• 27 Gen

    di p. Attilio F. Fabris 

     

    Nel libro della Genesi troviamo il meraviglioso racconto del dialogo orante di Abramo e i suoi tre misteriosi ospiti sotto la quercia di Mamre.

    Certo Dio non cambia, e anche noi come Abramo possiamo scoprire che Dio non sarebbe più tale nel caso egli cambiasse; infatti un Dio sottomesso alle nostre esitazioni non potrebbe essere Colui dal quale attendiamo sicurezza:

    “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della Luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento” (Gc 1,17)

    Ma allora perché supplicare Dio di intervenire? A cosa serve presentargli la nostra miseria?

    Dio non cambia, ma tuttavia “allorché distrusse le città, egli si ricordò di Abramo, e fece fuggire Lot dal disastro” (Gn 19,29). Questa è la risposta alla sua preghiera.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma ciò sarebbe mutilare la sua provvidenza se si limitasse ai soli risultati visibili, alle realtà apparenti.

    Dio è immutabile nei suoi disegni, ma in questi disegni interviene la preghiera dei suoi figli.

    Scopo della preghiera non è cambiare l’ordine delle cose stabilito da Dio, ma di ottenere ciò che Dio ha deciso di compiere attraverso la nostra preghiera.

    Dio ha voluto far dipendere la realizzazione di certe realtà, dalla nostra preghiera.

    “La preghiera cristiana è cooperazione alla Provvidenza di Dio, al suo disegno di amore per gli uomini” (CFC 2738).

    L’ordine voluto da Dio comporta la mia collaborazione. Siamo fatti per cooperare al nostro destino e all’evolversi della storia.

    Potremmo quasi suddividere tutto ciò che capita nella nostra vita in due categorie di avvenimenti:

    – ciò che capita, ma che non dipende da noi

    – ciò che possiamo ottenere attraverso il nostro sforzo ed impegno.

    Se non preghiamo noi rimaniamo puramente passivi di fronte agli avvenimenti della prima categoria e attribuiamo ai nostri sforzi quelli della seconda.

    Al contrario: pregando noi sostituiamo alla nostra volontà quella di Dio, ovvero entriamo nel piano di Dio.

    Ci poniamo così sulla stessa lunghezza d’onda del progetto di Dio. Scopro di conseguenza che Dio fa la storia con me. Che, come Maria, sono fattivamente collaboratore di Dio.

    Egli non vuole fare senza di te ciò che ha deciso di fare con te!

    Abbiamo nella Scrittura diversi esempi:

    – Gesù e la donna sirofenicia: ella deve lottare con lui per ottenere ciò che desidera;

    – la lotta dell’angelo con Giacobbe: essa dura tutta la notte, Dio desidera essere vinto dall’uomo;

    – Mosé intercede per il popolo dopo il peccato dell’adorazione del vitello;

    – la vedova importuna che chiede giustizia.

    La preghiera perfetta alla quale tendiamo è sull’esempio di Gesù stesso: “Sia fatta la tua volontà”.

    Essa non cambia, ma deve compiersi con il nostro assenso e collaborazione. Che possiamo volere ciò che Dio stesso vuole.

    Dio entrando in comunione con noi fa appello alla nostra libertà: chiederà a Mosé: “Lascia che la mia collera s’infiammi contro di loro” (Es 32,10).

    Caterina da Siena fa dire al Signore: “Io sono incatenato dalle catene dei vostri desideri; ma queste catene le ho forgiate io stesso”. Dio suscita in noi i desideri che intende esaudire.

    Nel suo disegno eterno ed immutabile, Dio ha collocato un posto preciso alla nostra preghiera, e Dio non cambia. E’ questa una delle peculiarità più profonde della preghiera cristiana, che possiamo tradurre con un’espressione di san Tommaso:

    “L’amore non ha permesso a Dio di restare solo”

    L’amore è condivisione di tutto. Dio vuole farci partecipi della sua felicità. E’ questa la grande rivelazione della fede cristiana. Per la filosofia antica e le vecchie religioni l’uomo non era che uno spettatore. Paolo, con la sua veemenza afferma di costoro:

    “Siamo collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9)

    E’ questo l’insegnamento di tutti i santi. Teresa di G.B. scrive ad esempio:

    “Perché Gesù dice: Pregate il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe? Gesù forse non è onnipotente? Ah, è che Gesù ha nei nostri confronti un amore così grande che vuole che anche noi abbiamo parte alla salvezza delle anime, non vuole far nulla senza di noi. Il creatore dell’universo attende la preghiera d’una povera, piccola anima per salvare altre anime, riscattate dal suo stesso sangue. Ecco le parole di Gesù: “Alzate lo sguardo, vedete… Vedete come nel mio cielo vi sono dei posti vuoti, tocca a voi riempirli. Voi siete i miei Mosé che pregano sulla montagna” (Lettere)

    Noi entriamo nel mistero della rivelazione cristiana allorché sperimentiamo che Dio vuole essere amato come colui che attende da noi il desiderio di cooperare al suo piano. Vi scopriamo anche l’estrema delicatezza di Dio che non comanda, non si impone, ma un Dio che chiede un Dio che… prega l’uomo!

    Potremmo tentare così una prima definizione della preghiera: un incontro tra due desideri o meglio, l’assorbimento del desiderio dell’uomo in quello di Dio.

    La preghiera è dunque un incontro, nell’interiorità, fatto di amicizia e di cui Dio ha la prerogativa:

    “Sia che l’uomo dimentichi il suo Creatore, oppure si nasconda lontano dal suo volto, sia che corra dietro ai propri idoli o accusi la divinità di averlo abbandonato, il Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. questo passo d’amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell’uomo è sempre una risposta. Man mano che Dio si rivela e rivela l’uomo a se stesso, la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore” (CFC 2567).

    Chiaramente la percezione della concretezza della preghiera, il suo rientrare nell’”appello reciproco”, nell’”Alleanza”, fa sì che essa debba in noi allargare sempre più i suoi confini, andando al di là di tante preoccupazioni immediate e talvolta meschine.

    Ancora su queste basi bisognerebbe riflettere alle dimensioni e al realismo che potrebbe assumere la nostra preghiera, all sua audacia, all’abbandono confidente in dio qualora essa sia percepita ed accolta quale collaborazione al disegno di Dio.

     

     

     

     

     

  • 27 Gen

    di p. attilio fabris 

    Vi è una contraddizione nel nostro pregare:

    da un lato avvertiamo il bisogno del dialogo con Dio

    dall’altro la preghiera suscita in noi innumerevoli resistenze.

    Alcune di queste resistenze potrebbero essere:

    – la mancanza di tempo

    – la stanchezza

    – la difficoltà.

    Potremmo fermarci a queste. Ma se abbiamo il coraggio di indagare poco più in profondità scopriamo in noi un’obiezione di fondo: “Forse la nostra preghiera è inutile?” Infatti: “Se Dio già conosce tutto, e per di più non ha bisogno delle mie preghiere, allora perché dovrei pregare?”.

     

    DIO SA TUTTO

     

    In effetti, dobbiamo confermarlo, la preghiera non “serve” a Dio: “Tu non hai bisogno della nostra lode” (Liturgia). Gesù stesso ci pone attentamente in guardia contro questa falsa presunzione:

    “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8)

    Dunque Dio conosce meglio di noi ciò che ci serve. La preghiera non serve a lui, ma a noi.

     

     

    L’INTOLLERANZA DEL LIMITE

     

    Una delle esperienze più dure e dolorose che ciascuno, prima o poi, è chiamato a fare è la presa di coscienza del proprio limite.

    Solo chi è stato in grado di integrare questo limite nella sua esistenza può dirsi maturo umanamente; se ciò non accadesse la persona vivrebbe in un mondo illusorio, falsamente idealizzato, tipico dell’adolescente.

    Anche la preghiera è chiamata a farci prendere coscienza del nostro limite. Si tratta della pedagogia di Dio. In questo contesto possiamo collocare quella virtù tanto un tempo apprezzata che è l’umiltà, quella vera. Il CCC afferma a tal proposito:

    “L’umiltà è il fondamento della preghiera… è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera: ‘L’uomo è un mendicante di Dio’ (sant’Agostino)” (n. 2559)

    Il prendere coscienza del proprio limite, nell’umiltà, è una prova alla quale ogni uomo è soggetto e che attraversa in varie strade (malattia, sofferenza morale o psichica, morte di cari, esperienze “metafisiche”…): attraverso la prova egli giunge alla coscienza di essere creatura superando la tentazione di Adamo: l’onnipotenza! Essere Dio a se stessi.

    Naturalmente siamo portati a rifiutare il limite, a fuggirlo. Ecco allora la dis-trazione il di-vertimento. Ovvero lo sforzo di distoglierci dagli interrogativi che ci richiamano alla nostra vera realtà. L’uomo che fugge in mille modi e che ha paura di se stesso. La distrazione appare allora come l’opposto della preghiera, come una scappatoia dalla coscienza della nostra reale condizione, un’evasione da essa verso un’illusione, il sogno, il miraggio del “Sarete come Dio!” (Gn 2)

    Allora il primo passo verso la preghiera è l’umiltà, l’apprendere e il riconoscere il proprio limite di creatura.

    La preghiera ci riconduce, essa è pedagogia di Dio, a ciò di cui più autenticamente ha bisogno il nostro cuore limitato:

    “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessioni)

    Essa salvaguardia ciò di cui abbiamo più bisogno, ciò che in noi è più prezioso e autentico: il nostro desiderio di Dio.

    Il riconoscimento del proprio limite implica già di per se stesso una chiamata da parte di Dio. La preghiera appare come una risposta alla domanda che Dio pone nel segreto del nostro cuore: Essa è un incontro tra due desideri:

    “Se tu conoscessi il dono di Dio. La meraviglia della preghiera si rivela proprio là presso i pozzi dove andiamo a cercare acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete: la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui” (CCC 2560)

    Questa chiamata all’uomo nel contesto del limite nella Scrittura appare spesso in forma sconcertante: es: Agar e la gelosia di Sara, la sua fuga (Gn 21,8-21); Elia fuggitivo e perseguitato (1Re 19); l’esilio di Israele (Bar 2,30-3,8); il figlio prodigo (Lc 15).

    Dovremmo porci l’interrogativo: Che atteggiamento assumo io dinanzi alle esperienze del mio limite? Quali sono queste esperienze? Di fronte al limite mi accorgo di soccombere o esso mi spinge ad aprirmi alla scoperta dell’Altro?

    Quando Dio mi conduce allo spogliamento non è forse sempre in vista di una mia crescita?

    “Nella terra del loro esilio ritorneranno in sé, e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio. Darò loro un cuore e orecchi che ascoltano nella terra del loro esilio. Mi loderanno e si ricorderanno del mio nome” (Bar 2,26)

     

     

     

     

    DIO HA BISOGNO DEGLI UOMINI

     

    Dice Gesù nel vangelo di Giovanni: “La verità vi farà liberi”: ma questa verità, questa pedagogia di Dio, spesso è dura e dolorosa perché l’esperienza della nostra povertà ci sconcerta.

    La preghiera svolge un ruolo fondamentale: essa trasforma ciò che in noi è limite, pesantezza; essa cambia il nostro modo di guardare la nostra povertà.

    La preghiera dopo averci costretto ad accettare i nostri limiti ed averci insegnato il nostro vero bisogno, trasforma tutto questo in uno sguardo rivolto ad un Altro.

    Il nostro bisogno è in qualche modo indispensabile a Dio per instaurare la sua relazione con noi.

    La nostra povertà diviene il nostro tesoro. E rifiutare di essere poveri è rifiutare che Dio sia Dio per noi.

    Così Dio non ci donerà ciò di cui abbiamo bisogno anche se lo conosce bene, senza che noi glielo domandiamo.

    “Con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazione con Dio: in quanto creature non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine” (CFC 2629)

    Ogni giorno prendiamo atto della nostra povertà. Ogni giorno è necessario che la poniamo alla base della nostra preghiera.

    Scriveva s. Giovanni Crisostomo:

    “Se Dio tarda a rispondere è unicamente per trattenerci più lungamente presso di lui, proprio come i padri fanno con i figli che amano. Ma io sono indegno. La tua perseveranza a pregare ti renderà degno. Spesso Dio si fa attendere per mostrarsi poi più generoso”

  • 26 Gen

     

    di P. Attilio Fabris

     

    Gesù entra in Gerico

    Gesù acclamato dalla folla entra in Gerico: ha appena guarito un cieco. Tutti gli sono addosso forse sperando in qualche altra grazia da parte sua.

     

    Zaccheo

    Presentiamo la sua figura fisica, morale e spirituale.

    E’ piccolo di statura: è un forte limite che forse egli ha tentato in ogni modo di rimuovere con il suo arrivismo e aggressività e cinismo.

    E’ capo dei pubblicani: per colmare il suo limite none sita a vendersi agli stranieri, a vivere disonestà verso i suoi.

    E’ ricco: e questa sua fortuna è frutto di ingiustizia, soprattutto nei confronti dei più deboli e poveri che non hanno la forza di rivendicare i propri diritti.

    La fede di Zaccheo. È quasi sicuramente di tipo molto formalista. E’ si praticante, ma non per convinzione ma ancora per interesse.

    Certamente è odiato da tutti.

    Invidiato da tutti.

    Una vita apparentemente riuscita, a cui non manca nulla: potere e denaro per acquistarlo.

    Circondato da falsi “amici” e “ammiratori” che sperano solo di trarre qualche vantaggio da lui.

    In fin dei conti è una persona sola! Ha puntato tutto sull’ansia della vita e sulla paura di perdersi.

    Una persona che non si è riconciliata con il proprio limite che è esperienza di vuoto-morte dal quale tutti cerchiamo di fuggire e di non guardare in faccia:

    per ovviare tale esperienza si cerca di evitarla con mille scappatoie:

              la ricerca della propria immagine

              soldi e potere che danno l’impressione dell’autosufficienza

    E quando il limite si impone in modo drastico l’uomo può reagire in diversi modi:

              il rifiuto espresso in una lotta impari e disperata contro di esso

              la condanna di Dio

              la rassegnazione

              oppure la riconciliazione con la vita e con Dio: l’abbandono delle sue mani.

     

    Zaccheo cerca di vedere Gesù

    Perché?

    Da cosa è spinto? Cosa cerca?

    Cosa si aspetta?

    E’ solo curiosità?

    Ma anche la curiosità nasce da un interesse più o meno conscio. E un interessa è una realtà significativa per la mia esperienza vitale.

    Dunque Gesù per Zaccheo è interessante.

    Ma perché?

    Probabilmente da quello che ha sentito dire avverte nel messaggio di Gesù un “qualcosa” che può venire a colmare la sua sete di amore.

    Ma ha paura di questo desiderio: egli cerca “solo” di “vedere” il profeta di Nazareth!

     

    La folla impedisce a Zaccheo di vedere Gesù

    La folla rappresenta tutto ciò che mi può ostacolare nel mio bisogno di incontro.

    Spesso tante nostre iniziative e parole intorno al vangelo non rischiano di avere lo stesso effetto?

    La folla sono tutte le barriere che si pongono da impedimento.

    Occorre nella vita dare un nome alla folla:

    attivismo? Mass-media? Non comunicazione?

     

    Una decisione da prendere

    Zaccheo deve anzitutto decidersi. Continuare nella ricerca o desistere? Attendere un momento migliore: ma ci sarà? Potrebbe benissimo rientrare in casa. Oppure escogitare qualcosa affinché si possano creare le condizioni favorevoli all’incontro.

    E’ la nostra parte di iniziativa nel cammino di fede.

     

    Una corsa e una salita

    Zaccheo si stacca dunque dalla folla osannante.

    Così facendo ancora una volta prende atto del suo limite: con che sentimenti? Rabbia e imprecazioni?…

    Corre in avanti: e questo gesto lo pone in evidenza davanti agli altri, lo differenzia, provocando l’ironia, la critica, il giudizio di quella stessa folla (cfr la folla nel racconto della guarigione del cieco).

    Ma Zaccheo vince la paura e la vergogna di esporsi. E questo dice quanto gli prema “vedere” Gesù.

    Si distacca da tutti i condizionamenti: e sappiamo quanto questi giocano sulla nostra vita e sulla nostra paura di “perderci”. Con questo gesto in Zaccheo sono vinte due forti controrisonanze contro l’apertura alla verità: la paura di essere se stessi e la paura degli altri.

    Sale su un sicomoro: certamente mettendo in mostra il proprio limite. A un certo punto se voglio incontrare il Signore non devo fare verità nella mia vita?

    Ora Zaccheo, pur tentando di nascondersi tra le foglie!, è contento: finalmente il suo desiderio può essere portato a realizzazione: attende impaziente.

    Si sente ancora lui il protagonista dell’incontro.

    Gesù sta per arrivare.

    Finisce qui il primo atto.

     

    Gesù alza gli occhi

    Inizia il secondo atto, in cui si vede il cambio di protagonista.

    Non è più Zaccheo ma Gesù stesso.

    L’incontro sarà segnato da una caratteristiche fondamentale: la gratuità.

    Perché? Cosa significa?

    Gesù alza lo sguardo, e dopo di lui tutta la folla.

    Zaccheo diventa oggetto di attenzione da parte di tutti.

    Da parte sua arrossisce, è imbarazzato. Forse è stato uno sbaglio salire lì. E adesso cosa vorrà da me questo profeta? Ha paura. Vorrebbe non essere lì. E adesso come la si metterà?

    Le nostre relazioni sono spesso segnate da questa paura e sospetto: e anche la relazione con Dio.

    Dio alla coscienza religiosa appare inaffidabile, insensibile, tiranno e geloso della nostra felicità.

    Da lui occorre nascondersi e scappare talmente i suoi occhi indaganti ci spiano inesorabilmente.

    La folla alza gli occhi con Gesù verso Zaccheo e attende, ironica e beffarda, parole di invettiva e rimprovero contro di lui: non è il difensore dei poveri?

     

    Zaccheo !

    Gesù lo chiama per nome.

    “Finalmente qualcuno mi chiama per nome, e mi conosce: ma perché proprio lui?”

    Ci conosce uno ad uno come il buon pastore le sue pecore.

    Ha cura di ciascuno di noi.

    E’ lui che conosce il nostro vero nome.

    Dio chiama sempre per nome.

    Se mi chiama per nome è perché vuole intessere una relazione personale con me: un chiamare per nome domanda una risposta.

     

    scendi subito

    Scendere significa ritornare ad essere “piccolo” in mezzo agli altri e di fronte a Gesù. Ritornare ad essere quello che era, mettendo in mostra il proprio limite. E’ un momento di verità nel quale non mi è più permesso di nascondermi (un po’ come Gesù farà con l’emoroissa)

     

    Oggi

    E’ il kairòs. Il momento della grazia che in questo momento ci è offerta.

    L’oggi non è solo indicazione cronologica.

    La scrittura e la liturgia richiamano spessissimo all’oggi della grazia che mi raggiunge incessantemente.

    A livello di vita spirituale nasce l’importanza del vivere pienamente il momento presente come l’unico e vero momento in cui la grazia mi può raggiungere e trasformare.

     

    Devo

    Un dovere dettato da una missione da svolgere. “salvare ciò che era perduto”. Una missione che nasce solo dall’amore: e un amore incondizionato, a fondo perduto, eterno.

     

    Fermarmi in casa tua

    “Io sto alla porta e busso”.

    Vedi l’importanza del verbo “rimanere” “menein” in Giovanni.

    Se il Signore chiede di entrare nella mia vita è per restarci, è per fare comunione di vita con me.

    E’ lui che me lo chiede, come un mendicante d’amore! Non ha paura di perdere se stesso, di umiliarsi davanti a me: è il suo amore per me che glielo impone.

    Non mi chiede nient’altro! Non mi chiede di cambiar vita nel caso voglia che entri in casa sua.

    Non lo rimprovera o reguardisce. Nulla di questo: solo accoglierlo in casa sua.

    Non lo ama mettendo qualche “se”: è un amore-dono incredibilmente preveniente e incondizionato.

     

    In fretta e con gioia scese

    La “fretta” e la “gioia” sono caratteristiche amate da Luca.

    Zaccheo risponde subito all’invito.

    E’ il momento cruciale.

    Cosa prova Zaccheo?

    E’ incredulo!

    Ma come. Da uno come me il profeta vuol venire?

    Ma questo sconvolge tutta la sua immagine di Dio, sconvolge l’impostazione della sua vita.

    Scopre la realtà della gratuità dell’amore-dono che non chiede nulla se non di essere accolto fidandosi di lui.

    Questo sconvolge la vita di Zaccheo: i suoi schemi, l’impostazione che per anni ha cercato di dare alla sua esistenza.

    Zaccheo scopre che nel mondo esiste un amore di cui non sospettava l’esistenza.

    E’ una scoperta che lo riempie di gioia! Qualcuno allora mi vuol bene!

    I suoi limiti allora non lo disturbano più, li può accogliere serenamente. Sa che c’è un amore del quale può fidarsi ciecamente. Non si sente più obbligato a mascherarsi e a cercare di primeggiare sugli altri per ovviare al suo limite.

    E’ questa la sua buona notizia!

    E solo questa buona notizia gli può cambiare radicalmente la vita.

    Zaccheo saltellante di gioia, prendendo la mano di Gesù sorridente gli fa strada verso casa sua.

    Dove organizza subito un piccolo banchetto in onore dell’illustre ospite.

    E qui termina il secondo atto. Potrebbe concludersi qui. Ma si apre di nuovo il sipario.

    E’ il terzo atto.

     

    Alcuni però mormoravano…

    L’entrare in casa di un pubblicano e mangiare con lui è un gesto carico di significato. Un gesto non approvato dalla Legge, in cui il peccatore deve essere allontanato: esso contamina la santità del popolo eletto.

    Gesù compie l’atto scandaloso di mettersi dalla parte dei peccatori.

    La mormorazione è la reazione e l’ostilità alla buona notizia: l’ostilità all’aprirsi alla rivelazione dell’amore-dono.

    La mormorazione è la non approvazione e la critica all’operato di Gesù che viene a sconvolgere la loro visione della vita e di Dio.

    Quella stessa folla che lo seguiva entusiasta ora ha cambiato opinione radicalmente: Gesù li ha delusi tutti!!

    Gesù abbatte la distinzione tra giusti e peccatori: tutti devono ugualmente sentirsi amati e perdonati dal Padre nello stesso modo.

    Ma l’uomo peccatore fa fatica ad accogliere questo annuncio di perdono.

    Distinguersi dai peccatori ci rassicura, ci fa sentire meritevoli di premio e giusti ai nostri occhi: è l’uomo che ricerca nella legge la sua “giustizia”.

     La resistenza della folla è la stessa resistenza del figlio maggiore nella parabola del Figliol prodigo (Lc 15).

     

    Darò metà dei miei beni ai poveri

    Il gesto di Zaccheo è una risposta generosa ed entusiasta all’esperienza di gratuità e accoglienza ricevuta da parte di Gesù.

    E’ questa esperienza di gratuità che gli tocca il cuore e gli fa capire che la vita è fatta per farsi gratuità, dono agli altri soprattutto nei confronti dei poveri e dei peccatori (i veri poveri come Zaccheo!).

     Non è dunque un gesto che scaturisce da una coscienza morale che cerca di rimettere in pareggio i conti con se stessa (basterebbe restituire allora solo ciò che si estorto): la “giustizia” di Zaccheo supera di molto quella degli scribi e dei farisei.

      

     

    Gesù riconosce, davanti ai mormoratori, il cammino compiuto da Zaccheo.

    E’ giusto far festa per il peccatore pentito, come per la dramma e la pecora perdute e ritrovate.

    Come per il figlio minore che ritorna.

     Gesù sottolinea che la sua missione si identifica con il “cercare e salvare chi è perduto”. E’ dunque missione di misericordia fatta alla comunità dei discepoli.

     Nessuno ne deve essere escluso: tutti sono figli di Abramo.

     La comunità dei discepoli non si sentirà mai in diritto di condannare nessuno, di escludere nessuno. Avrà un cuore dilatato nella misura di quello di Cristo.

     Tutti si riconoscono in “chi è perduto”. Tutti dobbiamo essere cercati e salvati dalla misericordia di Dio.

    Sono venuto a salvare

  • 24 Gen

     

    Padre santo,

    tu che hai glorificato tuo Figlio Gesù

    e gli hai conferito potere su ogni carne,

    perché egli comunichi la vita eterna

    a tutti quelli che hanno creduto in lui quale Dio e Salvatore,

    noi ti ringraziamo del dono elargito a noi uomini:

    di comprendere la profondità dell’unione consustanziale

    che è tra te e tuo Figlio e lo Spirito santo,

    alla quale ci hai chiamati

    attraverso la preghiera innalzata a te dal figlio tuo:

    «Affinché siano tutti una cosa sola,

    come tu sei in me, o Padre, e io in te;

    affinché anche loro siano una cosa sola in noi,

    e così il mondo creda che tu mi hai mandato».

    Noi veramente crediamo

    che questa unità cui ci hai coinvitati,

    è necessaria quale testimonianza

    del mistero della tua opera nella natura umana,

    incline alla decomposizione e alla disintegrazione

    a causa del peccato e dell’egoismo.

    Questa unità è necessaria anche perché il mondo creda

    che non c’è altra speranza

    se non nella persona di Gesù Cristo, tuo prediletto,

    che hai mandato per unire le realtà celesti con quelle terrestri. 

    Noi confessiamo che la venuta di tuo Figlio in noi

    provoca in noi un’attrazione insopprimibile verso l’unità:

    «Io in loro e tu in me,

    perché così siano perfettamente uno,

    e il mondo sappia che tu mi hai mandato

    e che li hai amati come tu hai amato me».

    Perciò tutte le nostre resistenze

    alla piena realizzazione dell’unità in te,

    quell’unità che tu hai voluto per noi,

    costituiscono una carenza di fede

    e una mancanza di carità da parte nostra.

    Queste deficienze ci fanno anteporre

    le controversie ideologiche, politiche, razziali

    alle esigenze dello Spirito, della fede e dell’amore

    e affievoliscono la voce di Cristo nei nostri cuori

    per accondiscendere al mondo e agli uomini. 

    Padre santo,

    glorifica il tuo Figlio nella vita della chiesa,

    perché la chiesa glorifichi te e il figlio tuo

    quando tutti si saranno liberati

    da ogni impedimento contro l’unità e l’amore.

    Signore non lasciare che la comunità soccomba

    e tenti di eliminare un peccato con un altro peccato,

    di curare un male con un altro male;

    non permettere che l’unità sia cercata

    attraverso controversie ideologiche,

    e la carità sia confusa con la politica,

    e le coalizioni razziali vengano considerate

    una forza dello Spirito.

     

    Matta el Meskin , monaco

  • 23 Gen

    di p. Attilio Fabris

    In cammino per allontanarsi

     

    Nello stesso giorno”: in Luca tutto l’evento pasquale si svolge nell’arco di un solo giorno. Siamo al “primo giorno dopo il sabato” nel pomeriggio.

     

    Sono “due di loro”, di cui uno di nome Cleopa e l’altro anonimo (ritroviamo il volto di tutti noi) i discepoli protagonisti del racconto.

    Hanno fatto parte del gruppo dei discepoli, hanno conosciuto e seguito Gesù di Nazaret, fino alla passione. Sono due di quelli che, con gli undici, ricevettero l’annunzio della resurrezione (v. 9).

     

    Stavano camminando”. L’uomo è sempre in cammino. Ognuno ha una direzione verso cui incamminarsi. Il verbo “camminare” non indica solo un moto fisico.

    A Gerusalemme la comunità dei discepoli in quel momento è radunata nel Cenacolo confrontandosi con quell’annuncio che ha disorientato tutti: il sepolcro è vuoto!

    I due discepoli stanno allontanandosi da Gerusalemme verso Emmus (una decina di chilometri).  Costoro si stanno allontanando da essa, si stanno distanziando dagli eventi di Gesù avvenuti nella città santa. Questo porre distanza sta a dire l’impossibilità ormai di un rapporto di appartenenza sia al Maestro come alla sua comunità.

    Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità dei discepoli pre-pasquale non ha futuro, il suo destino è la disgregazione, se non interviene l’esperienza della Buona Notizia.

     

    I due “conversavano” ( in greco “fare l’omelia”) tra loro di tutte queste cose “che erano accadute”, e “stavano dibattendo” (greco: cercare insieme, litigare).

    Questo cammino dunque è intessuto di scambi di opinioni, di risonanze, è un dialogo fitto, intenso. Ci dice che i due non hanno capito ma nello stesso tempo non possono dimenticare. Infatti si parla a lungo di ciò che sta a cuore, e sta a cuore ciò che si cerca, si cerca ciò che si ama. Sono ricurvi sul passato, e pur allontanandosi dalla comunità, il loro cuore è rimasto ancorato a quella realtà sconcertante della passione e morte del Maestro. Sono profondamente delusi a causa della crocifissione di quell’uomo. Essi commemorano un morto, uno, che pur avendo promesso tante cose, è rimasto vittima della cattiveria altrui e ha fatto la fine di un fallito o di un illuso. Hanno atteso fino al terzo giorno dopo la crocifissione ma inutilmente. Si tratta per loro di una ricerca difficile di interpretazione e comprensione di ciò che hanno sperimentato in quei giorni: quella passione e morte di Gesù così scandalosa e incomprensibile. Ma non ne riescono a venire a capo!

    Il dibattere dice che il ricordo del Signore non li unisce, ma li divide.

    Proviamo ad immaginarci i loro discorsi via facendo….

     

     

    Il viandante sconosciuto

     

    E’ a questa situazione di agonia della speranza che si rivolge la buona notizia. “Gesù si avvicinò in persona e camminava con loro”. E’ proprio lui “in persona” a farsi accanto, a camminare al loro fianco facendo la strada con loro. L’iniziativa è solo sua, come in ogni altro racconto delle apparizioni del risorto. E’ l’Amore Dono che continua ad offrirsi discretamente, senza imporsi, di propria volontà. Niente lo spinge a farlo se non l’avere a cuore il bene dell’uomo.

     

    Ma gli occhi dei due “sono incapaci di riconoscerlo”.

    Da dove nasce questa incapacità? Essa scaturisce dalla incomprensione degli avvenimenti e dalla non illuminazione di essi da parte della Scrittura. La sfiducia e la paura stendono un velo dinanzi ai nostri occhi, e essi vedono  la realtà non come essa è realmente ma attraverso i loro filtri oscuri. Il loro sguardo non ha luce sufficiente per comprendere l’uomo nuovo, il vincitore della morte che è lì, accanto a loro.

    Non si parla qui tanto di vederlo quanto di “riconoscerlo”. E’ importante questa sottolineatura perché ci dice che il Risorto ora è possibile solo riconoscerlo attraverso quell’atto di fede che solo può aprire gli occhi.

     

     

    Intessitura iniziale del dialogo

     

    E’ Gesù che prende l’iniziativa e apre il dialogo con loro: “Che sono questi discorsi che state facendo?”.

    Gesù vuole che si esprima la delusione dei discepoli, che si oggettivizzi. L’annuncio deve entrare in tutto il negativo dell’uomo e della sua storia. Esso vuole salvarci da questo. Ecco perché Gesù non impone la sua presenza immediatamente. E’ necessario che l’uomo si accosti alla fede attraversando tutte le sue controrisonanze. Eluderle non servirebbe a nulla! Il cuore rimarrebbe inalterato e dubbioso.

     

    La reazione è un fermarsi del cammino, un osservare “col volto triste”. Si fermano perché quella semplice domanda li riporta improvvisamente ancora all’inizio dei loro discorsi. Le controrisonanze che abitano nel loro cuore si oggettivizzano attraverso il loro sguardo colmo di tristezza: è delusione mista a dolore.

     

    La loro risposta: “Tu solo sei forestiero da non sapere ciò che è accaduto?”. Gesù è considerato uno straniero che non conosce i fatti! Possibile dato il rumore che hanno provocato a Gerusalemme?

     

    Quali?”. Gesù non impone la sua evidenza dopo questa risposta. Restando sconosciuto Egli desidera iniziare un dialogo, una condivisione con i due. Ne hanno bisogno!

    Si fa raccontare ciò che è accaduto, ovvero stimola a portare alla coscienza l’oggetto della loro discussione, a chiarire ciò che fa problema, a dire i sentimenti che li hanno accompagnati. Li interroga affinché esca tutta la loro amarezza.

    La fede non è elusione dei problemi ma la loro soluzione, perciò questi non vanno dribblati o rimossi. La pedagogia di Gesù è straordinaria: è la pedagogia del dialogo e della condivisione che deve accompagnare qualsiasi iniziazione alla fede.

     

    Il viandante interroga discretamente. E cosa fa? Ascolta e condivide, condivide e ascolta… A un certo punto comincia  a dir la sua. 

     

     

    Discorso dei pellegrini

     

    Ciò che emerge dalla loro risposta è che gli avvenimenti riguardanti Gesù di Nazaret non trovano composizione nella loro coscienza, essi appaiono troppo contraddittori: non ne riescono a cogliere il senso, li vivono con un atteggiamento fatto di delusione e di turbamento.

    Essi parlano di Gesù come di un “profeta potente in opere e in parole”, ossia rievocano l’esperienza entusiasmante e gioiosa del ministero di Gesù, la sua predicazione e i suoi miracoli: tutto ciò testimoniava la verità della sua missione e della sua identità di inviato di Dio..

    Ma ecco la contraddizione: come si concilia questa esperienza e certezza con lo scandalo della sua esecuzione da parte dei capi? Come conciliare la certezza del suo essere inviato da Dio e la sua condanna a morte? Perché Dio non l’ha riconosciuto e l’ha abbandonato? “Forse ci siamo ingannati: non era colui che credevamo, ma un impostore”. Oppure altra conclusione: “Dio stesso l’ha rifiutato come fece con Saul per qualche sua colpa a noi sconosciuta”.

    Rifiutano lo scandalo della croce.

    Essi sono rimasti scandalizzati dalla fine di questo profeta, sebbene continuino a credere che egli sia stato un grande profeta mandato da Dio, Egli ha subito la sorte di tanti altri profeti. Ma quanto al riconoscerlo Messia, per loro il discorso è chiuso. Un uomo che è stato crocifisso ed è morto non può presumere di essere il messia; da lui non ci si può attendere la pienezza della realizzazione delle promesse di Dio. Dio infatti non ha impedito la sua fine ingloriosa e non ha accreditato la sua testimonianza. La croce è uno scoglio insormontabile!

     

    Dai fatti i due discepoli passano agli stati d’animo: “Noi speravamo…”. Speranza che fosse proprio lui l’atteso, il messia che avrebbe liberato il suo popolo (probabilmente in senso nazionalistico) come promesso da Dio.

    La croce è letta come la fine di ogni speranza. Il pensiero dell’uomo resta chiuso (9,45; 18,34), anzi profondamente deluso, davanti al pensiero di Dio (Mc 8,31-33). Davanti alla croce si frantumano le nostre fragili speranze e attese.

    Quel “noi speravamo” sta a dire le attese religiose dell’uomo, così amaramente deluse dalla croce. E così questa speranza è stata sottoposta ad una dura e tragica delusione. “Sono già passati tre giorni…”. Ovvero è la fine di ogni speranza, tutto è finito definitivamente. E’ una constatazione di cui prendere dolorosamente atto. L’osservazione sul “terzo giorno” non è da collegare alla speranza della resurrezione, anzi vuole sottolineare che per loro la morte di Gesùè un fatto compiuto e irrevocabile. Secondo la concezione ebraica l’anima aleggia intorno al corpo per tre giorni dopo la morte; trascorso questo termine non è più possibile tornare in vita (Ernst).

     

    Ma i due discepoli aggiungono qualcosa d’altro. Sì qualcosa è successo di strano. Mediata da altri è giunta un’esperienza: “alcune donne….”. Ma come credere a questo stando il fatto che alcuni dei discepoli sono andati al sepolcro hanno visto ciò che le donne avevano detto ma…. Lui non l’hanno visto! Anche loro due non si sono presa la briga di andare a vedere.

    Le loro parole contengono già tutto il kerygma, ne è un’esposizione precisa.  Essi sono in possesso di tutti gli elementi del kerygma: ma tutto ciò non costituisce ancora per loro una buona notizia! Essi in verità possiedono tutto il bagaglio dell’Annuncio cristiano, ma non sono in grado di aprirsi ad esso, di comporlo, possiedono già un piccolo “Credo” ma manca la chiave di lettura. Non riescono da soli a ricomporre il senso della vicenda di Gesù.

    Il sepolcro vuoto per loro è solo un ulteriore motivo di disorientamento e ambiguità.

    Sia allora che adesso il problema è identico: senza l’annuncio della Buona Notizia l’esperienza di fede del Risorto è impossibile (Gv 4,42). Ma chi potrà fare questo annuncio della Buona Notizia se non un evangelizzatore? E chi è che può svolgere tale servizio in questo momento se non il solo Gesù?

     

     

    Discorso di Gesù

     

    Gesù non aggiunge altri dati riguardanti la sua vicenda, i due li conoscono fin troppo bene. Ma è necessario aiutare i due pellegrini ad interpretare la sua vicenda aprendo alla loro coscienza uno sguardo nuovo su di essa. Si appresta ad un vero servizio di evangelizzazione.

     

    O senza testa e tardi di cuore…”: E’ un rimprovero forte e autorevole che non è certamente quello di un estraneo o di un ignorante. La figura del viandante assume gradualmente un aspetto dignitoso e magisteriale. Da sempre l’uomo è “di dura cervice e di cuore incirconciso”. Una testa impermeabile alla verità di Dio, e il cuore (il luogo dell’interiorità, il luogo della valutazione, del giudizio e della decisione) appesantito dalla tristezza e dalla delusione. L’incredulità è prestare fede alla paura e alla menzogna: è il peccato. Il primo passo da fare è quello di prestare l’orecchio più alla Parola che alla nostra paura.

     

    Non era forse necessario… e cominciando da Mosè e da tutti i profeti…”. Gesù inizia con i due una condivisione della parola: è la parola che diventa luce, ed apre all’intelligenza del mistero. E’ solo alla luce della parola che la sua morte non è più un incidente di percorso, estraneo al progetto di Dio. Ciò che agli occhi dei due discepoli appare contraddizione, diviene ora evento “necessario” per l’adempiersi delle promesse.

    La croce “scandalo e stoltezza” per chi non crede alla luce della Parola condivisa si trasforma in luogo di rivelazione del peccato dell’uomo e del suo rifiuto e nello stesso tempo piena rivelazione dell’agire  e del volto di Dio. Non è la smentita di Dio sulla missione di Gesù e sulla sua identità, bensì il suo compimento.

    “Tutta la scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (Ugo di san Vittore).

    A che servirebbe incontrare Gesù risorto, esultare di gioia, se non si può spiegare questa morte che ha gettato il sospetto della coerenza del percorso? Perché è stato rigettato, perché i capi religiosi sono riusciti a farlo crocifiggere, come un malfattore? Forse egli non era così potente come si pensava se gli altri hanno prevalso su di lui! Tanti “perché” resterebbero inspiegati!

    La condivisione di Gesù co i due discepoli dice bene il processo del circuito dell’ascolto dalla “Traditio” alla “Redditio” e viceversa. E’ la “fractio verbi”.

     

    Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché se questo è il punto decisivo? Perché la comunità alla quale scrive questo contenuto è ben conosciuto e assimilato. L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

     

     

    “Rimani con noi”

     

    Si avvicinarono al luogo a cui erano diretti…”. Il cammino pare giungere alla sua conclusione e così il dialogo con quel viandante.

     

    Egli fece come se dovesse proseguire… ma essi insistettero (lo forzarono): Rimani con noi…”. In questa domanda/ preghiera non vi è solo e anzitutto il dovere dell’ospitalità, ma soprattutto il desiderio di non separarsi da una relazione che man mano, cammin facendo, si è rivelata importante, capace di scaldare nuovamente il cuore riaprendolo alla speranza attraverso un diverso modo di leggere gli avvenimenti. Nei due discepoli vi è così la disponibilità a comprendere in modo diverso la vicenda del loro Maestro.

    Cosa significa se non che la “fractio verbi” ha fatto scattare la “fractio vitæ”?

    Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli una relazione talmente importante che essi dal viandante non vogliono separarsi. Non è la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola creano relazioni nuove e significative? E’ una ulteriore richiesta di condivisione alla quale il Signore risponde ben volentieri e con gioia.

     

    Egli entrò e si mise a tavola con loro”: vi è una reciproca ospitalità, nella quale avviene una sempre maggior consegna dell’uno all’altro. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Gesù si consegna ai due volentieri.

    La condivisione dell’essere fra i tre si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme alla mensa, Arriva il momento della “fractio panis”.

     

     

    Riconoscimento

     

    Quando fu a tavola con loro prese il pane, benedisse e spezzato lo dava (imperf.) loro…”: Lo spezzare il pane, azione compiuta da ogni capofamiglia, od ospite d’onore al momento del pasto, indica il gesto del servizio e di amore di Gesù, segno della comunione fraterna.

    Si usano espressioni che fanno riferimento all’istituzione eucaristica. L’abbondante mensa della parola che ha preceduta è servita a far desiderare e comprendere lo spezzare del pane. Tale segno unisce il passato, vissuto dai discepoli fino alla morte, al presente, all’evento nuovo della resurrezione. Esso rinvia non solo all’ultima cena, ma anche alla moltiplicazione dei pani. In questo modo i due sono consapevoli che è sempre lo stesso signore e che essi stessi sono quelli di sempre. Si afferma così la continuità della storia della salvezza che garantisce la concretezza e la realtà della visione di fede. Se non fosse avvenuto tale segno, poteva nascere il dubbio di un evento fantastico o puramente soggettivo.

    Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Se i loro occhi si aprono proprio in quel momento, allo spezzare del pane, è perché Gesù ha voluto così, egli, ha deciso dove, quando, come manifestarsi.

     

     

    Sono questi gesti ad “aprire loro gli occhi”. E’ difficile esplicitare la densità di questa esperienza. I gesti compiuti sono capaci di aprire al riconoscimento, gesti nei quali Gesù alla vigilia della sua morte aveva riassunto il significato di tutta la sua vita e della sua morte.

    Se il pane realizza quanto la parola promette, la parola permette di riconoscere il pane come realizzazione della promessa di Dio. Per questo Parola e Pane formano un unico sacramento indisgiungibile.

    Non si dice che lo vedono ma che lo riconoscono. Vengono così chiaramente indicati i limiti posti al vedere fisico per riconoscere il risorto. Il tempo che separa il “vedere” dal “riconoscere” permette la lezione di esegesi: i due uomini confesseranno poi (v. 32) che essa li ha trasformati. Capiranno allora perché Gesù non si è voluto far riconoscere subito da loro: il loro desiderio di vederlo era forte, ma ora sanno che la visione fisica non è più un assoluto; pur essendo invisibile ai loro occhi di carne, il Risorto resterà presente (Aletti).

     

    E’ un punto di svolta: ma questa apertura degli occhi non termina con la visione perché Gesù “scomparve alla loro vista”. Un’altra contraddizione? L’esperienza dell’apparizione del Risorto non è fine a se stessa, ma apre ad un al di là, ad un nuovo cammino da fare, a un’esperienza di fede diversa, ad una presenza diversa del risorto. (cfr Gv 20,29).

    Non scompare, ma diviene invisibile. Resta sempre e ci accompagna benché non visto. Non è più con noi ma in noi: la parola ce l’ha messo nel cuore e il pane nella vita.

    L’invisibilità non equivale all’assenza. L’improvvisa scomparsa di Gesù, dopo il riconoscimento, avrebbe potuto lasciarli tristi, interdetti, paralizzati. Invece neppure ne parlano, come se non li riguardasse o fosse cosa di nessun rilievo. In loro è avvenuto un cambiamento straordinario.

    Questo “sparire” di Gesù è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20).  E’ una promessa.

     

     

    Il ritorno

     

    Non è più notte perché nel cuore dei due vi è una luce sfolgorante: “Non ci fu giorno come quello né prima né dopo: stette il sole e non si affrettò a calare” (Gs 10,12-14).

    Riscaldati e saziati si può riprendere il cammino. Ecco il frutto della condivisione della parola e del pane: la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre la speranza.

     

    Due reazioni caratterizzano il loro frettoloso ritorno al Cenacolo.

     

    La prima consiste in una esternazione delle proprie risonanze interiori: si dicono l’un l’altro, si aprono il cuore reciprocamente. Si raccontano a vicenda come Cristo abbia mosso i loro sentimenti, come la sua parola che “apriva” la Scrittura abbia riscaldato il loro animo. Si stabilisce fra di essi una sincera e fraterna unione nel medesimo spirito di fede. I due discepoli ora fanno memoria: “non ci ardeva forse il cuore quando…”. Il cuore era stato aperto prima degli occhi, e questo attraverso l’ascolto e la condivisione della Parola.

    Dio non si rivela più all’esterno, ma nell’interno del cuore.

     

    La seconda reazione spinge i due a ritornare al gruppo dei discepoli che credono in preda all’amarezza e alla delusione per annunciare loro la vicenda vissuto con Gesù risorto. Non importa l’ora tarda: nel cuore c’è un fuoco incontenibile che non si può spegnere. Sono ormai annunciatori del kerigma. Questo “ardore” non può che non rimettere di nuovo in cammino, un cammino inverso, di ritorno. Ritorno a Gerusalemme luogo degli eventi, al Cenacolo incontro alla comunità lasciata: “Trovarono gli undici e gli altri, e dicevano: Davvero il Signore è risorto!”.

    Alla testimonianza di Pietro, degli undici e della comunità i due possono ora aggiungere la loro testimonianza.

     

     

    Conclusione

      

    In confronto con gli altri racconti evangelici di apparizioni questa pericope è del tutto singolare, al punto che ci si chiede se si può ancora parlare di “apparizione”. In fondo, i due discepoli, non hanno visto il risorto ma un viandante straniero, e poi, sul punto di riconoscerlo, non hanno visto più nessuno (Rossé). Ciò colloca il racconto più vicino all’epoca della Chiesa, quando i cristiani incontrano Gesù per mezzo della sua parola spiegata nell’assemblea e per mezzo della celebrazione eucaristica.

     

    Noi non abbiamo visto né Gesù né coloro che lo hanno visto. Siamo i cristiani della “terza” generazione. La nostra fede è fondata sulla parola dei testimoni. Come le donne e Pietro possiamo benissimo andare pellegrini al sepolcro per trovarlo vuoto. Ma come sperimentarlo Vivente accanto a noi?

    Il racconto ci apre una pista: come ai due discepoli Gesù si fa vicino a noi tutti. Fa i nostri stessi passi così spessi intrisi più di delusione che di speranza. Ci incontra nella nostra quotidianità a volte così grigia e pesante, associandosi al nostro cammino, e ovunque andiamo! Non si allontana anche quando noi ci allontaniamo. Il superamento di queste “empisse”  è possibile dalla presenza e dall’azione di Gesù.

    Anzitutto è lui stesso che ha attraversato queste situazioni di contraddizione e può quindi illuminarle dall’interno, aiutandoci così a non perderci ed aggrovigliarci in esse.

    Ma questo si attua nella nostra vita attraverso la disponibilità a lasciarci interrogare dalla vita e dalle sue contraddizioni. Il nostro pericolo più grave è quello di chiuderci in noi stessi, di smettere di interrogarci e di interrogare la fede. Se ciò accade il nostro prendere le distanze ci condanna al distacco definitivo dalla comunità, alla perdita dell’orizzonte della fede.

    E’ importante mantenere lucida la coscienza del vissuto della nostra coscienza, condividere i nostri interrogativi con i nostri compagni di viaggio, avere il coraggio di confrontarci su ciò che ci delude e rischia di farci perdere la speranza.

    La pedagogia di Gesù nel confronto dei due si sviluppa proprio in questa direzione.

    Possiamo cercare con disponibilità e accogliere come grande dono quei contesti di relazioni personali, di gruppo, di comunità in cui ci è permesso di esprimere i tratti problematici della nostra esperienza, gli aspetti contraddittori, le nostre fatiche a vivere la fede.

      

    Ma noi non lo riconosciamo. I nostri occhi sono chiusi. La nostra vita può scontrarsi con situazioni che difficilmente riusciamo ad integrare in una visione di fede, ci appaiono profondamente contraddittorie nei confronti di Dio.

    Il confronto con la vicenda dei due discepoli di Emmaus dunque ci può aiutare.

    Sono in molti, forse anche noi, a prendere le distanze a volte quasi inavvertitamente a volte in modo brusco, dall’appartenenza alla comunità cristiana e dal vivere la fede.

    A volte si tratta di un normale passaggio da una fede ricevuta ad una riappropriata attraverso un proprio cammino.

    Altre volte questo distanziamento è dato da esperienze problematiche e da interrogativi che hanno posto in grave crisi la fede fino a quel momento vissuta. Non sempre la fede oggettiva ricevuta corrisponde all’esperienza soggettiva.

    La vita stessa ci presenta situazioni si sofferenza, di delusione, di contraddizione, che rischiano di mettere in scacco la nostra comprensione abituale di fede.

     

    Come i due discepoli, anche noi possiamo conoscere bene il Signore e tutte le Scritture. Ma siamo evangelizzati a metà, e tutta la nostra vita è amarezza e delusione fino a quando la sua Parola non ci fa comprendere la croce e il suo pane non ce lo fa riconoscere vivo e operante in noi.

    Il Signore risorto accompagna il cammino dei suoi discepoli, portandoli a comprendere il significato della sua pasqua attraverso il circuito dell’ascolto della Parola e lo spezzare del pane.

    La nostra esperienza di vita dovrebbe portarci ad interrogare e condividere la Parola, ed essa alla luce della Pasqua, ci guiderà a comprendere con più verità la figura di Cristo, educando il nostro cuore ad entrare.

    L’ascolto e la condivisione della Parola è l’ambito in cui Gesù ci parla, ci illumina per spiegarci il senso del suo mistero e della nostra vita.

    Alla luce della Parola e dello spezzare il Pane eucaristico anche la nostra vita, nelle sue contraddizioni, si illumina di una nuova luce e di una nuova possibilità.

     

    Questa esperienza ci restituisce alla comunità, alla gioia di condividere insieme il dono ricevuto. Nel confronto comunitario con le Scritture e nell’eucarestia la fede compie il suo cammino di maturazione: può essere testimoniata agli altri non come qualcosa di esteriore, ma come esperienza vissuta.

  • 04 Gen

    Siamo come viandanti                                                      

    che per un momento si fermano e cantano;                    

    ancora intorpiditi dalle pene del viaggio.                        

    Ben lo sappiamo che, sulla montagna dell’oggi             

    non possiamo piantare le tende della pace.                   

    Ben lo sappiamo che dobbiamo ripartire

    scendere nelle pianure ostili, risalire le valli,                   

    guadare i fiumi, traversare i deserti,                                

    e camminare ancora e sempre ancora.  

    Ma sappiamo anche che un giorno

    a noi sconosciuto,   

    giungeremo alle porte della Città  

    il cui re è un Bambino                     

    e la cui sola luce è l’Agnello immolato.

    Per questo noi ti rendiamo grazie,

    Padre santo, per averci donato

    un poco di questa gioia                 

    che domani lieviterà il mondo

    quando il Figlio tuo, vincitore,

    si porrà alla testa dell’immenso corteo umano   

    e riconsegnerà il regno ormai maturo                             

    per la festa definitiva e sicura.
    Noi allora regneremo con Lui

    per i secoli dei secoli. Amen.

  • 02 Gen

    Nel mistero della sua Incarnazione, Dio trascende la sua trascendenza, trascende la sua santità bruciante (secondo alcuni Padri la parola “Dio” viene dal verbo bruciare) e rende la sua umanità deificata consostanziale ad ogni uomo.

    È l’ultima azione dell’amore di Dio, che Nicola Cabasilas chiama “manikos eros”-“amore folle” di Dio per l’uomo: “Non vi chiamo più servi, ma amici”.

    Paul Evdokimov, L’Ortodossia

  • 29 Dic

    Si assiste sempre più ad un accentuato contrasto tra l’insistenza dei pastori sull’importanza, anzi sulla necessità dell’impegno politico dei cattolici, e il diffuso disimpegno in questo ambito.

    Potrebbe scaturirne una visione pessimismistica: se i cristiani più vicini agli insegnamenti della Chiesa non percepiscono concretamente la necessità dell’impegno politico, sembra superfluo insistervi ulteriormente e dedicare un convegno a questo tema.

    L’altra prospettiva  invece è più ottomistica: il diffuso disinteresse in campo politico deve servire di stimolo per perseverare in tale insegnamento, per insistere sulla necessità dell’impegno politico, e sulle caratteristiche che esso deve avere; e bisogna farlo non solo al livello teoretico, ma anche al livello pratico e in modo incisivo.

     

    1. Il diritto-dovere all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

    Naturalmente, ognuno lo farà con modalità diverse, secondo la sua situazione e le sue attitudini; ma nessuno può rimanere estraneo a questo importante compito.

    Ciò è particolarmente vero per i cristiani.

    Prima però vorrei fare una precisazione: il diritto-dovere di partecipare alla vita politica deriva dalla cittadinanza delle persone.

    In tal senso, un cattolico non ha una situazione particolare che accresca o riduca tale diritto-dovere rispetto al resto della società.

    L’essere cattolico costituisce però, di fronte alla propria coscienza, un ulteriore motivo per vivere con più responsabilità l’impegno politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Redenzione

     

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore

    Tutte le attività temporali possono quindi essere vissute come risposta alla vocazione divina, nella quale la persona segue le orme del Signore.

    Nell’esperienza della salvezza l’uomo scopre il vero significato della sua libertà ed è educato al suo retto uso. Così alla dimensione soteriologica della liberazione viene ad aggiungersi una dimensione etica: la persona è chiamata ad agire in favore della liberazione da ciò che schiavizza l’uomo, anche riguardo ai rapporti sociali.

    Sebbene la salvezza non possa essere ridotta alla dimensione etico-sociale, che ne è una conseguenza, la distinzione tra le due non comporta una separazione; infatti, la vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la sua vita temporale.

    Perciò nessuna realtà umana — ambito politico incluso — è estranea al disegno redentore e, pertanto, all’evangelizzazione e alla missione della Chiesa e dei cristiani.

    Tuttavia, «si osservano a volte degli atteggiamenti che derivano dall’incapacità di penetrare in questo mistero di Gesù.

    Per esempio, la mentalità di chi vede nel cristianesimo soltanto un insieme di pratiche e atti di pietà, senza coglierne il nesso con le situazioni della vita ordinaria, con l’urgenza di far fronte alle necessità degli altri e di sforzarsi per eliminare le ingiustizie. Direi che chi ha questa mentalità non ha ancora compreso che cosa significa che il Figlio di Dio si sia incarnato, abbia preso corpo, anima e voce umana, abbia condiviso il nostro destino, fino a sperimentare la suprema dilacerazione della morte. Magari senza volere, alcune persone considerano Cristo come estraneo all’ambiente degli uomini.

    Altri, invece, tendono a immaginare che per poter essere umani bisogna mettere in sordina alcuni aspetti centrali del dogma cristiano, e agiscono come se la vita di preghiera, il colloquio continuo con Dio, costituissero un’evasione dalle proprie responsabilità e un abbandono del mondo. Dimenticano che fu proprio Gesù a rivelarci fino a quali estremi debbono essere spinti l’amore e il servizio. Soltanto se cerchiamo di capire il mistero dell’amore di Dio, il mistero dell’amore che arriva fino alla morte, saremo capaci di darci totalmente agli altri senza lasciarci sopraffare dalle difficoltà o dall’indifferenza».

    In breve: sebbene la crescita del Regno di Dio e la promozione umana non si identifichino, esiste tra di esse una concatenazione profonda ed inscindibile. Perciò la sequela di Cristo richiede l’ottemperanza dei doveri politici, e questi si possono compiere con maggiore perfezione se sono animati dallo spirito cristiano.

    Tutto ciò pone ai cristiani obblighi specifici: essi non devono considerare le strutture sociali, politiche ed economiche come indifferenti rispetto alla storia salvifica, ma come realtà affidateci dal Signore come compito e connotate dalla scelta libera e responsabile degli uomini e, quindi, positivamente o negativamente relazionate ai valori del Regno.

     

    1.2. Punto di vista della perfezione personale

     

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

    In unione con Cristo l’operare politico acquisisce una dignità tutta nuova: non è soltanto un’opera “indifferente” resa buona da qualcosa di esterno, ma è molto di più poiché, per l’unione con Cristo, tale agire diviene una realtà santa, santificata e santificante nella storia della salvezza.

    Non esiste un’autentica vita cristiana (neppure umana) se si tiene poco conto dei bisogni, delle leggi e delle istituzioni sociali. E ciò è ancora più vero nelle circostanze odierne, in cui la crescente interdipendenza sottolinea pressantemente che tutti siamo veramente responsabili di tutti.

    Perciò il Vaticano II ammonisce: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna»[14].

    Talvolta si è detto che la preoccupazione dei cristiani per l’aldilà fa loro dimenticare i problemi del mondo presente. La realtà è diametralmente opposta: poiché la vita eterna dipende dal nostro agire in questo mondo, e più specificamente dall’agire in favore degli altri, occorre riconoscere che la vita cristiana è un forte incentivo ad impegnarsi seriamente nella costruzione di una società più giusta e fraterna.

     

    1.3. Punto di vista della società

     

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune.

    Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune non riguarda però tutte le persone nella stessa misura; è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno. Tale responsabilità è propria in primo luogo dello Stato e dei poteri pubblici, poiché questa è la loro ragion di essere e, conseguentemente, il loro dovere primario.

    Ciò però non giustifica il disimpegno per il bene comune delle singole persone e dei gruppi sociali. Poiché il bene comune è il fine della società, tutti i suoi membri sono responsabili nell’instaurarlo e conservarlo.

    Di più: come la dottrina della Chiesa insegna e la storia ha dimostrato, per assicurare un saldo bene comune occorre una floridezza di società intermedie; «queste, infatti, maturano come reali comunità di persone ed innervano il tessuto sociale, impedendo che scada nell’anonimato ed in un’impersonale massificazione, purtroppo frequente nella moderna società».  La necessità dell’impegno di tutti per il bene comune comporta la necessità dell’impegno di tutti nella vita politica.

     

    1.4. Obbligatorietà dell’impegno politico

     

    Da quanto detto si desume la straordinaria portata umanizzante (o disumanizzante) dell’attività politica. Perciò «la Chiesa ha un’alta stima per la genuina azione politica; la dice “degna di lode e di considerazione” (Gaudium et spes, n. 75), l’addita come “forma esigente di carità” (Octogesima adveniens, n. 46).

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità della persona umana.

    Questo è oggi un diritto ampiamente accettato nella società.

    Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi. Anzi, la “salute” di una comunità politica si esprime, tra l’altro, «mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti alla cosa pubblica”.

    A ciò si deve aggiungere che l’ottenimento di un bene — incluso il bene comune — esige un impegno attivo. La politica non può limitarsi all’ambito teoretico: non basta comprendere perché un’azione umana sia buona o cattiva in ordine al bene sociale. Il suo scopo è anche, e principalmente, quello di “dirigere” l’agire umano verso il bene: perciò la politica possiede una “praticità” inerente al suo stesso enunciato.

    L’insegnamento sociale cristiano possiede, pertanto, un’imprescindibile dimensione pratica, e deve evitare una grave e deleteria dicotomia: quella che separa la fede dalla vita.

    Non è proprio del cristianesimo un malinteso distacco che porta a vedere le cose del mondo come estranee ai propri interessi, né una lamentazione sterile che nulla risolve. È necessario che i cristiani apportino alla vita sociale l’elemento vivificatore dei principi evangelici, rispettando l’autonomia delle realtà terrene, che, pure, costituisce un principio evangelico

    Così Leone XIII ricorda che per i fedeli «l’astensione totale dalla vita politica non sarebbe meno biasimevole che il rifiuto di qualsiasi concorso al pubblico bene: tanto più che i cattolici in ragione appunto dei loro principi, sono più che mai obbligati di portare nei propri impegni integrità e zelo». E Paolo VI invitava tutti a fare, a questo proposito, un serio esame di coscienza: «Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. (…) In tal modo, nella diversità delle situazioni, delle funzioni, delle organizzazioni, ciascuno deve precisare la propria responsabilità e individuare, coscienziosamente, le azioni alle quali egli è chiamato a partecipare»[27]. Indirizzate direttamente ai fedeli laici, le seguenti parole di Giovanni Paolo II sottolineano come questo grave dovere di tutti i cattolici sia oggi sempre più pressante: «Situazioni nuove, sia ecclesiali sia sociali, economiche, politiche e culturali, reclamano oggi, con una forza del tutto particolare, l’azione dei fedeli laici. Se il disimpegno è sempre stato inaccettabile, il tempo presente lo rende ancora più colpevole. Non è lecito a nessuno rimanere in ozio».

    Si deve perciò prendere la decisione di influire positivamente sulla vita politica, evitando così un’apparente vita cristiana, che non può essere autentica se trascura i doveri sociali.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

     

    Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Christifideles laici, afferma che la politica è la «molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente “il bene comune”». E poco dopo ricorda: «Una politica per la persona e per la società trova il suo criterio basilare nel perseguimento del bene comune, come bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, bene offerto e garantito alla libera e responsabile accoglienza delle persone, sia singole che associate»[29].

    Queste frasi sintetizzano un costante insegnamento della Chiesa: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato. La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

    Da qui l’importanza di capire correttamente cosa sia il bene comune, affinché l’agire politico sia ad esso adeguato.

    Il Vaticano II insegna che il bene comune è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente». La finalità del bene comune è, pertanto, quella di aiutare e facilitare la realizzazione di ogni persona umana, affinché essa “sia” di più, e progredisca secondo l’integra verità dell’uomo. Ciò richiede che gli elementi materiali, culturali e spirituali siano sviluppati in modo armonico, sia in ogni singola persona, sia nei rapporti tra le diverse persone e i diversi gruppi sociali. Occorre ricordare che il bene comune non è la semplice somma degli interessi particolari, ma implica la loro valutazione e composizione, in base ad un’equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad un’esatta comprensione della dignità e dei diritti umani.

    E bisogna sottolineare che, poiché la perfezione della persona è intimamente legata alla sua dimensione trascendente, cioè alla sua relazione con Dio, il bene comune si ricollega, innanzitutto, all’aspetto spirituale e morale dell’uomo, a cui corrisponde la preminenza tra i diversi elementi dell’uomo stesso[33]. Preminenza, purtroppo, frequentemente dimenticata nel concreto agire politico odierno.

    Certo, la priorità dell’aspetto trascendente non esclude la necessità dei beni terreni, ma fa sì che questi siano integrati nel quadro generale della vita umana senza prendere il sopravvento:. Lo sviluppo integrale include il possesso di beni materiali, ma lo scopo di tali beni è di contribuire alla maturazione e all’arricchimento della persona umana in quanto tale. Per risolvere le “questioni sociali”, per trovare più efficienti strutture di governo o di produzione è necessario quindi che la ricerca sia accompagnata e, in un certo senso, preceduta dalla consapevolezza delle questioni umane più profonde e basilari.

    Bisogna curare, in primo luogo, lo sviluppo delle persone poiché il tentativo di migliorare la società senza impegnarsi per il miglioramento personale non può che rivelarsi illusorio.

    In aggiunta ai cambiamenti personali e istituzionali, occorre compiere un terzo passo, senza il quale i primi due rimarrebbero in uno stato di precarietà: bisogna cioè impregnare la cultura di fermenti etici, i soli che danno solidità allo sviluppo umano integrale. «È insufficiente e riduttivo pensare che l’impegno sociale dei cattolici possa limitarsi a una semplice trasformazione delle strutture, perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno sempre su fragili fondamenta».

    In politica, forse più che in altri campi, non basta risolvere le questioni che si presentano giorno per giorno: è necessaria una programmazione culturale di ampio respiro. Il fallimento di tanti progetti fatti con buona volontà, ma privi di lungimiranza ne è la prova palese.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

     

    il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Tutto l’agire personale appartiene all’ordine morale: l’arte, la scienza, la tecnica, la politica, l’economia, ecc., non si possono considerare soggetti neutrali dal punto di vista della crescita umana. E siccome la politica è finalizzata a promuovere la dignità delle persone, vale a dire, al raggiungimento del bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, l’agire politico, più di altri ambiti dell’agire umano, è particolarmente legato alle esigenze morali.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

    Sicché la metodologia politica non deve essere sorretta da un’antropologia di tipo quantitativo (che aspira ad un gran numero di consensi), bensì da un’antropologia qualitativa che mira ad ottenere la fiducia dei cittadini; una fiducia che occorre conquistare giorno per giorno tramite un comportamento e un insieme di istituzioni e di leggi che siano in sé affidabili.

    Il principio cardine dell’etica sociale è la dignità di ogni essere umano. Tale dignità ha un limite negativo invalicabile che va applicato sempre a tutte le persone: non bisogna mai considerare una persona come una semplice parte di un corpo sociale e non bisogna abbassarla in nessun caso a mezzo, perché ogni persona ha sempre il valore di fine, in quanto titolare di diritti intangibili ed inviolabili. Tali diritti, che l’autorità politica deve tutelare in ogni circostanza, costituiscono non soltanto un confine invalicabile, ma anche un obiettivo da raggiungere. Perciò il rispetto della persona esige la solidarietà, perché nessuna fascia sociale (economica, etnica, religiosa, ecc.) deve essere esclusa dal bene comune.

    Da quanto detto si evince, e la storia lo ha mostrato in molteplici occasioni, che una vita sociale sana dipende da una moralità personale sana. E, viceversa, la separazione tra etica e politica risulta funesta per la stessa vita sociale.

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

     

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Se vissute con coerenza, le credenze religiose — soprattutto quella cristiana — sono sempre un elemento importante dell’agire umano, sia nell’ambito individuale sia in quello che riguarda le rispettive comunità di appartenenza. 

    Al contrario, se si affievolisce la fede in Dio e in Gesù Cristo, e si spegne negli animi la luce dei principi morali, viene scalzato l’unico e insostituibile fondamento che può sorreggere un vero e duraturo ordine sociale.

    Certamente, la strada del miglioramento interiore delle persone come presupposto per migliorare le strutture politiche può sembrare «più ardua, più lunga, più complessa. A volte essa può apparire anche non adeguata all’urgenza dei problemi. Ma è l’unica che permette soluzioni veramente umane e durature. Insomma, la fede cristiana svolge un ruolo importante nella costruzione della società. Anche per questo il Vaticano II ricorda: «Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo»[54].

    È chiaro che tutto ciò non può costituire un alibi per la pigrizia e il disimpegno, né significa che la politica debba essere succube della religione, ma piuttosto che essa deve servire l’uomo e, di conseguenza, deve rientrare nell’ambito della morale, il cui fondamento saldo è Dio.

    La spiritualità del cristiano impegnato nell’ambito politico consiste nella maturazione della sintesi interiore e profonda tra l’obbedienza al disegno di Dio e l’impegno storico speso alla ricerca di strumenti e nel perfezionamento o nella creazione di istituzioni che rispondano alle esigenze ordinarie dell’esistenza terrena.

    Una fede coerente infonde un grande vigore allo sviluppo sociale, perché da essa deriva una motivazione perenne e profonda per incoraggiare gli impegni terreni e politici; essa comunica fiducia e ottimismo sulla possibilità di costruire un mondo più a misura d’uomo, anche se mai esisterà un «paradiso in terra». Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

     

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento. «Oggi siamo in presenza di un tentativo in grande scala, a livello planetario e continentale, di annullare la nostra coscienza, personale e collettiva. Le società più avanzate sono alla ricerca di un “sistema societario” che possa rendere inutili e vani sia i valori sia le norme propriamente umane: il tentativo è quello di costruire un “sistema sociale” che consenta all’uomo di procedere senza dover fare scelte propriamente etiche, cioè fra il bene e il male» (Donati).

    Ma, anche limitandoci ad un’ottica puramente terrena e materialistica, occorre rilevare che un comportamento del genere tende ad estendersi a macchia d’olio — come si è visto in tanti paesi in tempi recentissimi —, e quando dilaga la disonestà dilagano gli svantaggi materiali per tutti. Poi, con un’ottica più profondamente antropologica, è facile capire che i vantaggi che si possono ottenere mediante una condotta immorale sono ben poca cosa rispetto alla perdita umana di chi agisce così: già Socrate sosteneva che è peggio perpetrare un’ingiustizia che subirla, e lo stesso ha sempre insegnato la dottrina cristiana.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

    Ciò non comporta la futilità dei mezzi e delle tecniche politiche, che sono imprescindibili. Ma sottolinea che essi, da soli, non bastano: occorre che siano accompagnati e, ancor meglio, preceduti dai mezzi e dalle tecniche morali e spirituali.

    Abbiamo già ricordato che l’egoismo è il più grande nemico di una vita sociale sana; ciò, perché l’amore disordinato per se stessi tende ad assolutizzarsi e a usare le cose e le persone per il proprio tornaconto fino all’abuso e alla sopraffazione.

      

    d) Necessità della formazione

     

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    Nell’educazione politica dei fedeli occorre distinguere, di conseguenza, due livelli:

    Il primo può essere descritto come l’edificazione della personalità sociale, intesa come l’insieme delle qualità che rendono la persona in grado di assumere efficacemente l’impegno politico

    Il secondo livello è quello dell’educazione civile e politica, che va impartita diligentemente affinché tutti svolgano adeguatamente il loro ruolo nell’ambito delle comunità in cui sono inseriti.

    Poiché la dottrina sociale della Chiesa trova la sua forza più nella pratica che nella coerenza dei suoi principi, occorre che l’educazione sociale non rimanga soltanto al livello teoretico, ma mostri parimenti, e forse più insistentemente, i modi concreti di applicare tale insegnamento.

    Occorre quindi promuovere esperienze che consentano di tradurre gli orientamenti della dottrina sociale in termini concreti, all’interno di una matura unità tra vita morale e azione pubblica.

    In questo ambito è particolarmente importante non cedere al relativismo etico, e non confondere la giusta autonomia dei cattolici in politica con la disattenzione nei confronti dei valori etici umani e cristiani. Non si può favorire, anzi si deve contrastare «l’attuazione di un programma politico o di una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la fede costituisce come un’unità inscindibile, non è logico l’isolamento di uno solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L’impegno politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare di delegare ad altri l’impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché la verità sull’uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta» (Congr. per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24-XI-2002, n. 4). Anche in ambito politico l’intelligenza e la volontà umana sono costitutivamente orientate verso il vero e il bene e, di conseguenza, sono estranee allo scetticismo e al relativismo etico.

    Nella situazione odierna, con un pluralismo sovente affine al relativismo e all’indifferenza morale, occorre, oltre alla virtù della fortezza e a una solida personalità, un’intensa formazione e un profondo rinnovamento delle coscienze per compiere i peculiari doveri politici.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

    Anzi, accantonare le proprie convinzioni nella vita politica, accademica, culturale, ecc., comporterebbe una mancanza di sincerità, che è una virtù indispensabile nei rapporti sociali.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

     

    Tale missione ha un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene quasi dall’interno. Tale “indole secolare” dei fedeli laici non si limita ad essere una realtà di fatto, ma è anche una qualità teologica ed ecclesiale; una qualità, cioè, che qualifica i rapporti che tali fedeli hanno con Dio nella Chiesa. Il fatto che l’indole secolare del laico sia di carattere teologico, implica che egli deve — mediante i suoi compiti nel mondo (familiari, politici, professionali, ecc.) — portare a termine quella parte di missione della Chiesa che a lui, in quanto  suo membro, corrisponde. Dio li chiama a vivere nel mondo e a compiere la loro missione cristiana (santità e apostolato) nelle loro mansioni terrene.

    A tal fine, occorrono — come già accennato — un’adeguata formazione e un serio impegno: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistarsi una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e le realizzino. Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero» (GS 43).

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

     

     

    Conclusione

     

    Oggi si assiste a una crescente spoliticizzazione dei cittadini, che si manifesta con una indifferenza generalizzata verso i problemi che riguardano la società (a condizione che essi non ledano gli interessi personali). Il crollo delle ideologie, che va accolto con gioia, ha però portato con sé anche il crollo delle idee e degli ideali politici. L’uomo appare ipersensibile di fronte a ciò che lo riguarda personalmente e incredibilmente apatico nei confronti del bene comune. La causa principale di tale atteggiamento è forse la perdita di significato della vita personale e sociale, per cui le persone tendono a rifugiarsi nell’immediato e nell’effimero. Un’altra causa, non meno grave, va ricercata nel disincanto generato dall’immoralità privata e pubblica di molte persone e di tanti gruppi politici. In definitiva la spoliticizzazione di cui si parlava è dovuta, soprattutto, a cause morali e culturali. Una ragione in più per impegnarsi seriamente e con un alto profilo etico nell’ambito dell’attività politica.

    Occorre ribadire ancora che il cristiano coerente non può disinteressarsi di tale attività, non può essere succube della passività o della rassegnazione in questa sfera così importante per il bene di tutti gli uomini. La partecipazione alla vita politica è un diritto e un dovere, che ognuno dovrà assumersi a seconda delle personali competenze e delle proprie condizioni, ma senza cessioni né scoraggiamenti.

     

     

     

     

     

     

    SCHEDA di LAVORO

     

     

    1. Il diritto-dovere del cristiano all’impegno politico

     

    Tutti coloro che partecipano alla vita sociale, vale a dire tutti gli uomini, hanno il diritto e il dovere di impegnarsi in campo politico.

     

    1.1. Il punto di vista della Creazione e Redenzione

    Cristo ha redento tutto l’uomo, anche nel suo essenziale rapporto con gli altri e con la società. La realtà sociale naturale è stata assunta nel disegno redentore. La vocazione dell’uomo alla vita eterna non elimina, anzi conferma il suo dovere e mandato – e il valore – di mettere in atto le energie e i mezzi per sviluppare la crescita umana.

    Il disegno del Creatore include la vita sociale degli uomini (cfr. Gn 2,18). Dio ha chiamato l’uomo a raggiungere la patria celeste tramite l’agire terreno; sicché tutte le attività umane indirizzate a far progredire questa vita corrispondono alle intenzioni del Creatore, e le persone devono compierle responsabilmente.

     

    1.2. Punto di vista della società

    Lo scopo precipuo della politica è il raggiungimento del bene comune. Il dovere di partecipare allo sviluppo del bene comune è un dovere differenziato a seconda del ruolo sociale di ognuno.

     

    1.3. Obbligatorietà dell’impegno politico

    Da ciò derivano il diritto e il dovere di impegnarsi per migliorare la vita pubblica, organizzandola in modo conforme alla dignità di ciascuna persona umana.

    È oggi un diritto ampiamente accettato nella società. Ma è anche un dovere, poiché libertà non significa soltanto mancanza di coazione o indifferenza nell’agire; la libertà è una formidabile energia, una fonte potenziale di progresso che non deve rimanere inattiva, né nelle singole persone, né nelle comunità e nei paesi.

     

     

    2. Elementi che favoriscono un corretto impegno politico

     

    2.1. Finalità dell’agire politico

    Il costante insegnamento della Chiesa è: lo scopo immediato della politica è quello di promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune. Perciò la politica, ad ogni suo livello, non va considerata soltanto come un metodo per costituire, consolidare ed esercitare il potere pubblico; né va vista come una procedura tecnica per il buon andamento di quanto corrisponde alla natura, alla finalità, ai mezzi e alle forme di organizzazione dello Stato.

    La politica è soprattutto un servizio al bene comune, che necessariamente include il bene integrale di ogni persona appartenente ad una determinata società.

     

    2.2. I mezzi dell’impegno politico

     

    a) Dimensione morale della politica

    Il primo “mezzo” dell’attività politica è quello di salvaguardare la sua dimensione morale.

    Infatti, «è nella persona umana, intesa nell’integralità dei suoi diritti e doveri, che deve trovarsi la base di partenza, il punto di incontro e il criterio deontologico per l’agire politico o per agire in politica. Il primato e la centralità della persona umana relativizzano ogni sistema politico e la stessa politica, sottolineandone vigorosamente il carattere funzionale e di servizio».

     

    b) Impegno politico e coerenza cristiana

    La fedeltà morale trova un sostegno particolarmente valido nella vita cristiana: essa insegna l’intera verità sull’uomo e sorregge saldamente la condotta morale delle persone. Perciò la fede si rivela un aiuto di prim’ordine. Le motivazioni religiose della Redenzione annunciata dalla Chiesa possono non essere condivise, ma l’atteggiamento etico che ne deriva costituisce uno dei cardini comuni più forti attorno ai quali si può sviluppare lo sforzo dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà per un cammino da compiere insieme.

     

    c) Inefficacia del comportamento onesto?

    Esiste una diffusa ammirazione, non sempre confessata, per coloro che, comportandosi in modo disonesto negli affari pubblici, tuttavia “la fanno franca”. Parallelamente si ritiene spesso che in ambito pubblico, soprattutto in quello politico, un comportamento onesto non risulti efficace. Da ciò nasce non soltanto l’idea che la politica sia sempre un “affare sporco” — il che accresce la disaffezione per questo ambito —, ma anche la pretesa di giustificare tale comportamento.

    La Chiesa «pensa che occorra, anzitutto, fare appello alle capacità spirituali e morali della persona e all’esigenza permanente della conversione interiore, se si vogliono ottenere cambiamenti economici e sociali che siano veramente al servizio dell’uomo. Il primato dato alle strutture e all’organizzazione tecnica sulla persona e sulle esigenze della sua dignità è espressione di un’antropologia materialistica, ed è contrario all’edificazione di un giusto ordine sociale».

     

    d) Necessità della formazione

    Quanto detto mette in luce la necessità di unire la formazione tecnico-politica con quella morale. Difatti, per tradurre l’impegno politico in un’azione efficace per lo sviluppo sociale, e per maturare una realistica capacità di iniziativa politica, la persona deve acquisire adeguate competenze tecniche e lucidità di discernimento, nonché le necessarie qualità morali.

    È opportuno soffermarci un momento anche su un tema che viene riproposto oggi con una certa frequenza: alle volte si sente dire che i cattolici dovrebbero rinunciare alla propria dottrina quando agiscono in una funzione pubblica: ciò è illusorio e ingiusto. Illusorio, poiché le convinzioni di una persona — derivate o meno da una fede religiosa — influiscono necessariamente su quanto tale persona decide e su come agisce; ingiusto, perché i non cattolici — per quanto si è appena detto — applicano in questo ambito le proprie dottrine. Difatti, tutti i cittadini, siano o meno cristiani, hanno il diritto e il dovere di agire coerentemente con le proprie idee, rispettando le differenze e la dignità di ogni persona.

     

    2.3. Il ruolo dei laici

    Tale missione nell’attività politica è un denominatore comune a tutti i fedeli, ma ognuno deve viverla in conformità con la vocazione ricevuta: sacerdote, religioso o laico. La funzione propria e specifica del laico, anche se non unica né esclusiva, è quella di contribuire alla santificazione delle realtà terrene dall’interno.

     

     

    Conclusione

     

    Tutti i cristiani godono di un’ampia libertà nel loro agire politico; ma non soltanto nell’agire: secondo l’insegnamento appena ricordato del Vaticano II, essi hanno la stessa autonomia per quanto riguarda gli ideali e i progetti da proporre in questo ambito. Anche per questo, nell’impegno di “cristianizzazione” della realtà politica, i laici non sono semplici esecutori, ma creatori di pensiero sociale.

  • 29 Dic

     

    Di fronte al difficile compito della pace, non bastano le parole. È necessario che penetri il vero spirito di pace. Genitori ed educatori, aiutate i fanciulli e i giovani a fare l’esperienza della pace nelle mille azioni quotidiane. Giovani, siate dei costruttori di pace! Uomini impegnati nella vita professionale e sociale, spesso per voi è difficile realizzare la pace. Non c’è pace senza giustizia e senza libertà, senza un coraggioso impegno per promuovere l’una e l’altra. Uomini politici, aprite nuove porte alla pace! Fate tutto ciò che è in vostro potere per far prevalere la voce del dialogo su quella della forza. Fate gesti di pace di pace, anche audaci, poi tessete pazientemente la trama politica, economica e culturale della pace. Il lavoro per la pace, ispirato dalla carità che non tramonta produrrà i suoi frutti. La pace sarà l’ultima parola della storia.

     

    Giovanni Paolo II, 21 dic. 1978

  • 26 Dic

    Signore che abiti e vivi con noi,

    ti preghiamo per la nostra famiglia.

    Aiutaci a conoscerci meglio,

    a comprenderci di più.

    Perché ciascuno si senta sicuro
    dell’affetto degli altri,

    perché a nessuno sfugga la stanchezza
    e la preoccupazione degli altri.

    Rendici capaci di tacere e di parlare
    al momento opportuno, con il tono giusto:

    perché le discussioni non ci dividano
    e il silenzio troppo lungo non ci renda
    estranei l’uno all’altro.
    Signore, liberaci dalla pretesa di imporre
    agli altri il nostro modo di pensare e di vivere.

    Perdonaci quando dimentichiamo
    di essere tuoi figli e amici,

    quando viviamo in casa come se Tu non fossi presente.

    Distruggi l’egoismo e la paura che ci chiudono:

    la nostra famiglia sia disponibile ai parenti,

    aperta agli amici, ospitale per tutti,

    sensibile al bisogno di giustizia e di pace.

    Signore, tienici uniti per sempre

    nella tua Chiesa in cammino,

    perché vediamo sempre il tuo volto e la tua gioia nella famiglia vera, nella comunione perfetta.

    Amen

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