La grazia di Cristo tuttavia svolge in noi se le acconsentiamo la sua opera di liberazione da tutto questo. La fede ci rende liberi dalle opinioni, dalle illusioni, dalle paure. Con l’ascesi possiamo vincere le attrattive al male da parte delle nostre passioni.

    L’iniziativa di tutto questo viene da Dio, il quale da noi esige il nostro libero “fiat”, il nostro libero consenso al bene. La scrittura esorta: Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio (1Pt 2,16)

    H.  L’abbandono alla volontà di Dio

    In ogni opera buona si unisce sia la nostra libera azione come anche la volontà di Dio che l’ha ispirata. La volontà umana è nelle mani di Dio come un libero strumento: è chiamata a sottomettersi liberamente.

    La perfezione, scrive san Vincenzo de’ Paoli[5],  è nell’unire la nostra volontà con quella di Dio in modo tale che vi sia lo stesso volere”. Giungere a questa perfezione è tutt’altro che facile: è un vero rinnegamento di sé. L’obbedienza ai comandamenti è solo un primo passo, fondamentale. Quando preghiamo il Pater dicendo: “Sia fatta la tua volontà” se lo diciamo con amore sincero, ci riconciliamo con tutto ciò che Dio opera nel mondo e con il modo in cui egli dispone della nostra vita. Cassiano scrive “Sia fatta la tua volontà”. Una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nostro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudine per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi. (Conferenze, 9,20)

    È più utile immaginarsi la volontà di Dio non come una legge che ordina e proibisce, ma, piuttosto, come una madre tenera che sorveglia ogni passo di suo figlio. Dice Agostino: “Non accade assolutamente nulla di ciò che l’Onnipotente non vuole; o permette che sia fatto o lo fa egli stesso”. Giuliana di Norwich riporta la sua esperienza (Rivelazioni dell’amore di Dio): Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene: “Tu stessa – mi disse il Signore – vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene, nient’altro che bene”.

    L’atteggiamento da  assumere è quello che Gesù stesso ci offre: “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?” (Mt 6,25-26).

     I.     La vera e la falsa incuria

    Gli scrittori spirituali greci parlano della “amerimnia”: è la libertà interiore da tutte le preoccupazioni “inutili e utili” (G. Climaco). In effetti viviamo spesso sempre preoccupati per qualcosa, e questo diventa un peso nel nostro camminare nella vita spirituale. Gli insuccessi ci deprimono, esultiamo per i successi: la critica ci toglie il gusto del lavoro, una vana lode ci spinge a fare esagerazioni che non servono a nulla. Volenti o nolenti siamo sotto l’influsso delle impressioni che non corrispondono alla realtà. Spesso ci immaginiamo il risultato positivo dei nostri sforzi magari anche di alto livello spirituale. Sant’Ignazio avverte che il nostro unico scopo è “cercare con ogni sforzo e trovare la volontà di Dio”. Piani e programmi per il futuro hanno senso solo in questo contesto, altrimenti diventano un tiranno che ci schiaccia e che distoglie dall’essenziale. Non ci meraviglia che alcuni santi considerassero come tentazione non solo i programmi, ma anche qualsiasi preoccupazione per il domani.

    Nel tempo in cui la Campania fu desolata da una gravissima carestia, l’uomo di Dio aveva dato via in elemosina a molti poveri tutti i viveri che si trovavano in monastero. Nella dispensa non era rimasto nient’altro che un poco di olio entro un’ampolla di vetro.

    Gli esempi non mancano. Nella vita di Benedetto, Gregorio Magno[6] narra: “Capitò un suddiacono di nome Agapito, e chiese caldamente se poteva avere la carità di un po’ di olio. L’uomo di Dio, che si era proposto di dare via tutto sulla terra per tutto depositare nei tesori del cielo, ordinò che senz’altro gli fosse consegnato quel poco ch’era rimasto. Il monaco incaricato della dispensa, sentì molto bene la disposizione del superiore, ma non aveva proprio alcuna voglia di metterla in pratica. Richiesto poco dopo dal santo se era stata fatta quell’elemosina come aveva comandato, il monaco rispose di non aver dato nulla perché se avesse dato via anche quello, per i monaci non sarebbe poi rimasto più niente. Allora comandò con energica severità che fosse immediatamente gettata dalla finestra l’ampolla di vetro con l’olio, perché nella dispensa nulla rimanesse per disobbedienza; e fu fatto così. Sotto la finestra si apriva un gran precipizio, irto di grossi macigni. L’ampolla di vetro piombò con violenza sui sassi, ma rimase intatta, come se non fosse stata scagliata: non si infranse, né l’olio si versò. L’uomo di Dio la fece raccogliere e, integra com’era, la fece immediatamente consegnare a chi la chiedeva” (c. 22).

    Gli ordini mendicanti nacquero sulla spinta di una riforma della vita religiosa che testimoniasse una completa libertà dal peso e dall’ansia procurata dal possesso di beni. Nonostante il coraggio e fede dei fondatori questi ordine dovettero poi tutti rientrare in una mitigazione della severità dell’ispirazione originale. Vi potrebbero anche essere pericoli in una ricerca fanatica di questa pratica del distacco. È ovvio che guidando l’auto non devo farlo nell’ansia e nella preoccupazione di un incidente, tuttavia devo preoccuparmi di mantenere l’auto in buone condizione, e che io sia ben sobrio e prudente quando guido. San Francesco di Sales scrive: “So che Dio mi chiede di non preoccuparmi né della malattia né della buona salute, ma so anche che è espressa volontà di Dio di chiamare il medico ed usare i medicamenti quando ce n’è bisogno”.

    Sotto l’aspetto psicologico sono due aspetti molto diversi: occuparsi di qualcosa e preoccuparsi.

    Teniamo presente che esiste una falsa fiducia nella Provvidenza (simile al quietismo), una pigra attesa di “ispirazioni”. La Chiesa giustamente aveva condannato la sentenza di Molinos[7]: “Chi ha ceduto la sua libera volontà a Dio, non deve essere preoccupato di nulla, né per l’inferno, né per il paradiso; non deve neanche desiderare la propria perfezione, le virtù, la santità e neanche la sua salvezza”. Può sembrare bello un devoto sospiro: “Lasciamo fare al Signore!”. Però, per utilizzarlo al momento giusto, è bene tenere davanti agli occhi ciò che dice p. Surin nel suo “Catechismo spirituale”: “E’ bene lasciar fare al signore Dio, quando è lui stesso che agisce. Ma non è giusto lasciar fare tutto al Signore, quando egli vuole che facciamo qualche cosa noi”.


    [1] Nacque il 12 marzo 1599 a Diest nelle Fiandre, primogenito dei cinque figli di Giovanni Berchmans, calzolaio e conciatore di pelli, e di Elisabetta, figlia del borgomastro Adriano Van den Hove. Avviatosi verso la vita ecclesiastica, iniziò gli studi latini nella Scuola Grande di Diest; ma nel 1612 il padre si vide costretto per motivi economici, a chiedere a Giovanni di abbandonare gli studi intrapresi e di imparare un mestiere, ma il sostegno di alcuni familiari rese possibile un’altra soluzione più confacente alle doti e all’impegno del ragazzo. A metà settembre 1612, Giovanni entrò infatti nella casa del canonico Froymont, a Malines, per continuare i suoi studi presso la Scuola Grande di questa città, ma serviva al tempo stesso come cameriere il Froymont e come istitutore alcuni giovanissimi ragazzi della nobiltà, convittori nella canonica.  Egli voleva entrare nella Compagnia di Gesù ma dovette superare la resistenza oppostagli dal padre, che sognava per lui una ricca prebenda, vi riuscì in maniera così convincente che il padre stesso, dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1616, abbracciò lo stato ecclesiastico e divenne sacerdote.  Completati gli studi, intenzionato a diventare sacerdote, il 24 settembre 1618 emise la prima professione religiosa divenendo novizio gesuita e nel 1619 si trasferì a Roma per completare gli studi filosofici presso il Collegio Romano (l’attuale pontificia Università Gregoriana) dove, ammalatosi, morì solo due anni dopo, il 13 agosto 1621.

    [2] Karl Rahner crebbe in una famiglia cattolica medio-borghese; suo padre insegnava presso un istituto magistrale. In gioventù frequentò il movimento cattolico del Quickborn dove conobbe Romano Guardini. Dopo aver conseguito la licenza liceale, entrò nell’ordine dei gesuiti nel 1922 (già suo fratello maggiore Hugo vi era entrato nel 1919; altri due fratelli diventarono medici). Studiò in seguito filosofia e teologia a Feldkirch, Pullach, Valkenburg, Freiburg i.Br. e Innsbruck. Decisiva si rivelò, per la formazione di Rahner, la partecipazione ai seminari di Martin Heidegger negli anni 19341936. Nel 1939 Rahner ottenne la prima docenza a Vienna. Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale svolse pure attività pastorale nella Bassa Baviera. Dopo il conflitto proseguì l’attività di docente, dapprima quale insegnante di dogmatica alla scuola superiore dell’ordine a Pullach. Dal 1948 fu docente e dall’anno successivo professore ordinario di dogmatica presso l’Università di Innsbruck. Nel 1963 Papa Giovanni XXIII lo chiamò fra i teologi del Concilio Vaticano II, alla cui preparazione egli aveva già peraltro contribuito. Nel 1964 Rahner successe a Romano Guardini nella cattedra presso la Ludwig-Maximilians-Universität München. Le sue lezioni presso questa università sul tema “introduzione al cristianesimo” fungeranno da base per la sua opera fondamentale apparsa nel 1975 con il titolo Grundkurs des Glaubens. In questi anni si accese anche il suo impegno, sotto forma di saggi ed articoli, in favore del pacifismo, del disarmo nucleare, dell’aiuto ai paesi del Terzo Mondo e della lotta contro lo sfruttamento dei popoli oppressi (con particolare attenzione ai movimenti della teologia della liberazione).  Dal 1967 al pensionamento, nel 1971, fu professore ordinario di dogmatica e storia del dogma presso la Westfälischen Wilhelms-Universität di Münster. Nel 1971 fu nominato dalla Hochschule für Philosophie München professore onorario per le questioni filosofiche e teologiche “di frontiera”. Nel 1981 si trasferì a Innsbruck, dove morì nel 1984 e dove è sepolto nella cripta della Chiesa dei Gesuiti.

    [3] Il pelagianesimo detto anche pelagianismo o predestinazionismo è un movimento religioso cristiano fondato nei primi secoli del Cristianesimo da Pelagio e Celestio. Le teorie pelagianesime furono combattute da Sant’Agostino e vennero definitivamente condannate come idee eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico. Pelagio e Celestio svilupparono questa teoria come reazione al monachesimo ascetico di San Girolamo e al fatalismo manicheo, presente nella Chiesa del tempo: si pensi a Sant’Agostino che in gioventù fu manicheo.  Secondo la Chiesa (sia cattolica sia ortodossa) il pelagianesimo riduceva la salvezza eterna a qualcosa di raggiungibile con le sole proprie forze: magari anche un ideale di santità molto alto e difficile da raggiungere, ma che comunque avrebbe potuto essere conquistato dalla volontà dell’uomo. La dottrina della Chiesa, invece, considerava l’uomo incapace, dopo il peccato originale, di vivere appieno i doni di Dio senza l’ausilio decisivo della sua grazia. Pelagio negava la trasmissibilità a tutta l’umanità del peccato di Adamo (che secondo lui era mortale anche prima di commettere il peccato), motivandola col fatto che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle di un altro: venivano così negati anche gli effetti del peccato originale sulla natura umana: era impossibile che l’anima, creata da Dio, fosse caricata di un peccato non commesso personalmente.  Di conseguenza, i pelagiani rifiutavano la prassi del battesimo dei bambini. Negli adulti esso cancellerebbe i peccati commessi in precedenza, mentre non si può dire che questo possa avvenire anche per i bambini; quindi il battesimo degli infanti non avrebbe avuto altro scopo, secondo Pelagio, che quello di aprire loro il “regno dei cieli”: i bambini morti senza battesimo avrebbero comunque la vita eterna, anche se non entrerebbero nel “regno dei cieli”, che è soltanto una porzione eletta del paradiso. All’obiezione che era antica l’usanza di battezzare i bambini, Pelagio rispondeva che il battesimo è l’espressione dell’accoglienza nella comunità cristiana: con il battesimo la persona è incorporata in Cristo, entra nel “regno dei cieli”.  Il pelagianesimo, comunque, prediligeva l’attitudine della libertà umana a scegliere a proprio arbitrio fra il bene e il male e ad adempiere, con le proprie forze, la legge divina.

    [4] Educato dal fratello san Basilio Magno, Gregorio si diede dapprima alla retorica ed alla vita secolare per un’improvvisa crisi spirituale, per poi vivere per un po’ nel monastero di Basilio, e infine dedicarsi, dal 371, all’episcopato della città di Nissa (da cui prese l’epiteto di ‘Nisseno’).  Avversario degli Ariani, fu vittima delle persecuzioni dell’imperatore ariano Valente e dovette lasciare Nissa, accusato di malversazioni economiche, nel 376. Vi rientrò trionfalmente nel 379.  Soprattutto dopo la morte del fratello, quasi raccogliendone l’eredità spirituale, cooperò al trionfo dell’ortodossia. Partecipò a vari sinodi; cercò di dirimere i contrasti tra le Chiese; prese parte attiva alla riorganizzazione ecclesiastica e, come «colonna dell’ortodossia», fu un protagonista del Concilio di Costantinopoli del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo. Ebbe vari incarichi ufficiali da parte dell’imperatore Teodosio I, pronunciò importanti omelie e discorsi funebri, si dedicò a comporre diverse opere teologiche. Nel 394 partecipò ancora a un sinodo tenutosi a Costantinopoli. Non è conosciuta la data della sua morte. Gregorio Nisseno, pur essendo il più giovane dei “Padri Cappadoci”, è quello che più coerentemente ed organicamente opera un’assimilazione filosofica della letteratura pagana alla fede cristiana, improntando le sue opere all’affermazione che il valore paideutico della letteratura classica ha per instradare l’anima alla virtù.  Se è un merito questo suo atteggiamento “classicistico”, gli manca però una robusta personalità che, come per Basilio e San Gregorio Nazianzeno, sostenga la speculazione teologica. Il Nisseno è di certo un ottimo dialettico e speculatore e riprende in maniera organica e sistematica la dottrina trinitaria e teologica di Origene, innestandola sul tronco neoplatonico, ma non ha una capacità di trascinare il lettore, nonostante numerosi artifici retorici.  Gregorio, inoltre, è insigne per la sua dottrina spirituale. Tutta la sua teologia non era una riflessione accademica, ma espressione di una vita spirituale, di una vita di fede vissuta. Da grande «padre della mistica» prospettò in vari trattati – come La professione cristiana e La perfezione cristiana – il cammino che i cristiani devono intraprendere per raggiungere la vera vita, la perfezione.

     

     

    [5] Nato da un’umile famiglia contadina a Pouy, un borgo contadino presso Dax, grazie ad un ricco avvocato della zona riuscì a studiare teologia a Tolosa e venne ordinato sacerdote il 23 settembre 1600. Nel 1605, mentre viaggiava su una nave da Marsiglia a Narbona, venne catturato dai pirati turchi e venduto come schiavo a Tunisi: venne liberato due anni dopo dal padrone, che era riuscito a convertire al cristianesimo.  Entrò a corte come cappellano ed elemosiniere di Margherita di Valois; fu poi curato a Clichy, dove mise da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e si dedicò intensamente all’insegnamento del catechismo e soprattutto all’aiuto agli infermi ed ai poveri: fondamentale per la sua maturazione spirituale fu il suo incontro con Francesco di Sales.  Nel 1613 entrò come precettore al servizio dei marchesi di Gondi (il marchese era governatore generale delle galere): grazie al sostegno economico dei suoi protettori, Vincenzo de’ Paoli riuscì a moltiplicare le iniziative caritatevoli a favore dei diseredati e dei bambini abbandonati; su richiesta della marchesa, che intendeva migliorare le condizioni spirituali dei contadini dei suoi possedimenti, nel 1625 formò un gruppo di preti specializzati nell’apostolato rurale (primo nucleo della Congregazione della Missione, i cui membri vennero poi detti Lazzaristi).  Nel 1633, con l’assistenza di Luisa di Marillac, riorganizzò le confraternite assistenziali fino ad allora fondate nella Compagnia delle Figlie della Carità. Le sue opere di carità divennero tanto celebri che Luigi XIII di Francia lo scelse come suo consigliere: si allontanò dalla corte per divergenze con il cardinale Mazzarino e continuò a dedicarsi all’assistenza ai poveri anche durante la lotta della Fronda. Morì nel 1660.  La sua opera ispirò Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza.

     

    [6] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma.  Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.  Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario.  In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.  Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale.  Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea.  A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”.  In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari.  Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba.  Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura.  Morì il 12 marzo 604.

    [7] Dopo aver conseguito la laurea in teologia a Valencia, nel 1665 si trasferì a Roma e frequentò la confraternita della Scuola del Cristo.  Nel 1675 compose la Guía espiritual (tradotta in italiano con il titolo Guida spirituale che disinvolge l’anima e la conduce per l’interior camino all’ acquisito della perfetta contemplazione e del ricco tesoro della pace interiore), opera in tre libri nella quale esponeva la dottrina della passività come unica via per giungere alla contemplazione ed alla pace interiore.  Secondo le idee professate dal Molinos, attraverso uno stato continuo di quiete e di unione con Dio, l’anima, resa pura, giungerebbe ad una sorta di indifferenza mistica. Le teorie esposte, che svalutavano l’importanza della liturgia e della pratica sacramentaria della religione cristiana, suscitarono violenti attacchi da parte soprattutto dei Gesuiti.  Nel luglio del 1685 de Molinos fu arrestato dall’Inquisizione e fu avviato il processo. Nei due anni successivi l’accurato esame delle sue opere e della nutrita corrispondenza epistolare portò nel settembre 1687 alla pubblica abiura ed alla condanna alla reclusione perpetua. Lo stesso anno il Papa Innocenzo XI nella bolla pontificia Coelestis Pastor condannò 68 tesi attribuite alla sua opera. Il Molinos passò poi dal carcere ad un monastero, per continuare la condanna; abiurò nuovamente i suoi errori nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva il 13 settembre del 1687 e morì 9 anni dopo.

     

  • 17 Apr
    1. LA SPERANZA


    1. a.   Fondamento psicologico della speranza

    La vita che cresce, in nessun momento è intera, è un progredire incessante. Le singole parti tuttavia non hanno senso se non alla luce dell’intero organismo. Dunque anche al nostro organismo spirituale, in tutte le sue dimensioni, appartiene necessariamente la prospettiva del futuro, la speranza.

    La disperazione fa parte dell’inferno, dove non vi è nessun tipo di progresso. Dante pone sulla sua porta delle parole emblematiche: “Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Chi ha mancato il fine definitivo della vita, non ha speranza, non attende la beatitudine. In cielo la speranza è compiuta, tuttavia il dinamismo della carità sarà sempre in movimento.

    Il dinamismo della speranza rientra nello stesso sviluppo psicologico dell’essere umano. Nell’adolescenza, il ragazzo apre gli orizzonti, avverte grandi desideri e amori. Si coltivano svariati progetti, tutti presi sul serio. Ma la vita quotidiana, frattanto, rimane dentro limiti ristretti. Diventa difficile il rapporto con il mondo reale e quello del desiderio. È in questi anni che si vive profondamente l’eterna contraddizione fra ideale e realtà. È una contraddizione che comunque deve essere risolta. Questo può avvenire in modo maturo o immaturo creando problemi o anche serie patologie. Il carattere del futuro uomo si formerà a seconda del modo in cui è stata risolta questa fondamentale questione posta nell’adolescenza.

    Più o meno si possono suddividere quattro possibili soluzioni. La prima è descritta magistralmente dal don Chisciotte di Cervantes. Il cavaliere è un idealista incorreggibile, per non dover rinunciare ai suoi ideali, rinuncia a vedere la realtà. Combatte giganti che in realtà sono mulini a vento, una contadina vista di sfuggite diviene un’irraggiungibile principessa di nome Dulcinea. Una seconda possibilità è rappresentata dal suo compagno Sancho Panza invece è il tipico realista, che non ha alcun sogno, ha perduto completamente gli ideali. È il rappresentante di coloro che si sono riconciliati con la realtà eliminando gli ideali. Una terza categoria sono i rivoluzionari. Essi vedono che il mondo non corrisponde ai loro ideali e allora decidono di cambiare le strutture del mondo. Questa scelta è stata il detonare di tanti drammatici momenti della storia. La cosa triste è che sempre la società che fuoriesce da una rivoluzione non corrisponde mai agli ideali, per cui ispirerà nuove rivoluzioni. Una quarta possibilità è data dagli eclettici. Sono coloro che fra tanti ideali ne hanno scelto uno solo buttandoci a capofitto. Tutto il resto è sacrificato. Si gioca con una sola carta: o si guadagna molto, ad esempio nel campo dell’arte o altro, o si perde tutto.

    Tutte queste categorie cercano di risolvere lo stesso problema in modo diverso.

    L’opposizione fra ideale e realtà è insolubile. Questo appare evidente anche nella storia della filosofia. Platone risolve il problema trasferendo gli ideali nel “mondo delle idee”. Aristetele più pragmatico invita ad un sano realismo capace di “accontentarsi del poco”. La felicità sta nel non coltivare desideri impossibili. Anche il buddismo affronta il problema professando che la via della felicità consiste nella rinuncia a qualsiasi desiderio: esso è sempre fonte di infelicità.

    E nel campo biblico e cristiano? San Paolo non per nulla definisce i popoli pagani come coloro che “non hanno speranza” (1Ts 4,13). La dimensione biblica ha come supporto essenziale della rivelazione il dono delle “promesse” da parte di Dio, che i cristiani riconoscono adempiute in Cristo (Gal 3,16). Per noi dunque Cristo è la pienezza della nostra speranza.

    In Cristo si sono incarnati tutti gli ideali, tutto il bene, tutta la verità, tutta la bellezza. Per la nostra fede dunque il dilemma tra ideale e realtà non è impossibile: tutto sarà ricapitolato in Cristo e raggiungerà la sua pienezza e il suo compimento alla fine del tempo. Con questa promessa il cristianesimo differisce da tutte le altre religioni. Queste promettono “un’altra vita”, Cristo invece ci assicura il ritorno su questa terra nel corpo glorioso, una cielo e una terra nuova, ma su questa terra. La speranza dunque per noi è costitutiva ed essenziale.

    1. b.   Oggetto della nostra speranza

    Le speranze umane il più delle volte risultano ingannevoli. Anche gli apostoli dopo la morte del maestro avevano perso le loro speranze (Lc 24,13s). Ma dopo la resurrezione la speranza del cristiano acquista un solido fondamento, per cui la Chiesa può invocare con certezza: “Maran Athà! Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20).

    La teologia quindi esprime l’oggetto della speranza cristiana con una formula breve: Christus totus, il Cristo intero. Cristo verrà in questo mondo e insieme a lui tutto cià che è legato alla sua venuta, cioè la santità, la glorificazione della Chiesa, la vittoria della verità, la realizzazione di tutti i veri ideali dell’umanità e della creazione. San Tommaso dice la medesima cosa in altri termini: “Non dobbiamo, quindi, sperare, nulla di inferiore a Dio stesso. I beni che egli distribuisce alle sue creature non sono altro che il suo essere. Per questo il proprio e principale oggetto della nostra speranza è la felicità eterna”. San Tommaso afferma questo perché: 1. Dio non può dare che ciò che è ovvero somma beatitudine 2. I desideri dell’uomo sono improntati dal progetto divino 3. Beatitudine dell’uomo non potrà dunque essere che la beatitudine, il possesso di Dio.

    Questo è dono di Dio, ma anche frutto della nostra collaborazione. Noi abbiamo la certezza che Dio non ci fa mancare l’occasione di acquisire meriti per ottenere il premio della felicità eterna.

    Ma possiamo essere già pienamente felici su questa terra? L’ “Imitazione di Cristo”[1] ci avverte: “Non prometterti ciò che non promette Cristo”. La croce farà parte sempre del nostro cammino. Tuttavia se cresce in noi la comunione con Dio, di corrispondenza cresce anche la nostra beatitudine: una pace che il mondo non potrà mai togliere. Tuttavia per ora la nostra visione della felicità è vista “nello specchio, in maniera confusa”.

    1. c.   Motivo della speranza

    Ci domandiamo non solo dell’oggetto della speranza ma anche su che cosa essa si basi. Ovvero ci domandiamo: possiamo avere realmente sicurezza nella vita?

    Da questo punto di vista ovviamente appaiono molto labili le sicurezze immediate, di tipo sociale, economico, fisico, ecc… Non per nulla il profeta Geremia ammoniva: “Maledetto l’uomo che pone la sua fiducia in un altro uomo” (17,15).

    Il credente ha invece un appoggio sicuro per la sua speranza: Dio. Diceva san Tommaso d’A.: “Speriamo quel bene che viene da Dio, solo da lui lo possiamo ottenere”. Per cui non riponiamo la nostra ultima speranza né in noi stessi, nelle cose, neppure negli altri. In questo a tutti allora è dato di poter riporre speranza in Dio: anche ai deboli e ai peccatori.

    E’ pessimismo? Sempre san Tommaso afferma: “Non possiamo fidarci di nessun uomo e di nessuna creatura se essi vengono considerati come causa prima, capace di fare beata la nostra anima. Possiamo, però, fidarci degli uomini se li consideriamo come causa seconda, come strumento con il quale la nostra anima raggiunge quel bene che appartiene al fine ultimo”.

    La nostra speranza poggia sulla fede nelle promesse di Dio. In questo senso Abramo è prototipo dell’uomo che vive una piena speranza perché vive una salda fede: “Sperò contro ogni speranza” afferma san Paolo.

    1. d.    Speranza in Dio e nel nostro lavoro

    Non aspettiamoci per la nostra speranza di vedere successi secondo i criteri mondani. Come ci ricorda il CCC  non dobbiamo aspettarci un enerome successo esteriore della Chiesa, ma piuttosto, un entrare nel mistero della passione di Cristo. Quindi un apparente fallimento, fatto di persecuzione, di minoranza. Dentro questo cammino pasquale la Chiesa deve passare.

    Da parte nostra tuttavia l’atteggiamento giusto è di ancorarci nel vivere con fedeltà il momento presente, guardando con serenità il futuro nonostante le apparenze contrarie. Per il presente è di grande valore un altro aspetto della speranza cristiana: la ferma convinzione nell’efficacia dei nostri sforzi compiuti nella grazia di Dio, di tutti i mezzi normali che la vita cristiana ci offre per raggiungere il nostro fine.

    Certamente la nostra speranza è riposta unicamente in Dio. Ma bisogna far attenzione a non cadere in una sorta di quietismo nel quale noi saremmo esentati di fare tutta la nostra parte. Sappiamo che uno dei più difficili problemi teologici tratta proprio della relazione fra l’opera di Dio e la nostra collaborazione. Nella vita pratica è meglio attenersi al consiglio di sant’Ignazio di L. che dice: “Pregate così, come se tutto dipendesse solo da Dio, ma lavorate come se tutto dipendesse solo da voi”. L’unione dell’opera di Dio e della nostra azione si manifesta in modo esplicito nei sacramenti: è certo che Dio perdona i peccati eppure chiede a noi il gesto di inginocchiarci al confessionale.

    Così siamo certi che Dio coopera sempre in ogni opera buona, anche se in misura e modalità differenti. Quindi siamo certi che le nostre opere buone sono efficaci, non sono perse. Con esse collaboriamo con Dio alla costruzione del suo Regno.

    1. e.    Le circostanze nelle quali bisogna rafforzare la speranza
    1. Nello sforzo per la perfezione. Il primo entusiasmo passa presto. Bisogna essere pronti all’aridità, alla tempesta, al vento contrario.
    2. Nella preghiera. La preghiera si irrobustisce non per la moltitudine delle parole ma per la fiducia che la anima (Mt 17,20). Una fiducia che non è facile. Ogni rafforzamento della speranza rende la preghiera più efficace.
    3. Nelle circostanze in cui siamo tentati dallo scoraggiamento. La speranza è simbolizzata dall’àncora (Ebr 6,9). Vi sono momenti nella vita in cui l’unica forza che rimane all’uomo è una silenziosa speranza. Possiamo anche dire che Dio stesso purifica i sentimenti della nostra speranza con delusioni, fallimenti…
    4. Nelle tentazioni quando temiamo di cadere. Sembra che le abitudini cattive appaiono insuperabili solo nei casi in cui il “paziente” non riesce a convincersi che è in grado di superarle: “Vorrei tanto, ma…”. Scriveva un autore spirituale: “Smettiamo di enumerare a Dio la lunga e monotona serie delle nostre indegnità e delle nostre miserie, se lo scopo di questo elenco è solo quello di giustificare l’inquietudine e l’insicurezza che portiamo dentro di noi”.  Talvolta il Signore per consolarci e rafforzarci ci concede delle consolazioni. Sono doni da accogliere con gioia senza però la pretesa di trattenerli (cfr Pietro sul Tabor!). I maestri dello spirito ammoniscono di non ricercare gli stati di consolazione e di non nutrire i desideri per visioni e rivelazioni. La speranza cristiana è rivolta verso il futuro che è il mistero di Dio. I ricercatori della consolazione vogliono godere il tempo presente; allora, in un certo senso, rigettano ciò che rende la speranza cristiana così meritevole: la piena fiducia in Dio, anche nell’incertezza.

    [1] La Imitazione di Cristo (titolo originale in latino: De Imitatione Christi) è, dopo la Bibbia, il testo più diffuso di tutta la letteratura cristiana occidentale.  Il testo è stato scritto in latino e ne è sconosciuto l’autore. La rosa di nomi a cui attribuire l’opera è, sostanzialmente, ridotta a tre figure: il monaco agostiniano Tommaso da Kempis, a Jean Gerson o a Giovanni Gersen. La mancanza dell’autore, secondo l’uso certosino, ha fatto propendere ultimamente per l’attribuzione a quest’ambiente. L’analisi contenutistica sembra confermare questa ipotesi.  È un testo tuttora considerato di riferimento per tutte le Chiese cristiane (cattolica, protestante e ortodossa).

     

  • 16 Apr

    4.  LA VITA SPIRITUALE

    1. a.   La perfezione è di tutti

    Siccome tutti sono chiamati a salvezza, la vocazione alla perfezione è di tutti: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Dunque la perfezione non è privilegio di pochi. I primi monaci non vollero costituire una casta di perfetti, vollero semplicemente, alla luce del vangelo, creare le condizioni che facilitassero il cammino della perfezione.

    Tutti perciò devono avere piena fiducia nella Provvidenza di Dio (obbedienza), tutti devono custodire la purezza del cuore (castità), stimare la grazia di Dio più di tutte le realtà terrene (povertà).

    Non si può dunque parlare della vita religiosa come di uno stato particolare che percorre un itinerario diverso da quello che devono percorrere tutti i cristiani. Essa si deve porre nella Chiesa come un faro che indica la direzione verso cui tutti sono chiamati seppur in modalità diverse a indirizzarsi. Lo Spirito, che santitifica tutti è uno solo, uno è il Vangelo e unici sono i mezzi per raggiungere la perfezione che vengono offerti a tutti. Il tratto peculiare dei religiosi è che si obbligano con voti ad utilizzare questi mezzi in una forma specifica secondo una regola di vita approvata dalla Chiesa.

    1. b.   Lo stato di perfezione

    I religiosi venivano definiti come coloro che sceglievano lo “stato di perfezione”. L’espressione va intesa bene perché come detto la perfezione-santità è dovere di tutti i battezzati. Per il religiosi lo sforzo per la perfezione diventa l’obbligo del loro stato di vita: essi sono chiamati a far risplendere a beneficio di tutti la santità che è di tutti.

    Il termine “religioso” deriva dalla “regula” ovvero il testo normativo che stabilisce mezzi e strumenti per facilitare il cammino di perfezione.

    Il termine “monaco” deriva invece dal greco “monos” ovvero colui che è solo.

    Nella chiesa greca esiste solo lo stato monastico che viene chiamato “vita angelica”: ovvero coloro che anticipa la realtà del regno dei cieli, il paradiso.

    In questo senso i religiosi cercano già nel tempo presente di raggiungere quella perfezione alla quale debbono pervenire tutti coloro che si salveranno. È il compito di profezia escatologica riservata alla vita religiosa.

    In occidente la vita religiosa si suddivide in ordini di vita attiva e contemplativa. Quelli di vita attivi sono dediti a servizi peculiari e diretti alla chiesa, quelli di vita contemplativa vivono una vita di clausura che permette loro di darsi completamente alla preghiera e alla testimonianza silenziosa. E’ una vita più strettamente legata anche al concetto di penitenza.

    Il concilio vaticano II afferma: “Le società religiose, nate nella Chiesa, aiutano i loro membri a pervenire alla perseveranza e offrono loro una buona guida per raggiungere la perfezione”.

    1. c.   I tre voti

    La continenza sessuale, come scrive san Paolo (1Cor 7,33) ha come scopo che il cuore dell’uomo non sia diviso. Il marito e la moglie si concedono reciprocamente il diritto sulla propria persona e anche sul corpo. A coloro che hanno ricevuto una particolare chiamata lo Spirito suggerisce di essere segno di una totale consacrazione a Cristo sposo. Si tratta di una sorta di sposalizio spirituale che esige la stessa fedeltà della promessa matrimoniale.

    La povertà religiosa assume diverse sfumature a seconda delle varie tipologie di vita consacrata. Nella sua essenza è la rinuncia a possedere qualcosa come di proprio ad immagine di Cristo che “spoglio totalmente se stesso” per farci ricchi della sua povertà. Con questa scelta il consacrato esprime concretamente il suo distacco dal mondo e nello stesso tempo la ricchezza della comunione con Dio unico vero bene.

    Con il voto di obbedienza il consacrato rinuncia alla propria volontà, ad immagine di Cristo che ritiene suo cibo il “fare la volontà del Padre”. Concretamente essa si esprime nell’obbedienza ai propri legittimi superiori. Certamente è questo sacrificio della libertà il più esigente di tutti. Ma nello stesso tempo esso rientra nell’essenza stessa della struttura della Chiesa.

    I voti religiosi sono quindi espressione concreta delle virtù cristiane alla quali tutti, sebbene in diversa forma, sono chiamati: la fede nella provvidenza, la speranza, la purezza della mente, l’umiltà e soprattutto la carità (1Cor 13,4). Senza quest’ultima non avrebbe valore l’esercizio dei voti religiosi stessi.

    1. d.   Il demone meridiano

    La stagnazione, il disgusto di continuare, la perdita di interesse è un pericolo che si incontra in ogni scelta di vita. L’entusiasmo iniziale pur necessario e il fervore dell’inizio sembrano lentamente scemare se non scomparire.

    Gli antichi monaci parlavano di questa fase come della tentazione del “demone meridiano”: pigrizia, scoraggiamento, disgusto assalgono il monaco al fine di distoglierlo dalla sua chiamata. Anche la psicologia conosce questa esperienza che viene collocata come fase tipica dei 40-45 anni. In certo qual modo può avere tratti simile alla depressione.

    Ma nella vita spirituale essa assume un significato di purificazione e crescita spirituale in cui si è chiamati a fare un salto unicamente nella fede nella provvidenza di Dio non basandoci sulle nostre forze.

    San Bernardo[1] scrive ad un suo monaco: “Monaco, vuoi progredire? No? Vuoi tornare indietro? No? Allora cosa desideri? Voglio restare quello che sono, né megliore né peggiore. Allora cerchi una cosa impossibile. Non può esistere a questo mondo qualche cosa che non subisca cambiamenti, tranne Dio solo in cui non vi è ombra di mutamento”. Anche san Gregorio Magno usa il paragone con il battello nel fiume che viene spinto indietro dal momento in cui il navigatore smette di remare. Giovanni Cassiano[2] scrive: “Nella virtù dobbiamo continuamente progredire e non smettere mai. Bisogna sforzarsi ogni giorno altrimenti, al momento di fermarsi, ci accorgeremo della perdita subita. Lo spirito non può rimanere fisso in un luogo, non può accorgersi dell’aumento o della diminuzione della virtù. Non guadagnare significa perdere. Se sparisce il desiderio di migliorarsi, appare il pericolo di peggiorare”.

    Anche il gesuita Alfonso Rodriguez[3] esorta coloro i quali si “sono arenati sulla sabbia” dicendo: “Avete fatto, fratello, una bella corsa. Chi vi impedisce di proseguire verso la verità. Avete cominciato bene il vostro cammino e ora vi siete fermato nella virtù… Credete di essere troppo anziano o troppo stanco per farvi bastare ciò che possedete? Guarda, alzati e mangia perché la via davanti a te è ancora lunga. Ti troverai in certe occasioni in cui avrai bisogno di maggiore umiltà e pazienza, di maggiore dominio su te stesso, di maggiore mortificazione delle cose terrene. In quel momento, quando il bisogno sarà maggiore scoprirai, all’improvviso la tua miseria e arretratezza”.

    1. e.   Fame e sete di giustizia

    La beatitudine promessa a chi ha fame e sete di giustizia è indirizzata anche a tutti coloro che ricercano la perfezione, che desiderano conformarsi alla volontà di Dio.

    Affinché il giusto progredire non si spenga san Gerolamo consiglia di non stare troppo a considerare il passato. Egli dice: “Ogni santo mira sempre verso ciò che gli sta davanti e dimentica il passato. Beato chi progredisce ogni giorno e non pensa a ciò che ha fatto ieri, ma, piuttosto, a ciò che deve fare oggi per andare avanti”.[4] L’esperienza ci insegna che le persone anziane parlano volentieri di ciò che hanno fatto e visto. È un segno della vecchiaia e di una senilità che non dovrebbe manifestarsi nella vita spirituale. Infatti il cammino per la perfezione è lunghissimo e mai consluso. Dice san Gregorio M.[5] :”A cosa serve percorrere un bel pezzo di strada se poi non si arriva alla fine?”.

    San Bernardo ribadisce a coloro che abbandonano il desiderio di progredire sulla via della perfezione l’esempio dei “figli di questo mondo”: “diventiamo come i commercianti del mondo. Li vedi come sono continuamente preoccupati e come lavorano per aumentare la loro fortuna. Anche i ladri e i truffatori non smettono facilmente. È davvero vergognoso per noi ch essi nutrano un desiderio per le cose dannose maggiore del nostro per le utili. Sono più costanti loro nel cammino della morte che noi su quello della vita”.

    Allora quali sono i segni che in certo qual modo ci assicurano di essere in stato di grazia. Secondo san bernardo “Non vi è segno più sicuro della presenza di Dio nell’anima, che il desiderio di progredire nella grazia”. Il desiderio di progredire spiritualmente, la fame e la sete di giustizia e di perfezione, sono il riflesso dell’infinitezza di Dio che se è in noi non può non spingerci se non in questa direzione.



    [1] Terzo di sette fratelli, nacque da Tescelino il Sauro, vassallo di Oddone I di Borgogna, e da Aletta, figlia di Bernardo di Montbard, anch’egli vassallo del duca di Borgogna. Studiò solo grammatica e retorica (non tutte le sette arti liberali, dunque) nella scuola dei canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, presso Châtillon-sur-Seine, dove la famiglia aveva dei possedimenti. Ritornato nel castello paterno di Fontaines, nel 1111, insieme ai cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritirò nella casa di Châtillon per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l’anno seguente, con una trentina di compagni si fece monaco nel monastero cistercense di Cîteaux, fondato quindici anni prima da Roberto di Molesmes e allora retto da Stefano Harding. Nel 1115, insieme con dodici compagni, tra i quali erano quattro fratelli, uno zio e un cugino, si trasferì nella proprietà di un parente, nella regione della Champagne, che aveva donato ai monaci un vasto terreno sulle rive del fiume Aube, nella diocesi di Langres perché vi fosse costruito un nuovo monastero cistercense: essi chiamarono quella valle Clairvaux, Chiara valle. Ottenuta l’approvazione del vescovo Guglielmo di Champeaux e ricevute numerose donazioni, l’Abbazia di Clairvaux divenne in breve tempo un centro di richiamo oltre che di irradiazione: già dal 1118 monaci di Clairvaux partirono per fondare altrove nuovi monasteri, come a Trois-Fontaines, a Fontenay, a Foigny, a Autun, a Laon; alla morte di Bernardo le abbazie cistercensi erano 343, di cui 66 fondate o riformate da lui stesso. Per tutta la sua vita Bernardo fu strenuo difensore dell’ortodossia religiosa, della lotta contro le eresie e dell’autorità assoluta della Chiesa. Nel concilio di Sens del 1140, si scagliò contro le dottrine di Pietro Abelardo, che furono condannate; lottò inoltre contro Gilberto Porretano e Arnaldo da Brescia. La seconda crociata del 1147 fu opera della sua predicazione. I punti fondamentali della dottrina di Bernardo consistono nella negazione del valore della sola ragione, contrapposta all’esaltazione della vita mistica, considerata come la via dell’umiltà e della rinuncia ad ogni autonomia umana.  Bernardo si pronuncia senza riserve contro la ragione e la scienza: il desiderio di conoscere gli appare come «una turpe curiosità”.  Inoltre Il santo nega il valore dell’uomo, spingendolo a riconoscere il proprio nulla, al fine di ottenere la liberazione da tutti i legami corporei e di abbandonare completamente la sua volontà ai voleri divini.[3] I concetti di Bernardo riguardanti la mistica e l’ascesi, come anche le tematiche politiche della plenitudo potestatis del pontefice e delle due spade, condizionarono profondamente tutto il Medioevo. Nella Lettera 1, spedita verso il 1124 al cugino Roberto, Bernardo mostra di considerare la vita monastica dei benedettini di Cluny, allora all’apogeo del loro sviluppo, come un luogo che negava i valori della povertà, dell’austerità e della santità; egli rifiuta la teoria della regola benedettina della stabilitas – ossia del legame permanente e definitivo che dovrebbe stabilirsi fra monaco e monastero – sostenendo la legittimità del passaggio da un convento cluniacense a uno cistercense, essendovi in quest’ultimo professata una regola più rigorosa e più aderente alla Regola di San Benedetto, pertanto una vita monastica perfetta. La polemica fu da lui ripresa nell’ Apologia all’abate Guglielmo, sollecitata da Guglielmo, abate del monastero di Saint-Thierry, che ebbe una risposta dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, nella quale l’abate rivendicava la legittimità della discrezione nell’interpretazione della regola benedettina. Nel 1130, alla morte di Onorio II, furono eletti due papi: uno, dalla fazione della famiglia romana dei Frangipane, col nome di Innocenzo II e un altro, appoggiato dalla famiglia dei Pierleoni, con il nome di Anacleto II; Bernardo appoggiò attivamente il primo che, nella storia della Chiesa, per quanto eletto da un minor numero di cardinali, sarà riconosciuto come autentico papa, grazie soprattutto all’appoggio dei maggiori regni europei (Anacleto II verrà considerato un antipapa). Numerosi furono i suoi interventi in questioni che riguardavano i comportamenti di ecclesiastici: accusò di scorrettezza Simone, vescovo di Noyon e di simonia Enrico, vescovo di Verdun; nel 1138 favorì l’elezione a vescovo di Langres del proprio cugino Goffredo della Roche-Vanneau, malgrado l’opposizione di Pietro il Venerabile e, nel 1141, ad arcivescovo di Bourges di Pietro de La Châtre, mentre l’anno dopo ottenne la sostituzione di Guglielmo di Fitz-Herbert, vescovo di York, con l’amico cistercense Enrico Murdac, abate di Fountaine. Il 15 febbraio 1145, a Roma, nel convento di san Cesario, sul Palatino, il conclave eleggeva papa Eugenio III, abate del convento romano dei Ss. Vincenzo e Anastasio; il nuovo papa, Bernardo Paganelli, conosceva bene Bernardo, per averlo incontrato nel concilio di Pisa del 1135 e per essere stato ordinato cistercense proprio a Chiaravalle nel 1138. Bernardo, felicitandosi per l’elezione, gli ricordava curiosamente che si diceva «che non siete voi a essere papa, ma io e ovunque, chi ha qualche problema si rivolge a me» e che era stato proprio lui, Bernardo, ad «averlo generato per mezzo del Vangelo». Eugenio III incaricò Bernardo di predicare a favore della nuova crociata che si stava preparando, e che avrebbe dovuto essere composta soprattutto da francesi, ma Bernardo riuscì a coinvolgere anche i tedeschi. La crociata fu un completo fallimento che Bernardo giustificò, nel suo trattato La considerazione, con i peccati dei crociati, che Dio aveva messo alla prova. Questo trattato, finito di comporre nel 1152, si occupava anche dei compiti del papato e Bernardo lo mandò a papa Eugenio che si dibatteva con le difficoltà procurategli dall’opposizione dei repubblicani romani, guidati da Arnaldo da Brescia. Le sue condizioni di salute cominciano a peggiorare alla fine del 1152: ebbe ancora la forza di intraprendere un viaggio fino a Metz, in Lorena, per mettere fine ai disordini che travagliavano quella città. Tornato a Chiaravalle, apprese la notizia della morte di papa Eugenio, avvenuta l’8 luglio 1153 e morì il mese dopo. Rivestito con un abito appartenuto al vescovo Malachia, del quale aveva appena finito di scrivere una biografia, venne sepolto davanti all’altare della sua abbazia.

    [2] Si sa poco di lui: pare che il suo nome originario fosse semplicemente Cassianus; il nome Johannes gli sarebbe stato aggiunto in onore a San Giovanni Crisostomo. Soggiornò lungamente in Terrasanta, a Betlemme, e in Egitto, prima di venir ordinato presbitero dal Crisostomo. Dopo un breve soggiorno a Roma si trasferì nelle Gallie, a Marsiglia.  Quivi fondò a nel 415 due monasteri: uno per gli uomini, l’abbazia di San Vittore, l’altro per le donne, sull’esempio di quelli egiziani. Visse in Provenza per il resto della sua vita, scrivendo i suoi due libri: De institutis coenobiorum, e le Collationes, che San Benedetto da Norcia raccomandò come autorevoli trattati per la formazione dei monaci. I suoi scritti ebbero una notevole influenza su CassiodoroMorì nel 435. Le sue spoglie erano nel monastero di San Vittore, da lui fondato, e andato distrutto durante la rivoluzione francese.

    [3] L’umile Alfonso Rodriguez abbracciò la vita religiosa dopo varie traversie. Fu educato in un collegio gesuita ad Alcalá, che abbandonò per prendere il posto del padre come mercante di tessuti, attività in quel momento fiorente. A 27 anni si sposò e dal matrimonio nacquero due figli. Nel 1567 dapprima la morte della moglie poi quella dei due figli provarono duramente Alfonso.  A queste tremende sventure fecero seguito anche quelle finanziarie, gettandolo nelle ristrettezze. Tornò a studiare frequentando un corso di grammatica e retorica all’università di Valencia, con scarso successo. Trovò allora conforto nei libri di devozione. Decise di entrare, come fratello coadiutore, dai Gesuiti. Dopo il noviziato venne inviato nel collegio di Monte Sion a Palma di Majorca, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 31 ottobre 1617.  La fama della sua santità e i carismi di cui Dio l’aveva dotato (visioni, preveggenza, miracoli) avevano attratto alla scuola dell’umile frate, che aveva dovuto interrompere gli studi universitari per scarso profitto, un folto gruppo di discepoli, fra i quali il futuro grande missionario, San Pietro Claver, a quel tempo studente di filosofia, del quale aveva predetto la vasta attività apostolica.  Il santo è indicato dalla Chiesa come esempio di tenera devozione mariana, espressa con la recita quotidiana del Rosario e dell’Ufficio dell’Immacolata, devozione che spesso otteneva amabili e straordinari interventi della Vergine nella sua vita. Questa dedizione e questi doni ne fecero un grande mistico della Spagna del suo tempo.  Tra i suoi molti scritti ricordiamo le memorie autobiografiche scritte per ordine dei suoi superiori dal 1604 al 1616, e alcuni scritti che trattano argomenti di ascetica di lucida penetrazione, frutto di una sapienza non attinta dai libri. La sua memoria liturgica si celebra il 31 ottobre.

    [4] Studiò a Roma, nel 379, ordinato presbitero dal vescovo Paolino, si recò a Costantinopoli dove poté perfezionare lo studio del greco sotto la guida di Gregorio Nazianzeno (uno dei “Padri Cappadoci“). Risalgono a questo periodo le letture dei testi di Origene e di Eusebio. Dopo tre anni di vita monastica tornò a Roma nel 382 dove divenne segretario di Papa Damaso I e conseguì un notevole successo personale, ma alla morte del Papa il suo prestigio scemò e Girolamo tornò in Oriente, dove fondò alcuni conventi femminili e maschili, in uno di questi trascorse gli ultimi anni. Morì nel 420. Le sue reliquie sono conservate nell’urna di porfido dell’altare papale della Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. I resti pervennero alla Basilica nel XII secolo e furono riposti all’ingresso dell’ Antrum Praesepi; nel 1409 la famiglia Guaschi li fece collocare in un altare appositamente costruito. Nel 1424, per mezzo di un lascito del cardinale Pietro Morosini, le ossa furono riposte in una cassetta d’argento del costo di 100 fiorini. Per la costruzione della cappella Sistina o del Santissimo Sacramento, papa Sisto V fece demolire la precedente, dedicata a San Girolamo, al cui altare quattrocentesco si veneravano i resti. Secondo una leggenda il canonico Ludovico Cerasola, per evitare un’eventuale loro traslazione alla chiesa di S. Girolamo degli Schiavoni, li nascose nel pavimento a destra del presbiterio. In seguito il cardinale Domenico Pinelli riesumò la cassa d’argento contenente il corpo di San Girolamo e la pose sotto la confessione. Rinvenuta la cassetta nel 1747 fu collocata definitivamente all’altare del Papa.  Una sua reliquia si espone nella chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo.[1]

    [5] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma.  Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.  Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario.  In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.  Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale.  Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea.  A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”.  In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari.  Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba.  Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura.  Morì il 12 marzo 604.

  • 13 Apr
    1. 2. LA VITA DIVINA

     

    1. a.   La vita della SS.ma Trinità partecipata all’uomo

    Se vita spirituale vuol dire presenza e attività dello Spirito santo nel nostro cuore, possiamo dire anche che possediamo la vita di Dio, la vita divina. In questo senso la teologia orientale parla di “divinizzazione dell’uomo”. La teologia  occidentale invece ha preferito parlare di “vita di grazia”. Sia l’uno che l’altro modo di dire ha i suoi vantaggi e incompletezze: il dono di grazia lascia intuire innumerevoli differenze da parte del donatore e del ricevente, vita divina apre alla dimensione trinitaria della vita spirituale. Come si riflette nella nostra vita questo sublime mistero divino? Secondo l’espressione di s. Cirillo d’A. “ogni bene discende da Dio Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”. Al contrario, la nostra ascesa a Dio si realizza “nello Spirito santo, per mezzo del Figlio, al Padre”.

    1. b.   “In Cristo Gesù”

    Il riferimento della nostra vita spirituale è Cristo Gesù: in lui crediamo come il Figlio che rivela pienamente il volto del Padre (cfr Gv 1,18): lui via, verità e vita è l’unica porta che conduce al Padre (Gv 10,7). Non potrà esservi mai un’altra perfezione se non quella in Cristo e secondo Cristo. Dice s. Gregoria di Nazianzio: “Ogni fatto e ogni parola del salvatore è una regola di pietà”. E s. Giovanni Crisostomo: “sei cristiano per imitare Cristo e ubbidire ai suoi comandamenti”. Qui alcuni vorrebbero fare una distinzione tra “imitazione di Cristo” di impianto più morale e volontaristico e “vita in Cristo” dalla dimensione più misterica. Ma l’obiezione non è poi tanto profonda: chi vive in Cristo e possiede la sua grazia potrà imitarlo, ma anche colui che si sforza di seguire i suoi passi riceve la sua grazia. Scrive N. Cabasilas[1]: “Chi si è deciso a vivere in Cristo, dovrà naturalmente unirsi con il suo cuore e la sua testa; ciò senza l’unione della volontà sarebbe impossibile”. Vivere in Cristo e imitarlo significa lasciarci plasmare da Lui: avere la “mente di Cristo” direbbe Paolo apostolo. Dobbiamo saperci porre delle questioni e risolvere i problemi della vita in quest’ottica: “Cosa farebbe Cristo, o che cosa mi consiglierebbe, in questa situazione?”. Per questo non basta leggere il Vangelo: bisogna cominciare a viverlo. L’asse della nostra vita cristiana deve essere: vedere Cristo in tutto e tutti, e considerare tutti gli avvenimenti della vita come tappe di un cammino incontro a lui. In questo senso il nostro impegno sarà quello di imparare a conoscere sempre più Cristo per poterlo amare, e più lo ameremo più lo conosceremo.

    1. c.   Ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,27)

    Già Platone diceva che lo scopo della vita è imitare Dio a seconda di quanto sia possibile alle nostre forze. È logico. Chi cerca la bellezza, cerca di avvicinarsi a ciò che è bello, chi ama il bene, cerca solo ciò che è buono. Ma questo non è un ideale facilmente raggiungibile. Come potrebbe un uomo “imitare” Dio? Eppure, dicono i padri, questo è realizzabile per il fatto che Dio dipinse la sua prima immagine in Gesù Cristo, il quale è “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). Essi leggendo il testo della genesi: “Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine e somiglianza” conclusero: la prima e perfetta immagine di Dio è Cristo, l’uomo è stato creato secondo la sua immagine”. Sempre la teologia orientale distingue l’immagine che riceviamo nel momento del nostro battesimo, che paragonano ad uno “schizzo” iniziale, dalla “somiglianza” cui si perviene con lo sforzo di tutta la vita di perfezionare l’immagine stessa. Quanto più una persona e riempita dallo Spirito più rassomiglia a Dio. In slavo la parola “santo” (“prepodobnyi”) significa “simile a Dio”. Maria santissima è la “similissima”. Secondo san Gregorio Magno la santità è l’immagine di Dio impressa nell’animo umano, come un sigillo nella cera, con la forza dello spirito e così “un uomo terreno diviene celeste”. Il peccato insudicia l’immagine di Dio, la deturpa e la maschera con l’immagine della Bestia. La penitenza lava, pulisce l’immagine, la restaura; le virtù la abbelliscono.

    1. d.   La beatitudine perfetta e la salvezza dell’anima

    Le filosofie antiche consideravano la beatitudine il fine della vita. Anche la fede cristiana è d’accordo sul fatto che la perfezione conduce alla beatitudine, alla pace, alla contentezza, non solo nell’eternità, ma in qualche misura sin da ora. La fede cristiana di questo è convinta in quanto crede in un Dio che ha liberato l’uomo dal male, dal peccato e dalla morte. Dunque solo in  Dio l’uomo troverà autentica beatitudine: “Ci hai creati per te – scrive Agostino – e il nostro cuore non ha pace fino a ché non troverà riposo in te”. A livello di linguaggio ciò che noi definiamo “beatitudine”, nella scrittura è detta “salvezza”. Salvezza promessa nell’AT, e attuata nel NT: “è apparsa la grazia del nostro Salvatore” (Tt 2,11). Che differenza c’è tra salvezza e beatitudine? La felicità denota piuttosto uno stato psicologico, la circostanza per cui si sta bene. La salvezza (soteria): significa pienezza globale di vita in tutte le sue dimensioni. Esprime perciò uno stato ontologico non solo psicologico. Possedere la grazia di Dio è sperimentare la salvezza, ovvero la vita piena e dunque anche la gioia.

    1. e.   Vita eterna

    La vita ascetica – scrive san Basilio – non ha altro scopo che quello di salvare l’anima”. Il termine anima ha nella s. Scrittura, un senso primitivo, completo, senza determinazioni psicologiche: l’anima è il principio della vita stessa.

    Il termine “vita eterna” può essere inteso in doppio senso:

    1. Escatologico ovvero la vita eterna dopo la morte
    2. Più che di vita eterna come durata dovremmo parlare di “vita divina” di cui l’eternità è una componente.

    In questo senso la vita eterna/divina iniziamo già a viverla ora. La portiamo dentro di noi come un seme che già spunta, ma che deve crescere per poi sbocciare nell’eternità di Dio. Potremmo definire la vita eterna/divina come “vita nuova”. Di cui il principio è lo Spirito vivificante.

    Correlate sono anche altre immagini:

    –       Ricompensa eterna: non sembra piacere molto perché sa di mercantilismo, tuttavia la Scrittura promette una ricompensa a chi condurrà una retta via. Fa bene quindi il cristiano che aspetta da Dio la sua ricompensa.

    –       Osservanza dei comandamenti: ovvero una vita moralmente evangelica vissuta in quanto buona in se stessa al di là della ricompensa. Anche questa è buona (Gv 14,15).

    –       Altri invece sperimentando la loro debolezza e incapacità di vivere i comandamenti sanno che se Dio dovesse ricompensarli per i loro meriti finirebbero male. Mettono quindi tutta la loro fiducia nella misericordia di Dio. Anche questo è buono, basta che non si vive così per superficialità e disimpegno.

    La “vita nuova, la vita in Cristo, la vita nello Spirito, assume tutte queste sfaccettature. Comporta l’atteggiamento morale, sa speranza della ricompensa, la fiducia nella misericordia divina ed altre disposizioni interiori che sono riflessi della “multiforme sapienza di Dio”. San Cirillo d’A.[2] paragona la forza vivificante dello Spirito all’acqua che nel giglio diviene bianca, nella rosa purpurea, nella viola violacea. Così anche la vista spirituale si manifesta esteriormente, nelle diverse persone, sotto diversi aspetti.

    1. f.     La vita secondo la natura

    Spesso la gente scusa le proprie debolezze dicendo: “E’ la natura!”. Ma è davvero essa? Se gli uomini vivessero secondo la primigenia natura uscita dalle mani di Dio nel mondo non ci sarebbe peccato, dice Dante nella Divina Commedia. Il termine “natura” ha la stessa radice del verbo “nascere”. Dio ha dato all’uomo la vita divina, la carità, la fede e tutte le virtù. Così egli è nato, quindi tale è la sua vera natura (natura integra). In questo senso il peccato, le passioni sono “contro natura”. Tuttavia in occidente il termine “natura” non ha conservato il suo significato originale. I teologi hanno distinto ciò che è relativo alla nostra struttura umana da ciò che è divino. Perciò chiamarono l’intelletto, la volontà e i sentimenti, doni “naturali”, mentre la grazia è “soprannaturale”. Carità, fede e speranza sono perciò doni soprannaturali. L’uomo da solo non potrebbe possederli perché non appartengono alla “pura natura”. Concludendo teniamo conto della effettiva realtà dell’uomo come ci è stata rivelata. Riconosciamo che dopo il peccato la natura umana è stata corrotta. L’intelletto si è ottenebrato, la volontà è divenuta debole e tendente al male, le passioni hanno invaso il cuore. Lo stato effettivo dell’uomo è questo: tale è la nostra “natura corrotta e decaduta”. E questa “carne” lotta continuamente contro lo “Spirito”.

    1. g.   Errori nel comprendere la vita spirituale

    Gli errori nella vita spirituale si verificano quando dimenticando il tutto si accentua indebitamente un aspetto. La perfetta vita spirituale è una collaborazione armoniosa di tutti i componenti della nostra persona: il corpo, l’anima, lo spirito, la dimensione sociale, culturale. Tutto deve essere al suo posto e nella giusta misura. L’accentuazione unilaterale di uno o dell’altro componente conduce ad errori. Ne elenchiamo alcuni.

    1. Materialismo:  non possiamo accettare la teoria secondo la quale l’attività dell’anima, spirituale non è altro che il risultato delle condizioni materiali. Questo condizionamento è indegno dell’uomo libero. Tuttavia occorre riconoscere una componente materiale anche nella vita spirituale, purché non sia negata la precedenza dell’anima e il privilegio della libertà umana.
    2. Psicologismo: una certa psicologia vorrebbe dimostrare come la spiritualità dell’uomo vada a ricercarsi nei meccanismi della nostra psicologia risolvendosi in alla fin fine ad essa, anzi in funzione di essa. Certo la vita spirituale usa anche gli strumenti della psicologia e può essere aiutata in certa misura dai suoi supporti (soprattutto in caso di nevrosi e psicosi). Ma questa visione è limitata perché nega la presenza e l’azione di un terzo: lo Spirito di Dio. Chi conosce le profondità del nostro cuore in verità e solo Dio: la psicologia può solo aiutare a leggere ed eliminare alcuni condizionamenti che possono limitare la sua azione.
    3. Razionalismo: Alcuni credono che il cristianesimo non sia altro che uno dei grandi programmi, dei sistemi di verità, di filosofia di vita. Si coglie la dimensione etica del cristianesimo e nulla più (e per la maggior parte sino ad un certo punto!). Ma la fede cristiana non si risolve anzitutto in una dottrina religiosa, la sua pienezza e significato risiede nella carne di Cristo vero Dio e vero Uomo, nella sua stessa vita comunicata a noi dallo Spirito. Soloviev accusò Tolstoy di essere una sorta di Anticristo a causa della sua erronea concezione del cristianesimo come una raccolta di ottimi consigli di vita morale. Da questo versante d’altronde il cristianesimo non sarebbe neppure così nuovo. Sant’Ireneo[3] affermò che: Cristo portò “tutta la novità” perché “portò se stesso”.
    4. Volontarismo: La volontà certamente occorre nella vita spirituale. Agostino dice: “Dio ti ha creato senza di te ma senza di te non ti salverà”. Tuttavia occorre tener presente che la sola volontà non basta. Questo era l’errore del pelagianesimo[4]. Neppure la perfezione cristiana deve essere stimata e valutata solo secondo l’efficacia, soprattutto esteriore.
    5. Moralismo: Una forte volontà aiuta ad osservare i comandamenti e le varie prescrizioni. Certo l’osservanza dei comandamenti santifica. Ma il fatto che Gesù durante la sua vita si sia opposto al fariseismo dimostra che l’osservanza esteriore delle leggi può essere benissimo una maschera che copre altri valori che alla fin fine sono più importanti. Soprattutto l’osservanza fine a se stessa può illudere ad una falsa giustizia che nasconde la pretesa di fare a meno della grazia di Dio.
    6. Sentimentalismo: L’azione dello Spirito purifica non solo il cuore ma anche le nostre facoltà, dunque anche i sentimenti. Esso provoca gioia, consolazione, pace… Gli autori spirituali si ponevano la domanda se questi stati siano o meno necessari e, quando avvengono, se siano segno infallibile della presenza dello Spirito. Come giudicare lo stato di un uomo che non li possiede e che al contrario si sente desolato, tentato, disgustato di tutto? Bisogna evitare errori come nel messalianesimo[5] nel quale si affermava che si possiede la grazia solo quando la si avverte e che desolazione e inquietudine sono frutto di peccato. In realtà bisogna affermare che non si può misurare la grazia secondo i sentimenti che si avvertono (cfr le aridità), anche se normalmente la presenza dello Spirito porta con sé la pace e la gioia. Quando vi sono accogliamo con riconoscenza tali doni senza però che essi costituiscano il fine della vita spirituale. Diceva s. Francesco di Sales[6] che: “bisogna cercare il Dio delle consolazioni e non le consolazioni di Dio”.
    7. Spiritualismo: La vita spirituale è vita nello Spirito santo. Questi “spiritualizza” tutta la nostra persona. In questo senso riceve un vero senso tutto ciò che viene disperezzato dallo “spiritualismo” esasperato, ovvero la normale umile vita di ogni giorno, le sue preoccupazioni, le attività quotidiane. La realtà terrena è il luogo dove già si costruisce la “Gerusalemme celeste” verso la quale tutti tendiamo. Spiritualismo è ricerca del sovrannaturale ad ogni costo, miracoli, apparizioni tralasciando quelli che sono i mezzi ordinari attraverso la quale entra in noi la grazia. Spiritualismo era il difetto della corrente quietista[7] che ricercava ad ogni costo la grazia presente nel cuore a prescindere dall’attività umana. Dimenticava però che Dio è “attività pura”, perciò anche la vita divina nel cuore non deve soffocare l’attività umana, ma al contrario, la stimola. La vita spirituale non deve portare alla passività e all’inerzia.
    1. Sociologismo: alcuni sostengono che la vera esperienza cristiana deve giocarsi a livello di impegno sociale e politico. Certamente la Chiesa non può e non deve tenersi lontana dalla vita pubblica, sociale e culturale. Tuttavia non bisogna dimenticare le parole di Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Il Vangelo non deve essere ridotto a un semplice programma sociale (cfr teologia della liberazione).Ui u

     


    [1] Nicola Cabasilas nasce tra il 1320 e il 1322 a Tessalonica (Salonicco), in un’epoca di intensa attività culturale. Dall’epistolario giovanile e dalle testimonianze contemporanee egli appare come un fervido umanista. Compie brillanti studi classici, letterari e filosofici; si lega d’amicizia con Demetrio Cidone, suo compatriota e cancelliere degli imperatori, convertito alla Chiesa romana, il quale gli fa conoscere le opere di Tommaso d’Aquino; è coinvolto nella guerra civile del 1341 a Tessalonica. Divenne monaco forse negli ultimi anni. Le ultime menzioni di Cabasilas vivente si hanno in due lettere del 1391. Nella sua vasta opera filosofica, agiografica e teologica emergono la “Vita in Cristo”, in sette libri e il “Commento della divina liturgia.”

    [2] Fu patriarca di Alessandria e teologo, coinvolto nelle dispute cristologiche della sua epoca. Si oppose a Nestorio durante il concilio di Efeso del 431 (del quale fu la figura centrale). In tale ambito, per contrastare le tesi di Nestorio che negava la maternità divina di Maria, sviluppò una teoria dell’Incarnazione, che gli valse il titolo di doctor Incarnationis e che è considerata ancora valida dai teologi cristiani contemporanei. Perseguitò i novaziani, gli ebrei e i pagani, sino a quasi annientarne la presenza nella città. Divenuto vescovo e patriarca di Alessandria nel 412, secondo lo storico Socrate Scolastico acquistò «molto più potere di quanto ne avesse avuto il suo predecessore» e il suo episcopato «andò oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali». Cirillo giunse a svolgere anche un ruolo dalla forte connotazione politica e sociale nell’Egitto greco-romano di quel tempo. Le sue azioni sembrano essersi ispirate al criterio della difesa dell’ortodossia cristiana a ogni costo: espulse gli ebrei dalla città; chiuse le chiese dei novaziani, confiscandone il vasellame sacro e spogliando il loro vescovo Teopempto di tutti i suoi possedimenti; ed entrò in grave conflitto con il prefetto imperiale Oreste.

    [3] Nato a Smirne in Asia Minore, cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo vescovo di Smirne (discepolo dell’apostolo Giovanni), di Papia, di Melitone di Sardi ed altri, una buona formazione, religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lugdunum (attuale Lione) dal 177, in seguito alla morte, per martirio sotto Marco Aurelio, del primo vescovo della città san Potino, insieme ad altri 47 martiri. Fu anche inviato a Roma presso papa Eleuterio per dirimere questioni di ordine dottrinale. Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, anche se scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Venne sepolto nella chiesa di San Giovanni, che più tardi venne chiamata di Sant’Ireneo. La sua tomba e i suoi resti vennero distrutti nel 1562 dagli Ugonotti durante le guerre di religione. Il suo pensiero e le sue opere furono direttamente influenzati da Policarpo, che fu a suo tempo discepolo diretto di Giovanni Evangelista. Essi sono una testimonianza della tradizione apostolica, a quei tempi impegnata contro il proliferare di varie eresie, in particolare lo gnosticismo di cui Ireneo fu un forte oppositore. Delle sue opere ci sono pervenute per intero:- Adversus haereses (in 5 libri, Contro le eresie): testo in latino che tenta di confutare le principali espressioni dello gnosticismo. In sintesi, l’interesse del Vescovo era quello di confutare l’esistenza di due Cristi, uno di natura divina e l’altro di natura umana originati da due diversi eoni, idea questa molto cara alla gnosi. Di conseguenza, Ireneo di Lione insisterà sull’unicità ed unità della figura del Cristo.
    – e
    Demonstratio apostolicae praedicationis (Dimostrazione della predicazione apostolica), sintetica e precisa esposizione in armeno della dottrina cattolica. oltre a diversi frammenti, nelle edizioni moderne in genere pubblicati in appendice alle stesse. I curatori italiani delle sue opere sono Vittorino Dellagiacoma, Ubaldo Faldati, Ermanno M. Toniolo, Enzo Bellini, Elio Peretto, Giorgio Maschio o Augusto Cosentino. Uno dei suoi discepoli più noti è Ippolito di Roma.

    [4] Il Pelagianesimo è una teologia cristiana che prende il nome da Pelagio, che ne è considerato il fondatore, sebbene, ad un certo punto della sua vita, negasse molte delle dottrine legate al suo nome. Il cuore del Pelagianesimo è la credenza che il peccato originale non macchiò la natura umana e che la volontà dell’essere umano è ancora in grado di scegliere il bene o il male senza uno speciale aiuto divino; la conseguenza è che il peccato di Adamo fu quello di portare un “cattivo esempio” alla sua progenie, ma le sue azioni non hanno altra conseguenza. Nel Pelagianesimo, il ruolo di Gesù è quello di presentare un “buon esempio” in grado di bilanciare quello di Adamo e di fornire l’espiazione per i peccati degli esseri umani. L’umanità ha dunque la possibilità di obbedire ai vangeli e dunque la responsabilità piena per i peccati; i peccatori non sono vittime, ma criminali che hanno bisogno dell’espiazione di Gesù e di perdono. Le teorie pelagiane furono combattute da Agostino d’Ippona e furono definitivamente condannate come eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico.

    [5] Fu una setta eretica del IV secolo, che credeva che, in seguito al peccato originale d’Adamo, ognuno avesse un demone unito alla propria anima e che esso non fosse stato espulso con il battesimo: l’unica maniera di espellerlo era la continua ed incessante preghiera con lo scopo di eliminare ogni passione e desiderio. Il nome messaliani, infatti, deriva dall’aramaico mètzalin = preganti, e la stessa etimologia aveva la versione greca del loro nome, euchiti da euchetai. Comparvero intorno al 360 in Mesopotamia, come setta fondata da un certo Adelfio (da cui il nome adelfiani), espulso da Antiochia nel 376 dal vescovo Flaviano e autore del testo base della setta, Asceticus. Un’ulteriore condanna fu loro inflitta dal sinodo di Side del 390 ca. e dal concilio di Efeso del 431(dove venne condannato il loro libro Asceticus).  Eppure la setta continuò ad esistere: alla metà del V secolo, il loro capo era il prete Lampezio (da cui un’ennesima versione del loro nome), il quale scrisse un loro nuovo testo, chiamato Il testamento. In Armenia la setta, pur combattuta anche dalla Chiesa Nestoriana, continuò a prosperare fino al IX secolo. I m. influenzarono alcune eresie medievali come i pauliciani, i bogomilie i fratelli del Libero Spirito. Essi, come si diceva, consideravano inutili i sacramenti e la mediazione della Chiesa, praticando invece la preghiera incessante e la danza estatica, durante le quali erano posseduti dallo Spirito Santo (da cui, letteralmente, il nome di entusiasti, cioè “posseduti da Dio”), si rifiutavano di lavorare, vivendo nelle piazze e vagando da una città all’altra e prendendo, secondo loro, ad esempio la vita itinerante di Gesù e gli apostoli. Secondo Sant’Epifanio, esisteva, infine, un’altra setta molto simile, non cristiana, ma che adorava un unico Dio onnipotente. I seguaci di questa setta erano chiamati anche eufemiti e furono considerati i precursori dei messaliani, con i quali furono spesso confusi.

    [6] Francesco fu il figlio primogenito del signore di Boisy, nobile di antica famiglia savoiarda e ricevette una raffinata educazione. Il padre, che voleva per lui una carriera giuridica, lo mandò all’Università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove decise di divenire sacerdote. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del Chiablese, dominata dal Calvinismo, e si dedicò soprattutto alla predicazione, prediligendo il metodo del dialogo: inventò i cosiddetti «manifesti», che permettevano di raggiungere anche i fedeli più lontani. San Francesco di Sales, vescovo di Ginevra e dottore della Chiesa, è il più importante e celebre santo della Savoia. È stato proclamato santo nel 1665 da papa Alessandro VII ed è uno dei Dottori della Chiesa.Fu un grande scrittore di testi di dottrina spirituale tra i quali occorre ricordare: “Filoteo, ovvero trattato della vita devota”.

    [7] Il quietismo è una dottrina mistica, che ha lo scopo di indicare la strada verso Dio e la perfezione cristiana, consistente in uno stato di quiete passiva e fiduciosa dell’anima. Attraverso uno stato continuo di quiete e di unione in Dio, l’anima raggiunge una specie di indifferenza mistica, fino ad arrivare a negare le pratiche e le liturgie comuni della religione tradizionale. Opposto ad ogni forma di spiritualismo, il quietismo appare come una reazione al giansenismo, dal momento che l’itinerario mistico proposto rende Dio più accessibile all’anima umana, lontano dai rigorismi e dalle dure ascesi giansenistiche. La dottrina quietista nasce in Italia alla fine del XVII secolo grazie ad un teologo spagnolo, Miguel Molinos, e alla sua opera principale, la Guida Spirituale (1675). Essa è condannata dal papa Innocenzo XI con la bolla Caelestis Pastor del 20 novembre 1687. Le idee quietiste, combattute aspramente dal Bossuet, riprendono vigore in Francia con Madame Jeanne Guyon e la sua opera Moyen court et très facile de faire oraison (1685). Nel dibattito teologico si inserisce anche Fénelon con la sua opera Explications des maximes des saints sur la vie intérieure. Il 12 marzo 1699 papa Innocenzo XII, con il breve Cum alias, condannava 23 tesi tratte dall’opera di Fénelon.

     

  • 11 Apr

    Starec Silvano dell’Athos

    LA PACE

     Che fare per conoscere la pace nel proprio cuore e nel proprio corpo? Bisogna amare tutti gli uomini come se stessi ed essere pronti a morire in ogni istante. Se pensi alla morte, diventi umile, ti lasci guidare interamente da Dio, desideri essere in pace con tutti e amare tutti. Quando la pace di Cristo entra in te, ti rallegri di essere come Giobbe, seduto sulla spazzatura (cf. Gb 2,8). Gli altri conoscono gli onori, tu invece sei lieto di essere il più maltrattato. L’umiltà di Cristo è una grande cosa, così misteriosa che non si può spiegarla agli altri. Nel tuo amore, ti auguri il bene degli altri più del tuo. Sei felice quando vedi gli altri star meglio di te e sei triste quando vedi gli altri soffrire (cf. Rm 12,15).

    Ogni uomo desidera la pace, ma non sa come ottenerla. Un giorno abba Paissios cadde in preda all’ira e invocò il Signore: “Ti prego, liberami dall’ira!”. Il Signore gli apparve e gli disse: “Paissios, se non vuoi adirarti, non desiderare nulla, non giudicare il fratello, non detestare nessuno: così non sarai più preda dell’ira”. Così è infatti: chi rinuncia alla volontà propria per seguire quella di Dio e degli altri avrà sempre la pace nel cuore. Chi invece obbliga gli altri a fare ciò che vuole, non conoscerà mai la pace.

    Se qualcosa ti rattrista, pensa: “Il Signore conosce il mio cuore: se questa è la sua volontà, tutto concorrerà al bene mio e degli altri” (cf. Rm 8,28). Così dimorerai sempre nella pace. Se invece cominci a lamentarti e a dire: “Questo non va, non è cosa buona”, allora, per quanto tu digiuni e preghi, il tuo cuore non conoscerà mai la pace.

    Vuoi custodire la pace nel cuore? Vigila sul tuo spirito: custodisci i pensieri graditi a Dio e allontana quelli malvagi. Presta attenzione a quanto avviene nel tuo cuore. Chiediti sempre se il tuo cuore è in pace. Se non lo è, chiediti cosa hai fatto di male. Sii sobrio perché il tuo cuore dimori in pace: infatti la pace si perde anche per colpa del corpo.

    A volte succede di parlare male di qualcuno che non si conosce e che è un amico di Dio. Preòccupati solo di ciò che riguarda te, di quanto ti viene ordinato dall’igumeno o dal padre spirituale. Allora il Signore ti darà la sua forza perché tu possa obbedire, e sentirai in te i frutti dell’obbedienza: la pace e la preghiera continua. Vivendo in comunità perdiamo la pace di Dio perché non abbiamo imparato ad amare il fratello come ci chiede il Signore. Per esempio: tuo fratello ti insulta e tu lasci che l’ira s’impadronisca del tuo cuore. Lo giudichi e arrivi a detestarlo: allora senti che l’amore ti abbandona e non hai più la pace. Se vuoi avere la pace del cuore, prendi l’abitudine di amare chi ti fa del male e di pregare subito per lui (cf. Mt 5,44). Vuoi la pace del cuore? Chiedi con tutte le forze al Signore: “Concedimi di amare tutti gli uomini”.

    Il Signore sa che se non amiamo i nostri nemici non avremo mai la pace del cuore. Per questo ci ha lasciato il comandamento di amare i nemici (cf. Mt 5,44). Se non amiamo i nemici, avremo magari dei momenti di calma, ma non potrà durare. Se invece li amiamo, la pace resterà nel nostro cuore, giorno e notte. Quando lo Spirito ti concede la pace, guarda di non perderla occupandoti di cose senza importanza. Se dai la pace al fratello, il Signore te ne darà ancora di più. Ma se fai soffrire tuo fratello, la tristezza si impadronirà anche di te.

    Per conoscere la pace, medita la legge del Signore, giorno e notte (cf. Sal 1,2). È lo Spirito che ha scritto questa legge, e lo Spirito passerà dalla sacra Scrittura al tuo cuore. Proverai allora una dolcezza così grande che non sentirai più alcun gusto per le cose materiali. Se ami i beni terreni, il tuo cuore si svuota, tu diventi triste, indurito e non hai più voglia di pregare. L’avversario vede che non dimori più in Dio, ti attacca e semina liberamente nel tuo spirito ciò che vuole (cf. Lc 11,24‑25). Ti suggerisce un pensiero dopo l’altro e così tu passi tutta la giornata senza quiete e non riesci a contemplare Dio con cuore puro. Se un pensiero impuro ti si affaccia alla mente, caccialo immediatamente: così conserverai la pace del cuore. Se invece lo accogli, perderai l’amore di Dio e non potrai più pregare con fiducia.

    Quando perdi la pace?

    Quando pensi, anche per un attimo,

    di aver fatto qualcosa di buono;

    quando ti credi migliore del fratello;

    quando giudichi qualcuno (cf. Mt 7,1‑5);

    quando rimproveri senza dolcezza

    e senza amore;

    quando mangi molto;

    quando preghi senza zelo.

    Se perdi la pace, piangi i tuoi peccati e il Signore te li perdonerà. La gioia e la pace prenderanno nuovamente dimora nel tuo cuore e sentirai lo Spirito stesso dirti: “Ti sono perdonati i tuoi peccati!” (Lc 7,48). Non hai bisogno di altri testimoni: l’odio per il tuo peccato è la prova che il Signore l’ha perdonato.

    Come può conservare la pace un igumeno se i fratelli non gli obbediscono? È faticoso per lui, ed è motivo di sofferenza (cf. Eb 13,17). Per conservare la pace deve pensare: “Questi fratelli non mi obbediscono, ma il Signore li ama ugualmente: ha sofferto fino alla morte per la loro salvezza. Allora io devo pregare per loro con tutte le mie forze”. Il Signore concederà poi la pace a colui che prega. Tu sai per esperienza che chi prega si accosta a Dio con fiducia e amore, eppure anche tu sei un uomo peccatore. Ma il Signore ti farà gustare i frutti della preghiera. Prendi l’abitudine di pregare così per coloro che ti sono affidati da Dio: la tua anima conoscerà una pace profonda e un grande amore.

    Se sei responsabile degli altri e devi giudicare qualcuno per le sue cattive azioni, prega prima il Signore: “Donami un cuore pieno di bontà” (cf. 1Re 3,9‑12). Il Signore ama un cuore così. Allora potrai giudicare con giustizia. Se invece giudichi considerando solo le azioni, sicuramente ti sbaglierai e non sarai gradito al Signore.

    Un fratello può conservare la pace quando ha un igumeno violento e malvagio? Chi si adira con frequenza soffre molto anche lui: è abitato da uno spirito malvagio e soffre a motivo del proprio orgoglio. Devi essere cosciente di questo e pregare molto per il tuo igumeno che soffre di questo male. Il Signore vede la tua pazienza: perdonerà i tuoi peccati e ti concederà la preghiera ininterrotta.

    Pregare per quanti ci odiano e ci fanno soffrire è un’azione molto bella agli occhi di Dio. Il Signore allora ti darà la sua forza, giungerai alla sua conoscenza nello Spirito santo e, nel suo nome, sopporterai ogni dolore con gioia.

    Su questa terra siamo tutti inquieti e cerchiamo di essere liberi. Ma che cos’è la libertà? E come diventare liberi? Pochi lo sanno. Anch’io anelo alla libertà e la cerco giorno e notte. Io so che è presso Dio. Dio fa dono della libertà a chi ha il cuore umile e piange i propri peccati. Costui non desidera più fare ciò che gli piace, ma ciò che piace a Dio. Quando uno piange i propri peccati, il Signore gli concede la sua pace e lo rende libero di amare. Non c’è nulla di meglio al mondo che amare Dio e gli altri.

    Il Signore non vuole la morte del peccatore (cf. Ez 33,11). Quando questi piange le proprie colpe, il Signore gli dà la forza dello Spirito santo. Questa forza produce la pace e l’uomo è libero di essere in Dio con lo spirito e con il cuore. Quando lo Spirito santo perdona i nostri peccati, ci dà la libertà di pregare Dio con uno spirito puro. Allora contempliamo Dio liberamente e in lui troviamo la pace e la gioia. Questo significa essere veramente liberi. Ma senza Dio non si può essere liberi.

  • 10 Apr

    Evagrio Pontico

    ANTIRRHETIKOS

    GLI OTTO SPIRITI MALVAGI

    Capitolo 1

    La gola

     L’origine del frutto è il fiore e l’origine della vita attiva è la temperanza chi domina il proprio stomaco fa diminuire le passioni, al contrario chi è soggiogato dai cibi accresce i piaceri. Come Amalec è l’origine dei popoli così la gola lo è delle passioni. Come la legna è alimento del fuoco così i cibi sono alimento dello stomaco. Molta legna anima una grande fiamma e un’abbondanza di cibarie nutre la cupidigia. La fiamma si estingue quando viene meno la legna e la penuria di cibo spegne la cupidigia. Colui che ha potere sulla mascella sbaraglia gli stranieri e scioglie facilmente i vincoli delle proprie mani. Dalla mascella gettata via sgorga una fonte d’acqua e la liberazione dalla gola genera la pratica della contemplazione. Il palo della tenda, irrompendo, uccise la mascella nemica ed il lògos della temperanza uccide la passione. Il desiderio di cibo genera disobbedienza e una dilettosa degustazione caccia dal paradiso. Saziano la strozza i cibi fastosi e nutrono l’insonne verme dell’intemperanza. Un ventre indigente prepara ad una preghiera vigile, al contrario un ventre ben pieno invita ad un lungo sonno. Una mente sobria si raggiunge con una dieta molto scarna, mentre una vita piena di mollezze tuffa la mente nell’abisso. La preghiera del digiunatore è come il pulcino che vola più alto dell’aquila mentre quella del crapulone è avvolta nelle tenebre. La nube nasconde i raggi del sole e la grassa digestione dei cibi offusca la mente.

    Capitolo 2

    Uno specchio sporco non riflette distintamente la forma che gli si pone di fronte e l’intelletto, ottuso dalla sazietà, non accoglie la conoscenza di Dio. Una terra incolta genera spine e da una mente corrotta dalla gola germogliano cattivi pensieri. Come il brago non può emanare fragranza neppure nel goloso sentiamo il soave profumo della contemplazione. L’occhio del goloso scruta con curiosità i banchetti, mentre lo sguardo del temperante osserva i simposi dei saggi. L’anima del goloso enumera i ricordi dei martiri, mentre quella del temperante imita il loro esempio. Il soldato vigliacco rabbrividisce al suono della tromba che preannuncia la battaglia, ugualmente trema il goloso di fronte ai proclami di temperanza. Il monaco goloso, sottomesso a sferzate dal proprio stomaco, esige il suo tributo giornaliero. Il viandante che cammina di buona lena raggiungerà presto la città e il monaco temperante arriverà presto ad uno stato di pace; il viandante lento si fermerà solo, all’aperto, ed il monaco ghiottone non raggiungerà la casa dell’apàtheia. L’umido vapore del suffumigio profuma l’aria, come la preghiera del temperante delizia l’olfatto divino. Se ti concedi al desiderio dei cibi nulla più ti basterà per soddisfare il tuo piacere: il desiderio dei cibi, infatti, è come il fuoco che sempre accoglie e sempre avvampa. Una misura sufficiente riempie il vaso mentre un ventre sfondato non dirà mai: «basta!». L’estensione delle mani mise in fuga Amalec e una vita attiva elevata sottomette le passioni carnali.

    Capitolo 3

    Stermina tutto ciò che ti ispirano i vizi e mortifica fortemente la tua carne. In qualunque modo, infatti, sia ucciso il nemico, esso non ti incuterà più paura, così un corpo mortificato non turberà l’anima. Un cadavere non avverte il dolore del fuoco e tantomeno il temperante sente il piacere del desiderio estinto. Se percuoti un egiziano, nascondilo sotto la sabbia, e non ingrassare il corpo per una passione vinta: come infatti nella terra grassa germina ciò che è nascosto così nel corpo grasso rivive la passione. La fiamma che illanguidisce si riaccende se viene aggiunta della legna secca e il piacere che si va attenuando rivive nella sazietà dei cibi; non compiangere il corpo che si lagna per lo sfinimento e non rimpinzarlo con pranzi sontuosi: se infatti lo rinforzerai ti si rivolterà contro muovendoti una guerra senza tregua, finché renderà schiava la tua anima e ti menerà servo della lussuria. Il corpo indigente è come un docile cavallo e mai disarcionerà il cavaliere: questo, infatti, costretto dal freno, arretra e obbedisce alla mano di chi tiene le briglie, mentre il corpo, domato dalla fame e dalle veglie, non recalcitra per un cattivo pensiero che lo cavalca ne nitrisce eccitato dall’impeto delle passioni.

    Capitolo 4

    La lussuria

    La temperanza genera l’assennatezza, mentre la gola è madre della sfrenatezza; l’olio alimenta il lume della lucerna e la frequentazione delle donne attizza la fiaccola del piacere. La violenza dei flutti infuria contro il mercantile mal zavorrato come il pensiero della lussuria sulla mente intemperante. La lussuria accoglierà come alleata la sazietà, la congederà, starà con gli avversari e combatterà alla fine con i nemici. Rimane invulnerabile alle frecce nemiche colui che ama la tranquillità, chi invece si mescola alla folla riceve in continuazione percosse. Vedere una femmina è come un dardo velenoso, ferisce l’anima, vi intrude il tossico e quanto più perdura, tanto più alligna la sepsi. Chi intende difendersi da queste frecce sta lontano dalle affollate riunioni pubbliche e non gironzola a bocca aperta nei giorni di festa; è infatti assai meglio starsene a casa passando il tempo a pregare piuttosto che compiere l’opera del nemico credendo di onorare le feste. Evita la dimestichezza con le donne se desideri essere saggio e non dar loro la libertà di parlare e neppure fiducia. Infatti all’inizio hanno o simulano una certa cautela, ma in seguito osano di tutto spudoratamente: al primo abboccamento tengono gli occhi bassi, pigolano dolcemente, piangono commosse, l’atteggiamento è grave, sospirano con amarezza, pongono domande sulla castità e ascoltano attentamente; le vedi una seconda volta e alzano un poco il capo; la terza volta si avvicinano senza troppo pudore; hai sorriso e quelle si sono messe a ridere sguaiatamente; in seguito si fanno belle e ti si mostrano con ostentazione, cambia il loro sguardo annunciando l’ardenza, sollevano le sopracciglia e ruotano gli occhi, denudano il collo e abbandonano l’intero corpo al languore, pronunciano frasi ammollite nella passione e ti sfoggiano una voce fascinosa ad udirsi finché non espugnano completamente l’anima. Accade che questi ami ti adeschino alla morte e queste reti intrecciate ti trascinino alla perdizione; e dunque non farti neppure ingannare da quelle che si servono di discorsi ammodo: in costoro infatti si occulta il maligno veleno dei serpenti.

    Capitolo 5

    Accostati al fuoco ardente piuttosto che ad una giovane donna, soprattutto se sei giovane anche tu: quando infatti ti avvicini alla fiamma e senti un bel bruciore, ti puoi allontanare rapidamente, mentre quando sei lusingato dalle ciarle femminili, difficilmente riesci a darti alla fuga. L’erba cresce quand’è vicina all’acqua, come germina l’intemperanza bazzicando le femmine. Colui che si riempie il ventre e fa professione di saggezza è simile a chi afferma di frenare la forza del fuoco nella paglia. Come infatti è impossibile contrastare il mutevole guizzare del fuoco nella paglia, così è impossibile colmare nella sazietà l’impeto infiammato dell’intemperanza. Una colonna poggia sulla base e la passione della lussuria ha le fondamenta nella sazietà. La nave preda delle tempeste si affretta a raggiungere il porto e l’anima del saggio cerca la solitudine: l’una fugge le minacciose onde del mare, l’altra le forme femminili che portano dolore e rovina. Una fattezza abbellita di donna affonda più di un maroso: ma l’uno ti dà la possibilità di nuotare se vuoi salva la vita, invece la bellezza muliebre, dopo l’inganno, ti persuade a disprezzare anche la vita stessa. Il rovo solitario si sottrae intatto alla fiamma e il saggio che sa tenersi lontano dalle donne non si accende d’intemperanza: come infatti il ricordo del fuoco non brucia la mente, così neppure la passione ha vigore se manca la materia.

    Capitolo 6

    Se avrai pietà per il nemico esso ti sarà nemico, e se farai grazia alla passione essa ti si ribellerà contro. La vista delle donne eccita l’intemperante, mentre spinge il saggio a glorificare Dio; se in mezzo alle donne la passione sta tranquilla non prestare fede a chi ti annuncia che hai raggiunto l’apàtheia. E infatti il cane scodinzola quando è lasciato in mezzo alla folla, mentre, quando se ne allontana, mostra la propria malvagità. Solo quando il ricordo della donna affiorerà in te privo di passione, allora ritieniti giunto ai confini della saggezza. Quando invece la sua immagine ti spinge a vederla e i suoi strali accerchiano la tua anima, allora ritieniti fuori dalla virtù. Ma non devi perdurare così in tali pensieri né la tua mente deve per molto familiarizzare con le forme femminili, la passione è infatti recidiva e ha accanto il pericolo. Come infatti accade che un’appropriata fusione purifichi l’argento, ma, se prolungata, facilmente lo distrugga, così una insistente fantasia di donne distrugge la saggezza acquisita: non avere infatti familiarità a lungo con un volto immaginato affinché non ti si appicchino le fiamme del piacere e non bruci l’alone che circonda la tua anima: come infatti la scintilla, rimanendo in mezzo alla paglia, sprigiona le fiamme, così il ricordo della donna, persistendo, incendia il desiderio.

    Capitolo 7

    L’avarizia

    L’avarizia è la radice di tutti i mali e nutre come maligni ramoscelli le rimanenti passioni e non permette che inaridiscano quelle fiorite da essa. Chi vuole recidere le passioni ne estirpi la radice; se infatti poti per bene i rami e l’avarizia permane, non ti gioverà a nulla, perché essi, nonostante siano stati recisi, subito fioriscono. Il ricco monaco è come una nave troppo carica che viene sommersa dall’impeto di un fortunale: come infatti una nave che imbarca acqua è messa alla prova da ogni onda, così il ricco è sommerso dalle preoccupazioni. Il monaco che nulla possiede è invece un agile viaggiatore e trova dimora ovunque. Egli è come l’aquila che vola in alto e scende giù a cercare cibo quando vi è costretta. È superiore ad ogni prova, se la ride del presente e si leva in alto allontanandosi dalle cose terrene e accompagnandosi a quelle celesti: infatti ha ali leggere mai appesantite dalle preoccupazioni. Sopraggiunge l’oppressione ed egli lascia il luogo senza dolore; la morte arriva e quegli se ne va con animo sereno: infatti l’anima non è stata legata da vincolo terreno di sorta. Chi invece molto possiede soggiace alle preoccupazioni e, come il cane, è legato alla catena, e, se viene costretto ad andarsene, si porta dietro, come un grave peso e un’inutile afflizione, i ricordi delle sue ricchezze, è punto dalla tristezza e, quando ci pensa, soffre molto, ha perso le ricchezze e si tormenta nello scoramento. E se arriva la morte abbandona miseramente i suoi averi, rende l’anima, mentre l’occhio non tralascia gli affari; a malincuore viene trascinato via come uno schiavo fuggiasco, si separa dal corpo e non si separa dai suoi interessi: poiché la passione lo trattiene più di ciò che lo trascina via.

    Capitolo 8

    Il mare non si riempie mai del tutto pur ricevendo la gran massa d’acqua dei fiumi, allo stesso modo il desiderio di ricchezze dell’avaro non è mai sazio, egli le raddoppia e subito desidera quadruplicarle e non cessa mai questo raddoppio, finché la morte non mette fine a tale interminabile premura. Il monaco assennato baderà alle necessità del corpo e sopperirà con pane e acqua allo stomaco indigente, non adulerà i ricchi per il piacere del ventre, né asservirà la sua libera mente a molti padroni: infatti le mani sono sempre sufficienti a servire il corpo e soddisfare le necessità naturali. Il monaco che non possiede nulla è un pugile che non può essere colpito in pieno e un corridore veloce che raggiunge rapidamente il premio dell’invito celeste. Il monaco ricco gioisce per i molti proventi, mentre quello che non ha nulla gode per i premi che gli vengono dalle cose ben riuscite. Il monaco avaro lavora duramente mentre quello che non possiede nulla usa il tempo per la preghiera e la lettura. Il monaco avaro riempie d’oro i penetrali, mentre quello che nulla possiede tesoreggia in cielo. Che sia maledetto colui che foggia l’idolo e lo nasconde, simile a colui che è affetto da avarizia: l’uno infatti si prostra di fronte al falso e all’inutile, l’altro porta in sé l’immagine della ricchezza, come un simulacro.

    Capitolo 9

    L’ira

    L’ira e una passione furente e con facilità fa uscir di senno quelli che hanno la conoscenza, imbestialisce l’anima e degrada l’intero consorzio umano. Un vento impetuoso non piegherà la torre e l’animosità non trascina via l’anima mansueta. L’acqua è mossa dalla violenza dei venti e l’iracondo è agitato dai pensieri dissennati. Il monaco iracondo vede qualcuno e arrota i denti. La diffusione della nebbia condensa l’aria e il moto dell’ira annebbia la mente dell’iracondo. La nube procedendo offusca il sole e così il pensiero rancoroso ottunde la mente. Il leone in gabbia scuote continuamente i cardini come il violento nella cella (quando è assalito) dal pensiero dell’ira. È deliziosa la vista di un mare tranquillo, ma non è certo più dilettosa di uno stato di pace: infatti i delfini nuotano nel mare in bonaccia e i pensieri volti a Dio si immergono in uno stato di serenità. Il monaco magnanimo è una fonte tranquilla, gradevole bevanda offerta a tutti, mentre la mente dell’iracondo è continuamente agitata ed egli non darà l’acqua all’assetato e, se gliela darà, sarà intorbidata e nociva; gli occhi dell’animoso sono sconvolti e iniettati di sangue e annunziano un cuore in tumulto. Il volto del magnanimo mostra assennatezza e gli occhi benigni sono rivolti verso il basso.

    Capitolo 10

    La mansuetudine dell’uomo è ricordata da Dio e l’anima mite diviene il tempio dello Spirito Santo. Cristo reclina il capo in spirito mite e solo la mente pacifica diviene dimora della Santa Trinità. Le volpi allignano nell’anima rancorosa e le fiere si appiattano nel cuore sconvolto. Fugge l’uomo onesto l’alloggio malfamato, e Dio un cuore rancoroso. Una pietra che cade in acqua la agita, come un cattivo discorso il cuore dell’uomo. Allontana dalla tua anima i pensieri dell’ira e non bivacchi l’animosità nel recinto del tuo cuore e non lo turbi nel momento della preghiera: infatti come il fumo della paglia offusca la vista così la mente è turbata dal livore durante la preghiera. I pensieri dell’animoso sono prole di vipera e divorano il cuore che li ha generati. La sua preghiera è un incenso abominevole ed il salmodiare dà un suono sgradevole. Il dono del rancoroso è come un’offerta che brulica di formiche e di certo non si avvicinerà agli altari aspersi di acqua lustrale. L’animoso avrà sogni turbati e l’iracondo si immaginerà assalti di belve. L’uomo magnanimo ha la visione di consessi di santi angeli e colui che non porta rancore si esercita con discorsi spirituali e nella notte riceve la soluzione dei misteri.

    Capitolo 11

    La tristezza

    Il monaco affetto dalla tristezza non conosce il piacere spirituale: la tristezza è un abbattimento dell’anima e si forma dai pensieri dell’ira. Il desiderio di vendetta, infatti, è proprio dell’ira, l’insuccesso della vendetta genera la tristezza; la tristezza è la bocca del leone e facilmente divora colui che si rattrista. La tristezza è un verme del cuore e mangia la madre che l’ha generato. Soffre la madre quando partorisce il figlio, ma, una volta sgravata, è libera dal dolore; la tristezza, invece, mentre è generata, provoca lunghe doglie e, sopravvivendo, dopo i travagli, non porta minori sofferenze. Il monaco triste non conosce la letizia spirituale, come colui che ha una forte febbre non avverte il sapore del miele. Il monaco triste non saprà muovere la mente verso la contemplazione né sgorga da lui una preghiera pura: la tristezza è un impedimento per ogni bene. Avere i piedi legati è un impedimento per la corsa, così la tristezza è un ostacolo per la contemplazione. Il prigioniero dei barbari è legato con catene e la tristezza lega colui che è prigioniero delle passioni. In assenza di altre passioni la tristezza non ha forza come non ne ha un legame se manca chi lega. Colui che è avvinto dalla tristezza è vinto dalle passioni e come prova della sconfitta viene addotto il legame. Infatti la tristezza deriva dall’insuccesso del desiderio carnale poiché il desiderio è congiunto a tutte le passioni. Chi vincerà il desiderio vincerà le passioni e il vincitore delle passioni non sarà sottomesso dalla tristezza. Il temperante non è rattristato dalla penuria di cibo, né il saggio quando raggiunge una folle dissolutezza, né il mansueto che tralascia la vendetta, né l’umile se è privato dell’onore degli uomini, né il generoso quando incorre in una perdita finanziaria: essi evitarono con forza, infatti, il desiderio di queste cose: come infatti colui che è ben corazzato respinge i colpi, così l’uomo privo di passioni non è ferito dalla tristezza.

    Capitolo 12

    Lo scudo è la sicurezza del soldato e le mura lo sono della città: più sicura di entrambi è per il monaco l’apatheia. E infatti spesso una freccia scagliata da un forte braccio trapassa lo scudo e la moltitudine dei nemici abbatte le mura mentre la tristezza non può prevalere sull’apatheia. Colui che domina le passioni signoreggerà sulla tristezza, mentre chi è vinto dal piacere non sfuggirà ai suoi legami. Colui che si rattrista facilmente e simula un’assenza di passioni è come l’ammalato che finge di essere sano; come la malattia si rivela dall’incarnato, la presenza di una passione è dimostrata dalla tristezza. Colui che ama il mondo sarà molto afflitto mentre coloro che disprezzano ciò che vi è in esso saranno allietati per sempre. L’avaro, ricevuto un danno, sarà atrocemente rattristato, mentre colui che disprezza le ricchezze sarà sempre indenne dalla tristezza. Chi brama la gloria, al sopraggiungere del disonore, sarà addolorato, mentre l’umile lo accoglierà come un compagno. La fornace purifica l’argento di bassa lega e la tristezza di fronte a Dio il cuore preda dell’errore; la continua fusione impoverisce il piombo e la tristezza per le cose del mondo sminuisce l’intelletto. La caligine indebolisce la forza degli occhi e la tristezza inebetisce la mente dedita alla contemplazione; la luce del sole non raggiunge gli abissi marini e la visione della luce non rischiara un cuore rattristato; dolce è per tutti gli uomini il sorgere del sole, ma anche di questo si dispiace l’anima triste; l’ittero toglie il senso del gusto come la tristezza che sottrae all’anima la capacità di percepire. Ma colui che disprezza i piaceri del mondo non sarà turbato dai cattivi pensieri della tristezza.

    Capitolo 13

    L’acedia

    L’acedia è una debolezza dell’anima che insorge quando non si vive secondo natura né si fronteggia nobilmente la tentazione. Infatti la tentazione è per un’anima nobile ciò che è il cibo per un corpo vigoroso. Il vento del nord nutre i germogli e le tentazioni consolidano la fermezza dell’anima. La nube povera d’acqua è allontanata dal vento come la mente che non ha perseveranza dallo spirito dell’acedia. La rugiada primaverile accresce il frutto del campo e la parola spirituale esalta la fermezza dell’anima. Il flusso dell’acedia caccia il monaco dalla propria dimora, mentre colui che è perseverante se ne sta sempre tranquillo. L’acedioso adduce quale pretesto la visita degli ammalati, cosa che garantisce il proprio scopo. Il monaco acedioso è rapido a svolgere il suo ufficio e considera un precetto la propria soddisfazione; la pianta debole è piegata da una lieve brezza e immaginare la partenza distrae l’acedioso. Un albero ben piantato non è scosso dalla violenza dei venti e l’acedia non piega l’anima ben puntellata. Il monaco girovago, secco fuscello della solitudine, sta poco tranquillo e, senza volerlo, è sospinto qua e là di volta in volta. Un albero trapiantato non fruttifica e il monaco vagabondo non dà frutti di virtù. L’ammalato non è soddisfatto da un solo cibo e il monaco acedioso non lo è da una sola occupazione. Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l’acedioso.

    Capitolo 14

    L’occhio dell’acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite: la porta cigola e quello balza fuori, ode una voce e si sporge dalla finestra e non se ne va da lì finché, sedutosi, non si intorpidisce. Quando legge, l’acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e, distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po’, ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo, e infatti, di lì a poco, la fame gli risveglia l’anima con le sue preoccupazioni. Il monaco acedioso è pigro alla preghiera e di certo non pronuncerà mai le parole dell’orazione; come infatti l’ammalato non riesce a sollevare un peso eccessivo, così anche l’acedioso di sicuro non si occuperà con diligenza dei doveri verso Dio: all’uno infatti difetta la forza fisica, all’altro viene meno il vigore dell’anima. La pazienza, il far tutto con molta assiduità e il timor di Dio curano l’acedia. Disponi per te stesso una giusta misura in ogni attività e non desistere prima di averla conclusa, e prega assennatamente e con forza e lo spirito dell’acedia fuggirà da te.

    Capitolo 15

    La vanagloria

    La vanagloria è una passione irragionevole e facilmente s’intreccia con tutte le opere di virtù. Un disegno tracciato nell’acqua si confonde, come la fatica della virtù nell’anima vanagloriosa. Diviene candida la mano nascosta in seno e l’azione che rimane celata risplende di una luce più smagliante. L’edera s’avvinghia all’albero e, quando giunge in alto, ne dissecca la radice, così la vanagloria si origina dalle virtù e non si allontana finché non avrà reciso la loro forza. Il grappolo d’uva, buttato a terra, marcisce facilmente e la virtù, se si appoggia alla vanagloria, perisce. Il monaco vanaglorioso è un lavoratore senza salario: si impegna nel lavoro e non riceve alcuna paga; la borsa bucata non custodisce ciò che vi è riposto e la vanagloria distrugge i compensi delle virtù. La continenza del vanaglorioso è come il fumo del camino, entrambi si disperderanno nell’aria. Il vento cancella l’orma dell’uomo come l’elemosina del vanaglorioso. La pietra lanciata non raggiunge il cielo e la preghiera di chi desidera piacere agli uomini non salirà fino a Dio.

    Capitolo 16

    La vanagloria è uno scoglio sommerso: se vi urti contro rischi di perdere il carico. Nasconde il suo tesoro l’uomo prudente quanto il saggio monaco le fatiche della sua virtù. La vanagloria consiglia di pregare nelle piazze, colui che invece vi si oppone prega nella sua stanzetta. L’uomo poco assennato rende nota la propria ricchezza e spinge molti a tendergli insidie. Nascondi invece le tue cose: durante il cammino ti imbatterai in lestofanti finché non arriverai alla città della pace e potrai usare i tuoi beni tranquillamente. La virtù del vanaglorioso è un sacrificio consunto e non è certo offerto all’altare di Dio. L’acedia dissolve il vigore dell’anima, mentre la vanagloria fortifica la mente che dimentica Dio, rende robusto l’astenico e il vecchio più forte del giovane, solo finché sono molti i testimoni che assistono a tutto questo: allora saranno inutili il digiuno, la veglia e la preghiera, è infatti la pubblica approvazione che eccita lo zelo. Né metterai in vendita le tue fatiche per la fama, né rinuncerai alla gloria futura per essere acclamato. Infatti l’umana gloria si accampa in terra e sulla terra la sua fama si estingue, mentre la gloria della virtù rimane in eterno.

    Capitolo 17

    La superbia

    La superbia è un tumore dell’anima pieno di sangue. Se matura scoppierà, emanando un orribile fetore. Il bagliore del lampo annuncia il fragore del tuono e la presenza della vanagloria annuncia la superbia. L’anima del superbo raggiunge grandi altezze e da lì cade nell’abisso. Si ammala di superbia l’apostata di Dio ascrivendo alle proprie capacità le cose ben riuscite. Come colui che sale su una tela di ragno precipita, così cade colui che si appoggia alle proprie capacità. Un’abbondanza di frutti piega i rami dell’albero e un’abbondanza di virtù umilia la mente dell’uomo. Il frutto marcio è inutile al contadino e la virtù del superbo non è accetta a Dio. Il palo sostiene il ramo carico di frutti e il timore di Dio l’anima virtuosa. Come il peso dei frutti spezza il ramo così la superbia abbatte l’anima virtuosa. Non consegnare la tua anima alla superbia e non avrai terribili fantasie. L’anima del superbo è abbandonata da Dio e diviene oggetto di gioia maligna per i demoni. Di notte egli si immagina branchi di belve che l’assalgono e di giorno è sconvolto da pensieri di viltà. Quando dorme facilmente sussulta e quando veglia lo spaventa l’ombra di un uccello. Lo stormire delle fronde atterrisce il superbo e il suono dell’acqua spezza la sua anima. Colui che infatti poco prima si è opposto a Dio respingendo il suo soccorso, viene poi spaventato da volgari fantasmi.

    Capitolo 18

    La superbia precipitò l’arcangelo dal cielo e come un fulmine lo fece piombare sulla terra. L’umiltà invece conduce l’uomo verso il cielo e lo prepara a far parte del coro degli angeli. Di che ti inorgoglisci, o uomo, quando per natura sei melma e putredine, e perché ti sollevi sopra le nuvole? Guarda alla tua natura poiché sei terra e cenere e fra un po’ tornerai alla polvere, ora superbo e tra poco verme. A che pro sollevi il capo che tra non molto marcirà? Grande è l’uomo soccorso da Dio; una volta abbandonato egli riconobbe la debolezza della natura. Nulla possiedi che tu non abbia ricevuto da Dio. Perché dunque ti scoraggi per ciò che appartiene ad altri come se fosse tuo? Perché ti vanti di quel che viene dalla grazia di Dio come se fosse una tua personale proprietà? Riconosci colui che dona e non ti inorgoglire tanto: sei creatura di Dio, non disprezzare perciò il creatore. Dio ti soccorre, non respingere il beneficatore. Sei giunto alla sommità della tua condizione, ma lui ti ha guidato; hai agito rettamente secondo virtù ed egli ti ha condotto. Glorifica chi ti ha innalzato per rimanere al sicuro nelle altezze; riconosci colui che ha le tue stesse origini perché la sostanza è la medesima e non rifiutare per iattanza questa parentela.

    Capitolo 19

    Umile e moderato è colui che riconosce questa parentela; ma il demiurgo plasmò sia lui sia il superbo. Non disprezzare l’umile: infatti egli è più al sicuro di te: cammina sulla terra e non precipita; ma colui che sale più in alto, se cade, si sfracellerà. Il monaco superbo è come un albero senza radici e non sopporta l’impeto del vento. Una mente senza boria è come una cittadella ben munita e chi vi abita sarà imprendibile. Un soffio di vento solleva la festuca e l’insulto porta il superbo alla follia. Una bolla scoppiata svanisce e la memoria del superbo perisce. La parola dell’umile addolcisce l’anima, mentre quella del superbo è ripiena di millanteria. Dio si piega alla preghiera dell’umile, è invece esasperato dalla supplica del superbo. L’umiltà è la corona della casa e tiene al sicuro chi vi entra. Quando salirai al sommo delle virtù allora avrai molto bisogno di sicurezza. Colui infatti che cade sul pavimento rapidamente si rialza, ma chi precipita da grandi altezze, rischia la morte. La pietra preziosa si addice al bracciale d’oro e l’umiltà umana risplende di molte virtù.

     

  • 22 Gen

    PERCHÉ DIVENTI VITA VISSUTA

    E. CITTERIO: in L. GUCCINI, Vita consacrata: le radici ritrovate, EDB, Bologna, 2006, pp. 225-240

        La costatazione di fondo che si rileva guardando oggi in generale l’esperienza e la pratica cristiana nella chiesa sembra questa: la santità non fa più sognare. Oserei dire: la santità cristiana non fa più sognare. Il Concilio Vaticano II, con il capitolo V della Lumen Gentium, consacrava come acquisito in modo nuovo alla coscienza ecclesiale il dato tradizionale della universale vocazione alla santità nella chiesa. Paradossalmente, negli anni successivi, si registrava nettissimo il declino del culto dei santi a favore, giustamente, della centralità della Parola di Dio e della figura di Cristo, ma con la conseguenza o, forse meglio, la concomitanza, della messa in sordina dello stesso ideale di santità, come se la possibilità dell’esperienza stessa di Dio, tratto peculiare della santità, non fosse più percepito come costitutivo dell’essere cristiani e dell’essere chiesa. La VC nel suo insieme lo registrava in modo marcato. E quello che si può dire riferito all’ideale di santità lo si può estendere alla VC nel suo insieme.     
    Sembra che le immagini tradizionali di santità che agiscono come clichés mentali non interessino più le energie vive della coscienza moderna, che si direbbe alimentarsi altrove. Se ci si interroga su chi sia un santo o su come ce lo si immagina oggi,  emerge l’immagine stereotipa, ingombrante, senza più presa sull’immaginario interiore, del santo come dell’uomo ‘perfetto’, al di sopra delle fragilità e dei tormenti dell’esistenza, un modello impossibile da imitare o comunque tanto distante che non concerne più la nostra vita vera. E’ l’immagine a sfondo moralistico che tiene ancora banco nelle pieghe della coscienza cristiana. Santità confusa con perfezione, dove perfezione è intesa riduttivamente come ideale morale e basta. Di contro, si vorrebbe suggerire la figura possibile di un santo nei termini di un ideale che la modernità ha evidenziato con prepotenza e che si presenta con la forza di ciò a cui non si può rinunciare, l’ideale della autenticità, della realizzazione di se stessi, della fedeltà a se stessi nella totalità di un impegno di vita, figura, questa, che ispira fascino e ammirazione. A differenza di cinquant’anni fa, non ci si stupisce di trovare un ‘santo’ oltre i confini della chiesa o della propria chiesa; non fa problema ammirare esperienze e persone in contesti differenti, nelle più disparate situazioni di vita e in religioni diverse. E ciò accresce la difficoltà di riconoscersi globalmente e significativamente in quelle esperienze, spesso in contrasto con le proprie radici. Di qui il senso di frammentazione e confusione dell’umanità nella nostra società e nell’esperienza della stessa VC.
        La vita consacrata, in tutte le sue forme, nella chiesa, ha sempre comportato un ‘magistero spirituale’, vale a dire ha offerto alla chiesa il dono di quel ‘supplemento’ d’anima all’esperienza cristiana lasciando presagire la potenza dello Spirito che lavora i cuori aprendoli al regno di Dio e aprendo il regno di Dio ai cuori. Ma dire ‘magistero spirituale’ significa alludere alla possibilità concreta di una santità che parli ai cuori, che riverberi lo splendore della presenza di Dio vicino al suo popolo. Essenzialmente a questo mi sembri rimandi il ritorno al vangelo invocato per la vita consacrata.
        Ritornare al vangelo esprime assai bene la legge costante che ha caratterizzato, nella storia, ogni ripresa spirituale nella chiesa per ridare vitalità e profondità alla sua azione : il ritorno alle fonti. E’lo stesso principio che ha guidato la riforma del Concilio Vaticano II. Non è tipica di oggi; è tipica dei passaggi ‘significativi’ della storia della chiesa, di tutte le chiese. Ecco dunque la prima questione: cosa significa per noi, oggi, ritornare al vangelo? Non è poi così immediato da assimilare il mistero del regno dei cieli annunciato dal vangelo, sebbene non sia per nulla complicato. La domanda vera allora credo possa suonare così: come fare, come disporci per assimilare la ‘potenza’ del vangelo? E’ la questione delle radici, del fondamento, da non confondersi con quella degli ideali. L’ideale è più una questione di investimento psichico, il fondamento riguarda le energie del cuore. L’ideale ha bisogno di entusiasmo, il fondamento di intelligenza spirituale. E mi sembra che oggi manchi più l’intelligenza spirituale che l’entusiasmo.
        Porre la questione delle radici significa, in altre parole, introdurre il discorso sulla santità possibile, vale a dire sull’amabilità e la possibilità di vivere senza vergogna e senza illusione, in comunione con Dio, nella grazia di una ritrovata fraternità allargata a tutti e scaturita da una visione teologica di chiesa come comunione, secondo la rivelazione e la responsabilità che scaturiscono dal Vangelo. La santità non risponde ad un ideale, ma riguarda il fondamento. Se non diventano vere per noi stessi le parole di Paolo: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” ( Ef. 2,19), se Dio per noi risulta straniero, riusciremo mai a far sentire a casa sua un fratello nel nostro cuore? Quando si riceve un’afflizione, un’ingiustizia, vera o presunta, come accogliere in pace il fratello se non mi sono mai sentito accolto dalla dolcezza del perdono di Dio per me? A partire da questa esperienza personale con Dio possiamo sperare di sanare i nostri rapporti con il prossimo e con il mondo.
        Ogni discorso sulla vita consacrata non può che svilupparsi a partire da qui. Così, la distinzione delle varie forme di vita nella chiesa, tra ‘vita monastica’ e ‘vita nel mondo’,  tra ‘vita religiosa’ e ‘vita laica’, risulta del tutto relativa rispetto all’unica cosa fondamentale, cioè la vocazione alla santità, alla vita nello Spirito. Se nella tradizione latina parliamo, rispetto alla vita religiosa, di ‘consigli evangelici’, nelle fonti orientali si parla di ‘comandamenti evangelici’, di ‘comandamenti del Signore’, valevoli per tutti e che, evidentemente, ciascuno è chiamato a vivere nel proprio stato di vita.

    Porre la domanda sulla santità che parli ai cuori da dentro la nostra storia, significa rispondere a queste tre interrogazioni:
    1) quale  porta di accesso al mistero di Dio
    2) quali attese dei cuori
    3) quale responsabilità specifica

    1) Quale porta di accesso al mistero di Dio.
        E’ la questione del clima in cui vivere i rapporti, in cui verificare i propositi e i desideri, in cui assolvere gli impegni, in cui crescere sani. Se nell’esperienza dell’amore di Dio e del prossimo confluisce ogni atto buono, allora, nel concreto della vita quotidiana fraterna, la porta che introduce più direttamente a quella esperienza non è che l’obbedienza reciproca, come dicono i Padri: “Io non vedo in tutte le Scritture che Dio abbia altra volontà sull’uomo se non che si umilii in tutto davanti al suo prossimo, che rinunci in tutto alle sue volontà, che supplichi incessantemente il Suo soccorso e custodisca i suoi occhi dal sonno della dimenticanza” (Isaia di Scete). Non che la cosa sia facile, ma risulta profondamente vera. Quando preghiamo, nel Padre Nostro, che sia fatta la volontà di Dio, domandiamo prima di tutto di fare esperienza dell’amore di benevolenza del Padre nei nostri confronti, di fare esperienza dell’amore di salvezza che Dio ha per gli uomini, che si esprime nella grazia della fraternità realizzata. Senza questo non si può vivere con gioia, non si potrà praticare nessun comandamento con gioia e gustare il regno di Dio.
    L’obbedienza è intesa come sottomissione a Dio, alla vita, ai fratelli, in pacatezza e umiltà,  prima ancora che alla regola e al superiore. L’obbedienza evidentemente non è fine a se stessa; essa tende come tutta l’ascesi all’intimità della preghiera e, come quest’ultima, esige un lungo lavorio del cuore. Comporta anche un frutto, sboccia cioè nell’amore. E l’amore verifica la sincerità di cuore nell’obbedienza. In effetti la rinuncia alla volontà propria tende a far spazio alla mitezza, ad allargare il cuore all’amore verso Dio e verso i fratelli. E’ la vittoria sull’ira. Chinare la testa davanti a Dio insegna a chinarla davanti ai fratelli e viceversa. L’aspetto straordinario di questo clima di obbedienza è costituito dal fatto che crea comunione nel rispetto di ciascuno: è il primato della persona sull’organizzazione. Ecco perché é così importante che la comunità non si regga su giudizi o mire umane sia da parte del superiore che dei fratelli; sarebbero in qualche modo sacrificate le persone. Una comunità evangelica è sempre e sopra tutto una comunità di persone, che cresce se ciascuno cresce. Far valere questo principio, anche nel lavorare, significa salvaguardarsi da agitazione e affanno, mantenere un clima di comunione che promuove l’umano levandogli quell’opacità che gli impedisce di riflettere il divino. L’importante è scoprire che cercando di vivere così, giorno per giorno, dentro le difficoltà e le gioie quotidiane, il cuore non sta allo stretto, i confini sono spaziosi e le energie dell’anima si rinnovano. Avere un cuore totalmente remissivo alla rivelazione di Dio, questo è l’anelito. E la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo” Continuando: “se anche voi perdonerete”, cioè farete grazia di voi a tutti in Cristo, il mondo risplenderà ancora della Sua presenza. L’unica perfezione desiderabile è appunto quella di lasciarsi penetrare fin nelle midolla da questo far grazia di Sé da parte di Dio agli uomini, in Cristo, per la potenza del suo Spirito. Come dice stupendamente s. Francesco, sintesi dell’intera Tradizione: “ciò che devono  desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”. La volontà del Padre è vedere l’uomo investito dal suo Spirito, consegnato alla sua misteriosa operazione, quella cioè di compiere quel mistero di riconciliazione rivelato a noi in Cristo. La santità dell’uomo non è che la volontà di compiere quel compito, la risposta a quell’ appello che viene dal desiderio di Dio di essere in comunione con gli uomini.
    E per lasciare una figura di riferimento legata alle Scritture, pongo il mistero dell’obbedienza nello spazio che  intercorre tra i due versetti: “ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tm 6,14) e  “Paolo, apostolo … per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù” (2 Tm 1,1). Sta tutto qui il dinamismo interiore che caratterizza la VC: senza lasciar cadere o travisare o annacquare la Parola di Dio né per se stessi né per gli altri perché si manifesti al nostro cuore il volto del Signore, dentro la nostra storia, arrivare a gustare e a far gustare quella ‘promessa della vita in Cristo Gesù’. La nostra credibilità come la nostra identità interiore si gioca tutta qui.  E a questo tende anche la nostra missione, perché qui risiede tutta la consolazione della speranza che abita i credenti e li abilita a percorrere le strade del mondo per essere compagni degli uomini nel nome di Dio.

    2) Quali attese dei cuori.
        Ho l’impressione che nella chiesa ci si sforzi di aprire la parola di Dio ai cuori, ma non altrettanto di aprire i cuori alla parola di Dio. Credo anzi  che proprio questo sia il preciso compito pastorale della chiesa, lo ‘spazio’ della missione della VC oggi nella chiesa, il punto dove il ‘magistero’ spirituale dei ‘consacrati’ risulta particolarmente efficace e fecondo.     Si avverte oggi un profondo disagio interiore dovuto alla perdita di una identità e di un’armonia interiori che, né la fede così come viene vissuta e trasmessa comunemente, né la cultura con i suoi surrogati, sembrano capaci di ripristinare. Si sente vivo il bisogno di senso, di una conoscenza di se stessi che non si riduca al piano psicologico, oggi così inflazionato. Si vive in stato di perenne autodifesa, anche contro se stessi. Forse tanta arroganza o egoismo derivano semplicemente dall’incapacità di accogliersi e guardarsi con bontà, senza disprezzo, di vivere in intimità e tenerezza, qualità così essenziali all’umanità degli uomini e delle donne, all’esperienza stessa di fede dei credenti. Ci si trova in preda alla solitudine, ad una certa confusione, con la nostalgia del vigore di una fede di un tempo, al cui languore attuale però non ci si arrende. Il cuore chiede altro, sebbene non si sappia più bene cosa né come fare per soddisfarlo e pur tuttavia così sensibile a nuove suggestioni.
        Qui si situa la piacevole scoperta di un compagno di viaggio, di un fratello o di una sorella che parla la nostra lingua, si fa interprete dei nostri aneliti, ascolta e comprende, porta la consolazione di Dio, si fa ‘collaboratore della nostra gioia’ (cfr. 2 Cor 1,24). Tutti sanno di portare un infinito dentro di sé ma, più che racchiuso, è avvertito come ormai nascosto. Ora, l’atteggiamento di mitezza, che l’obbedienza reciproca favorisce, toglie ogni barriera, a chiunque, comunque si trovi, da dovunque provenga, per realizzare quella ‘vicinanza’ così fortemente sentita dai cuori, proprio perché induce all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori, insieme. Proviene da qui quella particolare sensibilità spirituale che, rispondendo alle attese dei cuori, suscita nuove energie e nuovi cammini di vita.
    Se chiedessimo in giro quali sono le attese degli uomini nei confronti delle persone consacrate, credo troveremmo risposte del genere:
    1) un uomo o una donna di Dio dovrebbe vedere dove i miei occhi non riescono a vedere. Dovrebbe far emergere le potenzialità di uomo e di credente in ognuno che incontra, aiutando ciascuno a viversi come una persona nuova, magari ancora sconosciuta a se stessa.  
    2) mi aspetto l’accoglienza di tutta la mia persona senza tralasciare alcun aspetto in modo che io non debba mai nascondermi dietro nulla. Per questo, deve avere un cuore grande e sconfinato quanto lo sono le debolezze di chi gli sta accanto.
    3) un uomo o una donna di Dio deve saper coniugare lucidità con bontà, verità con mitezza: diventare più amorevoli significa diventare più veri.

    4)  ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’!  Una persona consacrata è colei che porta su di sé questa ‘benedizione’, questo senso di grazia, questo non essere solo se stessi, ma essere per definizione colui che viene nel nome di un altro. Quando Gesù invita: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe” (Lc 10,2), è come se ci dicesse di  pregare il Padre perché continui a farci grazia di Sé attraverso l’incontro con i suoi servi. E non è possibile riuscire benevoli al cuore dell’altro se non si viene nel nome di un Altro.

    Evidentemente, un uomo che sappia con dolcezza coltivare dentro di sé la tenerezza verso Dio  in risposta al perdono che gli viene comunicato e che guarisce la sua umanità, è certamente più prezioso, anche ai fini pastorali, di uno che si affanni ad escogitare continue strategie per attrarre i fratelli al Signore. La cosa attraente per gli uomini è proprio questo: che il cielo non sia più troppo lontano, ma si lasci gustare nella sua bontà e che qualcosa di questa bontà gustata sia percepibile nell’uomo e nella donna di Dio, al di là dei suoi limiti e delle sue fragilità. Da questo punto di vista i difetti peggiori per un uomo e una donna di Dio non possono che essere ira, pretesa, ambizione, affermazione di sé in quanto queste passioni, che rivelano un’ipertrofia dell’io, sono i più contrastanti con quel rapporto affettuoso col Signore che è condizione essenziale per vivere l’esperienza del perdono. Abbiamo come perso, nella nostra vita interiore, questo aspetto di affettuosità, di tenerezza, nel rapporto col Signore. Per cui ne paghiamo le spese anche nel rapporto con gli altri e con noi stessi.
        Del resto, se l’obbedienza reciproca è la porta di accesso all’accoglienza del mistero di Dio e dei cuori insieme, lo è anche per il fatto che, disponendo i cuori alla mitezza, induce a vivere in modo tranquillo, semplice, senza bisogno di esibire o di difendere nulla, senza sentir nessuno avversario o concorrente in nulla. La ‘serietà’ di una vita religiosa si misura da qui, perché su questo punto appare la posta in gioco: se il Signore costituisce davvero la risposta ai bisogni dei cuori. Voler disporre il proprio cuore in quel ‘clima’ significa lavorare sui punti nodali delle sue resistenze, per sé come per gli altri. In gioco è la trasmissione viva della nostra fede, il contenuto stesso della ‘missione’ della chiesa.

        I punti nodali sarebbero tre e rispondono agli atteggiamenti del cuore che strutturano la mitezza e danno ragione del mistero del Signore che si rivela ai cuori: la disponibilità che vince la non fiducia, l’accondiscendenza che vince l’asprezza, la capacità di essere solidali che vince la paura di vivere.

    a) disponibilità. Si tratta di lasciare un reale spazio alla convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. Persone e cuori non bisognerebbe mai sacrificarli, sia pure con le più nobili intenzioni, a progetti spirituali particolari, sempre troppo terreni. La Parola del Signore ci dà coscienza di essere servi, quindi non siamo noi ad avere in proprietà o in affido i nostri fratelli. Sono piuttosto loro a possederci, noi apparteniamo a loro (cfr. 1 Cor. 3,21-23; 2 Cor 4,5). Ogni loro richiesta, espressa o inespressa, suona come un appello per noi: l’appello di Dio che vuole ‘compiere’ la sua creazione. Anche quel ‘dare la vita’, di cui ci fa comando il Signore per ritrovarla, non va compreso ponendo l’accento sul noi che vogliamo darla, ma sul dinamismo che ci consente di darla, per la potenza del suo Spirito. Dare la vita significa allora rispondere al desiderio di Dio presente in ogni uomo che chiede di essere ascoltato ed amato perché la vita si espanda in pienezza e si realizzi il regno di Dio tra noi. Ogni desiderio di comunione realizzato è infatti presenza del regno di Dio. Quindi, prima ancora che di disponibilità ad una persona o ad una comunità, si tratta in verità di disponibilità alla ‘sinergia’ con Dio che continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza. Per questo la disponibilità si risolve prima di tutto in una forma di affidamento a Dio, capace per ciò stesso di suscitare a sua volta il medesimo tipo di affidamento nelle anime che possono così ritrovare se stesse e aprirsi a Dio. E’ la vittoria sulla paura di dare fiducia, sulla resistenza a fidarsi che blocca una crescita sana, soprattutto nella fede.

    b) accondiscendenza. Si traduce essenzialmente in uno sguardo costante di benevolenza, di pazienza e di tenerezza, avvertito immediatamente dalle persone che così non si sentono mai giudicate, soppesate, valutate. In effetti la vera speranza che parla al cuore è quella di accorgersi che Dio c’è ed è presente se si sente che è Lui che dà ad un uomo o a una donna la capacità di usarci tenerezza, di essere buoni con noi. Questo conforta più dell’affetto istintivo tra le creature umane in quanto si sperimenta la gratuità del rapporto, perché si riconosce  che il dono ricevuto non risponde a precondizioni o a dati meriti, allarga il cuore alla riconoscenza e lo apre alla percezione della presenza di Dio, pur senza, spesso, che si sia parlato esplicitamente di Dio. L’esperienza insegna che diventare più amorevoli significa diventare più veri e di conseguenza permettere di vedere la realtà più in verità. Nella visione cristiana la verità si coniuga con l’amore, la lucidità con la bontà. L’esperienza di questo fatto è liberante per le anime e consente di schiudere il livello psicologico alla dimensione spirituale. E’ come un accedere al mistero del cuore umano, al mistero delle sue origini divine. Un passo di s. Paolo, forse troppo sottovalutato, illustra bene questi concatenamenti: ” Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari ” (1 Tess. 2,8). Le domande da porsi allora sono le seguenti: è  possibile dare il vangelo ad una persona senza che questa ci diventi cara? Ed è possibile che questa ci diventi cara senza che in qualche modo senta di esserlo diventata?  Solo a patto che una persona ci diventi cara, il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di dare parola ai suoi disagi, di offrire una rivelazione vissuta e vivente che suscita una risposta, una conversione, un espandersi e un lasciarsi prendere da quella nostalgia di Dio che già portiamo racchiusa dentro di noi. E’ la vittoria sull’asprezza contro di noi, la vita, la storia, la chiesa, Dio.

    c) capacità di essere solidali.  Si tratta di imparare a vivere solidali con Dio e con l’umanità, nella coscienza di poter essere sempre e solo peccatori perdonati. L’innocenza che possiamo vantare non è che l’innocenza dell’uomo che si sa perdonato, per cui può offrire all’altro quello che lui stesso riceve. In questo senso non c’è incontro che non sia un invito a gustare la bontà del Signore. Il soggetto al quale è dato gustare e vedere la bontà del Signore è certamente tutta l’umanità dell’io nella sua concretezza e integralità, ma, all’interno di questa, è quel principio che muove tutta la propria umanità verso il compimento della sua vocazione e moralità. E’ questo principio, questo soggetto  che può diventare ‘nuovo’, ed è a tale soggetto che si rivolge la premura pastorale. E succede anche che quando si vive nel pentimento e nella mansuetudine si supera pure quella certa ostilità che registriamo da parte delle cose stesse e degli avvenimenti e che ci dà l’impressione di una specie di congiura contro di noi. Sentimento infantile, ma non di meno insidioso e persistente Un bellissimo passo di Origene, nella sua quarta omelia sul libro di Giosuè, illustra con precisione questo fatto: “Tutte le creature sono ostili al peccatore, come sta scritto a proposito degli Egiziani: la terra era contro di loro; il fiume era contro, l’aria stessa, il cielo era contro di loro. Per il giusto, invece, anche le realtà che appaiono inaccessibili diventano piane e proclivi. Il Mar Rosso il giusto lo attraversa come terra asciutta … Il giusto, anche se entra nel deserto spaventoso e immenso, viene servito del cibo dal cielo. … Non vi è assolutamente nulla che il giusto debba temere, ogni creatura infatti è al suo servizio”. Torniamo ad essere alleati della vita, viene superata la paura del vivere.
    In tal modo le domande di autenticità (che riguarda la fede e la vita in genere) e di pienezza di vita (sapere cosa è realmente desiderabile), che riassumono le attese dei cuori, incominciano a vedere una soluzione.

    3) quale responsabilità specifica.
    Ed infine la questione dello stile, che costituisce la dimensione di credibilità della missione. In un vecchio film western mi ricordo che il protagonista, buttando nel fiume da un treno in corsa colui che aveva pensato avesse potuto sostituirlo come re dei ‘viaggiatori non paganti’ dei treni di tutta l’America, esclamava concludendo il film: hai stoffa, ma ti manca lo stile. Non sei degno di succedermi!
    E’ lo stile della responsabilità dei consacrati nella chiesa e nel mondo come testimoni di un ‘mistero’ che ingloba tutti. Si tratta di una testimonianza che nasce dentro un’immagine di chiesa sancta simul et semper purificanda (Lumen Gentium, 8), riscoperta nella coscienza dei fedeli, per l’azione del concilio Vaticano II, nella sua dimensione misterica prima di ogni definizione giuridica che aveva fatto prevalere una ecclesiologia dove tutto era pensato sotto l’obbligazione della legge, facendo perdere di vista la realtà del suo costituirsi e agire nella storia dell’uomo e per l’uomo. Una chiesa che rinnovi l’esperienza della Pentecoste mediante l’annuncio del Vangelo nelle circostanze attuali della storia è una chiesa che desidera rendere prossimo il Dio santo che si rivela ‘sempre più umano’, una chiesa che rinuncia ad un sapere sicuro sulla società per lasciarsi raggiungere dalla vocazione umana che la supera, una chiesa che si dà un ruolo più modesto, ad immagine del Dio di cui è testimone. In effetti, con il Concilio Vaticano II si è operata una trasformazione di prospettiva, di orizzonte interiore e la trasformazione opera nel senso di un allargamento, di una estensione dei confini interiori. La coscienza di essere portatori per l’uomo di un’offerta che ci precede e ci ingloba rende la Chiesa più umile e attenta.
        La domanda allora pertinente quanto alla responsabilità suona: quali i criteri di autenticità dell’agire apostolico? L’autenticità a che cosa è referenziale?
    La responsabilità comporta, anzitutto, la coscienza di un mistero, quello dell’edificazione del corpo di Cristo, che è la chiesa. E la chiesa è comunione in missione di comunione nella storia. Come riportavo sopra, la rivelazione di Dio che costituisce il grande annuncio della nostra fede non è che questa: “Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,32). Letteralmente: “Dio ha fatto grazia di Sé a voi in Cristo”. Prendendo sul serio tale rivelazione, nessun incontro è privo di un significato segreto se gli occhi del cuore sono desti a cogliere l’opera di Dio che vuole condurre tutti e ciascuno a salvezza. E’ dentro la coscienza di tale mistero che la responsabilità si traduce nell’accettazione di un compito, il cui senso sta tutto nel favorire la riconciliazione con Dio e con se stessi, con i fratelli, con il mondo, liberando gli spazi del cuore e creando rapporti rinnovati. Questo fa sì che il valore dell’agire apostolico non dipenda da ciò che si fa, come se fosse più importante una cosa piuttosto che un’altra, ma più semplicemente dal vivere quello che si fa, qualunque cosa sia, nella coscienza di quel mistero. Non solo, ma un’opera risulta evangelica ed evangelizzante non tanto quanto al contenuto bensì rispetto alla modalità di compierla, in diretta dipendenza dalla trasparenza della riconciliazione vissuta. Non basta annunciare una verità, se poi la difesa di questa verità risulta mondana.
    Il primo elemento caratteristico di un compito siffatto è quello di portare alla vita. Si è tanto smarrito il senso della realtà di Dio che l’uomo è rimasto in balia delle sue ossessioni. E’ tanto difficile per l’uomo d’oggi, anche per il credente, per le stesse persone consacrate, custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo dell’anima. Vivere senza illusioni e senza vergogna, evitare cioè di cadere nelle opposte tentazioni di idolatrare o disprezzare la carne, la dimensione umana nella sua concretezza, non è agevole. Eppure cielo e terra possono ancora essere vissuti in unità e la compagnia del ‘consacrato’ fa come da ponte, da strada vivente, nel senso che la percezione della possibilità di tale verità in lui schiude l’anima alla stessa verità. Una persona sente il desiderio di guarire se intuisce che qualcuno la conosce dal di dentro , la sta rivelando a se stessa. Di qui comincia il vero cammino, lungo e faticoso, ma gioioso, con l’energia del cuore ormai rinnovata e continuamente capace di rinnovarsi.
    L’altro elemento costitutivo del compito di responsabilità è quello che fa da fondamento stesso al primo : portare alla vita significa in sostanza dare il Signore. Non tanto però come un voler dare il Signore quanto piuttosto come uno svelare l’amore del Signore nell’essere in comunione con gli uomini. Del Signore i cuori hanno bisogno, è lui il consolatore, ma prima di tutto hanno bisogno di sentire che è solo l’amore al Signore a suggerire strategie e attenzioni nei loro riguardi. Alla fin fine ogni tipo di mediazione a livello della vita spirituale si riassume in questo: Qualcuno da mettere in rapporto più diretto e più intimo con qualcuno, Qualcuno vivente  di fronte a qualcuno vivo. Alla serietà del compito non si confanno le improvvisazioni o i sentimentalismi. Dare un buon consiglio è alla portata di tutti o quasi. Individuare i mezzi per seguirlo, questa è la cosa importante e difficile, veramente utile, ma rara. Ciò che si muove dentro l’anima è troppo grande perché noi lo si possa capire o dirigere. Nessuno vi potrebbe metter mano se non con il mandato di Dio ed anche così sempre a rischio di violare un’intimità, di forzare qualcosa di assolutamente personale. Proprio il profondo rispetto e l’amore all’uomo inducono ad umiltà e delicatezza, incapaci come siamo di cogliere la presenza dello Spirito di cui non dovremmo essere che i servi-collaboratori. Diventa essenziale perciò metterci alla scuola dei Padri e dei Santi, i maestri insostituibili di fede e di vita, per diventare più recettivi nei confronti dello Spirito, più malleabili alla sua azione, più attenti alle tracce del suo passaggio e più coinvolti nelle ‘segrete’ intenzioni divine operanti nella storia a rivelazione di quell’amore di Dio che siamo chiamati a certificare.
    Lo stile della responsabilità è fornito dall’intreccio di tre acquisizioni, di tre ‘evidenze’ che lavorano nel senso di dare una stabilità di fondo alla fraternità come alle anime:
    a) la sapienza viene dall’alto, dove sono poste le radici del cuore. E’ il problema della prospettiva, di imparare e far imparare a guardare, a decifrare, a cogliere nel segno. Secondo l’immagine tradizionale, l’uomo è paragonabile ad un albero con le radici in alto e i rami in basso, con le radici in cielo e i frutti in terra. Si tratta di scoprire la potenza di certe connessioni  insospettate, che lavorano nel profondo. Posso fare degli esempi. E’ inutile voler essere caritatevoli se non si accetta di onorare il fratello sempre e comunque. La purità non si ottiene con la propria purificazione, ma con il togliere ogni motivo di odio e di tristezza verso i fratelli. La grazia non è attirata dai nostri sforzi, ma dall’umiltà; le nostre opere non sono strumenti di contrattazione; la benevolenza non dipende dalla generosità, ma dalla mitezza raggiunta, la quale sopravviene togliendo ogni forma di autodifesa e di rivendicazione, in modo da avere un’ottica verso se stessi e verso le cose così larga che nessun’altra, di parziale, può avere presa; si progredisce più per i peccati riconosciuti che per gli atti di virtù compiuti.     
    In particolare, vale il capovolgimento di prospettiva nel sopportare le prove e le afflizioni, riconoscendo la provvidenza di Dio. Vedere il male nei fratelli è permesso da Dio perché così ci rendiamo conto che anche noi possediamo le radici dello stesso male e ci possiamo pentire;  non solo, ma se Dio permette che veda il male nel mio fratello, è  perché possa imparare ad amare il fratello nella sua concretezza: nel peccato infatti  Dio vede un bisogno e se noi lo vediamo è perché possiamo rispondere a quel bisogno; vedere il male e accorgermi che ne possiedo anch’io le radici, mi costringe a riconoscermi peccatore e stando dentro tale coscienza non ho motivo di arrabbiarmi contro il fratello perché non posso rivendicare nulla; diventa così forte la coscienza di essere peccatore, che nemmeno vedo più il male del fratello: il cuore è ormai pulito. Se un uomo davvero potesse ritirare fino in fondo il suo dito puntato,  ogni atto di accusa contro un altro uomo, non subirebbe alcuna tentazione al male. Non è poi così semplice crederci, ma la cosa resta pur tuttavia profondamente vera. Tutte le nostre esposizioni al male sono soltanto in funzione del fatto che noi impariamo a non accusare mai nessuno. Di questa sapienza che viene dall’alto i cuori hanno bisogno per rendere concreta e accessibile la via di Dio.
    b) il processo di crescita comporta l’accettazione che il mistero del regno dei cieli fiorisce nella fatica, nella lotta interiore e nell’acquisizione della conoscenza del nostro cuore. Importanza del fattore tempo, così spesso sottovalutato dalla nostra psicologia interiore! Non basta lottare per evitare il male nelle azioni, occorre lottare – ed è cosa assai più faticosa! – contro i pensieri, e nemmeno soprattutto contro quelli cattivi, piuttosto contro quelli inutili, ingombranti, illusori. Imparando a lottare contro i pensieri si può recuperare l’energia del peccato. L’antico adagio “odiare il peccato, non il peccatore” deve valere anche nei nostri confronti. Nei peccati restano come intrappolate le risorse spirituali in termini di anelito, di desiderio, che dobbiamo imparare a decifrare e recuperare attraverso il pentimento. Ogni peccato si può così trasformare in un trampolino di lancio e non tramutarsi, come spesso capita, in un ingombro della coscienza. Riconoscere il proprio peccato fino in fondo vuol dire comprendere l’esperienza interiore soggiacente, le risorse positive impiegate che non perdono il loro valore semplicemente perché sono state impiegate male. Non è poi realmente importante superare il difetto (di difetti ne avremo sempre); l’importante è riuscire a non giustificare il nostro difetto, a nessun livello. Significa accettare il principio della gradualità: ogni cosa comporta la sua concatenazione necessaria, nel tempo. Accettare questo con pace, in tutta normalità, evita rabbia e frustrazioni inutili e presuntuose.

    c) la dinamica spirituale non è duale, ma ternaria. Il contemplare non è in funzione del fare; piuttosto, è l’agire che è in funzione del vedere, nel senso che la dinamica dell’intelligenza di fede si struttura in : conoscere – fare – vedere. Come per l’intelligenza delle Scritture, la dinamica non si riduce ad un capire per poi mettere in pratica, ma più precisamente: leggere – praticare – comprendere e non come comunemente si sarebbe indotti a pensare: leggere – comprendere – praticare. Come a dire: l’azione buona non è l’ultimo obiettivo. Il fare il bene è in vista del conoscere nel senso di quel conoscere esperienziale, di quel conoscere Colui che si ama, di quel conoscere in intimità, in comunione, dal di dentro. Solo qui si ha il superamento di ogni intellettualismo o di ogni spiritualismo. Qui sta la forza del comandamento divino che non è semplicemente una istruzione etica, bensì una partecipazione ad una intimità di vita. Per questo la tradizione, a proposito delle Scritture, non insiste tanto su una comprensione da avere, ma su una potenza da assimilare.

    L’essere testimoni di quel mistero è di per sé così impegnativo e coinvolgente che non c’è bisogno di puntare ad altri obiettivi, che non siano l’attuazione concreta di quel vivere semplicemente il ‘compimento’ del regno di Dio nel fatto stesso di accogliere e camminare insieme, di suscitare e stabilire comunione, ovunque, con chiunque, amici e nemici, senza preclusione alcuna. Si tratta di una responsabilità di respiro ‘cattolico’, che risponde cioè a quella nota di ‘cattolicità’  tipica della Chiesa, come è professata nel Simbolo di fede. La  ‘cattolicità’ (secondo l’accezione greca del termine, καθ᾿ ὅλον, ‘secondo l’insieme’, tanto in estensione di spazio e tempo quanto in profondità ed interezza) è sempre da scoprire, da assumere, da vivere, da testimoniare da parte di tutti e di tutte le Chiese. Dio ha fatto grazia di Sé in Cristo (cfr. Ef 4,32), non a te o a me, ma a te come a me, a voi come a noi, a te perché possa farla scoprire a me, a tutti, vicendevolmente. L’esercizio dell’intelligenza comporta sempre un esercizio di ‘cattolicità’ e viceversa. Il dimenticarsene, permette alle nostre paure o presunzioni di avere il sopravvento. E questo non lede solamente l’intelligenza della fede, ma anche la fraternità ecclesiale e umana e mina la credibilità dell’annuncio del vangelo. Noi spesso dimentichiamo la frase di Gesù quando manda i discepoli ad annunciare il vangelo a tutte le genti (cfr. Mt 28,19). L’annuncio del vangelo non è in funzione semplicemente di un compito ricevuto, come se noi abbiamo ricevuto un qualche cosa e questo qualche cosa noi lo dobbiamo dare agli altri. Credo sia un modo piatto di interpretare la volontà del Signore e anche la storia dell’esperienza cristiana. Quello che dà consistenza a questo compito di evangelizzazione è quello di ritenere che il vangelo appartiene già alle genti; quando io l’annuncio non faccio che rivelare qualche cosa che in realtà appartiene già a chi io lo annuncio. Spessissimo noi interpretiamo la tradizione come la difesa della verità, come ‘prendere un pacco e consegnarlo’. La trasmissione della fede non è affatto questo. Nessuno che trasmette un pacco che riceve potrà arrivare, in qualche modo, a riempire il desiderio dei cuori.
    Se il Vangelo è l’eredità delle genti, vuol dire che la ‘cattolicità’ comprende anche il tempo. Anche il futuro fa parte della Tradizione. La nostra responsabilità ‘apostolica’ si estende anche al futuro. Non è forse così terribilmente e tragicamente facile ingombrare la bellezza e la verità evangeliche con l’impedire al futuro di ereditarle per la nostra miopia? Se io sono così miope che per il mio schema mentale impedisco ad un altro, che ha un’altra storia, un’altra cultura, un altro orientamento, di poter accedere al vangelo, a tutto il vangelo, sono un cattivo testimone. Evangelizzare richiede sempre un vero esercizio di intelligenza; si tratta di imparare a mettere le cose al posto giusto, secondo un’armonia globale perché “la salvezza di Dio abbraccia l’universo”. E siccome quest’armonia globale comprende anche il futuro, non c’è motivo di avere paura man mano che sorgono nuovi problemi. In effetti, più ci lasciamo prendere dalla paura e dal timore di fronte ai vari problemi che ci assillano nella nostra vita personale, comunitaria, ecclesiale, meno sapremo fornire speranza all’umanità, nostra e di tutti. Più avremo paura meno saremo testimoni gioiosi di quella speranza, che è dovuta all’umanità! Perché la speranza non viene da noi, ma dal fatto di riferirci a quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, che è diventato il centro propulsore del nostro essere e del nostro agire.
    Così, un’ascesi del pensare è altrettanto necessaria quanto un’ascesi del volere, ma in funzione evangelizzante. Il lavoro che attende la Chiesa è quello di riflettere sul destino della verità in un mondo sempre più pluralista e di rendere amabile ciò che il vero implica, in vista di una fraternità rinnovata segnata dalla grazia della Rivelazione. Ma anche quello di imparare a volere. Più che cercare di ‘volere bene a qualcuno’, dove bene è il complemento oggetto del volere, si dovrebbe imparare a ‘volere bene qualcuno’, dove bene è un avverbio che esprime il modo adeguato di volere che qualcuno o qualcosa siano. Un’ascesi che tenda a generare un nuovo modo di volere in cui l’accento non sia posto tanto sull’affermazione di sé quanto sulla disponibilità a servire ciò che è voluto, ad accompagnarlo al suo destino, servitori e testimoni di un mistero che ci supera e ci racchiude. È la sapienza di una visione, capace di farsi lievito di evangelizzazione per offrire nuova speranza al mondo.
        E quale potrà essere il ruolo profetico della VC nella chiesa e nel mondo, se non quello di suggerire nuovi modi di sentire e pensare, capaci di aprire spazi nuovi, più consoni a servire nel concreto delle situazioni storiche il desiderio di Dio di comunione con gli uomini? Con la consapevolezza che tutto ha origine da quel Gesù, Signore, annunciatore e testimone della Buona novella, come la chiesa insegna a pregare: “Donaci, o Padre, di non avere nulla di più caro del tuo Figlio, che rivela al mondo il mistero del tuo amore e la vera dignità dell’uomo; colmaci del tuo Spirito, perché lo annunziamo ai fratelli con la fede e con le opere”.

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