• 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel vangelo, è avvicinarci al Santo signore Gesù come al Roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera” (CCC 2598).

    Per comprendere l’originalità della nostra preghiera cristiana è necessario accostarci al Signore Gesù.

    Egli stesso ha pregato e ha voluto che la sua stessa preghiera ci fosse di esempio: “si alzò a pregare mentre era ancora buio”, “passò tutta la notte in preghiera”.

    Gesù come uomo ha pregato, ha sentito il bisogno della preghiera, pur vivendo da Figlio nella relazione continua con il “Padre suo”: “Il Padre non mi lascia mai solo” “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La sua preghiera è dunque testimonianza della verità della sua incarnazione. Egli come uomo ha pregato con tutta la sua sensibilità, una preghiera umile e profondamente umana. Davanti alla tomba di Lazzaro, e davanti a Gerusalemme Gesù in preghiera piange. E’ inquieto dinanzi alla debolezza di Pietro: “Simone ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (Lc 22,32). Prega quando è schiacciato dall’angoscia e dalla tristezza: “cadde con la faccia a terra dicendo: Padre se è possibile passi da me questo calice” (Mt 26,39).

    Tutto questo ci rassicura: il Signore conosce la nostra fatica umana che ci fa talvolta titubare, tirar indietro, volere ciò che Dio non vuole. Sulla croce Gesù sperimenta in modo drammatico questa fatica, questa angoscia che sembra far sprofondare negli inferi:

    “Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato.” (CCC 2606).

     

    Cristo dunque è modello della nostra preghiera:

    “Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare. Il cammino teologale della nostra preghiera è la sua preghiera al Padre… Come un pedagogo egli ci prende là dove siamo e, progressivamente, ci conduce al Padre” (CCC 2607).

    Ci suggerisce l’atteggiamento, anche le stesse parole con cui pregare. Soprattutto ci svela i grandi momenti o passaggi della preghiera cristiana: la lode, l’adorazione, la domanda.

    Gesù si pone dinanzi al Padre sua in atteggiamento di lode:

    “Padre ti do lode, Signore del cielo e della terra” (Mt 11,25)

    “Padre… ti ho glorificato sopra la terra” (Gv 17,4-5).

    L’invocazione della paternità di Dio, rivelataci da Gesù, è sorgente di ciò che Egli è per l’uomo. Gesù ci insegna a chi deve indirizzarsi la nostra preghiera: (“Quale Padre darà….”).

    Il Dio al quale ci rivolgiamo nella preghiera è un Padre che ci ha rivelato il suo amore donandoci il Figlio suo:

    “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 4).

    Il primo momento della preghiera è dunque un’azione di grazie, una lode, una eucaristia, con tutte le sfumature che prenderà l’invocazione di “Padre”:

    “Prova che voi siete figli è che Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6).

    La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella Gloria. Per suo mezzo, lo Spirito si unisce al nostro spirito per testimoniare che siamo figli di Dio, rende testimonianza al Figlio unigenito nel quale siamo stati adottati e per mezzo del quale glorifichiamo il Padre. La lode integra le altre forme di preghiera e porta verso colui che ne è la sorgente e il termine: il solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui (1 Cor 8,6).” (CCC 2639).

     

    Glorificare il nome di Dio: vocazione di Cristo e del cristiano.

    “Sia glorificato il tuo Nome”

    “Padre glorifica il tuo Nome” (Gv 12,28)

    “Io ho manifestato il tuo Nome agli uomini “ (Gv 17,6).

    Il dono di Dio a noi è pura grazia. Egli infatti non ha bisogno della nostra lode. La gratuità, la liberalità del suo dono appaiono agli occhi della fede come segni di un amore purissimo, il solo  amore puro: noi “non serviamo niente a Dio”. Il suo dono di grazia è manifestazione luminosa della sua diversità, della sua infinita dignità di Dio.

    Contemplando gli aspetti divini del dono del Padre, scoprendo la magnificenza che suppone il dono, la sequela di Cristo, il cristiano scopre nel suo essere stesso fino a qual punto questo dono, non solamente scaturisce da un’iniziativa totalmente gratuita del donatore, ma ancor più come apporta addirittura anche i titolo per essere ricevuto. Il dono di Dio colma per sua grazia i ritardi, le mancanze, le imperfezioni che gli infrapponiamo (“Mentre eravamo ancora peccatori…” Rm). E’ l’adorazione.

    “L’adorazione è la disposizione fondamentale dell’uomo che si riconosce creatura davanti al suo Creatore. Essa esalta la grandezza del Signore che ci ha creati e l’onnipotenza del Salvatore che ci libera dal male. E’ la prosternazione dello spirito davanti al Re della Gloria (Sal 24,9) e il silenzio rispettoso al cospetto del Dio “sempre più grande di noi”. L’adorazione del Dio tre volte santo e sommamente amabile ci cola di umiltà e dà sicurezza alle nostre suppliche” (CCC 2628).

    La gratuità del dono è quella dettata dalla infinita misericordia di Dio: di Colui che solo può farsi più piccolo, benché tre volte santo,, di colui che vuole salvare perché non ha alcun timore di perdere se stesso.

    Cristo sa che pregando affinché sia reso al Nome del Padre l’onore di cui è degno, prega affinché sia riconosciuto il vero carattere della trascendenza dell’onnipotente: quella della misericordia.

     

    L’invocazione del Regno di Dio ci apre allo spiraglio della preghiera di domanda.

    “Venga il tuo Regno”

    “Il Regno di Dio è vicino” (Lc 10,11)

    “Il mio Regno non è di questo mondo” (Gv 18,36).

    La percezione dei doni meravigliosi di Dio non fa che infiammare il nostro desiderio di vederli condivisi, accolti da tutti. E’ questo l’oggetto della seconda parte della preghiera sacerdotale di Gesù, come della seconda parte del Padre Nostro:

    “Che essi siano una cosa sola come noi”

    “preservali dal male”

    “santificali nella verità”…

    Invocare la venuta del Regno equivale all’attesa a alla speranza di ciò di cui più vero e profondo portiamo in noi stessi:

    “La domanda cristiana è imperniata sul desiderio e sulla ricerca del regno che viene, conformemente all’insegnamento di Gesù. Nelle domande esiste una gerarchia: prima di tutto si chiede il Regno; poi ciò che è necessario per accoglierlo e per cooperare al suo avvento. Tale cooperazione alla missione di Cristo e dello Spirito Santo, che è ora quella della Chiesa, è l’oggetto della preghiera della comunità apostolica. … mediante la preghiera ogni battezzato opera per l’avvento del Regno” (CCC 2632).

     

    E’ all’interno del rapporto tra Cristo e il Padre che si colloca la nostra preghiera di cristiani.

    “E’ contemplando e ascoltando il Figlio che i figli apprendono a pregare il Padre” (CCC 2601).

    La preghiera cristiana nasce dal riconoscimento del dono di grazia fattoci dal “Padre del N.S.Gesù Cristo”. E’ lui che ha l’iniziativa. Non arriviamo perciò a lui lui a forza di impegno e di volontà, ma come dice la liturgia solamente “Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento” possiamo osare dire il Nome di Padre.

    La preghiera non è cristiana sino a ché essa non realizza la transustanziazione dei nostri desideri e volontà in quelli di Cristo: è questo lo statuto perfetto della preghiera. Autentica amicizia con Cristo. E questo è dono dello Spirito:

    “La preghiera di fede non consiste soltanto nel dire “Signore, Signore”, ma nel disporre il cuore a fare la volontà del Padre (Mt 7,21). Gesù esorta i suoi discepoli a portare nella preghiera questa passione di collaborare al Disegno divino” (CCC 2611).

    La nostra preghiera partecipa dell’audacia, della sicurezza, dell’universalità della preghiera di Cristo. In ogni situazione, di gioia o di dolore, ci possiamo unire alla preghiera di Gesù, di conseguenza il nostro cuore si dilaterà come il suo. Non ci sentiremo più impotenti dinanzi al mondo.

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Si aspetta e si ama solo ciò che si conosce: e più si conosce più si ama.

    Se siamo assenti a noi stessi nella preghiera non è forse perché siamo estranei alle cose di Dio? La nostra preghiera è forse troppo scarna e povera perché carente di nutrimento.

    A noi il non confondere spontaneità con trascuratezza.

    Pretendere di amare una persona non conoscendola è una pretesa assurda: si rischia di restare ad una affettività povera, limitata. Per amare una persona devo giungere ad un’autentica conoscenza.

    E’ doveroso per il credente che vuole crescere nella propria fede e nel proprio cammino di fede attingere a quegli strumenti che ci aiutano a preparare la nostra intelligenza.

    Sempre dobbiamo operare un confronto tra i nostri desideri ed aspirazioni con la Parola di Dio, la sana dottrina: Esse infatti ci espongono ampiamente i desideri e le aspirazioni di Cristo e della Chiesa.

    Inoltre occorre spesso far fronte concretamente all’inerzia, all’accidia e ai vuoti interiori, combattendoli con grande umiltà: si tratta dell’umiltà delle scelte precise e concrete.

    Questo non contraddice ciò che si è detto circa il pericolo del cerebrale: si tratta invece di scoprire un equilibrio tra la pigrizia e l’ingordigia spirituale-intellettuale: lettura e meditazione non hanno valore se non nella misura in cui ci spingono ad intrattenerci con Dio.

    “Questa forma di (la meditazione) riflessione orante ha un grande valore, ma la preghiera cristiana deve tendere più lontano: alla conoscenza d’amore del Signore Gesù, all’unione con lui” (CCC 2708).

    Bisogna tacere, nell’incontro con Dio, piuttosto che continuare una meditazione di pure idee; ma, contro le mie distrazioni, dovrò essere in grado di ricorrere a quel testo o a quell’idea che mi permetteranno di ritrovare il mio luogo di incontro con Dio:

    “Se ti viene una riflessione utile, prenda per te il posto della salmodia. Non rifiutare il dono di Dio per mantenere la tradizione. Una preghiera in cui non entrino l’intuizione di Dio e la visione dell’intelletto, è soltanto una fatica della carne. Non compiacerti della quantità dei salmi: questa getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità che mille parole nella lontananza” (Evagrio P., Parenetica).

     Venendo ora a trattare del doveroso disinteresse nella preghiera, dobbiamo purtroppo partire da una constatazione. La nostra cultura non ci facilita in questo: essa giudica tutto in base al rendimento, all’interesse che se ne ricava. Tutto, anche certe forme di preghiera e meditazione, viene ridotto ad utensile.

    “Dobbiamo anche affrontare alcune mentalità di questo mondo che, se non siamo vigilanti, ci contaminano, per esempio: l’affermazione secondo cui vero sarebbe ciò che è verificato dalla ragione e dalla scienza (pregare invece è un mistero che oltrepassa la nostra coscienza e il nostro inconscio); i valori della produzione e del rendimento (la preghiera improduttiva è dunque inutile); il sensualismo, il comfort, eretti a criteri del vero e del bene (la preghiera invece “amore della bellezza” è passione per la gloria di Dio vivo e vero); per reazione contro l’attivismo, ecco la preghiera presentata come fuga dal mondo (La preghiera cristiana, invece, non è un estranearsi dalla storia né un divorzio dalla vita” (CCC 2727).

    La gratuità, l’amore verso la Bellezza puro dono, tutto ciò contraddistingue un amore autentico da uno invece interessato in cui la persona ricerca solo se stessa. L’animale cessa di desiderare quando ottiene, per l’uomo non è così: l’amore adulto non ama più solo e in base a ciò che ottiene in soddisfacimento di un bisogno, ma diviene trascendente, dono di sé:

    “La preghiera… tutto attinge all’Amore con cui siamo amati in Cristo e che concede di rispondervi amando come lui ci ha amati. L’Amore è la sorgente della preghiera; che vi attinge, tocca il culmine della preghiera:

    “Vi amo o mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarvi fino all’ultimo respiro. Vi amo o mio Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandovi che vivere senza amarvi. Vi amo, Signore, e la sola grazia che vi chiedo è di amarvi eternamente. Mio Dio, se la mia lingua non può ripetere ad ogni istante che vi amo, voglio che il mio cuore ve lo ripeta tutte le volte che io respiro”(G.M.Vianney)” (CCC 2658).

    L’uomo dinanzi a Dio non è più solo un mendicante, ma quasi fosse alla pari, egli può farsi “Signore” di un dono di gratuità. Allora non è perché abbiamo anzitutto bisogno di Dio che noi lo adoriamo, ma perché egli Dio, il solo degno di essere adorato e servito:

    “La lode è la forma di preghiera che più immediatamente riconosce che Dio è Dio. Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché egli E’, a prescindere da ciò che fa. E’ una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria…” (CCC 2639).

    Se la nostra adorazione nascesse dalla paura e dal desiderio, sarebbe sempre inficiata da un amore non puro, da un interesse che accentrerebbe l’attenzione “non al Dio delle consolazioni, ma alle consolazioni di Dio” (s. Francesco di S.).

    La nostra adorazione unita a quella di tutti gli esseri creati è chiamata ad essere un riconoscimento che Dio è Dio:

    “Tu solo sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la lode, l’onore e la potenza” (AP 4,11).

    Questo invito dovrebbe eliminare dalla nostra preghiera ogni atteggiamento di calcolo: il povero non fa calcoli. Si affida.

    Non troppo raramente capita invece che “usiamo” della preghiera. Allora trasformiamo Dio in un tappabuchi a nostro servizio quando ne abbiamo bisogno.

    Nel Vangelo al contrario incontriamo Gesù che è ammirato dalla preghiera disinteressata: Maria di Magdala e il suo prezioso vaso di profumo (Mc 14,3-6).

    Quando ci accingiamo a pregare ricordiamo che la preghiera non è un mezzo tra tanti altri, ma che ad essa dobbiamo abbandonarci, perdervisi.

    Essa deve sviluppare in noi il senso della gratuità, del dono, che è la migliore prova  del nostro amore disinteressato.

    Risulta quindi essenziale nel nostro incontro con Dio la tensione ad oltrepassare il nostro bisogno, non certo per negarlo, ma per purificarlo, per cercare un riposo disinteressato in Dio amato “sopra ogni cosa”:

    “Noi dobbiamo insistere soprattutto nella preghiera, che è come il corifeo delle virtù, in quanto è tramite essa che chiediamo le rimanenti virtù a Dio. Chi insiste nella preghiera si unisce a lui in una stretta comunione grazie ad una mistica santità, a un’energia spirituale e ad una disposizione d’animo ineffabile. Costui, ricevuto da dio lo Spirito come guida e alleato, brucia d’amore per il Signore, ribolle di desiderio e non si sazia mai di pregare” (Gregorio Niss., Fine cristiano).

     

     

  • 29 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Un altro scolio per la nostra preghiera è l’illusione di credere di essere sempre pronti ad incontrare Dio.

    Si tratta di una doppia illusione in quanto da un lato il nostro cuore è occupato da tante cose e dentro di noi non vi è silenzio; dall’altro rimaniamo estranei alle cose di Dio: una mancanza di familiarità con la dottrina.

     

    LA MANCANZA DI SILENZIO E DI DISTACCO

     

    Dice un proverbio arabo: “Non sono le difficoltà del cammino che fanno male ai piedi, ma i sassi che hai nelle scarpe”. Ovvero: è dall’interno di noi stessi che provengono i principali ostacoli, mentre spontaneamente saremmo portati a trovarli immediatamente all’esterno: scrive Basilio di C.:

    “Ho ben abbandonato le occupazioni del mondo, sorgenti di mille mali, ma non ho saputo ancora abbandonare me stesso. Io sono come quei tali che, sul mare, non conoscendo cosa sia una traversata, provano la nausea del mal di mare, e malcontenti della barca in cui si trovano, che sembra loro non adatta, passano su un’altra; ma sempre stanno male, perché nausea e bile li hanno accompagnati.

    Così è per noi: portando in noi le passioni siamo ovunque nella stessa confusione, come non avessimo guadagnato nulla nella solitudine. Al che bisogna dire: <Se qualcuno vuol seguirmi, rinunci a se stesso>“.

    Così è per noi. Spesso pretendiamo di ascoltare Dio, mentre siamo ingombri di noi stessi: ascoltiamo solo noi stessi e i nostri progetti. Magari sì siamo portati a credere importante il silenzio esteriore, ma nonostante questo il sasso che è nella scarpa rimane, non riusciamo a liberarcene; lo sforzo ci sembra inutile.

    Potremmo proporci un piccolo esame di coscienza sul nostro silenzio:

    – la nostra memoria: l’amarezza interiore, il rancore, i cambiamenti di umore, il ricordo di tutto ciò che non è stato secondo quello che ci aspettavamo riguardo a noi stessi, gli altri, gli avvenimenti… “Quando accetterai in pace la prova di non amarti per te stesso? Solo allora fari posto a Cristo” (s. Teresa d’Avila). Forse nella preghiera siamo troppo preoccupati da ciò che ci ingombra la memoria.

    – la nostra persona: un’altra fonte di disturbo interiore è costituito da tutte le idee che ci siamo fatti di noi stessi. Siamo molto attaccati all’immagine di noi stessi che ci viene riflessa dagli altri. Purtroppo molto spesso ricerchiamo negli altri l’immagine che noi vorremmo essere, un’immagine che ci rassicuri, in cui possiamo trovarci tranquilli, nel falso silenzio del nostro sogno. “Io non ho nulla – amava ripetere l’abbé Chevence – io non ho assolutamente nulla, e ci ho messo trent’anni per riconoscerlo. Ciò che pesa all’uomo è il sogno” (Bernanos, La gioia).

    – la nostra attività: un’eccessiva inclinazione al lavoro, la smania di arrivare rapidamente a dei risultati possono creare in noi una tensione tale da impedirci la preghiera.

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori e preoccupazioni ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale.” (CCC 2732).

    Questa tensione si riversa nella preghiera stessa: la caccia di distrazioni diviene a sua volta fonte di distrazione. Si diviene incapaci di imporsi delle pause di silenzio.

    – le nostre passioni: sono tutti i nostri piccoli o grandi attaccamenti, a livello di persone, cose, situazioni: “Che l’uccello sia legato ad una catena o ad un filo non importa, è sempre legato” (s. Giovanni della C.).

    Tutte queste difficoltà traggono forza dal falso amore per noi stessi. Dal ricercarci per noi stessi dimenticando il nostro fondarci sul un Altro. Siamo allora terrorizzati dall’idea di “perderci”. Ci troviamo costretti a rimpiazzare l’autentico amore, con altri piccoli ed insufficienti amori.

    Se amare significa divenire una sola cosa con chi si ama, ciò può avvenire nella misura in cui si è liberi dall’attaccamento per tutto il resto. Amare è preferire la persona amata a tutto il resto: “Nulla antepongano all’amore di Cristo” (RB).

    Questo è il senso più vero del silenzio interiore: un silenzio colmo di amore:

    “L’orazione è silenzio <simbolo del mondo futuro> (Isacco di N.), o <silenzioso amore> (s. Giovanni della C.). Nell’orazione le parole non sono discorsi, ma come ramoscelli che alimentano il fuoco dell’amore. E’ in questo silenzio, insopportabile all’uomo <esteriore>, che il Padre ci dice il suo Verbo incarnato, sofferente, morto e risorto” (CCC 2717).

    Il silenzio fa sì che ci poniamo nella condizione di unificare la nostra vita. Ciò che esaurisce l’anima, una delle sue sofferenze, è l’inevitabile moltiplicarsi in noi e dall’esterno di infiniti messaggi che disperdono. Siamo dis-tratti: portati, strappati quasi in mille diverse direzioni.

    A motivo di questa dispersione siamo sempre alla ricerca del nostro vero centro, perno della nostra esistenza, che è impossibile scoprire a livello di semplici impressioni e diversità di messaggi.

    Se il punto di riferimento del nostro agire siamo noi stessi, allora rimarremo nella discontinuità, nella molteplicità. Solo il silenzio può fare unità nella nostra vita poiché esso si inscrive nel più profondo di noi stessi, nella nostra anima che ci rimanda ad un Altro al di fuori di noi stessi.

    Il silenzio non è facile, anzi. I ritmi della nostra cultura non ci aiutano Si ha paura del silenzio e della solitudine. E’ per questo motivo che dobbiamo continuamente apprendere il silenzio. attraverso uno stile di vita, delle abitudini sane che possono far da argine a stili di vita ed abitudini diametralmente opposte.

    “L’amico del silenzio si avvicina a Dio. In segreto si intrattiene con lui e riceve la sua luce” (. Giovanni C., Sc. Par.).

     

     

     

     

  • 29 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Chi può pretendere di saper già pregare? Dinanzi al mistero di Dio rimaniamo sempre degli apprendisti, bisognosi di approfondire. In questo difficile cammino  è dunque indispensabile essere preparati agli scogli, alle varie difficoltà che ci obbligano sempre a dover ripetere: “Signore, insegnaci a pregare”.

    I principali scogli che incontriamo potremmo elencarli come:

    – mancanza di povertà

    – mancanza di preparazione

    – mancanza di gratuità.

     

    L’ILLUSIONE DEL CEREBRALE

     

    Crediamo spesso che per pregare dobbiamo anzitutto avere delle idee. Forse giudichiamo la bontà della nostra preghiera nella misura in cui abbiamo avuto delle buone idee. O al contrario affermiamo: “Sono così poco ispirato durante la preghiera!”.

    Quando preghiamo non si tratta di seguire un corso di teologia, né una dissertazione, ma di conformare la nostra volontà, i nostri progetti alla volontà e ai progetti di Dio.

    Prendiamo l’esempio dei salmi: essi sono costruiti su un piccolissimo numero di temi molto semplici: la grandezza di Dio, la debolezza dell’uomo, la misericordia di Dio, la confidenza dell’uomo. Per entrare in questi temi non occorre certamente essere dei laureati. Andiamo a Dio con tutta semplicità e con i nostri bisogni più veri ed essenziali.

    La preghiera, più che pensieri della mente, si deve trasformare in un linguaggio del cuore che è anzitutto nell’ordine della fede e non delle idee.

    Se la preghiera non raggiunge questo livello rimane un puro esercizio della mente, un atto che rimanda ad una nostra presunta sufficienza.

    Imparare a guardare e a lasciarci guardare, amare e lasciarci amare. E’ il vertice della preghiera: la contemplazione:

    “è sguardo di fede fissato su Gesù: “Io lo guardo ed egli mi guarda” diceva al suo santo curato il contadino d’Ars in preghiera davanti al tabernacolo. Questa attenzione a Lui è rinuncia all’”io”. Il suo sguardo purifica il cuore. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini.” (CCC 2715).

     

    Ciò non significa assolutamente che non occorra partire da una meditazione della mente, da un’idea, che ci impedisca la dispersione.

    Occorre infatti fissare lo Spirito al fine di permettergli di ritrovare Colui che la nostra distrazione rischia di allontanare:

    “La meditazione è soprattutto una ricerca. Lo spirito cerca di comprendere il perché e il come della vita cristiana, per aderire e rispondere a ciò che il Signore chiede. Ci vuole un’attenzione difficile da disciplinare. Abitualmente ci si aiuta con qualche libro, che ai cristiani non mancano: la sacra Scrittura particolarmente il santo Vangelo, le sante icone, i testi liturgici del giorno o del tempo, gli scritti dei Padri della vita spirituale, le opere di spiritualità, il grande libro della creazione e quello della storia, la pagina dell’ “oggi” di Dio” (CCC 2705).

    Ma bisogna fare attenzione. Questo sforzo della mente deve sempre essere pervaso dal desiderio di incontrare Dio e di far nostre la sua volontà ed il suo amore:

    “La teologia è luce, la preghiera è fuoco. La loro unione esprime l’unione dell’intelligenza e del cuore. ma è l’intelligenza a doversi “riposare” nel cuore e la teologia a doversi sorpassare nell’amore. “Se sei teologo pregherai veramente, e se tu preghi veramente sei teologo” (Evagrio P.)” (O. Clement)

    E’ il Dio vivente che noi cerchiamo. Non andiamo alla preghiera per aumentare il nostro bagaglio intellettuale sia pure religioso, ma per ridire a Dio che noi l’amiamo e che sappiamo che Lui ci ama, per conformarci al piano di misericordia che è il suo.

     

    L’ILLUSIONE DEL SENSIBILE

     

    Rischiamo ancor più di ricercare noi stessi in luogo di Dio nella nostra sensibilità e di credere che la nostra preghiera abbia valore nella misura in cui abbiamo “sentito” qualcosa.

    La nostra cultura è smaniosa di nuove esperienze, del “sentire”, di ricercare nuovi stati di coscienza etc…

    “Nel combattimento della preghiera dobbiamo affrontare in noi stessi e intorno a noi, delle concezioni erronee della preghiera. Alcuni vedono in essa una semplice operazione psicologica, altri uno sforzo di concentrazione per arrivare al vuoto mentale. C’è chi la riduce ad alcune attitudini e parole rituali” (CCC 2726).

    Ciò che differenzia grandemente la preghiera cristiana da esperienze meditative di altre aree religiose è l’assenza di ricerca di una proiezione di sé stessi. Noi non preghiamo in primo luogo per ritrovare noi stessi, ma per donarci ad un Altro, per entrare in un disegno di salvezza che ci sorpassa.

    Ciò che conta per noi non è la qualità dell’esperienza interiore che apparentemente talvolta può essere molto deludente, ma Colui che è l’oggetto di questa esperienza.

    Non andiamo alla preghiera anzitutto per ricevere ma per donare: e se è l’amicizia con Dio che ci sta veramente a cuore, allora andremo alla preghiera per donarci in dono gratuito: “Donare ostia per ostia” (M.Robin).

    Il fariseo della parabola è persuaso che egli sta ostentando a Dio i frutti della sua pratica di pietà, mentre il pubblicano non sa che egli sta facendo a Dio il più bel dono, dandogli l’occasione di manifestare il suo amore.

    C’è in noi una certa sfumatura farisaica quando diciamo: “Sono contento di averti fatto piacere!”. Si è cercato noi stessi nel dono non l’altro. Poter dare sapendo di poter dare è ancora giocare al ricco.

    Da qui l’importanza che i mistici danno al vuoto, al nostro nulla davanti a Dio:

    “A poco a poco, al di là delle sue forme secondarie la preghiera deve fare il vuoto in attesa di Dio. Un vuoto attento, raccolto, amoroso. “Vuoto” quando alla tensione interna non corrisponde niente di esteriore (S.Weil). Povertà. Nada dei mistici spagnoli” (O.Clement).

    Il nostro amore per Dio deve attraversare il deserto della purificazione: operare il passaggio dalla ricerca del nostro piacere a voler amare Dio perché è Dio.

     

    Se Dio resta in silenzio, frustrando le attese della nostra sensibilità, è perché Egli ha sommo rispetto della nostra libertà e del nostro vero bene. Egli opera in tal modo un affinamento spirituale:

    “Abbiamo la pretesa di vedere il risultato della nostra domanda. Qual è dunque l’immagine di Dio che motiva la nostra preghiera: un mezzo di cui servirci oppure il Padre di nostro Signore Gesù Cristo?…

    Se noi chiediamo con un cuore adultero, diviso, Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita. … Il nostro Dio è “geloso” di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi” (CCC 2734.7).

    Scriveva in una lettera s. Francesco di Sales: “Mi dite che non fate niente durante la preghiera, ma cosa “volete” fare, se non ciò che già fate ossia presentare e ripresentare la vostra miseria a Dio. Quando i mendicanti espongono la loro miseria e necessità, è questo il miglior richiamo che essi possono indirizzarci”.

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

     

    Apriamo una parentesi per intenderci sul significato di coscienza. Come abbiamo già sperimentato, si tratta di chiamare per nome quello che c’è dentro di noi senza darci subito un giudizio di buono e cattivo come invece spesso ci è stato insegnato.

    La lettura della Bibbia che fa appello alla coscienza, la lettura vissuta in modo coinvolgente, fa risuonare quello che c’è in noi e fa emergere l’appello che Dio ci fa, che è diverso dall’immagine che ci siamo fatti di lui e da quello che ci atttendiamo da lui.

    Il nostro è un itinerario biblico non solo perchè prende in mano testi della Bibbia (lo fanno anche i T.d.G.!) ma soprattutto perchè ci porta ad un affidamento alla parola di Dio, senza cercare altre sicurezze e garanzie. La Parola di Dio ascoltata ci rivela di volta in volta la nostra paura di fidarci di Dio e ci mette di fronte al fatto che solo lo spirito può aprirci ad una comprensione diversa della presenza di Dio nella nostra vita.

    Ogni itinerario biblico, quando ci si inoltra un po’ dentro, manifesta dei segreti o misteri che sembrano complicarsi piuttosto che dipanarsi. E’ invece il passo che posso fare ogni giorno. La strada si apre passo dopo passo, Dio mi domanda di passare dalle mie carestie quotidiane, dalle mancanze che condizionano la mia vita quotidiana alla pienezza del dono della vita. E’ esperienza di Esodo e di deserto, come ascoltiamo in questo Vangelo. Vivremo l’esodo dall’immagine del Padre ricevuta fin dall’infanzia per camminare verso quella conosciuta e sperimentata con l’ascolto.

     

     

    Gesù cammina sulle acque e Pietro con lui

     

    “Subito dopo Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre lui avrebbe congedato la folla.” (v. 22)

    Come prendono i discepoli questo ordine di Gesù?

    Quali sono le risonanze di Simone e compagni?

     Con che stato d’animo di accostiamo a queste docce fredde che spesso il Vangelo ci propone?

    …Già lo sapevo che la felicità non può durare.

    …Ma perchè non possiamo gustare il positivo della vita?

    …I cristiani sono sempre sfigati che non possono godere come gli altri dei loro successi?

    …Alla fine la lingua batte sempre dove il dente duole e così avviene in questo campo che si finisce sempre per sottolineare le cose negative. Non c’è un altro sistema?

     “La barca, intanto distava già qualche miglio da terra ed era a­gitata dalle onde, a causa del vento contrario. (v. 24)

    I discepoli si imbarcano. E come se non bastasse la batosta appe­na presa ecco che scoppia sul lago la tempesta.

    Siamo ancora in contesto di Esodo: acqua e vento.

     “Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.”

    “Le parole “Verso la fine della notte” ci riportano ancora nel contesto dell’Esodo.

     Che cosa significa “camminare sul mare”? Cioè passare sopra le onde, attraversare il mare, restando a piedi asciutti?

    Che cosa rappresenta il mare?

    Che cosa ha significato per il popolo d’Israele attraversare il Mare Rosso a piedi asciutti?

    Che cosa vuol significare questo camminare di Gesù sul lago per gli apostoli e per noi?

     Per cogliere bene questi significati è importante cogliere la ri­sonanza degli apostoli al vedere Gesù restare, nella notte, col vento impetuoso, sulle onde senza sprofondare.

     “I discepoli a vederlo camminare sul mare furono turbati e disse­ro: “E’ un fantasma!” e si misero a gridare dalla paura.” (v. 26)

    Il fantasma evoca la morte. Questo fantasma che compare è il se­gno che nel lago aleggia la morte.

    Nella tradizione biblica il mare è il simbolo della morte per la presenza del Leviatan: la forza della morte. Il mare ingoia e non restituisce nessuno…

    Qui Gesù è riconosciuto un fantasma: una forza di morte che mette terrore.

     Perché Dio è preso, normalmente, per un fantasma?

    Perché mi fa morire a me stesso e io non voglio morire.

    La paura della morte mi fa vedere Dio come un fantasma, come uno che non vuole la mia vita, che anzi vuole la mia morte, vuole il sacrificio del dover essere…

    Così dove Dio si presenta l’uomo grida  di terrore perché non lo riconosce come è veramente cioè colui che vince la morte, che mi fa superare la morte senza che la morte mi faccia niente: mi fa passare attraverso il fuoco senza che mi bruci e mi fa passare attraverso l’acqua senza che mi bagni!

     

     

    “Ma subito Gesù parlò loro:

    “Coraggio, sono io, non abbiate pau­ra”

     

    Gesù si presenta nella sua identità, come colui che cammina sulle acque, che ha la possibilità di vincere la morte. Non c’è motivo di spaventarsi; anzi c’è motivo di rallegrarsi perché con questa capacità Gesù rimane nella sua disponibilità ad aiutarli, a libe­rarli dal pericolo sempre incombente della morte, a far sì che anche loro passano infischiarsene della morte (delle onde minac­ciose del lago) come sta facendo lui.

    Infatti Pietro coglie subito questa possibilità e lo prende il desiderio di fare come Gesù, di stare con Gesù sulle acque, di vincere con Gesù la morte, e quindi la paura della morte.

     “Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse “Vieni!”  (v. 28-29a)

     C’è sempre una Parola mi ha fatto partire, richiamo alla memoria esempi di brani del Vangelo che mi hanno fatto uscire da situazioni, ecc… Quando Gesù mi ha detto “Vieni!”

     Gesù accoglie volentieri il desiderio di Pietro di camminare sul­le acque, di vincere la morte, di non aver paura della morte. E’ venuto per questo tra gli uomini, appunto per dare loro la possi­bilità di infischiarsene della morte, e quindi di essere liberi dalla conseguente paura che rovina loro la vita. Gesù sembra dire a Pietro:

    ATTUALIZZAZIONE: “Sí, caro Pietro, sono io che cammino senza sprofondare nel mare, nella morte. E ben volentieri comando alla morte di non farti del male, perché io posso vincere la morte e come vorrei che gli uomini fidandosi di me se ne infischiassero della morte. la morte è innocua perché ci sono io a proteggerti a proteggere chiunque confida in me e non confida in se stesso: confidare in se stessi è fidarsi della paura della morte; quella paura della morte che rende insopportabile e invivibile la vita.

    Vieni Pietro e vedrai che anche tu puoi camminare sulla morte!”

     “Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.” (v. 29b)

     

    DRAMMATIZZAZIONE SULLA SPONDA DELLA BARCA

     

    Risonanze di Pietro.

    Come si comporta Pietro all’invito di Gesù?

    Scende subito? Chiede qualcosa a Gesù?

    Quali risonanze ha provato sentendo il mare solido sotto i suoi piedi?

    Che cosa ha detto? A sè, a Gesù, ai suoi compagni?

     “Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affon­dare gridò: “Signore, salvami!”. (v. 30)

    Come mai si impaurì? Non aveva sperimentato che si poteva cammi­nare sul mare?

    Come mai la paura che inizialmente era stata vinta, prende poi il sopravvento?

     Eccolo, Pietro, ciascuno di noi. Diciamo che prima di tutto si FIDA DI SE STESSO. Inizia a camminare sull’acqua attratto da un’esperienza nuova e che ritiene nelle sue possibilità. Poi ad un certo punto cosa interviene? Paura di soffrire? E’ quando la fatica è tale da aumentare lo stress e possiamo riassumere il tutto quando diciamo: non ce la faccio più!

     La parola vieni può dar frutto al 30, al 60 al 100% lasciare alle persone di esprimersi…

                 Cosa mi succede?

    1.         Incomincio a non aver più fiducia nelle mie possibilità.

    2.         Allora interviene il ragionamento, rapido e deciso, che lascia libera la fantasia di immaginare quello che succederà.

    3.         Aumenta la sensazione di essere incastrato in qualcosa di più grande di me. Ma guarda un po’ che amici, che compagnia mi sono trovato: mi portamo dove non ce la faccio ad arrivare. Quanto bene stavo a casa mia, con le mie sicurezze…

    4.         Una spinta forte da dentro: devi scegliere finchè sei in tempo, puoi ancora trovare una strada per fuggire dignitosamente, senza farti sorprendere dagli eventi…

    5.         Ancora la fantasia che elabora vie di fuga cercando la migliore nel più breve tempo possibile.

    6.         Mi sfogo su me stesso. Sono proprio ammalato, incapace, finito, mi faccio del male per apparire quello che la paura mi ha delineato davanti in modo così chiaro che ormai mi appare come l’unica verità.

    7.         Sposo questa mia verità e rifiuto ogni altra proposta oppure mi affido ad un altro punto di vista, che sia più libero del mio dalla paura di non farcela, che mi ridona l’oggettività e la salvezza che da solo non riesco a riconoscere presente nella mia vita.

    8.         Pietro incontra Cristo perchè impara a fuggire dalla sua paura e dal suo soffocante circolo vizioso. 

     

    Certamente Pietro, ad un certo punto, smette di guardare a Gesù: perché si impossessa del dono, si fa bello del dono, incomincia a confidare in se stesso… La forza che gli veniva dalla fiducia in Gesù un pò alla volta diminuisce e così cresce, invece, l’in­sicurezza, la paura; tanto che la morte attraverso la paura ri­prende il sopravvento: ecco allora che incomincia a sprofondare. Di nuovo, proprio perché viene a cadere la fiducia in Gesù, domi­na nella vita di Pietro la morte, attraverso al paura.

     Cerco ora, a partire dall’ascolto delle mie risonanze, di tradurre quella parola dura: nella vita di Pietro domina la morte.

    La paura della morte e inversamente proporzionale alla fiducia in Gesù.

    E’ la fiducia che garantisce la vittoria sulla morte e quindi sulla paura!

    Pietro fortunatamente ha a portata di mano Gesù, e gli è sponta­neo gridare il suo bisogno di essere salvato.

    In quel grido c’è il ricupero del rapporto con Gesù, il quale lo afferra e lo tira fuori dalle onde, dalla morte.

     

     

    “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

     

     “E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”

    “Subito”: Gesù non attende un attimo; all’invocazione immediata­mente soccorre, senza perdere un attimo di tempo. Gesù, il Signo­re, è sempre pronto a venirci in aiuto, a liberarci dalla morte.

    ma rispetta la nostra libertà: ci libera solo se glielo chiedia­mo.

    Anzi sembra dire a Pietro: Eccomi! Sono qui. Sono sempre stato qui a tua disposizione. Perché non mi hai tenuto presente sempre?

    Perché hai dubitato di me? Perché hai ad un certo punto cessato di fidarti di me hai scelto di fidarti di te?

    Questo è avvenuto proprio per la tua poca fiducia in me!”

     Gesù sembra qui meravigliarsi di questo atteggiamento di Pietro.

    Gesù, comunque, sa che Pietro, come ogni uomo, è continuamente tentato a confidare solo in se stesso.

    Questo è uno smacco per Gesù, per il Signore, il quale deve con­tinuamente subire questo tradimento, questo voltafaccia, questa accusa stolta e insensata dell’uomo di non essere in grado di mantenere fede al suo amore, al suo impegno di salvarci dalla morte.

     

    CELEBRAZIONE CONCLUSIVA

     

    Preghiera spontanea: “Signore salvaci” con il salmo 69(68)

     

    Signore, pietà per la stoltezza del nostro cuore, che dopo essersi abbeverato alla fonte che sei tu, ti rifiuta per sceglie­re fontane screpolate e senza acqua. Qualcosa nasce di nuovo perchè nella vita non ci sono solo le prove, anche se quando ci siamo dentro ci sembra che dalla sofferenza non nasca niente. Ma non c’’ solo la sofferenza!

     

     

    “Appena saliti sulla barca il vento cessò.”

     

    Con Gesù c’è la pace, la calma della coscienza, il riposo nella serenità di un sicuro porto tranquillo e senza sorprese, senza paure, quindi.

    La furia del vento, dello spirito cattivo, della paura della mor­te e delle sue conseguenze, cessa quando noi facciamo spazio a Gesù, gli affidiamo la nostra vita, lo scegliamo come nostro com­pagno di cammino.

     Risonanze di Pietro e degli altri discepoli SOTTO FORMA DI PREGHIERA

    Comportamento di Pietro e degli altri che erano sulla barca e hanno assistito a tutta la scena.

     Pietro ha fatto un’esperienza unica: è stato immesso a far parte del potere di Gesù sulla morte e sulla paura della morte, ma il suo cuore, ancora malato di diffidenza e di paura, non ha retto agli assalti del vento, cioè dell’avversario, della paura della morte.

    Avrà bisogno ancora di tempo, di esperienze di dono e di falli­mento, soprattutto di interiorizzare il significato della morte e della risurrezione di Gesù, per poter aprirsi alla forza dell’a­more più forte della morte e così affrontare con fiducia e corag­gio la morte.

  • 28 Gen

     

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    “Il Nome che comprende tutto è quello che il Figlio di Dio riceve nell’Incarnazione: Gesù. Il Nome divino è indicibile dalle labbra umane, ma il Verbo di Dio, assumendo la nostra umanità, ce lo consegna e noi possiamo invocarlo: Gesù, YHWH salva. Il Nome di Gesù contiene tutto: Dio e l’uomo e l’intera economia della creazione e della salvezza. Pregare Gesù è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo Nome è il solo che contiene la presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo Nome accoglie il Figlio di Dio che lo amato e ha dato se stesso per lui” (CCC 2666).

    Gesù ha promesso indistintamente l’efficacia della preghiera a condizione che essa sia fatta nel suo Nome:

    “Qualunque cosa chiederete nel mio nome la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio” (Gv 14,13).

    “In verità in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (1Gv 16,23-24).

    Anche l’autore della Lettera agli Ebrei ci presenta Gesù come “nostro sommo sacerdote” (Ebr 7,24-25): colui che intercede per noi presso il Padre.

    Egli ripete davanti al Padre le nostre parole, trasformandole e facendole sue. Perciò la nostra preghiera nel suo Nome è efficace: perché è divenuta quella di Cristo:

    “Chi prega partecipa alla preghiera del Verbo di Dio, che sta in mezzo anche a quelli che lo ignorano, e non è assente dalla preghiera di nessuno. Egli prega il Padre in unione col fedele di cui è mediatore. Infatti il Figlio di Dio è il gran sacerdote delle nostre offerte, e nostro avvocato presso il Padre. Prega per quelli che pregano e implora per quelli che implorano” (Origene).

     

    La nostra preghiera non è più quella dell’A.T. Essa è ormai la preghiera di Cristo:

    “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete ed otterrete” (Gv 16,24).

    Una preghiera perciò che si estende universalmente a tutte le necessità del regno.

     

    Sant’Agostino scrive:

    “Nostro Signore è colui per il quale, nel quale, rendiamo gloria a Dio, ed è anche colui che preghiamo”.

    E ancora:

    “Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e in noi la sua voce” (Agostino, En. in Ps. 85).

     

    Il Cristo è colui per il quale noi preghiamo il Padre. In effetti da noi stessi non possiamo celebrare il Padre in verità: non lo conosciamo.

    “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).

    L’adorazione più vera al Padre è quella del Figlio. E’ il prototipo del modo in cui una creatura deve rapportarsi nei riguardi di Dio:

    “attraverso Cristo sale il nostro Amen per la gloria di Dio” (2Cor 1,20).

     

    Il Cristo è colui nel quale noi rendiamo gloria e onore al Padre. Compito della Chiesa è di riprendere continuamente la preghiera del Cristo davanti al Padre, facendo sua l’obbedienza di lui al Padre, la sua passione per il Regno. Noi compiamo l’opera di Cristo. Riviviamo i suoi misteri (cfr la liturgia):

    “abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5).

     

    Riconosciamo in noi il dono pasquale di Cristo: lo Spirito che abita i nostri cuori. Per questo siamo creature abitate da Cristo e non siamo mai soli davanti a Dio: si è sempre in due:

    “Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore. Tutte le nostre domande sono state raccolte una volta per sempre nel suo grido sulla croce ed esaudite dal Padre nella sua Resurrezione, ed è per questo che egli non cessa di intercedere per noi presso il Padre. Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella confidenza e nell’audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo nome; ben più di questa o quella cosa: lo stesso spirito santo che comprende tutti i doni” (CCC 2741).

     

    Non siamo soli a pregare i Salmi o la Scrittura o ad adorare il Padre: è Cristo sommo sacerdote che in noi prega i salmi, legge la scrittura, adora il Padre:

    “Che il Cristo parli allora, nel Cristo la Chiesa parla, e nella Chiesa il Cristo parla. Il capo parla nel corpo e il corpo nel capo” (sant’Agostino).

     

    Il Cristo è colui che noi preghiamo e celebriamo. La preghiera cristiana soprattutto quella liturgica non è che una lunga meditazione del mistero di Cristo nei suoi vari aspetti, che ci ha rivelato la grazia e la misericordia di Dio. La chiesa “fa’ memoria”. La liturgia celebra Cristo come sposo della Chiesa.

    L’apocalisse pone la contemplazione e l’adorazione dell’Agnello ritto ed immolato, centro dell’universo: é lui solo che possiede le chiavi della storia:

    “Quando ebbe preso il libro i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardo si prostrarono davanti all’agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe colme del profumo che sono le preghiere dei santi” (Ap 5,8).

     

    Sovente la scrittura muove l’invito a “fare memoria” (es. Es 32,11-14; Sal 105,106; Dt 9,18-26; Is 63,7-9). Il ricordo, il memoriale, di tutto ciò che Dio ha compiuto, diviene forse il motivo principale della preghiera e la ragione della nostra speranza. E’ questa la struttura della fede biblica.

    E’ questo il dinamismo centrale della grande preghiera eucaristica che fa memoria del mistero pasquale, perno della nostra fede:  “Celebrando il memoriale…”.

     Attraverso la preghiera fatta nel nome di Gesù si attua una trasformazione dei nostri sentimenti, dei desideri, delle sofferenze, nei sentimenti, nei desideri, nelle sofferenze di Cristo. Una trasformazione simile a quella che avviene nell’eucaristia per il pane e il vino che si transustanziano nel corpo e sangue di Cristo:

    “E’ entrando nel santo Nome del signore Gesù che noi possiamo accogliere, dall’interno la preghiera che egli ci insegna” (CCC 2750)

     

    Se abbiamo compreso che come cristiani la nostra preghiera non può che essere fatta nel nome di Gesù, allora comprendiamo come non abbia senso contrapporre preghiera pubblica e privata.

    Fuggiamo i rischi sia dell’individualismo come del collettivismo. Preghiera pubblica e privata non possono essere contrapposte: è sempre e comunque preghiera di Cristo.

    Comprendiamo pure come la preghiera liturgica esiga una relazione personale di ciascun membro con Cristo. E’ questo è sempre dono dello Spirito in noi: egli solo può formare in noi tale relazione. Saremo pienamente cristiani quando ci accorgeremo che non potremo parlare a Dio se non con e per Cristo, sapendo che il solo sguardo a cui Dio non resiste è quello del Figlio:

    “Per Cristo, con Cristo e in Cristo:

    a te Dio Padre onnipotente

    nell’unità dello Spirito santo

    ogni onore e gloria

    per tutti i secoli dei secoli. Amen”

     

    Tutto quanto è stato detto ci impone un punto di riflessione importante: la nostra preghiera in che misura si spinge a conformarsi ai desideri di Cristo? In che misura ci preoccupiamo a comprendere il pensiero di Cristo su ciascuno di noi, su ciò che facciamo, diciamo, pensiamo?

    Forse potremmo accorgerci che finora la nostra preghiera non è stata che una carellata di pensieri che nulla avevano a che fare con l’autentica preghiera. Forse ci si rivela come una sorta di sterile monologo. Una ricerca di idee “su…”.

    Per la meditazione : cfr Ebr. 5.

     

  • 28 Gen

    di p. Attilio F. Fabris

     

     

    Confrontiamoci con la parabola degli invitati a nozze in Lc 14,16-24.

    Ci viene mostrato un Dio che vuole farci suoi commensali. Ma sono tanti i motivi di rifiuto apposti al suo invito.

    Tutti questi rifiuti si possono riassumere in due:- la preoccupazione per la famiglia e il lavoro.

    Se questi motivi fossero veri allora chi potrebbe pregare? Sarebbe vera l’obiezione che il più delle volte si porta: “Non ho tempo”.

    Il messaggio della parabola al contrario ci dimostra che tutti sono chiamati, nessuno escluso.

     In effetti rimane pur sempre vero che la preghiera esige uno sforzo che spesso ci risulta difficile: ma questa difficoltà è normale perché non possiamo pretendere di “sentire” umanamente il mistero di Dio: si tratta di uno sforzo di fede:

    “La preghiera… presuppone sempre uno sforzo: … la preghiera è una lotta. Contro noi stessi e contro le astuzie del tentatore” (CCC 2725).

    La grande tentazione della nostra preghiera è la stanchezza, lo scoraggiamento. Una tentazione dalla quale Gesù stesso ci mette in guardia nelle sue due parabole: l’amico importuno in Lc 11,5-13 e la vedova e il giudice iniquo in Lc 18,1-8.

    Queste due parabole sono molto chiare: “giorno e notte” “insistentemente”, a costo di importunare occorre chiedere al Padre ciò di cui abbiamo bisogno.

    “L’amico importuno esorta ad una preghiera fatta con insistenza: “Bussate e vi sarà aperto”. A colui che prega così il Padre del cielo “darà tutto ciò di cui ha bisogno” e principalmente lo Spirito santo che contiene tutti i doni”.

    La seconda, la vedova importuna, è centrata su una delle qualità della preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”” (CCC 2613).

    Il termine greco utilizzato dall’evangelista suggerisce di non prendere in maniera puramente materiale la parola “continuamente”; forse sarebbe meglio tradurla con  “in ogni occasione”. Questo ridimensionerebbe il problema circa il tempo da dedicare alla preghiera.

    Se la prima legge della preghiera ci dice del necessario atteggiamento di povertà e umiltà, la seconda ci insegna la continuità.

    Esse sono strettamente collegate: solo il povero, che si sente realmente tale, non si dà pace sino a che non abbia ottenuto ciò di cui ha bisogno.

    Quantità e/o qualità? Quali di queste due caratteristiche dobbiamo privilegiare?

    La Scrittura ci insegna che non dobbiamo misurare il tempo. Dio ci aspetta sempre e in ogni luogo senza alcun istante di interruzione.

    Ciò che è essenziale è mantenere viva in noi quella tensione alla pienezza alla quale il Vangelo ci invita.

    “Pregate incessantemente (1Tess 5,17), rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre nel Nome del Signore nostro Gesù Cristo (Ef 5,20) Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi (Ef 6,18). <Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare, e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge  per noi> (Evagrio P.). Questo ardore instancabile non può venire che dall’amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è quello dell’amore umile, confidente, perseverante… Pregare è sempre possibile: il tempo del cristiano è quello di Cristo Risorto, che è con noi  <tutti i giorni>(Mt 28,20), quali che siano le tempeste. Il nostro tempo è nelle mani di Dio: <E’ possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. E’ possibile pure nel vostro negozio, sia mentre comprate, sia mentre vendete, o anche cucinate> (Giovanni Cr.)” (CCC 2742s).

     

     

    DIO ATTENDE IL CUORE

     

    Pregare “continuamente” sarà impossibile se facciamo della preghiera un puro sforzo intellettuale:

    “Se la preghiera dimorasse nel corpo, noi non potremmo contemporaneamente pregare e lavorare; se stesse nella sensibilità, ogni preoccupazione sensibile, la malattia, le emozioni la renderebbero impossibile, essa sarebbe succube di ogni minima variazione di umore; se essa stesse unicamente nel cervello, non potremmo pregare se non facendo della teologia. Ma la preghiera dimora anzitutto nel profondo del nostro cuore, nel profondo di noi stessi; il nostro <cuore> può sempre parlare con Dio, anche quando siamo occupati, quando la sensibilità è oppressa e la nostra testa piena di preoccupazioni. Il cuore può sempre parlare di ciò che è la sua vita e il suo amore.

    Di conseguenza: se il nostro cuore sarà occupato da altre cose più che da Dio, la preghiera tacerà in noi” (P. Chevignard).

    Sul piano concreto è evidentemente impossibile essere in “costante” esercizio di preghiera, ma la tensione che sta nell’amore è una realtà viva che perdura anche quando non ne siamo coscienti.

    L’educazione della preghiera sarà allora una tensione a far s^ che si tenda a dialogare con Dio in ogni occasione, trasformando ogni avvenimento, ogni circostanza in una possibile apertura a Dio, in ricordo costante della sua presenza.

    Distinguiamo perciò l’”esercizio” dallo “stato” di preghiera: si diceva di s. Francesco “Franciscus non orabat, factus enim oratio”.

    Non facciamo perciò dipendere la nostra preghiera da stati, luoghi od orari: essa è sempre possibile in quanto essa dimora nel profondo di noi stessi, nel nostro cuore, come realtà interiore indipendente:

    “Lo Spirito, quando abita in un uomo, non lo lascia dal momento in cui quest’uomo è divenuto preghiera, perché lo Spirito stesso non smette di pregare in lui. Che quest’uomo dorma o vegli, che mangi o beva o faccia qualsiasi altra cosa, e fin nel profondo sonno, il profumo della preghiera si innalza senza fatica nel suo cuore. La preghiera non lo abbandona più. In tutti i momenti della sua vita, anche quando sembra cessare, essa è segretamente attiva in lui di continuo” (Isacco di N.)

     Questa fedeltà ed apprendistato interiore non si può raggiungere se non consacrando ogni giorno un tempo alla preghiera:: per poter offrire tutto il proprio tempo, bisogna imparare a donare un tempo preciso:

    “La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi invece dimentichiamo colui che è la nostra vita e il nostro tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio, insistono sulla preghiera come “ricordo di Dio”, risveglio frequente della “memoria del cuore”: <E’ necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo> (Gregorio Niss.). Ma non si può pregare in ogni tempo se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata” (CCC 2697).

    Troppo spesso invece, delusi, lasciamo andare la barca alla deriva scoraggiati, e la dimenticanza di Dio rischia di permeare il nostro cuore:

    “La nostra lotta deve affrontare ciò che sentiamo come nostri insuccessi nella preghiera: scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al signore, poiché abbiamo <molti beni>, delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferimento del nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera ecc…: la conclusione è sempre la stessa: perché pregare? Per vincere tali ostacoli, si deve combattere in vista di ottenere l’umiltà, la fiducia e la perseveranza” (CCC 2728).

    Abbiamo dunque bisogno, come necessità, di tempi precisi perché si faccia calma in noi stessi e si possa ricomporre un certo ordine interiore:

    “La scelta del tempo e della durata dell’orazione dipendono da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualunque siano le prove e l’aridità dell’incontro… sempre si può entrare in orazione, indipendentemente dalle condizioni di salute, di lavoro o di sentimento” (CCC 2710)

    Da questa  fedeltà nasce la capacità e l’esercizio ad un’apertura più vasta di fede.

    Allora non è tanto il tempo che manca, ma la fede. Quando saremo convinti dell’importanza della preghiera troveremo di certo anche il modo per farle sempre più posto nella vita. Dovrà avere la stessa importanza del mangiare e del dormire, del respirare: non potremo vivere più senza di essa:

    “La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancanza di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori o preoccupazioni, ritenuti urgenti, si presentano come prioritari; ancora una volta è il momento della verità  del cuore e del suo amore preferenziale…. In tutti i casi la nostra mancanza di fede palesa che non siamo ancora nella disposizione del cuore umile: <Senza di me non potete far nulla>(Gv 15,5)” (CCC 2732).

    Prendiamo sempre atto che il fatto stesso di pregare è sempre una grazia unita ai nostri sforzi (Dio lavora l’uomo suda), ed è grazia da domandarsi continuamente.

  • 28 Gen

    di Attilio Fabris

     

     

    Aprirei questa nostra conversazione con un testo di K. Gibran, poeta libanese, che contiene preziosi luci (è la potenza del linguaggio poetico) per dare avvio al nostro discorso:

    Cantate e danzate insieme e siate felici,

     ma lasciate che ciascuno sia solo.

    Anche le corde del liuto sono sole 

    pur se vibrano con la stessa musica.

    State insieme ma non troppo vicini

    perché i pilastri del tempio sono separati

    e la quercia e il cipresso

     non crescono l’uno all’ombra dell’altro.

     

    La solitudine è qui descritta come condizione perché si possa crescere vicendevolmente divenendo pienamente se stessi, senza tentare di vivere “l’uno all’ombra dell’altro”.

    Difficile scelta perché non ci rassicura, anzi innesca la paura di rimanere senza alcun tipo di appoggio: è per questo che solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie.

    Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla – è il caso dell’esperienza delle grandi religioni e filosofie – con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità del mistero che ci abita, come luogo privilegiato in cui far esperienza dell’Assoluto.

    Essa si presenta perciò come un’esperienza ambivalente-critica che può divenire occasione di di-sperazione come, al contrario, luogo di crescita e di riappropriazione di sé e di autentica apertura all’Altro.

     

     

    1. L’inevitabile solitudine dell’Io

     

    L’etimologia della parola può essere illuminante: la parola “solitudine” trova il suo etimo latino corrispondente nel verbo “se-parare”, parola che rimanda a quella iniziale separazione necessaria anche se dolorosa del nascituro dalla madre. In quel momento la persona inizia la sua avventura da “sola” nel mondo, non più collegata alla madre. Da quel momento la persona intraprende il suo cammino “solitario” nel mondo. E come la nascita segna l’inizio della nostra solitudine così pure l’ultimo respiro segna e conferma drammaticamente che ciascuno è solo al mondo. Consapevolezza faticosa e dolorosa da accogliere perché accettazione del fatto che ciascuno si ritrova “gettato” (per usare il termine haidegheriano) da “solo nel mondo” come essere unico e irripetibile.

    Perciò alla solitudine – per il semplice fatto di nascere e di dover morire – non si sfugge! Sarebbe assurdo perciò rifiutarla e negarla. Con essa occorre “fare i conti” dal primo all’ultimo momento della vita.

    Si prende consapevolezza della propria solitudine quando ci si incontra/scontra, in modo più o meno improvviso, con la propria unicità/diversità/responsabilità dinanzi alla vita. Si tratta di un’esperienza che emerge sempre più imperiosa e talvolta drammatica man mano che la persona avanza nel cammino della vita (la nascita, lo svezzamento, l’asilo, la scuola, l’adolescenza, la giovinezza con i suoi progetti, l’età adulta con le sue responsabilità e sconfitte, la vecchiaia, la malattia, la morte): “si diventa solitari quando si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine” scriveva il monaco trappista Thomas Merton nel libro intitolato “Pensieri dalla solitudine”.

    Proprio perché inevitabile e situazione nella quale l’uomo si ritrova “solo” al mondo ecco che proprio nella solitudine egli è chiamato a dare una risposta alla domanda essenziale della vita: “Cosa ci sto a fare al mondo? Che senso ha la mia vita?”

     

     

    2. Una solitudine ambivalente

     

    Il discorso si fa più complicato quando si affrontano le modalità con cui ci si rapporta con questa fondamentale situazione di solitudine “esistenziale”.

    Ciascuno cerca modalità a volte estremamente diversificate per tentare di “colmare” a suo modo il “vuoto” derivante dalla propria unicità. Quali le strategie adottate per tentare di uscire dalla solitudine che ci accompagna inesorabilmente? Fatto per la relazione con l’altro ciascuno cerca sin dal principio di uscire (pensiamo solo al neonato) dall’orbita centripeta della sua solitudine (da questa “monade” direbbe Leibniz) entrando in una relazione, in un dialogo con gli altri, col mondo, con Dio. È una ricerca estremamente difficile e ambivalente perché o si riconosce vicendevolmente l’inalienabile solitudine-alterità dell’altro o si ricorrerà a stratagemmi più o meno patologici per inglobare l’altro a sé, fagocitarlo, alla fin fine distruggerlo con la pretesa che egli sia quel tutto che possa riempire la mia vita al prezzo di negargli la sua diversità da me: l’incontro con l’altro è sempre l’incontro con un’altra solitudine. È solo il silenzio che “garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro” (Enzo Bianchi).

    Io in quanto sono “io” devo accettarmi come solitudine chiamata alla comunione con la diversità dell’altro: “il nostro desiderio di amore, anche quando lo viviamo con una persona matura, è sempre in perdita, perché dentro di noi permane un anelito che non deriva da una carenza affettiva, ma da una dimensione incolmabile, da un bisogno che va oltre ogni dose di affetto terreno che riceviamo” (G. Daquino, Bisogno d’amore).

    Comuni a tutti sono i sentimenti e gli stati d’animo (legati in modo particolari a certi passaggi della vita) legati al rimpianto di istanti di pienezza e comunione, allo struggimento per relazioni ormai scomparse, all’ansia d’una ricerca di appartenenza che sembra sempre fatalmente negata (ci si sente sempre fuori posto!), al desiderio inappagato – che a volte diviene aggressivo e violento – di intimità capace di colmare il vuoto della propria vita, all’angoscia che scaturisce dal fatto di ritrovarsi frustrati ed incapaci di vere relazioni: così “sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Ma vi possono essere sentimenti positivi legati ad esperienze di solitudine: essi generalmente sono vissuti come “peak esperiences” (Maslow), ovvero istanti di pienezza in cui la solitudine non spaventa ma rappresenta al contrario l’instante di un’intuizione felice e piena di un “ritrovarsi immersi” in una totalità nella quale alla persona è dato di toccare, fosse solo per un momento, la gioia di essere se stessi nel mondo. È nel silenzio misterioso di chi è immerso nella natura, o sotto la cupola infinita delle stelle, o all’ombra delle volte di una grande cattedrale, o il silenzio dolcissimo colmo di parole non dette che intercorre tra innamorati, o il silenzio dolce della madre che tiene tra le braccia il suo bambino, o del monaco in preghiera nella notte nel silenzio della sua cella.
    Dunque la risposta alla solitudine non è per nulla scontata. Essa per essere costruttiva esige un ascolto della propria coscienza e una conseguente maturità che porti in un primo tempo a riconoscere e in secondo tempo a dare significato e spessore a questa solitudine “esistenziale”. Un percorso non facile e di maturazione della propria libertà e responsabilità.

    Non meraviglia perciò il fatto di constatare tante risposte se non abnormi e patologiche il più delle volte insoddisfacenti e talvolta addirittura distruttive.

     

     

    3. La solitudine “ vuota”

     

    Uno sguardo attorno a noi ed in noi ci porta a riconoscere che questo percorso è reso oltremodo difficile, a volte culturalmente e socialmente insormontabile: alla solitudine “esistenziale” l’uomo della nostra cultura occidentale non sa più dare, e non è più aiutato a dare!, una ragione e una risposta (dia 7).

     Li abbiamo tutti sotto gli occhi: bambini lasciati soli davanti alla TV e sballottati da un genitore all’altro, famiglie in cui ristagna solo una pesante cappa di silenzio,  vecchi abbandonati negli ospizi, malati relegati in anonime corsie di ospedale, ragazzi sprofondati nella solitaria prigione del loro walkmann o del loro videogioco, il disoccupato disperato,  il divorziato che si ritrova a far i conti col fallimento di una vita, il gruppo anonimo degli ultrà o il gruppetto muto e spaesato dei ragazzi del muretto, il senza-casa o l’extracomunitario in fila per il pasto…è un panorama desolante che si incontra ogni giorno!

    La solitudine-isolamento è il male della nostra “città”. Il rumore e una musica banale è il continuo sottofondo per riempire il silenzio.

    La soluzione è più che altro cercata all’interno di orizzonte inconcludenti e vuoti, realtà apparentemente piene di immagini e di suoni e di parole ma in realtà estremamente vuote: il denominatore comune è dato dal costante sforzo di fuggire-evitare- sopprimere la solitudine, il silenzio, in un’angoscia del non “dover-mai-restare-soli”.

    A questo fine tutto può essere usato: dipendenze da alcol e droga o altro, comportamenti compulsavi (internet, cell., shopping, gioco d’azzardo, a surrogati di vario tipo: il lavoro…).  Queste piste di soluzione rischiano di sprofondare la persona nell’inferno di un grave disagio che può evolversi in malattia psichiatrica vera e propria.

    Culturalmente e socialmente si è esasperato il soggettivismo (e dunque l’individualismo) con la conseguenza  che si è ancor più esasperato l’orizzonte della solitudine. Le relazioni sentite come necessarie sono vissute più che altro in funzione dell’io, in un contesto spesso di rivalità e competizione, di predominio. Galimberti commenta questa situazione: “Nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione e al tempo stesso impossibile perché, nella realizzazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma attraverso l’altro, la realizzazione do sé” (Le cose dell’amore). L’uomo alla fin fine cerca “solo se stesso”: e la conclusione inevitabile di questa tensione esasperata è lo sprofondare in una solitudine sempre più vuota, nella quale è precluso ogni autentico incontro di sguardi e si riscontra un’assenza di parola vera capace di intessere dialogo: “Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Spietata nella sua crudezza, l’analisi che di questa situazione faceva già a suo tempo  F. Nietzsche ne “La gaia scienza”: “Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non abita su di noi uno spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Non è forse proprio nella notte che soprattutto i giovani, in masse anonime, cercano di fuggire alla loro solitudine ricorrendo allo “sballo” delle droghe, dell’alcol, del sesso, della violenza, della sfida al pericolo? Non è forse nella notte che le angosce più profonde assalgono all’improvviso il cuore togliendo la voglia di vivere?

    Un complesso musicale degli anni ’70 cantava un motivo di successo: “Tutta mia la città: un deserto…”. (Equipe 84). La “città” paradossalmente assurge sempre più a un deserto senza vita, senza colore, dove gli sguardi non si incrociano, una folla anonima senza direzione, dove non esistono parole ma solo comunicazioni di servizio, silenzio pesante e vuoto che impermea il caos rumoroso del traffico. La città è il deserto “vuoto” e sterile, senza punti di riferimento e in cui si corre a vuoto, intorno a se stessi e senza destinazione(il quadro di Munch, “L’urlo” ne potrebbe essere emblematica icona).  

     

     

    4. La sfida del deserto

     

    Tuttavia la coscienza attenta percepisce che il dramma della solitudine può trasmutarsi in  portatrice di certo temibili ma quanto salutari! rivelazioni. Essa potrebbe far emergere, più o meno violentemente, le proprie paure, i propri vuoti e conflitti, che nella vita quotidiana si cerca continuamente di mettere a tacere e di non affrontare perché scomodi, dolorosi, bisognosi di risposta e cambiamento.

    Accettare di entrare nella solitudine equivale ad accettare d’entrare in battaglia con i “nostri demoni”, obbligando la nostra coscienza ad assumere la propria libertà e responsabilità nei confronti della direzione da imprimere alla nostra vita. Si tratta di una vera e propria discesa nel “profondo” del cuore per scoprirvi la radice del senso della vita. Ci si dirige verso il luogo in cui si è collocati dinanzi all’essenziale! “Solo la solitudine permette all’uomo di scoprire, e dunque di affrontare, tutte le forze oscure ch’egli porta in sé. L’uomo che non sa restare solo, non sa neppure (e oscuramente non vuole) riconoscere, in fondo al suo cuore, i conflitto ch’egli si sente incapace di mettere a nudo, o anche solo di sfiorare. La solitudine è una prova terribile, perché fa scricchiolare ed andare a pezzi la vernice delle nostre sicurezze superficiali: essa ci scopre gli abissi sconosciuti che tutti portiamo in noi stessi. E, afferma la tradizione degli antichi monaci, essa ci scopre che questi abissi sono infestati: non sono soltanto le profondità della nostra anima, ignorate da noi stessi, che noi scopriamo, ma anche le potenze oscure che vi sono come rimpiattate, e di cui noi resteremo fatalmente schiavi fino a quando non ne avremo preso coscienza. E, a dire il vero, questa coscienza ci schiaccerebbe se non fosse illuminata dalla luce della fede. Solo il Cristo può impunemente scoprirsi “il mistero di iniquità”, perché egli solo, oggi in noi come una volta già per noi, può affrontarlo con successo” (L. Bouyer, Spiritualità dei Padri).

    Nella tradizione biblica e spirituale cristiana il deserto, la solitudine, assurge a luogo di una duplice rivelazione: quella di Dio e quella del male. Nella storia della spiritualità il deserto è il luogo della lotta con il demonio (cfr Vita di Sant’Antonio) perché nella sua essenzialità smaschera inevitabilmente tutti quei “demoni-mostri” che, in altri contesti, subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza e la governano.

    Intravediamo in questa disponibilità ad entrare in contatto, attraverso la solitudine, con le profondità del nostro essere. Questa è la condizione perché si recuperino quelle dimensioni che sono tipicamente “umane”: la riscoperta della libertà, della responsabilità dinanzi alla vita, del suo senso ultimo.

     

     

    5. Opportunità di crescita

     

    (dia 11). Se l’uomo si ritrova oggi sprofondato in queste solitudini per la maggior parte subite, sofferte, rifiutate è saggio e doveroso chiedersi: che fare per aiutare la persona ad affrontare la propria solitudine, a leggerla in modo costruttivo, a saperla utilizzare per il proprio sviluppo umano e spirituale?  Non potrebbe l’esperienza del vuoto e dell’angoscia trasformarsi in occasione (“crisi”) per intraprendere nella propria vita percorsi diversi che vadano in profondità, che rieduchino e risveglino le domande vere e i bisogni più profondi che nascono solo dall’ascolto della coscienza? L’uomo contemporaneo proprio perché frastornato, “sfilacciato”, “di-sperso”, nel rumore e nell’anonimato, nei suoi frustranti tentativi di colmare inutilmente il proprio disagio ha bisogno di riscoprire urgentemente proprio dentro la sua solitudine il luogo e l’occasione per ritrovare se stesso, cessando di vivere da “alienato” ovvero fuori di sé. Bernardo di Chiaravalle monaco cistercense affermava con lucidità che: “Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi” (Lettere, 107).

    Così la solitudine può trasmutarsi in trampolino per un balzo verso la ricerca della verità, e quindi verso il bene, il buono e il bello. Essa diviene possibilità in cui all’uomo è offerto di aprirsi alla consapevolezza di essere fatto per “un oltre” che “va al di là” di quel “soggettivismo-individualismo-relativismo” che ci impregna e costringe all’isolamento.

    Perché questo accada non rare volte si necessita di un evento che sia traumatico, un elettroshok spirituale..  Nella vita di ciascuno giunge quasi sempre – c’è da augurarselo! – il tempo di smettere di fuggire da se stessi – fosse pure negli ultimi istanti della vita – e di entrare nella tragedia-dramma della “propria” solitudine ovvero in quella grazia del ritrovarsi – finalmente – di fronte al mistero di  se stessi e dell’Altro. Qui si attua – se si fa in verità – un giudizio spietato, e talvolta dall’esito drammatico, sulla propria vita!: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.

    Nel “deserto” luogo dove si “spengono le luci e i colori del mondo esterno, per rivolgere lo sguardo verso l’interno” (P. Evdokimov) ci troviamo faccia a faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano alle nostre precostituite, illusorie, compromettenti immagini di noi stessi. (dia 13).Qui si offre un’opportunità preziosa per imparare l’essenziale, ovvero a discernere ciò che conta da ciò che non conta: “La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore” (T. Merton)

    Nel silenzio e nella solitudine del deserto si è obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento nelle nostre paure e angosce, o l’aprirci fiduciosi alla promessa e alla speranza che ci pone in cammino. Il deserto pone in uno stato di perenne tensione, di pellegrinaggio, obbligando a fissare lo sguardo fuori di noi all’orizzonte cercando sempre al di là. Non ci si può fermare nel deserto, pena la morte: si è obbligati o ad avanzare o a tornare indietro!

    In questo avanzare pellegrini nella solitudine è racchiusa una promessa di un tesoro che non è immediato e alla portata di mano, esso esige il lento, faticoso e paziente scavo nelle “profondità del proprio cuore”, perché liberato da tutte le macerie e i rottami di una vita inconcludente si apra alla rivelazione di un nuovo modo di guardare alla vita che passa attraverso la griglia dell’essenzialità e la categoria dell’eterno: il frutto è la pace interiore di un orizzonte sconfinato che si apre dinanzi alla propria libertà.

     

     

    6. Una proposta

     

    Da quanto detto appare chiaro come la fede biblica non debba e di fatto non annulla la solitudine “esistenziale” in cui l’uomo è collocato sin dall’inizio. Essa tuttavia all’interno della rivelazione si pone come una premessa in vista di un progetto di comunione per cui l’uomo è stato creato: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,21). La spiritualità biblica assume e riconosce la solitudine come situazione nella quale all’uomo è riofferta l’occasione di ritornare (“convertirsi”) a ciò per cui è stato creato.

    Tutta la spiritualità cristiana (pensiamo all’esperienza del monachesimo o all’esperienza degli Esercizi Spirituali) ben utilizza la solitudine some strumento, mai fine a se stesso!, per imparare a leggere nelle proprie nostalgie, ansie, paure, desideri più profondi un invito alla trascendenza per cui siamo stati fatti. Nel silenzio il cuore può parlare e dire ciò che più desidera senza la tentazione di fuggire a se stessi. Un motto monastico intuiva questo risvolto quando ripeteva: “O solitudo vera beatitudo”.

    Così la solitudine da nemica diviene amica irrinunciabile al fine di aiutarci a dare spessore e scopo alla vita quotidiana fatta di tante cose da fare, da mille contraddizioni da affrontare, di mille problemi da risolvere. Non diviene fuga ma luogo in cui ritrovare il bandolo della matassa e non sperdersi nei meandri della cose. Diviene maestra di “umanizzazione” in quanto insegna a riaccostarsi alla verità di se stessi senza fuggirla, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea“.

    E un grande testimone contemporaneo della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.

    Sono convinto della necessità di dare vita a “laboratori di umanizzazione” in cui alle persone che lo richiedono possano trovare un contesto fatto di luoghi e persone che siano di aiuto nell’insegnare a riprendere contatto con se stesse e con il Mistero.

    Rientra tutto questa proposta quell’emergenza educativa di cui oggi molto si parla, e a ragione! Alle coscienze troppo ottenebrate, distolte dall’essenziale, fagocitate da una società del consumo e del potere che trova enormi interessi a far sì che l’uomo disimpari a pensare e riscoprire la propria libertà e responsabilità, è urgente offrire loro la possibilità di rieducarsi anche attraverso il silenzio e  la solitudine al fine di saper riascoltare se stesse, al riprendere contatto con il proprio “io”.

    Urgenza da offrire soprattutto alle nuove generazioni che stanno vivendo e incontreranno disagi non indifferenti nel prossimo futuro, ma da offrire anche a non pochi adulti che ad un certo punto della loro cammino spesso domandano di essere aiutati a riprendere il “filo della matassa” della loro esistenza sfilacciate da sofferenze, abbandoni, sconfitte, malattie…

    Le comunità cristiane e in particolar modo quelle religiose e soprattutto quelle contemplative dovrebbero essere impegnate in questo in prima fila nella consapevolezza che quest’opera di rieducazione dell’ascolto della coscienza è la premessa indispensabile se si desidera poi procedere ad una significativa proposta di apertura alla fede.

     

     

    Bibliografia

     

    Sant’Atanasio, Vita di sant’Antonio-Lettere, ed Paoline, Milano 1995

    L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, EDB , Bologna 1968

    San Bruno; Lettera a Rodolfo il Verde, PL 154,421

    E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001

    E. Borgna, Noi siamo un colloquio, feltrinelli, Milano 1999C.

    C. Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia, 1975

    S. De Fiores, Deserto, in “Nuovo dizionario di Spiritualità”, ed Paoline, 1975

    U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2005

    U. Galimberti, Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999

    A. Grun, Lacerazioni. Il cammino verso l’unità personale, ed. Messaggero, Padova 2003

    M. Melenso, Passione per la vita, ed. CVX, Roma 1997

    Un Monaco, L’eremo-spiritualità del deserto, Queriniana, Brescia, 1976

  • 28 Gen

     

    Una prima constatazione che possiamo fare è che non sappiamo pregare; è un’esperienza fatta dagli stessi apostoli:

    “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1)

    E’ importante per la verità di noi stessi e di conseguenza per la preghiera, accorgerci di questa difficoltà: “io non so pregare”. Affermare questo implica già una spinta a cercare, a non fermarci.

    Se la preghiera è dialogo, incontro, essa è difficile perché il più delle volte non percepiamo il nostro interlocutore. Egli rimane nascosto, apparentemente assente. Se è incontro essa deve perciò essere caratterizzata dalla spontaneità.

    Ma allora è giusto parlare delle leggi della preghiera senza rischiare l’artificiosità, l’inautenticità, la non spontaneità?

    Se la preghiera è incontro, dialogo con Dio, dobbiamo imparare il linguaggio nascosto di Dio:

    “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo Spirito dell’uomo che è in lui?

    Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1Cor 2,11)

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3)

    “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)

    E’ vero: non sappiamo pregare. Da noi stessi non potremmo parlare il linguaggio di Dio; ma il dono dello Spirito fattoci da Gesù nella Pasqua, ci rende capaci ormai anche di questo.

    All’inizio della nostra preghiera non deve mai mancare l’invocazione allo Spirito che abita in noi, perché ci suggerisca pensieri secondo il cuore di Dio:

    “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).

     

    Ogni volta che incominciamo a pregare Gesù è lo Spirito Santo che, con la sua grazia preveniente, ci attira sul cammino della preghiera… Ecco perché la Chiesa ci invita ad implorare ogni giorno lo Spirito Santo, soprattutto all’inizio e al termine di qualsiasi azione importante: Vieni Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”” (CFC 2670s)

     

    Una delle prime difficoltà che incontriamo nel cammino della preghiera è: “Devo preoccuparmi delle formule?”.

    Anzitutto consideriamo come Gesù nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) ci mostra che l’essenziale della nostra preghiera è presentarci come poveri, “mendicanti di Dio”.

    S. Giovanni della Croce ci offre le ragioni per cui alle formule dobbiamo preferire l’atteggiamento interiore:

    “La ragione per cui è meglio per colui che ama presentare le sue necessità piuttosto che domandare di soddisfarle è per tre motivi: il primo perché il Signore sa meglio di noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno; il secondo perché l’amico è preso da compassione più vedendo la necessità di colui che l’ama; il terzo perché l’anima è più protetta dal rischio dell’amor proprio e dalle pretese presentando ciò che le manca, più che domandando ciò di cui le sembra di aver bisogno” (lettera alle carmelitane di Becs).

    Tutto quanto detto è confermato dagli esempi tratti dalla Scrittura.

    Maria a Cana non dice: Protesti dare loro del vino?; ma “Non hanno più vino” (Gv 2,3).

    Marta e Maria implorano: “Il tuo amico Lazzaro, colui che ami, è malato” (Gv 11,3).

    Così il centurione a Cafarnao (Mt 8,6) e la donna cananea (Mt 15,22ss).

    Anche nell’antico testamento troviamo un esempio significativo: è la storia di Mosè. Ciò che ottiene la liberazione del popolo non sono né i miracoli, né le assicurazioni, né l’eloquenza. Questi strumenti non hanno che un risultato: l’indurimento del cuore del faraone. Ma è quando Mosè sperimenta tutta la sua debolezza ed è scoraggiato che egli innalza la sua vera preghiera: “Ma chi sono io?” (Es 3,11; 4,10; 5,21-23).

    Mosè stesso sperimenta la paura; ma è attraverso la sua paura e la sua debolezza che impara a parlare con Dio.

    Così anche Elia, quando scoraggiato nella fuga implora di morire (1Re 4,5); così Geremia, al momento della sua chiamata e nelle difficoltà e sofferenze della sua missione (Gr 20,7).

    Soprattutto abbiamo ancora l’esempio di Gesù nell’orto del Getsemani, e il suo grido sulla croce.

    Nel momento dell’estrema debolezza e povertà Dio interviene, quando è impossibile ingannarsi su colui che veramente può portarci in salvo.

    JHWH risponde a Mosé: “Io sarò con te”; l’angelo dirà a Maria: “Non temere”. Gesù nella sua agonia sperimenta la vicinanza del Padre: “Venne allora una voce da cielo: L’ho glorificato e lo glorificherò ancora” (Gv 12,28).

     

    Le formule della nostra preghiera non si esprimono necessariamente a parole o rappresentazioni intellettuali. La preghiera, talvolta, potrà solo consistere in un grido del cuore, uno sguardo supplice rivolto a Dio:

    “Che la vostra preghiera ignori ogni molteplicità: una parola bastò al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono… Nessuna ricercatezza nelle parole della vostra preghiera: quante volte i semplici e monotoni balbettamenti dei bambini inteneriscono il loro padre! Non abbandonatevi a lunghi discorsi per non dissipare il vostro spirito nella ricerca delle parole. Una sola parola del pubblicano ha commosso la misericordia di Dio, una sola parola piena di fede ha salvato il ladrone” (G. Climaco, Sc. Par.).

    Sarà tuttavia utile esprimere la preghiera attraverso la nostra parola. E’ la cosiddetta preghiera vocale:

    “Con la sua Parola Dio parla all’uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più importante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella nostra preghiera: Che la nostra preghiera sia ascoltata non dipende dalla quantità delle parole ma dal fervore delle nostre anime” (Giov. Crisost.)”

    “Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un’esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avvertiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbiamo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggior forza possibile” (CFC 2701s)

    Riassumendo: la preghiera è una realtà molto semplice.  Il dialogo con Dio non è complicato. Prima preoccupazione non è cercare delle formule, né sapere che cosa dobbiamo ottenere: la cosa indispensabile è imparare a parlare a Dio con la nostra

    debolezza:

    “Che la mente non si sparpagli in cerca di parole…Le molte parole nell’orazione sovente riempiono la testa solo di idee e distrazioni, mentre la brevità e talora una parola sola può conciliare il raccoglimento. Quando in una parola dell’orazione ti senti pervadere di dolcezza o di compunzione, fermati in essa” (G.Climaco, Sc Par).

    Non bisogna spaventarsi se Dio nella sua pedagogia inizia col smascherare tutte le nostre illusioni, al fine di collocarci nella verità. Infatti, se egli veramente ci ama, non può sopportare che noi ci sbagliamo sulla nostra vera felicità.

    Accettare l’amore di qualcun altro è permettergli di esercitare su di noi una certa gelosia: Dio ha per noi la gelosia della verità.

    Dio purifica così il nostro desiderio, trasformandoci in uomini dell’attesa: “Siate vigilanti” (Mt 24,42). Dio ha sempre agito così, in modo da condurre l’uomo a preferirlo a tutto il resto.

    La preghiera è vera nella misura in cui ci spinge a ri-cercare Dio, se diviene testimonianza che preferiamo Dio a tutto il resto.

    La scoperta della nostra povertà è la modalità attraverso cui l’immensa ricchezza di Dio ci è data da condividere, a cui siamo invitati ad aderire:

    “Tutto posso in colui che mi dà la forza”

    “Nulla è impossibile a Dio”

    “Mi glorierò della mia debolezza perché possa risplendere in me la potenza di Dio”

    Nella vita di Mosè, come in quella dei santi, le prove e le sconfitte superano il loro senso immediato: esse testimoniano che l’opera di Dio si è manifestata e rivelata come unicamente sua, un’opera dettata dall’amore per la sua creatura:

    “Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi con compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,3-4).

    Nella nostra vita Dio non può rivelarci il suo amore se non passiamo l’esperienza che Lui solo può liberarci, e in lui solo possiamo riporre ogni nostra speranza.

    Ripeteva Gandhi: “Pregare è un’ammissione quotidiana della nostra debolezza”.

    Sa Paolo scriveva: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).

    Accettare la povertà non comporta allora la gioia per una mancanza, ma una gioia in quanto essa può essere occasione di rivelazione del nostro dipendere da un altro. E’ il senso del verbo”credere” nella Scrittura: lasciarsi portare da un altro.

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. Attilio Franco Fabris 

     

    La Parola del Vangelo, se ascoltata, scuote come un vento burrascoso, una tempesta capace di buttare all’aria tutto ciò che con pazienza e fatica abbiamo costruito con l’intento “santo” di difendere e custodire la fede. La Parola infatti non tollera palizzate fatte di leggi consuetudini, riti: tutto questo rischia da parte nostra di paralizzarla, di affossarla, nasconderla, rendendola alla fin fine inoffensiva.

    Lo Spirito, dal giorno della Pentecoste, non sopporta più porte e finestre chiuse; per agire spalanca e abbatte tutto. Chiediamo nella preghiera di renderci disponibili a lasciarci travolgere dal vento impetuoso dello Spirito di Gesù, e che il rombo del suo tuono metta a tacere le nostre tante vuote parole.

    Vieni Spirito di libertà, dono del Crocifisso Risorto. Vieni come vento burrascoso e terremoto che scuote la casa (At 2,2; 4,31),  abbatti nel nostro cuore ogni paura, butta all’aria tutti quei muri di separazione che per troppa prudenza e paura abbiamo costruito con la scusante della fede, ma in verità per impedirti di agire con forza e novità nella nostra vita.

    Tu conosci la durezza del nostro cuore, la sua incapacità di ascoltare la Parola che libera e salva. Facci prendere coscienza di questa durezza di cuore onde indurci a quel pentimento e a quelle lacrime che, sole, sono capaci di ammorbidirlo rendendolo disponibile alla tua azione.

    Vieni come Spirito di forza, di coraggio, tu che sei Spirito che spalanca alla sua Chiesa e a ciascuno di noi orizzonti sempre più vasti e ampi. Facci oltrepassare, anche se neghittosi, tutti quei confini irti di fili spinati fatti di leggi, consuetudini, modi di pensare e di agire standardizzati, che vorremmo continuamente impiantare e conservare ad ogni costo per non scomodarci, per non metterci ogni giorno in discussione. Tu vuoi aprirci, Spirito di vita, al cammino di libertà dei figli, impedendoci di ricadere nella condizione di schiavi.

     

    Lectio

     

    Il brano che mediteremo è Marco 7,1-13. Siamo nella cosiddetta “sezione dei pani” (6,30-8,21) nella quale Gesù, dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani per i cinquemila nel deserto, presenta se stesso come quel vero nutrimento spirituale dono di Dio  di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita. Ma a Gesù che si presenta come pane risponde la cecità e la durezza di cuore non solo degli avversari ma anche degli stessi discepoli incapaci di riconoscere e accogliere il suo dono (cfr 7,18).

    Il testo, dallo stile profetico, presenta alla comunità cristiana una diatriba tra Gesù e gli scribi e farisei “venuti da Gerusalemme” (v.1).  Gerusalemme è il centro della fede e dell’ortodossia religiosa ebraica. A Gerusalemme, luogo dell’istituzione legata al tempio e al sacerdozio, la tradizione presume di aver conservato la purezza dell’interpretazione del dono della Legge. Presunzione che Gesù, sulla scia dei grandi profeti, più volte prende di mira denunciandone la falsa pretesa (cfr Ger 7,4; Mc 11,27ss). I farisei sono coloro che pongono tutte le loro energie a servizio dell’osservanza scrupolosa e  inoppugnabile della legge. Gli scribi sono invece coloro che studiano la legge e la conoscono in ogni sua sfumatura. Chi più di loro può sentirsi autorizzato nel denunciare ciò che allontana dalla retta pratica della fede? L’antitesi legge/vangelo, che accompagnerà anche la storia della comunità cristiana (cfr At 15,5ss), emerge nel nostro testo violentemente.

    Il motivo del conflitto è causato dal comportamento dei discepoli che “prendevano cibo (lett: pane) con mani immonde” (v.2) cioè  “non lavate”. La discussione ha perciò come perno le questioni legate al cibo e alla purità. Il significato di questa norma (di per sé riservata ai soli sacerdoti e successivamente ampliata) non è solo e anzitutto questione igienica: per il pio israelita è soprattutto invito a riconoscere che quel cibo è dono di Dio, e quindi va consumato con il rispetto e la venerazione nei confronti del donatore. Il significato della norma era perciò aiutare a “fare memoria”, nel dono del “pane”, dell’alleanza con Dio. Ma ora il pane è Cristo stesso, ed è lui che discepoli, farisei e scribi sono chiamati a riconoscere come dono di Dio. Tutto il resto dovrebbe passare in secondo piano: anche la legge santa! Ma questo non accade, e il motivo è semplice: la cecità e la durezza del cuore di tutti.

    La loro recriminazione inizia con le parole: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?” (v.5). Farisei e scribi, che hanno ben coscienza del peso della loro autorità in mezzo al popolo, si scandalizzano di Gesù. Non è egli chiamato rabbi? Perché non interviene, come suo dovere, a favore della legge? Se Gesù fosse realmente un rabbi  rispettoso della legge non dovrebbe permettere questo.

    Farisei e scribi si rifanno alle tradizioni “degli antichi”, ovvero agli illustri interpreti ufficiali della legge di Mosè. Il fardello della legge diventa pesante, insopportabile (cfr Mt 23,4): cumuli di pratiche, riti, precetti, tradizioni che in teoria dovrebbero facilitare il vivere l’alleanza in realtà finiscono per ostacolarla, impedirla, nasconderla perché le norme diventano fini a se stesse, dimentiche della loro funzione di semplici strumenti e in quanto tali sempre soggette a discernimento e verifica alla luce della Parola.

    A questa rigida presa di posizione degli avversari Gesù risponde (v. 6) con la citazione di Isaia 29,13 (cfr Am 5,21-27; Is 1,11-20…). Citando i profeti Gesù si colloca nella loro linea di severa accusa nei confronti di un culto ormai decaduto perché solo esteriore. L’antitesi posta dal testo di Isaia è tra culto delle labbra e del cuore, ovvero tra culto esteriore e interiore.

    Giungiamo al v. 8 al nucleo centrale della denuncia fatta da Gesù: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. L’uomo “religioso” (da intendersi come l’uomo non ancora evangelizzato) corre sempre il tremendo rischio di porre al primo posto la legge con la quale ricercare la propria giustificazione.

    Gesù porta quindi un esempio limite con il quale dimostra concretamente come la legge, e l’interpretazione che ne fa la tradizione “degli antichi”, diventa occasioni di subdola ipocrisia. E’ l’abile malizia del cuore indurito per cui la legge “santa” si trasforma in sottile strumento per eludere la verità e le esigenze autentiche della religione “del cuore”.

    Il termine “ipocrisia” è significativo: l’ “ipocrita” era il protagonista nella scena teatrale, colui che impersonava ciò che non era, pantomimo di una realtà inesistente. L’ipocrisia è la presunzione di voler apparire davanti agli altri, a se stessi e a Dio, più o meno consciamente, per quello che non si è.

    Dopo l’esempio riportato Gesù non esita a concludere il suo discorso affermando una realtà scomoda: “E di queste cose ne fate molte” (v. 13). Realmente la malizia del cuore umano non conosce confini.

     

    Collatio

     

    Esiste anche per noi cristiani il rischio di ricadere nella religiosità “delle labbra”; ovvero in una pratica religiosa vuota, sterile, perché privata della sua vera radice che è l’essere innestata non nella legge ma in un autentico rapporto con Dio. Una religiosità delle “labbra” è molto lontana da quella del “cuore” dove si gioca realmente la libertà della coscienza dinanzi alla Parola. Purtroppo sono molti che fanno propria la religione “delle labbra” se è vera la frase usata dai vescovi italiani in un documento di alcuni anni fa nel quale affermavano che “le nostre chiese sono piene di praticanti ma non di credenti”.

    La rivelazione biblica ci presenta il cuore dell’uomo indurito a causa della propria chiusura all’ascolto della Parola. Ecco allora l’uomo “sordo” porsi alla ricerca della propria giustificazione, fatta delle mille sicurezze derivanti dall’osservanza della legge. Si diventa cultori della legge, antica e… nuova, quando l’uomo “religioso” pone il sabato prima dell’uomo, giungendo stoltamente a sacrificarlo alla legge. Nessuna legge, neppure religiosa, può arrogarsi tale pretesa.

    La legge, antica e nuova, cerca sempre di svuotare la Buona Notizia, che è l’umile e gioiosa accoglienza della gratuità del dono di Dio. Si vuole trasformare il vino nuovo di Cana nuovamente nell’acqua degli otri della legge (cfr Gv 2,6). I cinquemila nel deserto hanno mangiato con gioia e entusiasmo del dono del pane moltiplicato senza preoccuparsi d’essersi prima lavati le mani! A questa gioia che trasborda la legge risponde volendosi mettersi di mezzo, nella presunzione d’essere lei strumento di salvezza.

    Qui sta il grande travisamento del dono della legge: per l’apostolo Paolo suo compito non è di giustificarci dinanzi a Dio, ma solo di farci prendere coscienza dell’impossibilità di salvarci da soli:Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20). Quando la legge dimentica questo, si trasforma in strumento di difesa nei confronti di Dio e delle esigenze della sua Parola. Essa infatti permette di attaccarci in tutta buona coscienza alle garanzie offerte dalle norme del passato, evitandoci la fatica e la sofferenza dell’umile ascolto della Parola. La legge è più comoda perché deresponsabilizza, fa dipendere dall’esterno la verità del rapporto tra la coscienza e Dio. Tragico destino della legge che, nata per additare la porta stretta della vita, diviene meschina e comoda autostrada che conduce alla “sclerocardia”, come amavano dire i padri orientali. Essa invece di aiutare l’uomo a puntare lo sguardo sull’essenziale si trasforma in idolo: quando il tuo dito indica la luna, dice un famoso proverbio cinese, lo stolto guarda il tuo dito.

    Gesù vuole liberare l’uomo e la sua comunità, dalla legge che lo rende solo schiavo. E’ questo il messaggio lanciato agli scribi e farisei venuti da Gerusalemme: egli vuole dal profondo del suo cuore che il nostro rapporto con Dio sia quello tra Padre e figli. Dio non vuole schiavi!

    La Buona Notizia annuncia il primato della religione del cuore che supera ogni legge: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 81,5).

     

    Oratio

     

    Chiediamo ora al Signore la grazia di poter riconoscere senza timore la durezza del nostro cuore. Questa durezza si manifesta quando, invece di porci “in religioso ascolto” della Parola lasciando che essa sola sia luce alla nostra strada, facciamo più comodo e cieco ricorso alle leggi, tradizioni,  “osservanze”, che seppur buone, si trasformano in ostacolo alla vera obbedienza della fede.

    Anziché camminare nella libertà della vera fede che fa di noi dei “credenti” decadiamo in tristi “osservanti” di una sterile pratica religiosa, lontana da quel cuore che Dio ricerca:Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23)

    Donaci, o Padre, il coraggio dell’autocritica che ci permetta di evitare le comode scappatoie delle “cose ovvie e scontate”, del “si è sempre fatto così!”, fuggendo il faticoso ma liberante confronto con l’autorità della tua Parola che è il Figlio tuo e con la verità dell’uomo.

    Soprattutto rendici capaci di usare la legge, nella Chiesa e nelle nostre comunità, sempre come semplice strumento passibile di modifiche, affinché l’uomo sia rispettato, il debole salvaguardato, la tua Parola più ascoltata, Dio servito in tutta purezza di cuore.

    Se ci attacchiamo troppo alle nostre leggi ed esse ci impediscono di vivere e far vivere la vera libertà dei figli di Dio, ti preghiamo, invia un “vento impetuoso e un rombo di tuono” alla tua Chiesa affinché scardini tutto ciò che non è secondo il tuo cuore.

    Donaci soprattutto di poter gustare la “sobria ebbrezza dello Spirito”, che è l’ebbrezza della libertà dei figli, e donaci infine di poter gustare la gratuità e la bellezza del dono del tuo pane che è il Figlio tuo, offertoci ogni giorno gratuitamente.

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