• 17 Feb

    Gesù comincia il suo ministero all’ombra di Giovanni Battista, battezzando. In realtà Gesù ha la delicatezza di non battezzare ma lo fa fare ai suoi discepoli.
    Malgrado ciò, nasce una polemica su chi battezza di più: lui o Giovanni. Quando Gesù si accorge di ciò decide di andarsene e di tornare in Galilea con i suoi discepoli. Pensiamo che non debba essere stata una decisione facile, perché mettere su un movimento non è una cosa che si fa in due giorni. Prima di creare questo flusso di persone che venivano a farsi battezzare, Gesù e i suoi hanno lavorato tanto. Constatare che è difficile aiutare l’uomo, fare del bene, vedere come ciò che fa è strumentalizzato per rivalità, il pettegolezzo, etc., deve essere stato una prima esperienza di Passione per Gesù. Gesù non esita: se quello che fa in qualche modo può essere strumentalizzato per fare del male al suo amico Giovanni, Gesù lo abbandona. Sceglie di affrontare un lungo cammino fisico di ricerca: almeno 150 chilometri, in direzione di casa sua e dei discepoli.

    Gen. 29, 1: nessuno riusciva a spostare la pietra dal pozzo … ovvero. Giacobbe ha convinto gli altri pastori a rimuovere la pietra mentre si avvicinava Rachele. E’ il pozzo dove Giacobbe ha incontrato Rachele. Anche in Gen. 24,10 Eliezer trova una moglie per Isacco ad un pozzo. Il pozzo è il luogo dove le persone possono incontrarsi. Un punto d’incontro, perché tutti hanno bisogno dell’acqua. Il bisogno spinge le persone ad incontrarsi. I luoghi d’incontro sono frequentati per la loro capacità di soddisfare a questo bisogno.
    Essendo il pozzo un buco che penetra la terra, esso è simbolico di quanto l’uomo deve fare per andare oltre ciò che è superficiale. Ci afferma che oltre la banalità dell’esistenza esiste la possibilità di soddisfare il bisogno dell’uomo. E’ simbolico di una relazione che va in profondità, che non rimane allo stato epidermico.

    Quando arrivano al pozzo, verso mezzogiorno, sono almeno al secondo giorno di cammino. Gesù è sì stanco per aver camminato, ma forse anche per ciò che ha vissuto esi è lasciato alle spalle.
    Gesù si accorge che da lontano una donna sta arrivando per attingere acqua dal pozzo. Solitamente le donne ci si recavano la mattina e forse dopo pranzo per rigovernare e preparare la cena, ma non certo per l’ora di pranzo; e tanto meno da sole. Il pozzo solitamente rimaneva in un luogo isolato per non inquinarlo i rifiuti del centro abitato. L’acqua era preziosa e andava tutelata. 

    Perché tu Samaritana vai al pozzo a quest’ora da sola?
    – Non voglio incontrare le altre donne del paese perché sono cattive con me, mi considerano una poco di buono, mentre in realtà loro sono peggio di me ma vogliono salvare la faccia. Le odio. E poi perché mi fanno soffrire con i loro sguardi e le battute. Sono tutte invidiose. E poi a me piace stare da sola.
    – Ma non è che hai qualche altro fine, magari quello di incontrare una carovana di stranieri?
    – In effetti, preferisco gli stranieri alla gente di questo stupido paesino dove mi tocca vivere.
    Dietro il primo fine di andare a prendere l’acqua ecco che il cuore persegue un altro fine: sedurre. Cosa fa Gesù? Fugge perché una donna vuole abbordarlo? Le regole non permettono di parlare con una donna, e neanche a lei è permesso parlare; ma Gesù è assetato e non ha una brocca, e questo lo spinge a chiedere: una situazione d’emergenza che è prevista dalla legge. Però se era normale chiedere da bere, non lo era chiederlo ad una samaritana. Gesù si espone ad un rifiuto vivendo il rapporto con l’altra con naturalezza e verità. Al di là di quelle che potrebbero essere le intenzioni dell’altra, Gesù vive quelle che sono le sue, d’intenzioni. Gesù esprime il suo bisogno: “Dammi da bere”.In che tono Gesù avrà pronunciato quella frase? Un tono supplichevole di chi ha i complessi d’inferiorità nei confronti dell’altro sesso? O di chi è talmente assetato che sbava per un sorso d’acqua? Un tono autoritario, tipico del maschio che si sente superiore a una donna, per giunta samaritana? Un tono mellifluo, mieloso di chi già pregusta quello che avverrà dopo? Un tono seduttore che cerca di far presa sulle corde emotive dell’altra? Un tono losco di chi fa finta di essere innocuo per poi saltare addosso alla preda improvvisamente? Il tono di Gesù esprime semplicemente il suo bisogno di bere e la capacità di entrare in relazione con l’altra in maniera totale e profonda come il pozzo, senza doppi fini. Gesù non ha paura: non si lascia prendere da timori.
    Continua a essere se stesso, e essere se stesso significa vivere il suo bisogno. Quanti giri di parole faremmo noi, per riuscire a stabilire un rapporto prima di manifestare il vero bisogno? Gesù non dice nemmeno per favore: ma dall’ascolto che abbiamo fatto, dal tono di voce e dallo sguardo sappiamo che il suo non è un imperativo violento. L’atteggiamento di Gesù è di trasparenza. La persona che ha a che fare con lui può costatare quali sono le intenzioni del suo cuore, essere trasparenti vuol dire consegnarsi nelle mani dell’altra, giocare a carte scoperte, vuol dire la morte dell’orgoglio, della superbia. Come si può entrare in relazione con l’altra senza il rapporto sessuale? Si può entrare in comunione senza vedere sullo sfondo dell’incontro un letto? Non siamo capaci di scavare il pozzo dell’amore autentico. Questa donna ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore carnale, affettivo, ma non ha la brocca per attingere al pozzo dell’amore autentico; anzi: nemmeno sa che esiste il pozzo dell’amore vero.

    Avvicinandosi a Gesù si accorge che è un Giudeo. Anche se ci va per rimediare rimane spiazzata dal tono di Gesù, dal suo sguardo, si sente confusa, ed è costretta a ripararsi dietro un comportamento formale, che le consenta di studiare l’avversario e vedere il gioco che fa: “Come mai tu…”. A quanto pare lei non rifiuta di dargli da bere ma si mette giocare con il bisogno di Gesù.
    Avrebbe potuto rifiutargliela o dargliela e ritirarsi in buon ordine. Lei preferisce attaccare bottone. Lo fa tirando fuori una vecchia polemica e sarebbe interessante cogliere il tono della sua voce. E’ una provocazione. Un modo per rompere il ghiaccio, una frase mediante la quale la samaritana costringe Gesù a scoprirsi: “Se tu, giudeo, hai tutto questo poco rispetto delle vostre consuetudini, significa che non hai solo l’intenzione di bere”. La samaritana usa il bisogno di Gesù. Vede che è assetato e che lei ha la risposta al suo bisogno. Gioca con questo bisogno esercitando potere su di lui. E’ questa la tecnica di potere che usiamo solitamente nelle nostre relazioni: una volta individuato il bisogno dell’altro ed entrando in possesso di quanto possa soddisfarlo esercitiamo potere ora soddisfacendolo, ora lasciandolo a secco. Le relazioni del nostro “amore” sono delle compravendite in cui ognuno vende qualcosa in cambio di altro. Gesù invece gioca in perdita: non ha paura di entrare in relazione con qualcuno giudicato impuro e che, secondo la religione giudaica, è causa di interdizione alle pratiche di culto, e quindi alla stessa relazione con Dio. Gesù, pur di entrare in relazione con questa donna, compie qualcosa che contraddice principi e convinzioni alle quali lui tiene moltissimo e che ha sempre praticato fedelmente per tutta la vita. E questo Gesù lo fa anche per un incontro occasionale, che durerà poco tempo, che forse non avrà un seguito, perché per lui ogni persona è importantissima, come se fosse l’ultima con cui entrare in relazione prima di morire. Davanti alla reazione della donna come avremmo reagito noi a nostra volta? Saremmo entrati in polemica? Ci saremmo ritirati con la coda fra le gambe?

    Però ecco che Gesù, introducendo degli elementi nuovi nel dialogo, comincia a giocare su doppi sensi: parla di acqua ma intende un’altra acqua, che è il suo amore. Un’acqua sconosciuta, ma viva. Gesù capisce che questa donna sta manifestando il suo bisogno di relazioni nuove. Non si scandalizza, non gli fa la morale, preferisce accogliere il suo bisogno ma senza giocarci e andando alla radice di esso.
    Per farlo mette subito Dio al centro del discorso: “Se tu conoscessi il dono di Dio”… Gesù vuole portarla a vedere il suo vero bisogno, quello di cui ha paura e che non vuole affrontare se non superficialmente. Gesù ha chiaro che Dio può, tramite lui, rispondere al suo bisogno. Gli propone acqua viva, acqua che scorre come quella del Giordano, che non imputridisce, che lava, che disseta e da sollievo.
    Anche questa è una tecnica di approccio: le frasi a doppio senso portano i due a muoversi in una determinata direzione, a vedere se l’altra ci sta. Solo che i doppi sensi di Gesù si muovono in una direzione a noi sconosciuta. “Se tu conoscessi il dono di Dio”. Gesù ha la sfacciataggine di proporsi come qualcosa di speciale, come uno che, dal canto suo, può soddisfare la sete di lei, con un acqua particolare, come se lui fosse stato mandato sulla sua strada da Dio stesso, come un dono. Sembra quasi che dica “Tu non sai chi sono io”. E’ la consapevolezza di Gesù di essere quello che è, senza falsa modestia, ma dalla finalità non di ottenere un riconoscimento di questo mondo, ma in funzione della Gloria a Dio. Questo si può evincere dal comportamento complessivo di Gesù, senza isolare la frase dal resto del racconto. Gesù ha chiaro quello che ha ricevuto, e quello che può dare. Gesù vuole aiutare questa donna a scoprire qual è il suo vero bisogno, cos’è che in fondo cerca veramente, ma non sa di averne bisogno. E Gesù, per far questo, sposta il discorso su Dio, mette Dio al centro. Quello che Gesù dice è misterioso: cosa sarà questa acqua viva, e che personalità sarà quella di uno che addirittura si presenta come un dono di Dio, un inviato di Dio?
    Siamo di fronte a un pazzo, un millantatore, uno sbruffone che ostenta grossolanamente le sue capacità per sedurre? O veramente questo uomo ha qualcosa di diverso dagli altri? La donna si domanderà in se stessa chi sarà mai questo uomo: l’unico a cui si può paragonare, stando alle sue parole, è il patriarca Giacobbe. Lei lo aggredisce il giusto, per farsi accogliere. E una tecnica di potere con la quale cerca di manifestare il suo desiderio ma in modo velato.
    Tutti abbiamo bisogno di entrare in relazione con tutti, ma nessuno lo fa correttamente: o fuggiamo per paura, o cerchiamo di conquistare con gli strumenti di potere. Non siamo capaci che di scavare pozzi di acqua che ci disseteranno per sempre: una volta che abbiamo spremuto una persona cominciamo ad innamorarci di un altra. L’unico che può salvare l’umanità da questa incapacità, è colui che sa veramente amare di un amore qualitativamente diverso, un amore che cerca il bene dell’altra, dell’altro.
    L’unico è Gesù.

    Non ti scoraggiare, quindi, davanti alla falsità delle tue relazioni: è possibile ancora oggi costruire relazioni autentiche attingendo a questa sorgente di amore che è Gesù. Anzi, questa messa che stiamo vivendo è già questa relazione autentica di Gesù con noi e di noi fra noi stessi. Non troverai fuori di qui la possibilità di essere pienamente te stesso, solo che tu lo voglia. L’amore di Dio è qui e ti sta amando. Io faccio finta di dare per prendere, Dio invece chiede per dare.
    Come ci dirà Gesù, questa donna ha avuto cinque mariti: la sua è una coscienza inquieta, in continua ricerca di appagamento, ma niente la appaga fino in fondo. Dove sono quegli uomini? Le relazioni che si impostano sull’esercizio di potere, sono destinate a finire molto presto. Questa ricerca della donna, la porta ad avere un atteggiamento aggressivo, la manifestazione del suo bisogno, pur non essendo trasparente, è densa di volontà di esercizio di potere: una coscienza abituata alla schermaglia. “Se tu conoscessi…” Gesù invece la accoglie con dolcezza; e questo è un atteggiamento che comporta una fatica interiore, per non scendere sullo stesso piano dell’altra, è trovare in se la sorgente di un amore diverso, che ama per primo, che è gratuito. Gesù, inoltre, non n’approfitta, non fa finta di restare calmo, per poi, al momento opportuno, sedurla. Non ha doppi fini. E ancora non ha un atteggiamento moraleggiante: non gli fa nessuna predica, non le impone dei pesi che non è capace di capire la ragione per cui li dovrebbe portare; né, ammesso che lo capisse, potrebbe portare. Eppure per una coscienza morale come quella di Gesù, sensibile a tutto ciò che può essere contro la verità nei rapporti deve essere doloroso astenersi dal farlo. Questa donna, come vivrà accoglienza di Gesù? Non la fraintenderà? Non è abituata ad essere trattata così: non ha mai conosciuto uno che si comporta correttamente con lei, penserà che è un poco di buono.
    Da una parte provoca Gesù, ma quando l’altro esce dai miei schemi, faccio fatica a capire dove vuole andare a parare, c’è poco da fidarsi. Forse è un poco di buono. Gesù accetta il rischio del coinvolgimento, pur di andare incontro a questa donna. Come sempre, ogni persona che incontra è importante per lui. Si consegna alla violenza del cuore di questa donna, vuole fargli fare l’esperienza che c’è uno in questo mondo, che non approfitta di lei, e che gioca a carte scoperte. La donna per tutta la vita non ha fatto altro che provarle tutte, per togliersi questa sete che la divora. Ma sono state sempre delle sorgenti che non gli hanno tolto la sete: è sempre questa cammella vagabonda che vaga, sempre in cerca. Ma ora sente che la relazione con Gesù, questa conoscenza, il coinvolgimento di lui con lei, è un’acqua diversa: si sente rinfrancata, si sente capita, non si sente giudicata. Man mano che parla con Gesù sente accoglienza, tranquillità, sente che quest’acqua che le propone Gesù, la sta già bevendo, anche se ancora non capisce di cosa si tratta. Gesù non pretende di più e va avanti con una domanda: “Vai a chiamare tuo marito…”.

    Gesù usa una parola molto delicata che bisognerebbe reinventare oggi: una parola che indica sia il marito, sia un uomo qualsiasi, di modo che la donna può rispondere o eludere la domanda chiaramente a doppio senso. Gesù non le fa violenza ma se vuole, capisce che Gesù a messo il dito sulla sua piaga. Non è una domanda polemica o impertinente. Se lo fosse lei scatterebbe o si chiuderebbe. Gesù deve averla amata molto perché lei possa avere accolto questa domanda rimanendo calma e riflessiva. Finalmente ha trovato qualcuno con cui giocare a carte scoperte, con cui può parlare liberamente, sente liberazione, guarigione. Gesù non dice alla donna di lasciare quest’uomo, Gesù è fraterno nel suo atteggiamento. Anche se è un amore vissuto in un modo disordinato, basato su giochi di potere e di sfruttamento, Gesù non viene ad affossarlo… anzi: con la sua acqua Gesù viene a salvarlo, a far sì che non rimanga allo stadio di quell’amore che poi finisce, come sono finiti gli altri matrimoni nella vita di questa donna. Condizione essenziale per dissetare qualcuno è l’avere chiaro qual è la sua sete, sia per lei sia per lui. Per ciò Gesù la porta ad un atteggiamento di confessione. Non è facile, perché scattano le paure e la gelosia di sé. Questa donna rispondendo alla domanda di Gesù si apre ad una condivisione della sua vita.
    Potrebbe anche essere un altra provocazione, come se dicesse: “Non ho marito quindi sappi che sono disponibile per te”. Ma Gesù preferisce farle sentire che lei è importante per lui ma che non vuole sfruttarla. Continua a farle vedere che ha chiaro che tipo di donna è lei, ma accogliendola.
    Dire: “non ho marito” è anche dire: “sono povera, ho bisogno di te”, è una confessione. Alla sua violenza Gesù risponde fraternamente ed è probabile che gli costi. Non le fa la paternale, non affossa il suo amore umano, anche se è disordinato. Gesù viene per ordinare l’amore umano offrendo la sua acqua.

    Lei non capisce ma sperimenta che l’accoglienza di quest’uomo la fa stare bene; si sta già dissetando. Si sente accolta, illuminata e tranquillizzata. E’ la condivisione della sua vita che le fa sperimentare l’acqua viva. Scopre che è importante per lui, che è disposto a sacrificarsi per lei, ad esporsi a critiche. La donna riconosce che Gesù è un profeta, cioè che è stato inviato da Dio per lei. Tuttavia comincia a tirare fuori delle questioni teologiche… l’adorazione, Samaria, Gerusalemme…Certamente sono problematiche autentiche, e che risolte possono dare un’intesa migliore, però che bisogno c’era di tirarle fuori proprio mentre la relazione è diventata così intima?
    La Samaritana fa una domanda: chi ha ragione? Noi o voi? E’ meglio la nostra religione o la vostra?… Perché una donna che è abituata a dissetarsi al “pozzo” anziché in Chiesa fa domande di carattere religioso? Forse cerca un argomento religioso per far vedere che è in grado di reggere il confronto con il personaggio che ha davanti e che mette sempre Dio al primo posto. Manifesta un desiderio di continuare a parlare con quest’uomo, ma per favore cambiamo argomento. E’ come dire: mi piace chiacchierare con te ma non parliamo dei miei mariti, dei miei problemi affettivi. Mi fa soffrire troppo. La donna in realtà, non riesce a sostenere il rapporto con Gesù, pur sentendo il bisogno di continuarlo, cambia discorso. Cosa è successo? Non riesce a vivere la sua verità, è caduto quello schermo, quella maschera con la quale si poneva in relazione con gli altri, e non è capace di vivere senza, non abituata a vedersi e a farsi vedere così alla luce del sole. Nelle nostre relazioni ci presentiamo agli altri con un’immagine, e questa ci fa da schermo fra quello che presentiamo e quello che siamo in realtà, Gesù si mette in relazione senza schermi. Quello che è, mostra, anzi, è capace di accogliere l’altro per quello che è, e non per quello che mostra. Ma questa donna non è abituata a stare in questa verità: ha paura di sé, di Gesù… E Gesù sembra che si sottometta a questa richiesta. Comincia a parlare della controversia Giudeo-Samaritana, ma con grand’abilità torna a bomba sul problema centrale di questa signora: il problema del Padre, e gli presenta un Dio Padre che si fa mendicante d’adoratori in spirito e verità.
    La invita ad avere con Dio lo stesso rapporto che sta instaurando con lui, un rapporto fatto d’autenticità, di verità. Lei scappa di nuovo: “So che deve venire il messia”… E’ quasi offensiva, come se dicesse: “Ma tu che ne sai? Chi sei per venirmi a smuovere questi problemi?”

    Ma Gesù insiste: “Il Messia sono io, non scappare, fidati. Vedo che sei spaventata. Non vedi che sto servendo la tua vita? “Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. Gesù è molto delicato, sta al gioco, come sempre, capisce la difficoltà della coscienza della donna, rispetta i suoi tempi, però, nello stesso tempo, cerca di riportare il discorso al punto principale: Dio! Il Padre … Gesù parla del Padre, fa capire che lei ha bisogno del padre, della paternità, lei ha bisogno di entrare in questa relazione autentica con Dio, e conoscere che egli è padre. Nonostante tutta quest’accoglienza di Gesù, la donna tira fuori la storia del messia. Possiamo immaginare che sia lecito indagare sull’identità di una persona prima di dargli fiducia, eppure dà proprio l’impressione che tenti ancora una volta di svicolare, In fondo chiede a Gesù di dire esplicitamente che è il messia, oppure che Gesù, riconoscendo di non esserlo, si metta in relazione con lei non avanzando pretese di coinvolgimento, perché la persona che veramente potrà dare una risposta al cuore dell’uomo deve ancora arrivare. Ancora una volta, proprio dietro una giustificata domanda, si cela un atteggiamento, di resistere fino alla fine prima di dare veramente fiducia ad una persona, il cuore non si arrende, dentro si è ingaggiata una battaglia terribile: quest’uomo si è messo completamente a servizio della mia persona, quest’uomo mi sta aprendo delle prospettive infinite per la mia vita di donna, per la mia relazione con Dio, sto facendo un’esperienza come mai prima nella vita, e proprio per questo ti metto i bastoni fra le ruote, ti metto alla prova, ti torchio fino alla fine, fino a farti uscire l’anima, perché non mi fido, e mi fiderò solamente quando vedrò scorrere il tuo sangue, quando vedrò che sei schiattato sotto i miei colpi, la mia insistenza , la mia riprovazione. A questo punto, Gesù, in un ultimo svuotamento di sé, deve dire ciò che è il segreto intimo, più intimo della sua vita, deve manifestare se stesso fino in fondo, e correre il rischio di essere rifiutato, lì dove poi non è possibile fare più niente. Infatti dopo queste ultime parole di Gesù non c’è più niente da dire: se la Samaritana lo rifiuta, Gesù non ha più carte da giocare, e questo sarebbe disastroso per la samaritana stessa. Anche quest’ affermazione di Gesù, la massima che si possa pensare, potrebbe essere intesa come un’affermazione potente e sovrastante, come si conviene ad un figlio di Dio, invece va proprio letta in questa chiave passiologica, in quest’atteggiamento autosvuotante. Lei vorrebbe stare con Gesù, ma non con se stessa. Parlare sempre d’altro, degli altri, ma non di se stessa. A questo punto succede un fatto decisivo: tornano i dodici.

    Per la donna è un momento decisivo. Adesso saprà se Gesù fa sul serio con lei. Potrebbe aspettarsi un voltafaccia di Gesù, come forse farebbe lei se arrivasse gente del paese.
    Adesso vede che Gesù è disposto a compromettersi con lei anche pubblicamente: quest’uomo è disposto a pagare per lei. Temeva che finisse l’incantesimo del rapporto con lui, ma Gesù non l’abbandona, non si preoccupa di salvare la faccia. In quel mentre tornano i discepoli, e questo è un avvenimento che pone Gesù nella condizione di perdere ancora la sua vita. Essi si avvedono che Gesù sta parlando da solo con una donna, sta facendo qualcosa che va contro la legge, questo è causa di scandalo in loro.
    Inoltre sanno che Gesù è affamato, invece non manifestano niente a Gesù: non sono premurosi, non gli domandano nemmeno se ha bisogno di qualcosa. I dodici, nel tentativo di riallacciare un dialogo con Gesù, tirano fuori il discorso del mangiare, un po’ come noi quando vogliamo stare con qualcuno e lo invitiamo a cena. Al di là delle situazioni di difficoltà, ci deve essere in ogni caso un rispetto per le necessità fondamentali delle persone, i conflitti avvengono per essere risolti, per essere momenti di crescita. Le chiarificazioni avverranno, ma non è giusto trattare l’altro in questo modo, ignorando i suoi bisogni fondamentali, eppure questo fanno gli apostoli; e inoltre, non gli manifestano le loro perplessità riguardo al suo comportamento, ma stanno zitti. Come fa male questo silenzio ostile, meglio quando le cose te le dicono in faccia: questa è guerra fredda.

    Gesù non ha cambiato atteggiamento con lei, malgrado questa presenza dei dodici che lo stanno a guardare in cagnesco. A questo punto la Samaritana è talmente contenta che sente il bisogno di andare a comunicare la sua gioia a tutto il paese; proprio a quei paesani che prima evitava, e va a raccontare quello che non permetteva a nessuno di raccontare: “tutto quello che ho fatto”. Prima di partire lancia a Gesù un altro messaggio trasversale: “lascio qui la mia brocca per che torno subito e so che tu mi aspetterai e che mi posso fidare”.
    E’ probabile che domani questa donna tornerà al pozzo con le altre donne e non più da sola perché si sente riconciliata con se con Dio e con il paese. Lei che è un’avventuriera solitaria, ora si accorge che Gesù la far stare bene anche pubblicamente. Il suo star bene diventa riconciliazione con il suo paese, va alle persone con le quali sta in lotta da una vita, e non ha più paura di essere se stessa, di riconoscere il male che ha fatto, di annunciare quello che gli è successo, e ha lasciato la brocca lì, per dire che sarebbe tornata, perché uno così non lo ha mai incontrato e con lui vuole continuare a camminare.

    “Rabbì, mangia”. Qual è il sentimento interiore degli apostoli? Sono ancora meravigliati per l’atteggiamento, il comportamento di Gesù, perplessi. Bisogna ristabilire la relazione, ma da dove si parte? La situazione contingente di essere tornati con il cibo per Gesù, diventa l’occasione per ricominciare il discorso: si offre da mangiare, si racconta la visita in città e poi si affronta la questione della samaritana.
    “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”. Gesù si sta nutrendo interiormente di quello che è avvenuto fra lui e la samaritana. E’ assorto. E’ contento di quello che è avvenuto, contento che questa donna abbia accolto la sua parola, abbia accolto la sua persona, abbia accolto la verità di Dio. Questo dà una gran gioia a Gesù: e’ il senso del suo essere nel mondo, del suo esistere, è la ragione per cui si è sentito inviato dal Padre. Questo è un alimento per Gesù, é nutrimento. Gesù, per i discepoli, sta da un’altra parte. Sta dalla parte più autentica, che nemmeno le necessità materiali riescono a mettere in secondo piano. Tuttavia ciò che dice Gesù è enigmatico: per chi non si mette in atteggiamento di ascolto la sua affermazione rimane su un piano strettamente materiale. Ma Gesù risponde che ha già mangiato.
    I discepoli non capiscono che Gesù è assorto, che sta vivendo un momento di intensa preghiera di ringraziamento al Padre, perché la conversione di questa donna da significato a tutta la sua incarnazione, alle sue fatiche e sofferenze.
    Gesù sa che se ha potuto operare questo miracolo è grazie alla sua comunione con il Padre e alla loro interazione. Gesù gode di questa collaborazione con il Padre e raccoglie il frutto del suo essersi esposto, del aver amato per primo.
    Gesù vuole preservare questo momento che lo sta nutrendo profondamente, ma i dodici non capiscono il suo bisogno. Gesù dice “Io ho un cibo che voi non conoscete, che è fare la volontà del Padre mio. Cioè quello che ho appena fatto con questa donna e che mi appresto a fare con tutti i samaritani che verranno qua, accogliere, parlare dell’amore di Dio per l’uomo, del fatto che non fa differenze di persona, che il Regno viene”.
    “Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?” La considerazione sembra essere pertinente, circostanziale. Eppure dovrebbero essere abituati a vedere Gesù assorto, il maestro rivolto verso qualche finalità a loro ancora oscura. Invece, come quasi sempre, le loro coscienze sono sorde, indurite. I malintesi hanno sempre origine da una mancanza di ascolto della propria e dell’altrui coscienza.
    “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”. Ora Gesù chiarifica il suo atteggiamento: qualunque cosa abbia fatto è opera di Dio; è sempre stato così, e lo è stato anche in questo frangente. Questo è cibo, perché viene incontro al bisogno più profondo dell’uomo: la comunicazione alla e della vita. Comunicazione alla vita: Gesù è profondamente attento a ciò che il Padre dice, a ciò che il Padre vuole, è in atteggiamento di ascolto: questo è basilare per l’ebreo, e nella tradizione biblica ascoltare la parola è la stessa cosa di nutrirsi della parola. Comunicazione della vita: perché, proprio ascoltando, Gesù arriva a sentire che la stessa parola vuole comunicarsi a quella persona che è capitata davanti a lui.

    “Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco io vi dico: levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”. C’è qualcosa di illogico: se mancano ancora quattro mesi come è possibile che i campi siano pronti già per la mietitura? Capiamo che Gesù ha una visione profetica da comunicare ai suoi discepoli. Il piccolo episodio della samaritana e dei suoi compaesani, che a loro volta stanno arrivando, è diventato una piccola porta da dove guardare verso il futuro, e Gesù vede il frutto della sua missione, alla quale vuole associare i suoi discepoli.
    “In ciò si avvera la parola che uno è colui che semina e uno è colui che miete. Io vi ho mandato a mietere ciò che voi non avete lavorato, e voi siete entrati nel frutto del loro lavoro”. Gesù è profondamente cosciente che l’immensa opera del Padre, può essere portata avanti solo attraverso una stretta collaborazione con lo stesso. Questo è vero per lui, che è stato docile a quanto lo Spirito del Padre ha fatto nel cuore della samaritana, ed è vero ancor di più per i discepoli che potranno fare questo solo in collaborazione con gli altri. L’opera grandiosa del Padre ci trova inseriti già in un flusso di vita che non possiamo mai dominare totalmente.
    “Vi ho mandati a mietere ciò che non avete seminato”. Noi sappiamo che molti hanno seminato prima di noi, i discepoli sanno che Gesù ha seminato prima di loro, ma chi ha seminato per Gesù nel cuore della Samaritana tanto da permettere questa conversione apparentemente cosi improvvisa?

    Da quanto tempo lo Spirito di Dio lavora nel cuore di questa donna? Forse da anni sente questo ritornello dentro di se: “Dov’è tuo marito? Di chi mi posso fidare? Chi sarà fedele alla mia vita?”. Gesù ha colto l’opera di Dio in lei e glie l’ha rivelata. Per ciò Gesù si sente collaboratore del Padre e gioisce di ciò. Questa è una grossa botta per l’orgoglio umano che vuole essere il solo ed assoluto protagonista. Ma è una buona notizia per chi si sente sovraffaticato da una responsabilità al di sopra delle sue forze. Inoltre è una visione, questa della direzione generale del Padre, che suscita sentimenti di gratitudine e di glorificazione. Lui è il vero artefice di quest’opera, lui è immensamente proteso verso le sue creature.
    I samaritani credettero in Gesù, perché avevano potuto costatare che quello che aveva fatto nella samaritana era un’opera di Dio. Era riuscito a portarla ad un ravvedimento, a un’ascolto di se stessa e di quello che aveva fatto. E Gesù è invitato a rimanere. In loro c’è voglia di condividere, di conoscere meglio questo maestro. Anche i samaritani, conoscendo Gesù, hanno una visione profetica: il loro incontro con lui è una piccola porta dalla quale danno uno sguardo sul futuro e sull’eternità, e si accorgono che quest’opera di Gesù è qualcosa destinata a crescere a dismisura fino ad abbracciare il mondo intero. Lui che è stato capace di superare le barriere fra giudei e samaritani, è uno che ha dentro di sé il germe di un’universalità senza confini: è veramente il salvatore del mondo.

    Quale immagine di Gesù ricaviamo alla fine di questo lavoro su Gv 4 ? Un Gesù che ha una gran capacità di relazione, perché non ha paura di essere rifiutato: sia quando la samaritana potrebbe farsi forte del fatto che non si poteva rivolgere la parola ad una donna sola, e che non correvano buoni rapporti fra giudei e samaritani, sia quando i discepoli tornando non comprendono il perché stesse a parlare con lei. Un Gesù che è paziente, e sa educare il bisogno della samaritana ad indirizzarsi verso Dio. Un Gesù che può dare qualcosa che nessuno al mondo può dare: qualcosa come un’acqua viva che sazia il bisogno del cuore dell’uomo, qualcosa che dà la possibilità di dare un culto autentico a Dio: in Spirito e verità; un vero cibo, che è la volontà di Dio che è il compito che Dio dà ad ognuno di svolgere su questo mondo. Un Gesù che non conosce barriere culturali o religiose, ma sente di entrare in relazione con tutti e che per questo è definito dagli stessi samaritani come “Salvatore del mondo”. Cosa ci dice il Signore attraverso questo quadro sulla persona di Gesù? Che esiste un uomo che è capace di entrare così tanto in relazione con gli altri da saziare quella sete di amore che c’è nel cuore di ognuno. Una parola questa che c’esorta a non disperare: è possibile per te, per noi sperare, credere che è possibile ancora avere questa risposta al nostro  bisogno di avere relazioni autentiche nella nostra vita. Questa parola ci dice ancora che ora, in questo momento il Signore ti dà la possibilità di avere questa nuova relazione, questa relazione autentica con gli altri. Questa relazione autentica comincia qui, attraverso la chiesa. La chiesa è questa che ora comunica con te e ti dice una parola vera, una parola autentica, e che può salvare la tua vita, così che anche tu, come questi samaritani, possa dire che questo Gesù è veramente il salvatore del mondo.
    Anche oggi Dio continua a creare qualche cosa nella vita di ognuno di noi. Non è un creatore andato in pensione.
    Signore rendimi attento alla tua opera dentro di me affinché la tua parola possa illuminarmi come quel giorno ha illuminato la Samaritana.

  • 16 Feb

     

    Voglio ricordare le mie passate sozzure,

    le oscurità della mia anima,

    non perché le ami,

    ma per amare te, Dio mio.

    Lo faccio per amore del tuo amore,

    rievocando le mie vecchie strade perverse.

    Il ricordo è amaro,

    ma spero che mi riesca dolce tu,

    dolcezza che non inganna,

    dolcezza felice e sicura.

    E per amore del tuo amore,

    tendo a raccogliere me stesso

    dalla dispersione in cui mi trovai,

    frantumato in mille pezzi,

    quando, allontanandomi da te,

    che sei l’Uno,

    mi ridussi a un nulla,

    sperdendomi nei molti.

     

    Agostino di Ippona, Confessioni II, 1,1

  • 15 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Lettura del testo

    v.11: “Un uomo”. E’ Dio. Egli è insieme padre e madre, legge e amore. Il nemico ce lo fa vedere solo come legge e identificare con la nostra coscienza che ci rimprovera. Per questo Gesù sottolinea le qualità materne “del Padre”.
    “Aveva due figli”. I “due” figli indicano la totalità degli uomini. Peccatori o giusti, per lui siamo sempre e solo figli. Per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati. Noi non sappiamo che lui ci è Padre e ignoriamo di essere fratelli se non per litigare sull’eredità. Lui invece sa che siamo suoi figli nel Figlio.

    v.12: “Padre”. Così lo chiama il minore. Non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose: sente verso di lui un rapporto soffocante di dipendenza. Difatti, pur vivendo della sua eredità, si allontana da lui, perché lo sente come antagonista della sua libertà. E’ come Adamo.
    “La parte di sostanze che mi tocca”. Al minore, vivente il padre, spettava il possesso ma non l’uso e l’usufrutto, di un terzo del patrimonio liquido. Oltre ai soldi, che sono strumento, il figlio rivendica l’autonomia, una vita piena, che lasci ovunque i segni della propria gioia. Questo ci spetta, questa è la nostra parte (Sap 2,9)! I desideri profondi del cuore nostro vertono su ciò che Dio ha in proprio e di cui noi abbiamo bisogno. Da qui può nascere l’invidia e l’avversione a Dio come nostro antagonista.
    “Divise per loro la vita (i beni)”. Ma Dio non è antagonista. Concede ai suoi figli tutto quanto ha. Aveva anzi già dato ad Adamo quell’uguaglianza che lui poi volle rapirgli (Gn 1,27-3,5). Il peccato sta nel rubare ciò che è donato, nel possedere in proprio ciò che non può che essere dell’altro.
    Dio in realtà darà all’uomo non solo ciò che crede che gli spetti. Gli darà ben di più: la sua stessa vita, facendosi suo servo e schiavo. Per sé ogni dono, per quanto piccolo, è un segno di un’altra: il donarsi del donatore. Le richieste che i due figli fanno al Padre (sostanze e capretti) sono sempre piccole e meschine rispetto al dono che egli vuole fare:se stesso. 

    v.13: “Non molti giorni dopo”. E’ l’ansia di vivere, la fretta di godere! La nuova vita è breve; non c’è rimedio quando uno muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi (Sap 2,1).
    “Raccolto tutto”. Non lascia nulla di ciò che è suo. Si porta via tutto. Manca l’essenziale: l’amore del Padre del quale tutto è dono. Chi si allontana da Dio può ancora vivere dei suoi frutti: l’amore, la gioia, la giustizia, la pace, ma non per tanto! Estinto il capitale cessano anch’essi. Tramontato il sole, non tarda a venire la notte. L’abbandono del Padre porta presto alla carestia generale. Il nichilismo è l’erede naturale dell’ateismo!
    “Emigrò in un paese lontano” Le prime parole che Adamo rivolse a Dio sono: “Mi sono nascosto” (Gen. 3,9ss.). L’uomo, nella sua fuga, è andato in un paese lontano: lontano dal volto di Dio e dal proprio. Ma lontano da chi, lontano da dove, se Dio è ovunque e nel cuore di ognuno? Appunto, lontano da tutto e da sé. L’uomo è ovunque straniero, perché estraneo al suo volto.
    Là sperperò la sua sostanza”. Il figlio, lontano dal padre, perde la sua sostanza. Perde se stesso, il suo essere figlio. E’ un ruscello che si taglia fuori dalla sorgente da cui scaturisce.
    “Vivendo insalvabilmente”. L’uomo, unico animale cosciente di morire, perso il rapporto con la propria fonte, cerca tutte le briciole di vita per soddisfare la propria sete; si vende e si prostituisce ad esse. Ma sono idoli che danno morte. La strategia del piacere tradisce un’angoscia mortale: “Su godiamo dei beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della giovinezza, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscono, nessuno di noi manchi nella sua intemperanza. Lasciamo ovunque i segni della nostra gioia, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte” (Sap. 2,6-9). Tutto questo perché sappiamo che la “nostra vita è breve e triste” (Sap. 2,1). Nell’angoscia che tutto è nulla, si riempie inutilmente il vuoto con tutto, che viene mangiato dal nulla. Credere di godere la vita senza Dio è come voler respirare senza l’aria. 

    v.14: “Dilapidato tutto”. L’uomo spende con ansia tutta la sua vita nella paura della morte. Mediante questa il diavolo, autore della morte (Sap 2,24) lo tiene in schiavitù per tutta la vita (Eb 2,15), fino a quando la sacrifica tutta.
    “Carestia forte per quel paese”. In “quel paese”, lontano da Dio, c’è sempre carestia forte. Il piacere soddisfatto alimenta il bisogno, l’ansia di vita si nutre di paura della morte. L’appetito vien mangiando. Quando c’è fame grande, allora inizia la carestia, forte e generalizzata. Si estende su tutto “quel paese” che, lontano da Dio, resta solo e sempre bisognoso di vita.
    “Cominciò a essere nel bisogno”. Al di là di ogni falso pudore ciò che ci avvicina a Dio è il bisogno. Egli non è il tappa-buchi dei nostri bisogni. Però l’uomo stesso è bisogno di Dio. Solo lui è in grado di colmare quell’abisso che egli è. Fatto da lui, solo in lui è se stesso. “Essere nel bisogno” in greco (hystereìsthai) per sè significa: “essere dopo, essere secondo”. Alla pretesa iniziale di autosufficienza, si contrappone la situazione di fatto. In realtà Dio è primo, e l’uomo secondo: viene da lui e realizza se stesso ritornando a lui. 

    v.15: “Andò ad incollarsi”. Chi emigra da Dio, sua vera casa, va a “incollarsi” a un estraneo al quale cede la propria libertà. Chi aveva sofferto della vicinanza del Padre, va a servire padroni stranieri. Respinti Dio, che lascia liberi anche quando si sbaglia, si serve necessariamente l’idolo. L’uomo non è ateo: è idolatra. Anche quando non lo sa. E’ infatti sempre in potere di ciò che si pro-pone: diventa l’oggetto del suo desiderio, davanti a cui sta. L’idolo lo assimila a sé, sostituendosi a colui che già prima l’aveva fatto simile a sé.
    “Lo mandò”. Chi s’allontana dal Padre diventa triste emissario dell’idolo che lo incarica di nutrire i suoi abomini. Diventa schiavo e venduto al peccato, che aderisce a lui come lui ha aderito ad esso.
    “Pascere i porci”. Per il giudeo è l’abominio: nutrire e fra crescere ciò che è immondo. Chi si allontana da Dio, fa crescere in sé la sua dissomiglianza da lui e nutre la propria in identità con se stesso. 

    v. 16:”Desiderava saziarsi”. Gesù aveva detto: “Beati gli affamati ora: sarete saziati”. Per essere saziati bisogna prima riconoscere di che cosa si ha fame. Il vero cibo che sazia lo si distingue dagli altri perché non saziano.
    “Nessuno gliene dava”. L’uomo vorrebbe nutrirsi di ciò che soddisfa i porci. Ma una mano invisibile glielo impedisce, perché la sua sazietà è solo presso il Padre. L’impossibilità di vivere di questo cibo indica la nobiltà dell’uomo: resta sempre almeno “nostalgia” di Dio: 

    v.17: “Venuto in se stesso”. Prima era fuori di sé, alienato nei suoi desideri che, invece di salvarlo, l’avevano ridotto a fame. Ora non si pente. Semplicemente rinsavisce. Constata che la realtà non era come pensava. E’ una conversione a sé, più che al Padre: intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose. E’ l’inizio di un cammino. “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”, dice un antico proverbio ebraico.
    “Salariati di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! In lui gioca sempre la falsa immagine del Padre.
    “Sovrabbondano di pane/carestia perisco”. Vede la differenza tra quanto c’è “qui” e quanto c’è “nella casa del Padre”. E’ lo scarto tra realtà e desiderio, tra fame e sazietà.
    Dopo una prima fase di rigetto del Padre, in cui l’uomo sperimenta la propria emancipazione (l’umanesimo ateo) ci si accorge poi che in realtà l’ateismo è schiavitù dell’idolatria. Ma gli idoli non appagano: sono troppi piccoli e stupidi per bastare all’uomo. L’uomo che ha abbandonato Dio, ne sente il vuoto assoluto: il suo posto lasciato vacante. L’alternativa a Dio non è l’ateismo, ma l’angoscia del nichilismo. Forse oggi il nulla -la vuotezza del peccato assaporato fino alla vertigine- è il normale pedagogo a Cristo (Gal 3,24). La fame grande è la disumanità dell’uomo, la carestia di essere che induce a cercare la fonte della vita. Dietro tanta angoscia moderna c’è il crollare dei falsi valori. 

    v.18: “Sorgerò e andrò verso mio padre”. Il desiderio del Padre, termine del cammino, è principio del mettersi in moto. E’ tenera la pervicacia con cui questo disgraziato continua a considerarlo “Padre” (cinque volte). Al di là di tutto resta sempre tale. Possiamo rinnegare il nostro essere figli, ma non il suo esserci Padre, al quale lui non può mai rinunciare. Per questo possiamo comunque tornare a casa sua, per quanto lontani ne siamo andati. Il desiderio di questo ritorno rimane sempre, come il bisogno dell’acqua per il pesce. Ciò che ci ha allontanato da lui, è in realtà la voglia di essere come lui.
    La nostalgia del Padre è essenziale all’uomo, che è sempre figlio. Nostalgia significa: dolore del ritorno. E’ un dolore che conosce e indica la strada per trovare la pace e cresce in proporzione alla lontananza.
    “Peccai verso il cielo e al tuo cospetto”. Peccare in ebraico significa fallire il bersaglio. Il cielo è Dio. Il cospetto del Padre è il suo volto, che il figlio ancora ignora. Se smette di fuggire e si gira verso di lui, si accorge del sorriso col quale da sempre lui lo ha guardato. 

    v. 19: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Essere figlio non è questione di dignità o di merito. E’ un dato di fatto. Scaturisce dalla paternità, per cui siamo ciò che siamo. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio. Ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere, né da chi. Però anche il Padre, una volta che il figlio c’è, ha un legame necessario con lui.
    Il figlio non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito. Pensa, non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Ma la vita non è oggetto di merito: potrebbe essere pagata solo con la vita! Sarebbe allora la morte. Il minore, nel suo senso di indegnità, ha una crisi che lo può portare ancora più lontano dal Padre: finirebbe per diventare come il maggiore. Il male maggiore del peccatore non è il suo peccato, ma il suo guardare se stesso. Questo lo fa cadere nella tentazione di voler essere degno dell’amore di Dio. Così, pur essendo peccatore, consuma il sottile peccato del giusto e giunge all’essenza del peccato: il rifiuto di Dio come amore gratuito. Chi guarda a sé vede il proprio fallimento. Ma chi guarda a lui scopre la propria essenza sempre intatta di figlio, che è il suo essergli Padre. Il figlio “venuto in se stesso”, costata che è servo del peccato; quando “andrà dal padre” vedrà di essergli figlio. La conversione non è diventare “degni” o almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di Dio: l’amore meritato è meretricio. La conversione è accettare Dio come un padre che ama gratuitamente.
    “Fa’ di me come uno dei tuoi salariati”. E’ il peccato del fratello maggiore, presente anche nel minore. Tutt’al più si rammarica di non riuscire a farlo! Chi conosce il proprio peccato, non deve fermarsi ad esso, ma alzarsi ed andare dal Padre.
    A lui non piace più di tanto che ci dispiacciamo troppo di noi. Il disgusto di noi serve come molla per uscire da noi stessi. Il nemico invece ne vuol fare una tagliola che ci trattiene preda di noi stessi. 

    v.20: “E, sorto, venne da sua padre”. E’ importante sorgere dalla propria coscienza infelice e dai propri sensi di colpa per camminare verso il Padre. Anche se il cammino, dal principio alla fine, è ancora tutto occupato dal proprio io. Fino a quando il figlio pensa alla “sua” fame e alla “sua” infamia, al “suo” peccato e alla “sua” indegnità, la sua aspirazione è quella di diventare un salariato. Il figlio che pensava che il padre fosse padrone, volle essere come lui: padrone di se stesso. Poi si mise a padrone, incollandosi a chi gli fece pascolare i suoi porci. Padrone fallito di sé, cerca ancora un padre che gli faccia da padrone.
    L’immagine di un Dio cattivo è una menzogna esiziale. Non lascia altra alternativa che la ribellione che fa morire o il servilismo che uccide. Scompare solo nell’incontro con la tenerezza materna del Padre…
    “Mentre ancora distava lontano, lo vide il padre”. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre. Anzi, la vicinanza al cuore è proporzionale alla distanza. Nessuna oscurità e tenebra può sottrarlo alla sua vista (Sal. 139,11ss). A causa del suo affetto, antico come lui, Dio è presbite: vede meglio il figlio più lontano. Il privilegio dei lontani e la missione di Gesù a loro si radica nel cuore stesso del Padre. L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio e lo porta verso di esso.
    “Vedere e commuoversi” sono anche le due azioni attribuite al samaritano. (Lc10,33).
    “Si commosse”. La vista è sempre connessa a un sentimento: ira (Mc 3,5) o commozione (7,13; 10,33) o addirittura pianto (19,41) Vedendo il male del figlio, al Padre si conturbano le viscere. In lui non c’è spazio per l’odio o per l’ira, perché è Dio e non uomo (Os11,8s). Giona dice che Dio “si converte” al vedere il pentimento di Ninive, l’inconvertibile. In realtà egli è sempre convertito verso l’uomo. Aspetta solo che noi ci volgiamo a lui, per farci vedere che il suo volto è da sempre verso di noi.
    La commozione indica l’aspetto materno della paternità di Dio: il suo è un amore uterino e necessario, che lo rende vulnerabile e sempre disponibile. La commozione è l’esatto contrario dell’impassibilità o durezza di cuore: è la qualità fondamentale di quel Dio che è misericordia. Tutte le Scritture, la legge di Mosè, i profeti e i salmi, narrano la sua passione per l’uomo.
    La paternità di Dio di per sé viene dopo la sua maternità. Per questa siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. E’ la condizione per cui noi possiamo rispondere con amore libero e filiale. Se la paternità sottolinea l’aspetto libero dell’amore di Dio, la maternità ne sottolinea quello necessario, che fonda la nostra libertà. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato.
    “Corse” Quando l’uomo smette di fuggire, s’accorge che colui dal quale scappa per paura, gli corre dietro perché gli vuole bene. E’ stata lunga la corsa di Dio verso l’uomo. E non finirà fino a quando non avrà raggiunto l’ultimo.
    “Cadde sul collo e lo baciò”. Il bacio del Padre della vita è il suo amore di Padre per il Figlio. Tutti gli altri doni sono contenuti in questo bacio, che è lo Spirito Santo, la vita comune del Padre e del Figlio donata al peccatore. 

    v. 21: “Ora disse il figlio a lui: Padre…”. Il figlio non osa chiamarlo “mio” ( vv.18b.20) Rimane comunque la certezza della sua paternità, e il desiderio di appartenenza. Ma è ancora concentrato sul proprio peccato. Non si accorge del suo sguardo, del suo commuoversi, del suo muoversi precipitoso, del suo cadergli sul collo, del suo bacio!? Tale cecità, che sembra impossibile, è il suo inferno, che lo chiude in sé. Non basta che il Padre gli manifesti il suo amore: occorre che questo rifaccia nuovo il figlio. 

    v. 22: “Ora il padre disse ai suoi servi: Presto“. Il Padre ha fretta. Sa quanto nuoce al figlio la sua idea di tornare servo. Vuol distruggere in lui la menzogna che lo uccide. Per questo lo interrompe e non gli permette di esprimere il suo proposito servile. E’ stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Ne ha davanzo di un figlio maggiore in casa! Il senso d’indegnità serve per capire che l’invito al banchetto è un dono. Guai a sprofondarci dentro. Il peccato deve essere il luogo da cui si glorifica la sua misericordia, come la profondità della valle indica l’altezza della cima. Diversamente è l’inferno!
    “Portate fuori una veste, la prima”. E’ l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originaria che rivestiva l’uomo (Gn 1,27). Persa questa per il peccato, egli rimase nudo. La nostra “prima” veste di gloria è il suo stesso esserci Padre, che ci costituisce suoi figli. Essa non può mai essere distrutta: è la nostra essenza di figli, che resta sempre con lui nel Figlio. La sua paternità rimane anche nel naufragare della nostra filialità. E’ sempre pronta per noi quando torniamo a lui.
    “Vestitelo” Questa veste è Cristo stesso, l’uomo nuovo di cui siamo rivestiti (Gal 3,27; Ef 4,24; Col 3,9s). Quelli che sono ritornati al Padre, sentendosi amati da lui, santi e diletti nel Figlio, come lui sono rivestiti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, sapienza e amore reciproco (Col 3,12s). E’ la nuova veste di chi è rigenerato dal battesimo: ci fa e ci rivela figli.
    Un anello e sandali ai piedi” L’anello con il sigillo gli conferisce il dominio su tutto molto di più di quanto credeva… Lo schiavo non porta sandali, ma i suoi piedi hanno ormai già troppo camminato in terra straniera, conoscendo la nudità della schiavitù. Ora, libero come il Padre, intraprende quel cammino durante il quale non si gonfia il suo piede e non si logora il suo sandalo (Dt 8,4; 29,4). 

    v.23: “Il vitello, quello di grano, immolatelo, mangiamo e facciamo festa”. Il sacrificio grasso (alla lettera “di grano) immolato, che “si mangia”, “facendo festa” è un’allusione all’Eucaristia. E’ il pane del Regno, che Gesù “con-mangia” con i peccatori, la sua vita che si fa nostra vita. E’ quanto fa con i peccatori. Gesù che disse ai suoi discepoli: “con desiderio ho desiderato mangiare con voi questa pasqua” brama che noi possiamo mangiare di lui, per vivere di lui, nello stesso amore del Padre. E’ il desiderio stesso del Padre. L’invito iniziale a “con-gioire” non resta un semplice sentimento: è la festa dell’Eucaristia, la gioia del Padre nel trovare Gesù, il Figlio perduto per noi. Con lui, anche il più lontano, che è il più caro, è nella casa del Padre. 

     v.24: “Perché costui, il figlio mio, era morto e rivive, era perduto e fu ritrovato. E cominciarono a far festa”. Il peccatore è chiamato: “il figlio mio” Parola creatrice che ci fa figli e non solo lo siamo chiamati, ma siamo in realtà suoi figli. E non si dice “fecero festa”, ma “cominciarono” a far festa… E’ finita questa festa o continua ancora e sarà senza fine??? 

    v.25: “Il maggiore”. è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto. Qui comincia l’apice della parabola: l’incontro con chi deve ancora essere ritrovato: Per lui tornare al padre significa partecipare alla sua festa per il fratello.
    “In campagna… s’avvicinò alla casa… sinfonie e danze”. Non è ancora nella casa del Padre. Sta lavorando sodo, per vivere secondo il comando di Dio (Gn 3,19).  Le danze insieme al banchetto e al far festa costituiscono l’immaginario per descrivere il paradiso. Questa vita gioiosa indica la differenza tra la vita del servo in campagna e quella del figlio in casa. 

    v. 26: “S’informava”. Il giusto non sa nulla della gioia di Dio. Neppure la sospetta. Anzi, gli è sospetta. Al sentire la musica e le danze, come Giona “provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (Gio 4,1). 

    v. 27: “Tuo fratello”. Come i profeti di Israele, così ” uno dei figli-servi”, illustra il nocciolo della questione a chi vuol servire Dio: bisogna accogliere il “fratello tuo”. Solo così riconosci la sua paternità e partecipi alla sua festa. 

    v. 28: “Si adirò”. L’ira è la reazione impotente davanti a una minaccia.  L’atteggiamento del Padre è vissuto come morte di tutta la sua vita servile. Crolla il fondamento della sua esistenza, la sua persuasione profonda. Ma che Dio è questo? Neanche lui è giusto! Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile, concludendo che è meglio morire che vivere se è così (Gio 4,3.8.9) Quest’ira è il contrario della compassione che ha il Padre.
    “Non voleva entrare”. L’imperfetto indica un’azione persistente. L’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Se la pietà di Dio raggiunge anche gli animali, la sua non raggiunge neanche i fratelli. Non entra nella gioia di Dio. La porta del banchetto è stretta, ma solo per lui. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.
    “Suo Padre uscito, lo consolava”. Dio consolò Israele mediante i profeti: La consolazione del giusto consiste nel convertirsi alla gioia di Dio che ritrova i peccatori. Egli è Padre ed ama tutti: ora con il Figlio è uscito lui stesso per invitare tutti. 

    v. 29: “Disse al padre”. Il cronista lo chiama così. Il figlio maggiore mai! Questo è il dolore del Padre e il peccato del figlio: Ma egli non cessa mai di essere padre, neanche per il giusto: Infatti, come prima non rimproverò il minore, ma gli corse incontro per abbracciarlo, così ora esce senz’altro a consolare anche il maggiore.
    “Da così tanti anni ti sono schiavo”. Essere schiavi invece che figli è il male di tutti gli uomini, peccatori e giusti. La sola differenza è che il peccatore si ribella e se ne va; il giusto rimane a servizio in casa e dà fastidio al Padre.
    “Non trasgredii mai un tuo ordine” E’ puntuale a osservare tutti i 613 precetti. Come Paolo è “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6). E’ come la pecora smarrita che va errando, che non ha mai dimenticato nessuno dei suoi precetti. (Sal 119,176).
    “Un capretto”. Ha sostituito il dovere alla gioia, il lavoro alla festa. Però ogni dovere ha un diritto, ogni lavoro merita un compenso! Dio non cadetto di dare la giusta mercede al mercenario: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13)? Ma lui ha lo svantaggio di essere figlio. Non ha capito che il Padre non ricompensa secondo i meriti. Non c’è capretto, perché c’è di più: il vitello di grano! 

    v. 30 “Il figlio tuo”. Il maggiore riconosce il titolo di figlio al peccatore. Ma il peccato del giusto è quello di non accettarlo come fratello suo pur riconoscendolo figlio del Padre. Quindi rifiuta il Padre proprio perché gli è Padre!
    “Divorò la tua vita”. Il peccatore sperpera la vita che il Padre gli ha donata. Anche il Figlio, cha ha ricevuto tutto dal Padre, spende tutto per i fratelli perduti. Egli è morto soprattutto a causa del “meretricio del giusto”
    “Con le meretrici”. Ogni uomo dissipò la propria vita di figlio prostituendosi al suo idolo. Il Figlio morì per la falsa immagine di Dio, comune tanto agli atei quanto ai religiosi.
    “Immolasti per lui il vitello di grano”. E’ nominato per la terza volta il sacrificio del Padre. E’ l’offerta di suo Figlio, per tutti i fratelli: il dono del Calvario, il banchetto eucaristico al quale anche i giusti sono invitati in quanto si riconoscono peccatori. 

    v. 31: “Figlio tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue”. Il Padre gli ricorda che lui lo ha generato. La sua figliolanza, anche se rinnegata, rimane sempre presso di lui che lo genera…
    Il tempo è al presente: il figlio è sempre presso il Padre. Anche il giusto. Nessun figlio ha mai cessato di essergli vicino. 

    v.32: “Bisognava far festa e rallegrarsi”. Questo verbo è sempre in connessione con la morte del Signore: indica il disegno di Dio rivelato nelle Scritture. “Bisognava” proprio che il Figlio morisse per noi, per capire che Dio è sempre con noi e ci dona tutto, anche la vita.
    “Perché il fratello tuo ecc…”. Il compimento delle Scritture si celebra nell’Eucaristia, la festa del Padre per colui che non si vergognò di chiamarsi nostro fratello. Egli si è perduto fino alla morte per trovare noi e ricondurci alla vita. Ed allora la FESTA…
    Chi legge questa parabola corre il pericolo di chiudersi nella tristezza: si riconosce col peccato del minore e in più con quello del maggiore. Dobbiamo invece guardare al cuore del Padre che sempre fa festa per il Primogenito, perduto per noi e ritrovato. Questa è la salvezza nostra: la gioia di Dio!

    Messaggio nel contesto

    Preparata dalle prime due, è la terza scena del c. 15, concepito come un’unica parabola. È giustamente chiamata il Vangelo nel Vangelo: rappresenta il culmine del messaggio di Luca. Parla del banchetto festoso che fa il Padre per rallegrarsi del Figlio morto e risorto, perduto e ritrovato. Si tratta di una parabola. Essa ha un solo significato generale, a differenza dell’allegoria, dove ogni parola ha un riferimento storico preciso. Ciò non significa che i singoli dettagli siano inutili. Sono piuttosto come frecce scoccate da un buon arciere: da diversi punti, fanno sempre centro nell’unico bersaglio. La parabola riesce a cogliere lo spessore della realtà meglio del concetto, uniforme e piatto. Ogni suo elemento ne illumina un aspetto. Se fosse trascurabile, non verrebbe narrato. Quindi, se il senso è uno, ogni singola parola, frutto maturo di memoria antica, serve a evidenziarlo, specificarlo e arricchirlo. Qui leggeremo tutto alla luce di quanto dice il Padre: “Bisognava far festa”. L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù. I giusti sono chiamati a fare altrettanto. Più che del figliol prodigo o del fratello maggiore, è la parabola del Padre. Ci rivela il suo amore senza condizioni per il figlio peccatore, la sua gioia di essere da lui capito come padre e infine l’invito al giusto di riconoscerlo fratello.
    La parabola invita “Teofilo” a essere misericordioso come il Padre (6,36; cf. 11,4!). Diversamente resta fuori a brontolare del banchetto che Gesù celebra coi peccatori. È un invito ai giusti (vv. 1-3) a mangiare il pane del Regno (14,15ss). La conversione non è tanto un processo psicologico del peccatore che ritorna a Dio, quanto il cambiamento dell’immagine di Dio che giusto e peccatore devono fare. Convertirsi significa scoprire il suo volto di tenerezza che Gesù ci rivela, volgersi dall’io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato – o dalla presunzione della propria giustizia – alla gioia di essere figli del Padre. Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre, comune sia al maggiore che al minore. L’uno, per liberarsene, instaura la strategia del piacere, che lo porta ad allontanarsi da lui – con le gradazioni del ribellismo, della dimenticanza, dell’alienazione atea e del nihilismo. L’altro, per imbonirselo, instaura la strategia del dovere, con una religiosità servile, che sacrifica la gioia di vivere. Ateismo e religione, dissolutezza e legalismo, nihilismo e vittimismo sono tutti aspetti che scaturiscono da un’unica fonte: la non conoscenza di Dio. Hanno un’idea di lui come di un padre-padrone. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, per tenere schiavi gli uomini (Voltaire); se ci fosse, bisognerebbe distruggerlo, per liberarli (Bakunin).
    Questa parabola ha come intento primo di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Scoperta gioiosa per il peccatore, è sconfitta mortale per il giusto. Ma solo così può uscire dalla dannazione di una religione servile, e passare, come Paolo, dalla irreprensibilità nell’osservanza della Legge, alla “sublimità della conoscenza di Gesù Cristo” suo Signore (FiI3,6.8). È la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio.

    Il racconto si divide in tre parti:

    • – vv. 11-20a: il figlio minore si allontana dal Padre e torna a lui;
    • – vv. 20b-24: il Padre va incontro al figlio minore;
    • – vv. 25-32: il Padre esce per far entrare il fratello maggiore.

    La parabola, che inizia col figlio minore e termina col fratello maggiore, ha come centro la rivelazione del Padre, che ama perdutamente ogni figlio perduto. È un’esortazione al maggiore, perché riconosca come fratello il minore. Solo così può conoscere il Padre, e divenire, come lui, misericordioso (6,36).
    Le azioni del racconto consistono nella partenza e nel ritorno del minore; nell’accoglienza e nella festa del Padre; nel rifiuto del maggiore a entrare e nell’uscita del Padre stesso a consolarlo. Il ritornello: “con-gioite con me” (vv. 6.9), diventa “far banchetto festoso per il figlio morto e risorto” ( vv . 23s). È una necessità per il Padre: “bisognava far festa e rallegrarsi” (v. 32).
    I sentimenti cardine sono: la compassione del Padre per il minore e la collera del maggiore; la festa e la gioia del Padre, che sarà piena quando tutti i figli avranno accolto l’invito. Per ora è realizzata in terra dalla convivialità di Gesù con tutti i pubblicani e peccatori.
    Il figlio minore non ha sentimenti: ha solo bisogni. Ma alla fine è travolto dalla gioia del Padre. Ne resta fuori solo il maggiore: non riconoscendo il fratello, rifiuta il Padre che lo riconosce figlio. Infatti, mentre il minore lo chiama sempre: Padre, egli non lo chiama mai così. Colui che nel racconto è chiamato dodici volte “Padre”, sarà chiamato così anche dal maggiore quando dirà all’altro: “fratello mio”.
    In sintesi: Dio riconosce necessariamente come figli tutti quanti, sia giusti sia peccatori. Semplicemente perché è Padre! Il giusto riconosce a denti stretti il peccatore come figlio, ma non come fratello suo! È quindi il vero peccatore. Bisogna che riconosca l’altro come fratello, identificandosi con lui. Solo così gioisce dell’amore e della festa del Padre per il Figlio suo perduto e ritrovato.
    Questa pagina esige il passaggio da una religione servile alla libertà dei figli. Siamo amati da Dio non perché noi siamo buoni, ma perché lui è nostro Padre. Accogliendo come fratelli tutti i suoi figli, diventiamo come lui che è misericordia in sé e per tutti. Per questo l’ebreo accetterà il pagano (cf. At 10); Stefano, martire di Gesù, perdonerà ai suoi persecutori (At 7,60); Paolo, da fratello maggiore (FiI3,6), si riconoscerà primo dei peccatori (lTm 1,15). Sgonfiato dal suo protagonismo di irreprensibile, si farà l’ultimo di tutti, il minimo tra i santi (Ef 3,8), per accogliere tutti (At 28,30).
    Il capitolo 15 di Luca è un commento a 6,36 (e, implicitamente, a 11,4): descrive il nuovo volto del Padre, come lo vive Gesù, suo vero figlio e nostro sincero fratello. La conversione sarà volgersi a colui che è tutto rivolto a noi, conoscere il suo amore “gentile, cortese e grazioso” (Giuliana di Norwich) per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Convertirsi al fratello è accettare il Padre. 

     DOMANDE PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

     1) Io sono il figlio minore: che cosa rifiuto o non accetto di Dio? Da cosa vorrei scappare?
    2) Io sono il figlio maggiore: nonostante le difficoltà di vivere la mia fede, che cosa mi fa “restare a casa”?
    3) Sono chiamato ad accogliere l’amore del Padre, sia come figlio minore, sia come fratello maggiore. Vedo in Gesù quesro amore del Padre per me? Come?
    4) Sono chiamato a diventare come il Padre, ma è impossibile, se non rimango attaccato a Gesù. Sento già viva in me la forza del perdono che mi rende capace di amare gli altri?

  • 15 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

    Il racconto è molto lungo eppure la parte dedicata al miracolo è brevissima.Il testo si dilunghi nei dialoghi tra Gesù e i discepoli e poi con Marta e Maria. Questi hanno lo scopo di introdurci al significato profondo del “Segno” compiuto da Gesù.
    Il testo ha intenti teologici: non è una cronaca giornalistica del fatto.
    Lo intuiamo da certe peculiarità difficilmente spiegabili:
    – compare una famiglia strana fatta solo di fratelli e sorelle. Non ci sono genitori
    – Lazzaro sta male eppure Gesù sta fermo due giorni: perché non interviene?
    – Gesù dice che è “contento” che Lazzaro sia marto: come è possibile?
    – All’arrivo a Betania Gesù non entra in casa ma se ne sta fermo fuori. Perché?
    – Gesù dice: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà e chiunque crede in me me non morrà in eterno”. Come può promettere questo dato che è un fatto che Lazzarone poi i discepoli muoiono?
    – Il pianto di Gesù: se sa che sta per far risorgere Lazzaro perché piange? Sta fingendo?
    – La famiglia di Betania scompare e non se ne parla più. Mai menzionata in altri testi
    – Un miracolo così clamoroso perché non è narrato dagli altri evangelisti.
    Giovanni ha un intento teologico chiaro: annunciare che Gesù è il Risorto, è il Signore della vita.

    1-7

    a.
    La famiglia di Betania rappresenta la comunità cristiana in cui tutti sono fratelli e sorelle. Tra Gesù e loro esiste amicizia, un legame di amore che è quello tra il Maestro e il discepolo: “Non vi chiamo più servi ma amici” (15,15).

    b.
    La comunità vive tuttavia una difficoltà grande: la morte del fratello. Perché Gesù non la impedisce? Anche noi non capiamo perché se lui ci vuol bene lasci passare “Due giorni”. Noi ci aspetteremmo dall’amico un intervento immediato.
    La morte pone il dubbio che egli “non sia qui”.
    Tanti da Dio attendono solo interventi prodigiosi e immediati per fuggire la paura e l’orrore della morte in tutte le sue forme.

    c.
    Gesù attende due giorni. Non vuole impedire la morte biologica. Non è venuto per rendere eterna questa forma di vita, ma per introdurci in un’altra: eterna. La vita di questo mondo finisce ed è giusto che termini. 

    7-16

    d.
    Il dialogo con i discepoli serve per mettere sulle loro labbra le nostre incertezze e le nostre paure di fronte alla morte.
    E’ la paura il nemico più subdolo del discepolo. Chi teme la morte non può vivere da cristiano perché il discepolo è chiamato a perdere la vita donandola. (12,24-28). 

    e.
    Gesù è contento che Lazzaro sia morto perché Gesù guarda alla morte con gli occhi di Dio: per lui la morte non è un evento finale e distruttivo, ma segna l’inizio di una condizione infinitamente migliore della precedente.

    17-27 Parte centrale

    f.
    il dialogo con Marta.
    Lazzaro è da “4 giorni” nel sepolcro: è morto e basta non c’è più nulla da fare. Ormai che cosa si può fare? 

    g.
    Gesù conduce Marta a capire il senso della morte del discepolo (e sua).
    Sì Marta crede nella resurrezione finale. Ma questa speranza non consola: è troppo lontana. Perché Dio dovrebbe far morire per poi riportare alla vita? perché far aspettare tanto? Come puuò l’anima restare senza corpo?.
    Il cristiano non crede in una morte e poi in una resurrezione alla fine. Crede che l’uomo redento da Cristo non muore mai.
    Gesù dice: “Chi crede in me non muore”.
    Esempio: la nostra vita è tutta un entrae ed un uscire. Questa vita è segnata da esperienze di morte e attese di vita. Questo non può essere in mondo definitivo, il destino ultimo: per vivere come è nella nostra speranza dobbiamo uscire da questo mondo.
    Il discepolo spiega Gesù a Marta non sperimenta la morte, ma nasce ad una vita nuova, entra nella vita-comunione con Dio, prende parte ad una vita che non è più soggetta alla morte. Essa sarà una sorpresa straordinaria che non possiamo neppure immaginare: “Occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrato in cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1Cor 2,9).
    La vita in questo mondo è una gestazione e la morte è verificata da chi rimane, non da chi muore. È il “dies natalis”! 

    h.
    dopo aver ascoltato la Parola, Marta si apre alla fede nel Cristo risorto: “Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio, l’atteso salvatore che doveva venire nel mondo” 

    vv. 34-42

    i.
    è la scena conclusiva in cui vediamo Gesù che piange (edàkrusen). E’ il pianto sereno e dignitoso di chi soffre per la partenza dell’amico. Per il temporaneo distacco. 

    l.
    L’ordine “togliete la pietra”. E’ il comando dato alla comunità cristiana e a tutti coloro che pensano che il mondo dei defunti sia separato e non abbia comunicazione con quello dei vivi. Per il credente in Gesù Signore non esistono più pietre di separazione, sono state rimosse il giorno di Pasqua. 

    m.
    la preghiera di Gesù è richiesta al Padre perché dia luce necessaria a chi vedrà il miracolo perché ne comprenda il significato. 

    n.
    Il comando: “Lazzaro vieni fuori” è il compimento della sua promessa: “è giunta l’ora in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e vivranno. Tutti coloro che sono nei sepolcri ascolteranno la sua voce e ne usciranno” (5,25-29).
    Il “morto” esce. È con il morto da quattro giorni che Gesù mostra il suo potere vivificante non riportandolo di qui ma conducendolo al di là. 

    o.
    “Lasciatelo andare”. L’invito è rivolto alla comunità che piange la di-partita dei fratello. Lasciate che il morto viva felice nella sua nuova condizione.
    Spesso vediamo svariati tentativi di trattenere il morto. È egoistico volerlo trattenere, sarebbe come impedire al bambino di nascere.

  • 15 Feb

            

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    per infedeltà alla nostra vocazione cristiana

    rimanendo sordi alla tua volontà

    per la durezza e la chiusura del nostro cuore,

    per presunzione o disprezzo,

    per il nostro orgoglio ed egoismo,

    per spirito di superiorità e di elitarismo,

    per la nostra ostinazione e la disobbedienza,

    per il nostro spirito di indipendenza.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    rifiutando la compassione,

    per cattiveria o per vendicarci,

    per troppo legalismo,

    per il lassismo abbandonandoci alle nostre passioni,

    per leggerezza o per vigliaccheria,

    sottraendoci al nostro dovere ripiegandoci su noi stessi.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    per violenza verbale,

    per abuso di potere seminando la discordia,

    diffondendo discorsi malevoli,

    con le bugie o con un silenzio complice,

    deridendo altri, avendo poca stima dei nostri fratelli.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    con la nostra indifferenza o pigrizia,

    per il nostro cinismo,

    rifiutando di metterci in discussione,

    non pronunciandoci per la verità,

    rimanendo in silenzio di fronte all’ingiustizia,

    non rispettando la libertà dei nostri fratelli.

                    Per il peccato che abbiamo commesso:

    con le relazioni disoneste,

    per gelosia e invidia del nostro prossimo,

    conservando rancore,

    per frode di denaro,

    rifiutando di condividere per paura di mancare,

    trascurando la preghiera. 

    Noi ti chiediamo perdono, Signore!

  • 14 Feb

    Lasciami piangere, Signore,

    lo spettacolo della mia follia,

    e ridire della mia irragionevolezza.

    Io ho vergogna di me,

    ranocchio malsano,

    e della mia bussola rotta.

    Aiutami, mio Dio;

    tu, la cui mano accarezza

    i monti e l’oceano,

    demolirai in me il muro del peccato.

    Passato, presente, futuro,

    tutti gli istanti della mia vita
    raccoglierai in uno solo
    e mi restituirai la limpidezza
    del mio sentire.

    Tu, Dio della mia felicità,

    assai più che perdono,

    dono.

     Max Jacob

  • 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris

     * * * 

    v. 1. Gesù è a Gerusalemme per una delle tre feste alle quali i pii israeliti vi si recavano in pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste, Capanne. Non si dice di quale festa si tratti.
    Vi è una forte sottolineatura della salita a Gerusalemme da parte di Gesù: è nella città santa che si svilupperà per il nostro evangelista il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche. 

    v. 2. La piscina miracolosa era a nord est del Tempio, presso la “porta delle pecore”. Si tratta di un grande spazio: cinque portici! Un luogo di guarigione come erano ritenute nell’antichità alcune sorgenti. In questa infatti piscina avvengono guarigioni; e il particolare che esse avvengono da parte dell'”angelo del Signore” che muove l’acqua è forse uno sforzo di integrare nell’ortodossia una pratica pagana estranea alla religione ufficiale. Una sorta di santuario dei miracoli. E’ il luogo di ritrovo per chi spera di ottenere o riottenere la salute. L’uomo infatti è disposto a tutto per avere vita: pellegrinaggi, santuari, medici… una corsa senza fine ed estenuante, che si rivela il più delle volte deludente: la vita ci sfugge di mano anche se non la vorremmo perdere. Siamo disposti a tutti i riti e a tutte le pratiche, anche le più esoteriche, per possedere la vita. Attendiamo un “angelo” che venga a sanarci. Tutti attendiamo l’intervento miracoloso che venga a sanarci dalla nostra angoscia di vivere. 

    v. 3. ciechi, infermi, zoppi, paralitici ecco la carrellata di situazioni umane che si ritrova lungo i portici della piscina. Sono tutti poveracci in canna. I ricchi hanno le loro case di cura, i loro medici, le loro medicine con cui guarire. Lungo quei portici invece ritroviamo un’umanità sofferente senza speranza, allo sbando, in  preda al suo dolore e alla sua disperazione.
    Ritroviamo una categoria di esseri umani che al Tempio non ci può stare: la malattia lo impedisce per il suo carico simbolico di peccato e di morte (cfr. Lv 21,18; 2Sam 5,8)
    Proviamo ad immaginare questa lunga fila di derelitti, stesi gli uni accanto agli altri, non c’è posto talmente c’è ressa.
    (Proviamo ad ascoltare le loro risonanze interiori ed esteriori che percorrono il loro animo). 
    La maggior parte vive di elemosina, della pietà del passante. Una vita che dipende dall’altro. Queste persone di fronte alla vita si sentono defraudati, vivere per loro non è una gioia, ma un dramma: è necessario addirittura trovare strategie per riuscire solo a sopravvivere. Le loro malattie e le loro paralisi sono le loro uniche fonti di reddito. 

    v. 4. ma l’atmosfera che circola in quella piscina  è tesa. Solo qualcuno di loro può essere guarito. La tradizione dice il primo che arriva all’acqua quando essa comincia a fluire. E arriva per primo chi è meno malato degli altri, chi ha appoggi, chi riesce a farsi strada con la forza. Il più debole difficilmente arriverà all’acqua per ottenere la guarigione. E’ una corsa, una lotta per la vita… a spese degli altri. Qualcuno avrà rinunciato alla sua guarigione, al suo primo posto, per lasciar spazio a chi questa possibilità non ce l’avrebbe mai avuta?
    E’ un’attesa estenuante… uno sguardo all’acqua e uno al vicino colto come un possibile antagonista, nemico nei miei confronti e nei riguardi delle mie attese e speranze.

     v. 5. Tra gli ammalati ve ne è uno, senza nome, che lo è da trentotto anni. Tutta una vita (cfr Dt 2,14). Una situazione cronica ormai, che dice l’impossibilità del cambiamento. Dice invece rassegnazione. Quest’uomo senza nome si identifica con la sua malattia. Un cambiamento a 40 anni è ormai impensabile: quanti problemi creerebbe (lavoro, amici, relazioni, famiglia…). Dopo 40 anni forse non lo si desidera neppure più talmente quel cambiamento provocherebbe incertezza, imbarazzo, con tutta le conseguenze di presa di posizione nuova di fronte alla vita.
    Egli nel mondo è la sua malattia, e lui stesso si riconosce solo in questa sua triste e drammatica realtà. Non si specifica di che malattia si tratti: si dice solo che è disteso, incapace di reggersi in piedi, il che vuol suggerire la condizione umana, dell’uomo incapace di camminare, in senso biblico di vivere in comunione con Dio e con gli altri ed è incapace di rimettersi in piedi da solo. 

                v. 6. Gesù si trova lì, alla piscina. Perché è lì? Cosa vi fa? E’ di passaggio? Vi si reca intenzionalmente?
    Una cosa è certa: egli non disdegna, non teme, di entrare in contatto con questo mondo fatto di sofferenza, disperazione, povertà, speranza, superstizione. Gesù scende (anche materialmente) in mezzo a quella folla accalcata in attesa del miracolo che non giunge.
    Si sarà guardato attorno, avrà percorso quei portici scavalcando malati e lettucci. Qualche parola, un sorriso, una carezza.
    (Noi facciamo spesso fatica a “scendere” in questi mondi: ci troviamo a disagio? Da dove nasce questa risonanza? Forse dal dover fare i conti con la morte, dal volerla fuggire non guardandola in faccia, ovvero nasce dalla nostra paura di perderci).
    Ad un certo punto l’uomo malato disteso sul lettuccio colpisce l’attenzione di Gesù.
    Perché proprio lui? Cosa lo contraddistingue dagli altri?
    Probabilmente proprio la sua solitudine, il suo essere appartato lontano dal bordo della piscina dove tutti si accalcano.
    E’ disteso: è la posizione della morte, una postura fossilizzata, inamovibile. Questa sua presentazione dice la sua posizione rinunciataria nei confronti della vita.
    Sono questi gli indizi che dicono a Gesù della sua lunga malattia? Una malattia che non è solo fisica, ma spirituale che ha intaccato la sua coscienza di uomo di fronte alla vita.
    Gesù rivolge una domanda a quest’uomo? “Vuoi guarire?”. Una domanda che apparentemente appare insensata ed illogica. Risponderemmo a Gesù: ma perché allora sono qui? Sono domande da farsi?
    Ma questa domanda, così solo apparentemente scontata, intende invece andare molto più in profondità, vuole raggiungere il cuore e la coscienza di quell’uomo. Gesù desidera, vuole riuscire a strappare quell’uomo da quella situazione di “stagnazione”, ma lo può fare solo a condizione che riemerga il desiderio ormai sepolto nel cuore nei riguardi della vita, di fronte alla quale quell’uomo invece è in una situazione di rinuncia, di morte, di rassegnazione. Se  non scatta il desiderio di rinascere, di rivivere il che comporta la presa di coscienza della propria situazione di morte come può operarsi un cambiamento nella nostra vita?
    Questa domanda, in verità, è un invito alla riscoperta della propria identità non di malato, ma di uomo chiamato a emergere, a “alzarsi”  nella ricerca della propria identità non schiacciata né sepolta sotto cumuli di compromessi, atteggiamenti errati, convenienze, disperazioni, ripiegamenti.
    (La stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi: “Vuoi veramente guarire?”. Se ci ascoltiamo onestamente  ci accorgeremo che dentro la nostra coscienza si muovono due risonanze: da un lato il desiderio vivo e vero della guarigione, dall’altro la paura, l’incertezza, la diffidenza. A quale risonanze generalmente diamo ascolto?).
    Ma Gesù è sconosciuto all’uomo malato. Per lui è solo una persona fra le tante che si aggirano per i portici. Il malato perciò non ripone alcuna aspettativa nei suoi confronti. Anzi la sua domanda gli può apparire impertinente: “Ma cosa vuole questo qui da me? Cosa cerca?”.
    Da parte dello sconosciuto vi è solo quella parola che può apparirgli ironica, banale, oppure… che sia una parola di speranza (ovvero profetica!) che domanda fiducia e accoglienza.
    Gesù è veramente l’angelo che tutti lì attendono per essere sanati. Ma quest’uomo si rivela incapace di riconoscerlo… questo angelo infatti si manifesta in modo diverso dalle sue/nostre attese “religiose”.  

    v. 7. La risposta dell’uomo malato rivela molto della sua indole. Attraverso quelle poche parole possiamo entrare un po’ nelle risonanze della sua coscienza.
    Questa risposta è quanto mai ambigua. Infatti egli non dice né sì né no. Egli dribbla la domanda. Perché? Non sarebbe molto più semplice dire direttamente sì o no? Perché questo contorcimento?
    E di che tipo è questa risposta ambigua? E’ una lamentela e condanna nei confronti del disinteresse e della prepotenza degli altri. Sono loro la colpa della sua situazione!
    Si lamenta di non avere nessuno, nessun “salvatore” che si occupi di lui (e in effetti è questa la sua esperienza). Gesù dinanzi a lui non esiste, esiste solo la sua disperazione. Certo vi è un’effettiva solitudine ed incapacità da parte di quest’uomo di risolvere il problema, ne prendiamo atto. Ma perché questa risposta, quando dinanzi a lui sta una persona concreta che si vuole occupare di lui?
    Le parole di quest’uomo dicono come ormai egli abbia scavato per sé una nicchia sicura in questo mondo dal quale osservare criticando e condannando gli altri.  Si è relegato in quest’angolo, e ormai gli va bene, e della possibilità di cambiare non se ne parla. In quest’uomo anche il desiderio della guarigione ormai è oscurato; è passivo dinanzi alla vita (oggi diremmo in preda alla “depressione”). E’ un escluso dalla vita.
    (Quante volte l’uomo sta male, vive male, ma di fronte alla prospettiva del cambiamento può talmente essere attanagliato dalla paura, da rinunciarvi. “Ma ormai non posso più cambiare!”: è una frase che spesso ne sottintende un’altra: “Ho paura di cambiare… non ne ho voglia”. Sono risonanze che anche noi conosciamo (o che il più delle volte subiamo inconsciamente): stiamo male, potremmo assumerci la responsabilità di un cambiamento, ma esso ci fa paura. Dobbiamo allora trovare qualcuno su cui scaricare la colpa del nostro malessere.
    Spesso ci vengono offerte possibilità di cambiamento, di miglioramento, ma noi svicoliamo. Preferiamo continuare a star male piuttosto che affrontare il rischio di stravolgere la nostra vita. E per giustificarci in questo troviamo mille pretesti e giustificazioni per sollevarci da questa responsabilità nei confronti di noi stessi). 

                    v.8. Gesù avrà intavolato un dialogo con quest’uomo? Il vangelo sembra suggerire che egli sia immediatamente passato all’iniziativa di offrigli la guarigione, scavalcando in un certo senso l’elaborazione della coscienza. Quell’uomo infatti da solo, ripiegato nelle sue risonanze di rinuncia e di paura, non si sarebbe mai spontaneamente aperto al dono. Gesù offre immediatamente una parola profetica di salvezza.
    Ma questo “scavalcare la coscienza” del malato da parte di Gesù, se da un lato dice la gratuità del dono dall’altro dice il rischio che esso sia o rifiutato o usato male. Gesù questo rischio lo corre: gli preme ridonare la vita a quest’uomo, sa che probabilmente tutto ciò che sta per donare potrà essere usato male (e infatti ne farà le spese sulla sua pelle).
    Gesù  pronuncia una parola che è un comando. Una parola che non è accompagnato da alcun gesto: quindi efficace per se stessa. E’ la potenza della parola che opera la guarigione.
    Alzati! E’ il verbo della resurrezione, della rinascita, della vita nuova.
    Prendi il tuo lettuccio! Offri la tua testimonianza nei confronti del Dio della vita (un po’ come lo sarà la tomba vuota). Porta con  te il segno della sua morte per manifestare che proprio in questo giorno si è compiuta per te la salvezza di Dio.
    Cammina! Apriti alla vita, all’incontro, non ripiegarti più. Assumi il tuo posto e il tuo ruolo nel mondo, con responsabilità. Cammina incontro alla promessa di Dio che hai sperimentato aprendoti alla comunione con Lui, con gli altri, con te stesso. 

                v. 9. Proviamo ad ascoltare le risonanze della coscienza di quest’uomo di fronte alle parole dette da questo sconosciuto: incredulità? Speranza? Paura? Gioia? Rabbia? Incertezza sul da farsi (se fosse una presa in giro?)?…
    Immaginiamo Gesù che lo prende per mano incoraggiandolo. Incitandolo ad alzarsi vincendo tutte le sue controrisonanze.
    Vacillando ed appoggiandosi a Gesù quell’uomo, paralizzato “da trentotto anni”, si alza. Qualche piccolo passo indeciso e incredulo. La gambe reggono! E’ incredulo. In fretta prende il suo piccolo materasso: l’unica cosa che possiede. E guardandosi le gambe e guardandosi in giro incredulo si avvia lungo i portici e poi sulle scale per uscire al più presto da quel luogo di morte, contento che stavolta la buona sorte sia toccata a lui e non agli altri. Finalmente ce l’ho fatta, sono come gli altri!
    Ma sono risonanze che durano poco; il cuore da un lato avverte la gioia dall’altro la preoccupazione e l’ansia per il futuro. “Ora che farò? Come mi guadagnerò da vivere? Non ho lavoro, non ho mai potuto imparare un lavoro. Dove e da chi andare? Non ho famiglia e le poche persone che conoscevo le ho lasciate laggiù alla piscina sotto i portici e di certo non ho intenzione di tornarci. Chi mi accoglierà?….”. Un terribile sospetto: “La guarigione forse mi creerà più problemi della malattia”.
    La paura e l’incertezza bussano sempre più forte alla porta della coscienza dell’uomo. Un lampo, un pensiero velocissimo: “Quando mai ho accettato di ascoltare quell’uomo. E chi era? Nella fretta di uscire non gli ho neppure chiesto il nome, non gli ho detto neppure grazie, ma se lo merita poi? Lo ho ascoltato ma ora mi ritroverò con più problemi di prima”.
    Nella coscienza di quest’uomo si alternano dunque gioia e paura, entusiasmo e incertezza. E’ l’andamento pendolare delle risonanze nella nostra coscienza. 

                Era sabato!: Ma il giorno in cui avviene tutto questo è di Sabato.
    Nei vangeli sembra che Gesù faccia apposta a cogliere proprio di sabato le occasioni di operare segni di salvezza (cfr. Gv 9,14-16). Non è il sabato il giorno del riposo, della gioia, della festa della vita. E quale giorno è il più indicato per ridonare la vita se non proprio il Sabato (cfr. Es 20,8)? La guarigione dei malati non deve forse contrassegnare il giorno della salvezza definitiva che è il significato del sabato  (cfr. Is 35,4-6; cfr. v. 17)?
    Gesù sa bene di chiedere all’uomo di infrangere i precetti della Legge (cfr. Gr 17,21-27). Ma è altrettanto consapevole che la Legge debba essere a servizio della vita e non viceversa: il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato.
    Il suo comando all’uomo di prendere la sua barella è dato perché sia manifesta agli occhi di tutti la presenza della salvezza escatologica di cui la sua guarigione è segno. 

                v. 10. I “Giudei”, che non hanno visto la guarigione alla piscina, vedono però l’uomo guarito compiere il gesto contrario alla legge: portare un peso. 
    L’uomo viene fermato in mezzo all strada in mezzo a tutti, si forma un cappannello di curiosi. Immaginiamo le risonanze di quest’uomo che già in preda ai suoi pensieri e preoccupazioni si vede subito chiamato a confrontarsi con l’ostilità del mondo, con la grettezza dei detentori della legge. Come inizio della vita nuova non c’è male! Avrebbe preferito sentirsi sprofondare, essere rimasto là presso la piscina, piuttosto che dover fare i conti con questo mondo in cui è così faticoso vivere.
    L’atteggiamento dei “giudei” ci invita all’esame di come l’uomo sia molto propenso alla condanna dei gesti altrui. Condannare l’atto è molto più semplice e non coinvolgente che mettersi in ascolto della coscienza di colui che lo compie. Mettersi insieme in ascolto della coscienza è faticoso, a volte destabilizzante. Certamente ci renderebbe meno presuntosi e precipitosi nel voler atteggiarci a giudici spietati dell’altro: “Uno solo è il legislatore e il giudice e tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?”. 

                v. 11. La risposta dell’uomo guarito è ancora emblematica e rivelatrice delle risonanze della sua coscienza. Egli scarica la responsabilità del suo gesto su colui che lo ha guarito ridonandolo alla vita: “E’ colpa sua, non mia… è stato lui! Io non c’entro… lui mi ha detto”.
    E’ questa una dinamica che conosciamo bene: scaricare sull’altro, esimerci dalla responsabilità, trovare un colpevole.
    (E’ sempre la paura la risonanza profonda che provoca questo: paura della disapprovazione degli altri, paura di andare incontro al rifiuto degli altri. Questo anche al prezzo di rinunciare ad essere noi stessi, o, come in questo caso, facendo addirittura del male a coloro che ci fanno del bene. Ci vogliamo difendere al costo di tirare in campo altri: quello che ci preme è salvare noi stessi).
    Quale l’origine di questa paura in quest’uomo? Forse il ritrovarsi in un mondo nuovo e complesso col quale sinora non aveva fatto i conti e che gli incute timore e disagio, il suo sentirsi inadeguato e incapace di affrontarlo, il suo bisogno di sicurezza, le delusioni che sinora ha accumulato nella vita che gli insinuano incertezza e incapacità di aprirsi al nuovo.
    Di tutto questo il “capro espiatorio” diviene l’uomo che lo ha guarito: Gesù.

                v. 12. Ci si aspetterebbe un atteggiamento da parte degli accusatori di stupore e di meraviglia dinanzi a una dichiarazione di guarigione miracolosa. Ma la grettezza umana è sconfinata. Agli accusatori che vi sia stata una guarigione non interessa. Quante volte non prendiamo atto dei fatti e continuiamo ad affrontare la realtà attraverso i nostri schemi mentali, le nostre ideologie politiche o religiose. I fatti così non contano.
    La domanda dei giudei è così di accusa: chi è quest’uomo? Chi è stato?
    Quante volte nella storia l’uomo atteggiandosi a giudice a rivolto imperioso la domanda: chi è stato?
    Siamo ancora nella logica della ricerca di un colpevole! Questa ricerca di un colpevole dice la profonda angoscia che l’uomo avverte dentro di sé, intollerabile, insostenibile: una morte che si cerca di scaricare sull’altro. 

                v. 13. A questo punto l’uomo sanato si rende conto di non sapere neppure chi è il suo benefattore. E’ stato riportato alla vita e neppure sa da chi.
    Il Signore gli ha reso il servizio della vita, lui ne ha ricevuto i benefici.  Se Gesù si è allontanato lui non l’ha cercato, ma ha lasciato che andasse per la sua strada. Prendo e sono incapace di dire grazie.
    Gesù si era allontanato subito dopo il miracolo: un servizio il suo alla vita fatto nel nascondimento, nell’umiltà e non certamente nella ricerca del plauso della folla. E’ lo stile di Gesù: il suo far del bene per il gusto di far del bene senza attendersi nulla. Un servizio che raggiungerà il suo culmine nel giorno della passione.
    Cosa avrà fatto l’uomo guarito a questo punto? Per non aver ulteriori grane pauroso com’è probabilmente avrà accontentato i suoi accusatori. Avrà appoggiato il suo lettuccio da qualche parte: ma ora che fare?…
    Il tempio è vicino… mischiarsi con la folla, scomparire anonimo in mezzo agli altri, fuggire dagli occhi inquisitori dei suoi accusatori. Questo forse gli darà un po’ di sicurezza e pace. 

                v. 14. E’ Gesù che lo ritrova nel Tempio. Non sarà stato certamente l’uomo guarito a corrergli incontro, forse avrà fatto finta di non riconoscerlo, oppure avrà cercato di nascondersi…. La paura di ulteriori coinvolgimenti con quest’uomo gli fa adottare la tattica di dileguarsi senza farsi accorgere.
    Ma Gesù lo vede, gli va incontro una seconda volta. L’iniziativa è sempre sua. Che cosa spinge Gesù a questo ulteriore incontro? Sicuramente la consapevolezza che il precedente incontro è stato insufficiente, incompleto, manca di un tassello importante. Non basta una guarigione fisica per ridonare la vita all’uomo: occorre una guarigione interiore, dalle ferite  della vita, dalla propria angoscia. Sa che quest’uomo ha bisogno di incontrare un volto amico nel quale finalmente ritrovare fiducia nei confronti di se stesso, della vita, degli altri, di Dio. Perciò Gesù non si arrende dinanzi alle sue chiusure e paure: gli stende nuovamente la mano, non se lo vuol far sfuggire.
    Le parole di Gesù sono di incoraggiamento nel proseguire il cammino di progressiva apertura alla vita (la conversione come cambiamento radicale dell’impostazione della propria vita). Il dono di una vita sana richiede una condotta retta. La santità che gli è stata donata testimonia al guarito che gli viene proposta un’esistenza nuova. Forse nel riferimento al non peccare più Gesù intende riferirsi alla disperazione che c’era in lui prima di scoprire che Dio vuole la vita.
    Avverte quest’uomo che la grazia della guarigione  lo impegna alla conversione: dimenticandolo rischierebbe peggio dell’infermità passata. Dunque la guarigione miracolosa vuole essere solo un “segno” di una guarigione più profonda, di risurrezione.
    Vuoi veramente guarire? non accontentarti solo di qualche rimedio di facciata, cambia te stesso e imposta la vita diversamente. 

                v. 15. Ma l’invito di Gesù è disatteso da quest’uomo, non riesce ad accogliere una nuova prospettiva nella vita. L’uomo sanato invece di aprirsi alla fiducia nei confronti del Rabbì che lo ha guarito, obbedisce ancora una volta alla sua paura di perdersi.
    Non vede meglio da farsi che denunciare ai giudei Gesù come istigatore alla disobbedienza del precetto del sabato. Gesù diviene il capro espiatorio.  Così io mi metto in salvo, apparentemente sicuro: “mors tua vita mea”. E’ paura, più che ingratitudine. Una paura che giunge a rispondere al bene col male.  

                v. 16. La persecuzione di Gesù è la conseguenza di tutta questa vicenda. Su Gesù si scarica tutto il male: da parte di chi è stato sanato e da parte di chi è detentore della Legge. Dunque quest’iniziativa di Gesù si rivela un insuccesso a livello umano.
    Il bene appare sconfitto, la prepotenza e la paura hanno la meglio. La gratuità del dono è rifiutata e ricambiata dalla comune ostilità.
    Ma Gesù non si lascia bloccare da queste nostre controrisonanze, andrà sino in fondo senza paura di perdersi solo per farci del bene.

  • 05 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

      

    Alcune note introduttive

     E’l’ultimo miracolo di guarigione narrato nel vangelo ed è l’unico in tutta la seconda parte del vangelo stesso.
    Da questi dettagli ricaviamo che per Marco la guarigione del cieco viene a rappresentare una sintesi di tutto l’insegnamento della sequela.
    Le parole e i gesti di Bartimeo descrivono il dinamismo della fede: esso parte dall’annuncio e giunge alla decisione di seguire il Maestro a Gerusalemme.
    Per compiere questo itinerario è necessario che gli occhi si aprano al mistero di Cristo e siano aperti soprattutto nel momento in cui Egli sarà innalzato sulla croce. 

    Gesù con i discepoli e la folla

     Stanno uscendo da Gerico: la strada che si apre dinanzi è la lunga salita a Gerusalemme dove Gesù sarà messo a morte.
    Gesù è circondato dai discepoli e da tutta una folla.
    L’esercizio di meditazione sarà quello di immergerci in mezzo a queste persone: quali i sentimenti, le attese, le paure…. 

    Bartimeo

     Il “figlio di Timeo” una sottolineatura che dice probabilmente un personaggio noto nella comunità.
    Di lui si dice che è:
    – cieco: cosa significa? Cosa comporta?
    – ridotto in miseria
    – emarginato a motivo sociale e religioso
    Cosa gli ha dato la vita? Dio “datore di ogni bene”?
    Non ha nulla se non quell’handicap che gli procura la commiserazione dei passanti.
    Si trova a dipendere dalla pietà altrui.
    Come è stata la sua vita: la sua infanzia, la sua adolescenza, la sua maturità…?
    E’ utile cercare di analizzare il rapporto (le risonanze) che si è instaurato:
    – con se stesso
    – con gli altri
    – con Dio 

    Lungo la strada

     È ai bordi della vita, che sente passare accanto a sé, ma da cui sente di essere tagliato fuori. Chi potrà sobbarcarsi della sua vita per aiutarlo a farsi strada nella vita?
    Chi avrà cura di lui? 

    A mendicare

     Quanto è umiliante domandare, stendere la mano per chiedere di poter sopravvivere, quasi che la vita non fosse un diritto.
    Stendere la mano è ammettere la propria  impotenza e insufficienza: accettare che la vita dipenda dal capriccio degli altri.
    E’ una fortissima esperienza di morte che si aggiunge alla cecità che lo priva della gioia della luce.
    Bartimeo è immerso in una grande esperienza di morte e come vi si rapporta?
    L’esercizio sarà immergerci nell’esperienza quotidiana di Bartimeo. 

    Al sentire che passava Gesù

     La folla fa scorre la voce. Gesù sta arrivando, sta uscendo per andare a Gerusalemme. E’ tutto un fermento, un via vai di curiosi, di fedeli, di malati…
    Bartimeo sente la notizia. Indirettamente gli è annunciata la buona notizia (questa è sempre mediata nell’economia salvifica di tipo biblico: è il servizio profetico).
    Nella nostra esperienza abbiamo incontrato queste mediazioni?
    Poteva sfruttare l’occasione di questo passaggio eccezionale di folla per i suoi pur miseri guadagni.
    Questo annuncio suscita nel cuore di Bartimeo una speranza di salvezza, di guarigione: è il moto spontaneo del cuore. Ma immediatamente possono essere scattate anche delle controrisonanze: servirà? Gesù così impegnato si interesserà di me? Non sarà tutto inutile per cui è meglio rinunciare? La delusione non aggiungerebbe solo sofferenza? 

    Cominciò a gridare

     Con la forza della speranza e della disperazione. Bartimeo vince la controrisonanze della sfiducia e del ripiegamento, della rassegnazione e grida al mondo e a Gesù la sua infermità.
    E’ il grido del povero, dell’afflitto, dell’ammalato che tante volte ritroviamo nella preghiera dei salmi.
    Il povero che spera che finalmente qualcuno gli presti attenzione, si metta dalla sua parte, abbia compassione e faccia solidarietà con lui.
    In alcune situazioni questo grido è talmente forte che non riesce ad uscire (vedi la madre del figlio morto di Naim): il cuore è talmente oppresso, schiacciato dal dolore che l’angoscia blocca ogni sfogo. E’ difficile in questi momenti che il cuore si apra al bisogno di incontro con l’altro, non si riesce a condividere il peso del dolore. E come si avverte una liberazione quando finalmente il grido di dolore riesce ad abbattere il blocco: quando qualcuno raccoglie  questo grido e lo condivide. Già questa condivisione rappresenta una grande esperienza di liberazione e quindi di guarigione. 

    Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di me

     Se di Bartimeo insieme al nome si indica il casato, sembra non casuale che il grido del cieco sia composto dal nome dell’invocato e dal suo casato.
    Il pieno riconoscimento di sé e dell’altro sembra permettere un reale incontro che vince la paura e infonde coraggio.
    Il grido di Bartimeo è un’invocazione a Gesù. Egli è professato come Messia promesso e atteso: la sua venuta annunziata dai profeti avrebbe riportato la guarigione da ogni male all’interno del popolo santo: sarebbe stata una nuova creazione. (“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi” Is 35,5)
    Gesù accetta questa invocazione prima rifiutata: ora che sta andando a Gerusalemme non vi è più il rischio che sia equivocata.
    Un grido che chiede misericordia: è preghiera! (cfr. la preghiera del nome) 

    Molti lo sgridavano

     Chi sono questi molti? Discepoli, presenti….
    Perché?
    – da fastidio, disturba i loro progetti, Bartimeo si inserisce come elemento detabilizzante
    – distoglie Gesù dai “suoi” compiti (loro sanno quali sono!)
    – ma soprattutto egli è colto come “diverso”: e costui non ha i diritti degli altri, e provoca disagio e imbarazzo. Meglio farlo tacere e lasciare che le cose procedano tranquille senza troppi problemi: il “diverso” è un problema!
    – Volevano svolegere funzioni “educative”?
    Una lettura psicologica potrebbe indirizzare verso una riflessione di questo tipo: esistono dentro ciascuno di noi delle situazioni, dei “problemi”, dei “Bartimei” che gridano per attirare l’attenzione al loro diritto di esistere e di essere presi in considerazione. Ma il nostro “Io” il più delle volte mette tutto a tacere consciamente o inconsciamente: accettare questo significa entrare in una situazione destabilizzante con cui fare i conti con la sofferenza. Bisogna impedirlo. Ma la conseguenza è sempre disastrosa. 

    Ma egli…

     Non si scoraggia, non si mette a discutere, ma continua imperterrito gridare per farsi sentire da Gesù è questo il suo unico obiettivo. Accadrà quello che spera? Non lo sa, non può vedere quello che sta accadendo attorno a lui.
    Non ha paura di scontrarsi con gli altri, non si lascia vincere dal rispetto umano, dai rimproveri, dai giudizi malevoli e ironici.
    Il suo grido possiede una caratteristica: è insistente. La preghiera insistente e importuna è insegnata da Gesù (l’amico importuno, la vedova assillante…)Quanto avrà dovuto gridare? 

    Gesù si fermò

     Se ci si ferma mentre si sta facendo altro significa che vi è qualcosa che è prioritario, che non si può rimandare.
    Gesù ode il grido non può, non “deve” passare oltre facendo finta di niente o rimandando. Si ferma come il samaritano presso l’uomo ferito lungo la strada.
    A volte sarà lui stesso a voler fermare (come il seguito funebre a Naim).
    Bartimeo ha la priorità su tutto, viene prima di tutto. Gesù si interessa di lui, lo prende a cuore. 

    Chiamatelo

     Si rivolge proprio a quelli che lo stavano seguendo e che volevano mettere a tacere il cieco Bartimeo. Proprio a loro domanda ora di farsi mediatori per l’incontro.
    Cosa avranno provato? Loro che credevano di far bene e sentirsi nel giusto?  Senso di colpa, stizza, disagio e imbarazzo… gioia?
    Gesù domanda alla sua comunità di  chiamare proprio quelli che vorrebbe, desidererebbe, lasciar fuori, deve superare la tentazione di ritenersi comunità di perfetti ed autosufficienti.
    Nella famiglia di Gesù tutti sono chiamati a sedersi al banchetto del regno: ciechi, zoppi, malati, pubblicani, prostitute  e peccatori ( Matteo 22:8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni;  Luca 5:29 Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. Luca 14:13 Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi ).
    E il gruppo dei mediatori si reca su comando di Gesù da Bartimeo
    (sarebbe utile una drammatizzazione)

    Coraggio…. 

    La prima parola detta è l’invito alla speranza, a non temere (Matteo 9:2 Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati». Matteo 9:22 Gesù, voltatosi, la vide e disse: «Coraggio, figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell’istante la donna guarì. Matteo 14:27 Ma subito Gesù parlò loro: «Coraggio, sono io, non abbiate paura». Marco 6:50 perché tutti lo avevano visto ed erano rimasti turbati. Ma egli subito rivolse loro la parola e disse: «Coraggio, sono io, non temete!».) 

    Alzati

     E’ un verbo caro alla tradizione neotestamentaria. E’ il verbo della rinascita, della vita nuova, della risurrezione. E’ uscire da una situazione di morte ( Matteo 9:5 Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati e cammina? Matteo 9:6 Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora il paralitico, prendi il tuo letto e va’ a casa tua».  Marco 2:9 Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina? Marco 2:11 ti ordino – disse al paralitico – alzati, prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua». Marco 5:41 Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!». Luca 6:8 Ma Gesù era a conoscenza dei loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano inaridita: «Alzati e mettiti nel mezzo!». L’uomo, alzatosi, si mise nel punto indicato. Luca 7:14 E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Giovinetto, dico a te, alzati!». Luca 8:54 ma egli, prendendole la mano, disse ad alta voce: «Fanciulla, alzati!». Luca 17:19 «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

    Ti chiama

     Ora è Gesù che chiama (cfr Zaccheo). Non è più Bartimeo che grida. Ora Gesù prende l’iniziativa di rispondere.
    Il chiamare poi nell’ottica del dinamismo della fede implica che la fede pur partendo da una situazione di bisogno dell’uomo sia essenzialmente un dono che scaturisce da una chiamata. (“Chiamò a sé quelli che egli volle”) 

    Gettato via il mantello

     Equivale a lasciar ogni cosa da parte dei primi discepoli.
    Il mantello è l’unica ricchezza e sicurezza di Bartimeo.
    Il lasciarlo comporta l’abbandono di tutte le sicurezze e protezione di cui sinora ha avuto bisogno nella sua cecità.
    Il dinamismo della fede (che è cammino battesimale) implica una progressiva spoliazione.
    Questo gesto indica perciò la certezza che la sua vita non sarà più quella di prima: non si svolgerà più ai bordi della strada. 

    Balzò in piedi

     Sta a dire la pronta risposta e la disponibilità all’incontro. Balzare in piedi è già mettere atto al cambiamento, è sollevarsi dal proprio ripiegamento. E’ già esperienza di risurrezione.
    E’ mettere in atto le condizioni perché si attui l’incontro: è disponibilità ad iniziare il cammino. 

    Venne da Gesù 

    Accompagnato dai mediatori Bartimeo va incontro a Gesù.
    Immaginiamo questo tragitto e le risonanze di Bartimeo, dei mediatori, della folla, di Gesù.
    Il suo coraggio e la sua fiducia sono grandi ma saranno sufficienti per il cambiamento, il loro “effetto” sarà automatico?

    Che vuoi che io ti faccia? 

    Perché questa domanda?
    Forse Gesù sta aiutando Bartimeo a fare chiarezza nella sua coscienza, ad operare un discernimento su ciò che è fondamentale per lui. E’ un aiuto a fare verità dentro di sé prendendo atto del suo limite dinanzi a Gesù.
    Probabilmente Gesù vuole qualcosa di più di un generico invito ad avere pietà: vuole incontrare l’uomo, non solo compiere un gesto di “carità” nei suoi confronti, come questa da sempre è stata abituata a ricevere. Vuole che questa persona, consapevole del proprio bisogno, non si affidi solo all’iniziativa dell’altro, ma che si assuma la responsabilità di chiedere in modo adulto e chiaro ciò di cui ha bisogno.
    Gesù assume e fa assumere con questa domanda l’atteggiamento di un vero incontro. Non intende ricambiare il grido di pietà con un gesto di compassione. Il fare al cieco questa ulteriore “elemosina” non avrebbe cambiato la vita di quell’uomo, come non la cambiavano le monete che riceveva di tanto in tanto da qualche passante frettoloso, impietosito, desideroso di toglierselo di torno al più presto: se avesse fatto questo quell’uomo con ogni probabilità lo stesso giorno avrebbe chiesto qualcos’altro per avere ancora  di più, non essendo uscito da quella perenne condizione di eterno mendicante.
    Il coraggio di gridare il proprio bisogno è un requisito essenziale, ma non ancora sufficiente. Una fede così si presterebbe a trasformarsi in pretesa di rapidi ritorni  passività per ottenere ulteriori forme di benessere, mai pienamente soddisfatte e soddisfacenti.
    Una fede fragile poi avrebbe potuto entrare in crisi: “Come può guarirmi uno che non capisce nemmeno di che cosa ha bisogno un cieco?”. 

    Che io veda

     Ecco quello che chiede e di cui sente di aver bisogno.
    Perché? Cosa comporta? 

    La tua fede ti ha salvato 

    E’ la fede in Gesù che può operare la guarigione, l’apertura degli occhi. La parola diventa efficace perché trova la disponibilità a metterla in pratica.
    E subito riacquistò la vista
    Bartimeo ora vede, gli occhi gli si sono spalancati. Per prima cosa vede il volto di Gesù.
    Uno sguardo che coglie un mistero di amore che va infinitamente più in profondità.
    Sente di essere accolto, amato gratuitamente. La sua vita è amata nella sua povertà e nel suo limite.
    Bartimeo acquista una vista nuova: di che tipo? Solo fisica? Anche ma non solo! Egli acquista uno sguardo diverso sul mondo, sulla vita, su Dio, sugli altri. Uno sguardo segnato dalla gratuità dell’amore-dono. Questa esperienza diviene ragione di vita e di luce in mezzo alle tenebre del mondo. 

    Prese a seguirlo

     Ottenuta la guarigione Bartimeo avrebbe potuto prendere tante decisioni, ma tra tutte scegli di seguire Gesù.
    Cristo luce diventa cammino da seguire, non ci possono essere, per chi l’ha incontrato e visto, altre strade. Seguirlo è dare senso e speranza al mio vivere. “Io sono la luce del mondo: chi crede in me avrà la luce della vita e non cammina nelle tenebre”.
     La sua vita vissuta in solitudine ai margini della strada, ora cambia radicalmente la direzione: esce dall’immobilità e affronta con Gesù la strada.

  • 04 Feb

     

    Origini del monachesimo in Irlanda 

     

    L’ l’Irlanda fu la prima area esterna all’Impero romano nella quale venne adottato il monachesimo, in una forma strettamente collegata alle tradizionali relazioni di clan.

    La diffusione del cristianesimo nell’isola era avvenuta nel corso del V secolo, principalmente ad opera di san Patrizio (431-432), su incarico di papa Celestino I. Secondo alcune tradizioni, tuttavia, san Patrizio sarebbe stato preceduto da un san Palladio, primo vescovo degli Irlandesi[1]. Lo stesso san Patrizio avrebbe fondato nel 444 un monastero ad Armagh (Ard Macha), nell’omonima contea in Irlanda del Nord. Altri vescovi, contemporanei di san Patrizio, o secondo alcune tradizioni a lui precedenti, avrebbero contribuito all’evangelizzazione dell’isola e all’inizio della sua tradizione monastica. San Declan, di origini irlandesi e formatosi a Roma, sarebbe stato rimandato nel suo paese di origine su incarico di papa Ilario (461-468). Qui avrebbe convertito la tribù celtica dei Decies o An Déise, stanziati nell’attuale contea di Waterford e vi avrebbe fondato il monastero di Ardmore. Sant’Ailbe (che tuttavia secondo alcune fonti sarebbe morto nel 528), anch’egli ordinato vescovo a Roma, avrebbe fondato in quest’epoca il monastero di Emly, nella contea di Tipperary e un altro monastero sarebbe sorto presso la cella in cui sant’Ibar si era ritirato in eremitaggio, a Begerin, nel porto di Wexford.

    Ancora nella seconda metà del V secolo santa Brigida, co-patrona d’Irlanda, fondò ad Ardagh il primo convento femminile e si dedicò in seguito alla fondazione di altri monasteri, tra i quali nel 470 quello doppio, maschile e femminile, di Kildare, nei quali l’attività era organizzata al servizio dei poveri.

    Un’altra fondazione del V secolo è ritenuta quella dell’abbazia di Killeaney (Kill-Enda), nell’isola di Inishmore (isole Aran nella baia di Galway), ad opera di sant’Enda di Aran.

    In segutio San Finnian di Clonard, che si era formato presso i centri monastici già presenti nel Galles, si ritirò in una piccola cella nella contea di Meath, raccogliendo progressivamente intorno a sè numerosi seguaci e fondando intorno al 520 il monastero di Clonard. L’abbazia fu il primo grande centro monastico dell’Irlanda, dove si formarono i suoi “dodici apostoli”, che a loro volta fondarono altri monasteri:

    san Brendano di Birri fu il fondatore nel 540 del monastero di Birr, nella contea di Offaly;

    san Ciarán di Clonmacnoise fu il fondatore nel 545 del monastero di Clonmacnoise, ancora nella stessa contea;

    san Columba di Terryglass fu il fondatore nel 548 del monastero di Terryglass, nella contea di Tipperary;

    san Columba di Iona, evangelizzatore della Scozia, in precedenza fondò l’abbazia di Durrow nel 553, sempre nella contea di Offaly, quella di Kells, nella contea di Meath, probabilmente nel 554 e infine un altro monastero a Derry;

    san Brendano di Clonfert, protagonista della leggenda della Navigatio sancti Brendani, fu il fondatore nel 559 del monastero di Clonfert, nella contea di Galway;

    san Cainnech compagno di San Colomba in Scozia, fondò in Irlanda l’abbazia di Aghaboe nella contea di Laois;

    san Ciarán di Saighir fu il fondatore del monastero di Seir Kieran (o Saighir), nella contea di Offaly;

    san Mobhi fondò il monastero di Glasnevin;

    san Senan fondò un monastero nell’isola di Scatttery (Inis Cathaigh), alla foce del fiume Shannon e l’abbazia dell’isola Inishmore;

    Anche altri monasteri vennero fondati in Irlanda nel corso del VI secolo:

    san Finnian di Moville fu il fondatore, intorno al 540 del monastero di Druim Fionn e di una famosa scuola monastica a Moville.

    san Comgall fondò nel 559 l’abbazia di Bangor, nella contea di Down in Irlanda del Nord, che divenne anch’essa una famosa scuola monastica e dove si formò san Colombano.

     

     

     Caratteristiche del monachesimo irlandese 

     

    Inizialmente i monasteri irlandesi dovettero essere costituiti semplicemente da capanne in legno, costruite dagli stessi monaci, raccolte intorno ad una chiesa, circondati da una palizzata. Solo in seguito furono costruiti in muratura, in particolare nell’Irlanda occidentale, dove il legno era più scarso. I monaci provvedevano essi stessi al proprio sostentamento e conducevano una vita dura, fatta di lavoro manuale, studio, preghiera e pratiche di mortificazione. Ogni monastero aveva la sua regola e i monaci erano tenuti all’obbedienza nei confronti dell’abate.

    I monasteri vennero fondati a partire da una donazione di terre ad un religioso proveniente da una nobile famiglia locale, il quale ne diveniva abate. Il monastero diveniva quindi il centro spirituale della comunità e del clan. Gli abati che gli succedevano erano generalmente membri della medesima famiglia del fondatore, mantenendo dunque le terre monastiche nell’ambito della sua giurisdizione, secondo la tradizione irlandese, che prevedeva il trasferimento del possesso fondiario solo all’interno della medesima famiglia.

    Furono anche centri culturali e di insegnamento anche per i laici. Furono centri di diffusione per la lingua latina e tramandarono le locali tradizioni celtiche, elaborando la scrittura per la lingua irlandese e introducendo melodie e strumenti celtici nel canto gregoriano, secondo la tradizione dei bardi . Uno dei principali lavori dei monaci consisteva nella copiatura dei manoscritti e vi si sviluppò lo stile insulare nella decorazione miniata.

    Nella società irlandese, priva di una vera organizzazione urbana, anche la figura del vescovo, legato alla città ebbe un’importanza minore. Secondo la tradizione cristiana egli svolgeva infatti un importante ruolo religioso, ma in Irlanda era spesso residente nel monastero e subordinato o pari grado all’abate. La diocesi monastica corrispondeva al territorio del clan.

    La vita monastica si svolgeva in comunità, sebbene l’eremitaggio fosse considerato la forma più alta di monachesimo. Nelle vite dei santi irlandesi si fa spesso menzione di monaci e persino di abati che si recavano a qualche distanza dal monastero a cui appartenevano per vivervi in isolamento.

    Le regole monastiche si basavano sulla preghiera, la povertà e l’obbedienza. I monaci apprendevano la lingua latina, che era la lingua ufficiale della Chiesa e leggevano testi di autori sia pagani che cristiani, facendo dei monasteri degli importanti centri culturali. Entro la fine del VII secolo le scuole monastiche irlandesi accolsero studenti provenienti dall’Inghilterra e dal resto dell’Europa.

     

     Diffusione in Europa 

     

    Il monachesimo irlandese fu un fenomeno di grande importanza per la diffusione del cristianesimo nell’Inghilterra anglosassone e nei regni merovingi nel VI e VII secolo.

    Il monastero di Iona dal mareLe missioni irlandesi iniziarono con quella di san Columba di Iona, o Colum Cille, co-patrono d’Irlanda e uno dei dodici apostoli d’Irlanda. In seguito alla battaglia di Cooldrumman (Cúl Dreimhne, 561), che egli stesso aveva causato, per penitenza si recò missionario in Scozia, con dodici compagni, con il proposito di convertire altrettanti pagani di quella regione quanti erano stati i caduti durante il combattimento. Ottenne delle terre nell’isola di Iona, sulla costa occidentale della Scozia, dove fondò un monastero. Da qui condusse un’energica opera di evangelizzazione dei Pitti, allora ancora pagani, e un’intensa attività diplomatica di mediazione tra i diversi clan scozzesi, facendo inoltre dell’abbazia un importante centro culturale.

    Già nei due secoli precedenti le coste occidentali della Scozia erano state colonizzate da genti provenienti dall’Irlanda. Il termine latino di Scotti si riferiva alle popolazioni di lingua celtica stanziate sia in Irlanda che in Scozia. I monasteri irlandesi che si diffusero nell’Europa continentale, ad opera di monaci provenienti da entrambe le regioni, sono pertanto in alcuni casi indicati con il termine di “monasteri scoti” (Schottenklöster in Germania).

    Sant’Aidano fondò nel 635 il monastero di Lindisfarne in Northumbria e negli anni seguenti i missionari irlandesi convertirono la maggior parte dell’Inghilterra anglosassone: l’ultimo re anglosassone pagano, Penda di Mercia, morì nel 655.

     

     San Colombano

     

    Dal 590 san Colombano fu attivo nei territori merovingi, fondando numerosi monasteri.

    Per primi fondò nella Franca Contea, nel 591-592 il monastero di San Martino ad Annegray, sul sito di un’antica fortezza romana, poi quello di San Pietro a Luxeuil, a circa 8 miglia a sud-est, nell’odierna Luxeuil-les-Bains, dove si stabilì nel 593 e infine quello di San Pancrazio a Fontaines, vicino ai primi due. Dopo essere entrato in contrasto con l’episcopato locale e con i re burgundi fu costretto a ripartire e riprese a viaggiare. Nel 611 fondò a Bregenz sul lago di Costanza il monastero di Sant’Aurelia.

    Abbazia di San Gallo nel 1769Decise in seguito di recarsi a Roma per ottenere l’approvazione della propria regola da papa Bonifacio IV, ma lungo la strada il suo compagno san Gallo fu costretto a fermarsi per una malattia e fondò nel 613 l’abbazia di San Gallo. Colombano arrivò quindi fino a Bobbio dove fondò l’abbazia di San Colombano e dove morì nel 615.

    La regola monastica stabilita da san Colombano fu approvata da un concilio a Mâcon nel 627, ma venne in seguito affiancata da quella benedettina, più moderata a partire dal 643, difatti a Bobbio furono ospitati i monaci benedettini e poi negli altri monasteri colombaniani italiani ed europei, successivamenti per miticare l’austera regola venne scelta quella benedettina per la vita cenobitica pur rimanendo inalterato l’ordine e la parte di regola dedita allo studio alla scienza e all’insegnamento. Molti monasteri colombaniani esteri furono tra il IX secolo ed il X secolo tolti ed assegnati ai benedettini sotto l’autorità dei vescovi locali perdendo quindi la loro autonomia. Successivamente ciò avverrà anche in Italia tranne a Bobbio dove opererà l’ordine di San Colombano fino al 1448, dopo tale data subentreranno anche li i monaci benedettini, anche se dopo il processo di Cremona l’autorità abbaziale dovrà dipendere dal vescovo di Bobbio e non rimanere autonoma.

    Nel corso del VII secolo i discepoli di san Colombano continuarono a fondare monasteri. Uno dei suoi compagni, san Deicolo (o san Deisle), fondò nel 610 a Lure, ancora nella Franca Contea]], l’abbazia di Lure. Un monaco di Luxeuil, sant’Amé fondò, insieme a san Romarico un duplice monastero, maschile e femminile a Remiremont nel 620. Nel 654 san Filiberto fondò secondo la regola di san Colombano l’abbazia di Jumièges in Normandia, e nel 675 un’altra a Noirmoutier su un’isola presso la costa della Vandea.

     

     Dopo san Colombano 

     

    L’attività dei monaci irlandesi in Europa, declinò poco dopo la morte di san Colombano. Nel 664 il sinodo di Whitby aveva riunito il cristianesimo celtico con la Chiesa cattolica romana. Dal 698 fino a Carlo Magno lo sforzo missionario venne compiuto da missioni prevalentemente anglosassoni.

    Altri monaci tuttavia partirono dall’Irlanda e fondarono monasteri nell’Europa continentale: san Disibod, arrivato sul continente nel 640, fondò il monastero di Disibodenberg, alla confluenza del fiume Glan nel fiume Nahe, presso Bad Sobernheim. E intorno alla metà del VII secolo san Feuillen fondò il monastero di Fosses-la-Ville, presso Namur, nel Belgio. Ancora nell’VIII secolo san Pirmino nel 724 fondò l’abbazia di Reichenau sull’omonima isola del lago di Costanza.

    In Germania le fondazioni monastiche di origine irlandese, in particolare quelli benedettini, agli inizi del XIII secolo si riunirono in una vasta congregazione, approvata nel 1215 da papa Innocenzo III, ill cui abate generale era quello a capo del monastero di San Giacomo (detto anche “Monastero scoto”) di Ratisbona, fondato da monaci irlandesi nel 1090 circa. Il più antico di essi era stato comunque il monastero di Säckingen, su un’isola sul Reno presso Basilea in Svizzera, fondato da san Fridolino in data incerta, ma attestato dall878. Tra i monaci irlandesi insediati nell’Europa centrale furono importanti teologi prima Giovanni Scoto Eriugena (815-877) e poi Mariano Scoto (1028 –1082 or 1083)

    Nel XIV e XV secolo molti antichi monasteri irlandesi erano in declino, sia per carenza di disciplina religiosa o per difficoltà economiche, sia per mancanza di monaci scoti: per questo motivo a volte i conventi vennero ripopolati con monaci di altra origine, mentre altri furono soppressi. In conseguenza della Riforma protestante in Scozia, molti benedettini scozzesi si rifugiarono presso i monasteri irlandesi in Germania. Questi però non riuscirono a sopravvivere a lungo e nel 1862 papa Pio IX soppresse l’ultimo monastero irlandese in Germania.

     

    Bibliografia 

     

    L. Dattrino, Il primo monachesimo, Roma 1984 (capitolo su “Il monachesimo celtico”, p.64 e ss.).

    M. Pacaut, Monaci e religiosi nel medioevo, Edizioni del Mulino, 2007 (capitolo su “Il monachesimo celtico”).

     

  • 04 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Il brano segue immediatamente quello del fallito tentativo di arresto di Gesù da parte dei farisei e dei capi dei sacerdoti. Il clima attorno a Gesù è dunque molto teso. La nostra pericope è poi seguita dall’insegnamento di Gesù che si proclama luce del mondo, e il retto giudizio e retta testimonianza che necessitano per incontrarsi con lui (cfr. 8, 15.17).

     v. 1: verso il Monte degli Ulivi
     Siamo a Gerusalemme, nel Tempio. Gesù è ormai conosciuto. Sono molti quelli che lo incontrano e lo ascoltano.
    Questo andare e venire dal Monte degli Ulivi al Tempio è un particolare che fa riferimento soprattutto all’ultima settimana della vita di Gesù (cfr Lc 21,37-38; 22,39; At 1,12). Indirettamente è un rimando al dramma della passione, dell’arresto, della condanna a morte di Gesù stesso.

     v. 2 All’alba:
    annotazione temporale. La scena si svolge sul far del giorno. L’adultera viene dunque sorpresa e arrestata dopo la notte.

     v. 2: sedutosi li ammaestrava.
    Sul far del mattino Gesù sale al Tempio. E qui svolge il suo insegnamento: è un insegnamento quotidiano che Gesù tiene a tutto il popolo (Lc 19,47; 20,1; 21,37).
    Questo riferimento a “tutto” il popolo è espressione che rimanda a tutto il popolo di Israele quando si pone in ascolto della Parola di Dio: Neemia 8:9 «Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge».
    E’ immagine del nuovo popolo di Israele, la Chiesa, che si pone in ascolto della Parola. Ma ci interroghiamo: che spazio ha l’ascolto nel nostro vissuto comunitario?
    Il suo insegnamento sembra qui prendere il posto del culto liturgico al santuario.
    Gesù è nella posizione del maestro. “sedutosi”. La sua parola è una parola che intende “ammaestrare”, “istruire” (edidasken): riguardo chi? Che cosa? Sicuramente Gesù parlava del Regno di Dio che lui desiderava veder instaurarsi in Israele.

    v. 3: scribi e farisei
    Chi sono?
    Gli “scribi” all’interno della struttura del popolo ebraico postesilico, e dopo la scomparsa dell’istituzione profetica, avevano assunto il ruolo di guida spirituale del popolo. Erano molto stimati e apprezzati dal popolo. Essi svolgevano un ruolo preminente nell’ambito sinagogale dove l’istituzione sacerdotale non era indispensabile. La loro preoccupazione era di difendere la purezza della legge “ergendole intorno una siepe” fatta di minuziosa casistica di comandi e proibizioni.
    I “farisei” (“separati”) al tempo di Gesù si erano radunati in un partito politico-religioso. Essi si appoggiavano alla classe degli scribi e sull’istituzione sinagogale. Erano uomini “votati alla legge”. Erano forti del loro zelo e dell’ideaale religioso. Questa ricerca li opponeva al resto del popolo.
    Sono costoro dunque che portano a Gesù la donna adultera che ha tradito la Legge di Dio.
    Scribi e farisei rappresentano l’uomo nella sua ricerca di giustificazione di se stesso dinanzi a Dio e agli altri. Ma questa ricerca rischia di operare divisione, spaccatura, durezza, intransigenza perché è rifiuto costante di quel limite morale che comporta un’esperienza di morte nel cuore dell’uomo.

     Una donna sorpresa in adulterio
    Cerchiamo di identificare questa donna nella sue esperienza.
    E’ una donna probabilmente sposata. Una donna del popolo che non è difesa da nessuno. Forse una poveraccia. Com’è la sua vita matrimoniale? Perché e da che cosa è dettato questo tradimento?Una donna, che probabilmente non ha mai visto Gesù. O se l’ha visto certamente non è stato per lei sinora un incontro determinante. Una donna che continua a “cercare” il senso della sua vita, ma su strade diverse, lontano dallo sguardo di Gesù. Questa donna vive una sua storia fatta di bisogni e di attese. Non gli basta quello che ha. Una storia forse che non ha neppure scelto né voluto. Una cosa comunque è certa: non ha trovato quello che cercava all’interno del suo legame familiare e nell’intimità della sua relazione matrimoniale. Non è riuscita a saziare la sua sete di amore ricevuto e dato. Come mai? Perché?
    Ha sì cercato un incontro. Solo umano. Fatto di sotterfugi. Si accontenta. Si lascia cadere di una ricerca di soddisfazione che forse sa’ già che si rivelerà un’altra volta deludente.
    E’ accaduto l’imprevisto. Un fatto drammatico. Ancora una volta essa prende coscienza di essere fatta solo strumento, e forse per l’ultima volta! Strumento di un uomo che ha approfittato di lei per poi abbandonarla senza cercare di difenderla…   Dopo averla usata l’abbandona al suo destino in modo irresponsabile. E quante volte il più debole è abbandonato alla sua sorte nello stesso modo! L’amante si salva la vita a scapito di quella donna. Ma l’amore dov’era?
    E’ vittima di una violenza, che le toglie l’intimità, l’identità, la dignità… Scopre l’amarezza e il disgusto per essersi accontentata degli uomini…
    Come hanno fatto a scoprirla? Chi l’ha scoperta? Il marito? Un complotto ordito da lui?
    Cosa passa nel suo cuore nel momento in cui viene scoperta?
    Cosa prova mentre viene trascinata da Gesù?
    Cosa fa? Cosa dice?
    La gente la vede? Cosa fa? Cosa dice?
    Lei vedendo la folla che la osserva come reagisce?
    La donna tra le mani di quegli scribi e farisei è nuovamente uno “strumento”: essi infatti vogliono “usarla” per scopi che neppure lei lontanamente immagina….
    Proviamo ad analizzare le risonanze che si stanno muovendo nel cuore degli accusatori che stanno trascinando la donna da Gesù. Come decidono di portarla da Gesù?
    Perché stanno facendo questo? Il testo parla di un “tranello” che vogliono tendere al giovane rabbi. Ma quale il motivo di fondo che detta l’orchestare di questo “tranello”?
    Cosa vogliono dimostrare? Che cosa vogliono difendere? Quale l’obiettivo che vogliono raggiungere? Raggirare Gesù: perché?
    Una cosa è certa: essi stanno comportandosi con cuore doppio, con un secondo obiettivo (quello vero che non è esplicitato).

     Postala nel mezzo:
    E’ l’atteggiamento dell’interrogatorio giudiziale (cfr At 4,7).
    Quella donna è lì al centro: in piedi dinanzi a tutti. Nella sua veste strappata e nel ruolo di condannata, vede dinanzi a sé immediatamente la fine tragica della sua vita così sbandata. Nei suoi occhi vediamo il terrore e la solitudine.
    E’ sola, pur in mezzo alla folla, posta al centro degli sguardi perfidi e perversi dei suoi accusatori e di tutti i presenti. Sotto gli occhi della Legge di quel Dio nel Tempio che è la sua dimora e nel quale ora si trova. (cf Dt 22,22ss; Lv 18,20; 20,10; Es 20,14)).
    Per l’accusa erano indispensabili due testimoni escluso il marito (Dt 19,15).
    Proviamo ad ascoltare le sue risonanze

    v. 5: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.
    Vi è qui un raccordo tra Gesù che “insegna” al popolo e l’appellativo e la  richiesta da parte di costoro di un verdetto dinanzi ad un fatto incontestabile: “Maestro – Didàskale…”. Ossequiosi quanto al titolo da dare, certamente! L’etichetta è rispettata, ma nella coscienza ben altro si muove. 

    ci ha comandato di lapidare” (cfr Lv 20,10; Dt 22,21; Ez 16, 38-40).
    E’ la condanna a morte decretata per adulterio.
    L’accusa è chiara. Senza appello di giustificazioni o di ricerca dei motivi. Quel che conta è l’accaduto criminoso e basta. Il vissuto della donna a loro non interessa minimamente. Gli interessi sono rivolti ad altro: la Legge deve essere difesa a scapito della persona! Per cui se la situazione per loro è quanto mai chiara allora la condanna è già decisa. Probabilmente non è stato ancora pronunciato il giudizio ufficiale del tribunale religioso. (nel 30 dC viene tolto la sinedrio lo “jus gladii”).
    Ma allora che cosa vogliono da Gesù? Qual è il loro vero obiettivo?“Tu che ne dici?. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo”.
    Quindi l’obiettivo che vogliono raggiungere in realtà è un altro. E’ quel che si suol dire: “Prendere due piccioni con una fava”!.
    Essi sperano all’interno di un confronto religioso-giuridico con Gesù di aver di che per condannarlo. La situazione vuole essere un tranello teso a Gesù: egli avrebbe dovuto pronunciarsi pro o contro il diritto giudaico, oppure contro il diritto romano che non permetteva ai giudei la pena di morte e quindi passare per un rivoluzionario (vedi il racconto del tributo a Cesare: Mt 22,15-22).
    In questo subdolo atteggiamento vediamo svelata tanta malignità nel cuore dell’uomo. Egli spesso non si confronta con la realtà nella ricerca spassionata della verità ma vuole sottomettere la realtà e la verità ai suoi meschini obiettivi che sono in questo caso di potere. La realtà non conta ma contano i miei progetti e le mete che mi prefiggo. 

    v. 6b: tracciava segni per terra:
    Gesù non intende intervenire. Vuole spostare la questione su un altro livello. Gesù non si fa’ immediatamente incontrare da dalla donna né dai suoi accusatori. E’ chino a terra a testa bassa.
    Che risonanze prova dentro di sé mentre è chino a terra? Annoiato. Amareggiato. Silenzioso. Sofferente?
     Comprende l’animo doppio degli accusatori a cui non interessa la ricerca della verità ma solo trovare un espediente per la condanna della donna e sua. I  fin dei conti lì gli accusati sono due: Gesù e l’adultera! 

    vv.7-8 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei».  E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 
    Alla fine dietro le loro insistenze impazienti e malignamente ansiose, Gesù volge uno sguardo alla donna, un sussulto di infinita tenerezza. Deve liberarla dalla mano degli assassini: amante e scribi. Sente di doverla riconsegnare a se stessa nella libertà.
    scagli la prima pietra“: occorre confrontare l’importanza data al primo che scagliava la pietra: “La mano dei testimoni sarà la prima contro di lui per farlo morire; poi la mano di tutto il popolo; così estirperai il male in mezzo a te” (Dt 17,7). I testimoni lancino la prima pietra.
    In fin dei conti Gesù, con queste parole “lapidarie”,  ribalta il dettame della legge: se lì è il testimone del male che condanna qui dev’essere la cosceinza di chi è senza peccato. Gesù mette così a confronto gli accusatori non con la legge, ma con la loro coscienza.
    Gesù non si lascia intrappolare da scribi e farisei in una discussione di tipo giuridico-religiosa. Pronuncia sì una sentenza di giustizia penale ma in termini religiosi e non semplicemente giuridici. Gesù non si ferma alla lettera della legge ma discende in profondità per cogliervi lo spirito che la anima e senza il quale essa è solo portatrice di morte.
    Gesù invita a passare dalla legge da eseguire e obbedire ad una legge da assimilare interiormente e che interpella la coscienza e la responsabilità personale.

    v. 9 se ne andarono
    Tutti se ne vanno. (anche la folla?).
    Proprio tutti: dal più anziano al più giovane. Dai più “autorevoli” agli ultimi. Perché in quest’ordine?

    v. 10 Rimasero solo loro due
    Sono ormai soli, finalmente, lui e la donna. La donna lo guarda in modo interrogativo. “Relicti sunt duo, misera et misericordia” (Agostino).
    Gesù trae fuori dalla sua solitudine e dalla sua angoscia quella donna e le apre un nuovo orizzonte. Gesù non vuole giudicare né condannare in base alla legge. Non vuole un giudizio che prenda in considerazione la persona nel suo passato.
    La donna si rende conto di essere stata salvata da lui: ma perché? Si rasserena. Finalmente incontra il suo sguardo.
    Una domanda Gesù le rivolge: “Nessuno ti ha condannata?”. Una domanda evasiva, scontata ma è un ponte gettato tra Lui e lei.
    Non potrà avvenire infatti un incontro con lui se non nella dignità, nella libertà, nel desiderio di incontrarlo. Quella donna se avesse potuto sarebbe scappata ovunque. Certamente non avrebbe mai voluto trovarsi lì. E finalmente vi può essere l’incontro che riconsegna la donna a se stessa rimettendola in cammino nella sua dignità.
    Nei cortili del Tempio, luogo della salvaguardia della Legge divina, Gesù libera una donna peccatrice dalla morte. E’ un annuncio solenne che Dio è il Dio della vita e non della morte.

    v. 11 Va’ in pace e non peccare più
    Una sola parola esce dalla bocca di Gesù. L’invito a vivere il suo futuro in una nuova condizione quella inaugurata dal dono. Gesù le restituisce la sua libertà e dignità, le dice di cercare ancora ma oltre ciò che aveva cercato fino a quel momento. Un invito a non continuare a sbagliare il bersaglio nella sua ricerca di vita e di amore.
    Il peccato non è più stabilito in rapporto alla legge, ma alla libertà. La condizione per vivere nella libertà da quella condanna che fa leva sulla legge, coincide con la libertà di non peccare più. Ma questo è un dono non un imperativo di tipo morale. La legge condanna al passato la parola di Gesù, la sua buona notizia, libera puntando al futuro.
    Certo che questo schierarsi di Gesù dalla parte della libertà e della vita diverrà per lui ulteriore capo di accusa e motivo di odio.
    Se egli libera la donna assume però su di sé il peso del suo peccato. Ancora una volta contempliamo l’amore-dono che preferisce perdere la sua vita per donarla all’uomo nella gratuità più grande, “fino alla fine”, “fino alla morte”.

     

     

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