• 28 Gen

    di Attilio Fabris

     

     

    Aprirei questa nostra conversazione con un testo di K. Gibran, poeta libanese, che contiene preziosi luci (è la potenza del linguaggio poetico) per dare avvio al nostro discorso:

    Cantate e danzate insieme e siate felici,

     ma lasciate che ciascuno sia solo.

    Anche le corde del liuto sono sole 

    pur se vibrano con la stessa musica.

    State insieme ma non troppo vicini

    perché i pilastri del tempio sono separati

    e la quercia e il cipresso

     non crescono l’uno all’ombra dell’altro.

     

    La solitudine è qui descritta come condizione perché si possa crescere vicendevolmente divenendo pienamente se stessi, senza tentare di vivere “l’uno all’ombra dell’altro”.

    Difficile scelta perché non ci rassicura, anzi innesca la paura di rimanere senza alcun tipo di appoggio: è per questo che solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie.

    Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla – è il caso dell’esperienza delle grandi religioni e filosofie – con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità del mistero che ci abita, come luogo privilegiato in cui far esperienza dell’Assoluto.

    Essa si presenta perciò come un’esperienza ambivalente-critica che può divenire occasione di di-sperazione come, al contrario, luogo di crescita e di riappropriazione di sé e di autentica apertura all’Altro.

     

     

    1. L’inevitabile solitudine dell’Io

     

    L’etimologia della parola può essere illuminante: la parola “solitudine” trova il suo etimo latino corrispondente nel verbo “se-parare”, parola che rimanda a quella iniziale separazione necessaria anche se dolorosa del nascituro dalla madre. In quel momento la persona inizia la sua avventura da “sola” nel mondo, non più collegata alla madre. Da quel momento la persona intraprende il suo cammino “solitario” nel mondo. E come la nascita segna l’inizio della nostra solitudine così pure l’ultimo respiro segna e conferma drammaticamente che ciascuno è solo al mondo. Consapevolezza faticosa e dolorosa da accogliere perché accettazione del fatto che ciascuno si ritrova “gettato” (per usare il termine haidegheriano) da “solo nel mondo” come essere unico e irripetibile.

    Perciò alla solitudine – per il semplice fatto di nascere e di dover morire – non si sfugge! Sarebbe assurdo perciò rifiutarla e negarla. Con essa occorre “fare i conti” dal primo all’ultimo momento della vita.

    Si prende consapevolezza della propria solitudine quando ci si incontra/scontra, in modo più o meno improvviso, con la propria unicità/diversità/responsabilità dinanzi alla vita. Si tratta di un’esperienza che emerge sempre più imperiosa e talvolta drammatica man mano che la persona avanza nel cammino della vita (la nascita, lo svezzamento, l’asilo, la scuola, l’adolescenza, la giovinezza con i suoi progetti, l’età adulta con le sue responsabilità e sconfitte, la vecchiaia, la malattia, la morte): “si diventa solitari quando si ha l’improvvisa percezione della propria inalienabile solitudine” scriveva il monaco trappista Thomas Merton nel libro intitolato “Pensieri dalla solitudine”.

    Proprio perché inevitabile e situazione nella quale l’uomo si ritrova “solo” al mondo ecco che proprio nella solitudine egli è chiamato a dare una risposta alla domanda essenziale della vita: “Cosa ci sto a fare al mondo? Che senso ha la mia vita?”

     

     

    2. Una solitudine ambivalente

     

    Il discorso si fa più complicato quando si affrontano le modalità con cui ci si rapporta con questa fondamentale situazione di solitudine “esistenziale”.

    Ciascuno cerca modalità a volte estremamente diversificate per tentare di “colmare” a suo modo il “vuoto” derivante dalla propria unicità. Quali le strategie adottate per tentare di uscire dalla solitudine che ci accompagna inesorabilmente? Fatto per la relazione con l’altro ciascuno cerca sin dal principio di uscire (pensiamo solo al neonato) dall’orbita centripeta della sua solitudine (da questa “monade” direbbe Leibniz) entrando in una relazione, in un dialogo con gli altri, col mondo, con Dio. È una ricerca estremamente difficile e ambivalente perché o si riconosce vicendevolmente l’inalienabile solitudine-alterità dell’altro o si ricorrerà a stratagemmi più o meno patologici per inglobare l’altro a sé, fagocitarlo, alla fin fine distruggerlo con la pretesa che egli sia quel tutto che possa riempire la mia vita al prezzo di negargli la sua diversità da me: l’incontro con l’altro è sempre l’incontro con un’altra solitudine. È solo il silenzio che “garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro” (Enzo Bianchi).

    Io in quanto sono “io” devo accettarmi come solitudine chiamata alla comunione con la diversità dell’altro: “il nostro desiderio di amore, anche quando lo viviamo con una persona matura, è sempre in perdita, perché dentro di noi permane un anelito che non deriva da una carenza affettiva, ma da una dimensione incolmabile, da un bisogno che va oltre ogni dose di affetto terreno che riceviamo” (G. Daquino, Bisogno d’amore).

    Comuni a tutti sono i sentimenti e gli stati d’animo (legati in modo particolari a certi passaggi della vita) legati al rimpianto di istanti di pienezza e comunione, allo struggimento per relazioni ormai scomparse, all’ansia d’una ricerca di appartenenza che sembra sempre fatalmente negata (ci si sente sempre fuori posto!), al desiderio inappagato – che a volte diviene aggressivo e violento – di intimità capace di colmare il vuoto della propria vita, all’angoscia che scaturisce dal fatto di ritrovarsi frustrati ed incapaci di vere relazioni: così “sembra che la solitudine del cuore sia così abissale da non essere raggiunta da nessuna voce umana” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Ma vi possono essere sentimenti positivi legati ad esperienze di solitudine: essi generalmente sono vissuti come “peak esperiences” (Maslow), ovvero istanti di pienezza in cui la solitudine non spaventa ma rappresenta al contrario l’instante di un’intuizione felice e piena di un “ritrovarsi immersi” in una totalità nella quale alla persona è dato di toccare, fosse solo per un momento, la gioia di essere se stessi nel mondo. È nel silenzio misterioso di chi è immerso nella natura, o sotto la cupola infinita delle stelle, o all’ombra delle volte di una grande cattedrale, o il silenzio dolcissimo colmo di parole non dette che intercorre tra innamorati, o il silenzio dolce della madre che tiene tra le braccia il suo bambino, o del monaco in preghiera nella notte nel silenzio della sua cella.
    Dunque la risposta alla solitudine non è per nulla scontata. Essa per essere costruttiva esige un ascolto della propria coscienza e una conseguente maturità che porti in un primo tempo a riconoscere e in secondo tempo a dare significato e spessore a questa solitudine “esistenziale”. Un percorso non facile e di maturazione della propria libertà e responsabilità.

    Non meraviglia perciò il fatto di constatare tante risposte se non abnormi e patologiche il più delle volte insoddisfacenti e talvolta addirittura distruttive.

     

     

    3. La solitudine “ vuota”

     

    Uno sguardo attorno a noi ed in noi ci porta a riconoscere che questo percorso è reso oltremodo difficile, a volte culturalmente e socialmente insormontabile: alla solitudine “esistenziale” l’uomo della nostra cultura occidentale non sa più dare, e non è più aiutato a dare!, una ragione e una risposta (dia 7).

     Li abbiamo tutti sotto gli occhi: bambini lasciati soli davanti alla TV e sballottati da un genitore all’altro, famiglie in cui ristagna solo una pesante cappa di silenzio,  vecchi abbandonati negli ospizi, malati relegati in anonime corsie di ospedale, ragazzi sprofondati nella solitaria prigione del loro walkmann o del loro videogioco, il disoccupato disperato,  il divorziato che si ritrova a far i conti col fallimento di una vita, il gruppo anonimo degli ultrà o il gruppetto muto e spaesato dei ragazzi del muretto, il senza-casa o l’extracomunitario in fila per il pasto…è un panorama desolante che si incontra ogni giorno!

    La solitudine-isolamento è il male della nostra “città”. Il rumore e una musica banale è il continuo sottofondo per riempire il silenzio.

    La soluzione è più che altro cercata all’interno di orizzonte inconcludenti e vuoti, realtà apparentemente piene di immagini e di suoni e di parole ma in realtà estremamente vuote: il denominatore comune è dato dal costante sforzo di fuggire-evitare- sopprimere la solitudine, il silenzio, in un’angoscia del non “dover-mai-restare-soli”.

    A questo fine tutto può essere usato: dipendenze da alcol e droga o altro, comportamenti compulsavi (internet, cell., shopping, gioco d’azzardo, a surrogati di vario tipo: il lavoro…).  Queste piste di soluzione rischiano di sprofondare la persona nell’inferno di un grave disagio che può evolversi in malattia psichiatrica vera e propria.

    Culturalmente e socialmente si è esasperato il soggettivismo (e dunque l’individualismo) con la conseguenza  che si è ancor più esasperato l’orizzonte della solitudine. Le relazioni sentite come necessarie sono vissute più che altro in funzione dell’io, in un contesto spesso di rivalità e competizione, di predominio. Galimberti commenta questa situazione: “Nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione e al tempo stesso impossibile perché, nella realizzazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma attraverso l’altro, la realizzazione do sé” (Le cose dell’amore). L’uomo alla fin fine cerca “solo se stesso”: e la conclusione inevitabile di questa tensione esasperata è lo sprofondare in una solitudine sempre più vuota, nella quale è precluso ogni autentico incontro di sguardi e si riscontra un’assenza di parola vera capace di intessere dialogo: “Non ci si angoscia per “questo” o per “quello”, ma per il nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il nulla all’ingresso e all’uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere” (Galimberti, Le cose dell’amore).

    Spietata nella sua crudezza, l’analisi che di questa situazione faceva già a suo tempo  F. Nietzsche ne “La gaia scienza”: “Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non abita su di noi uno spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Non è forse proprio nella notte che soprattutto i giovani, in masse anonime, cercano di fuggire alla loro solitudine ricorrendo allo “sballo” delle droghe, dell’alcol, del sesso, della violenza, della sfida al pericolo? Non è forse nella notte che le angosce più profonde assalgono all’improvviso il cuore togliendo la voglia di vivere?

    Un complesso musicale degli anni ’70 cantava un motivo di successo: “Tutta mia la città: un deserto…”. (Equipe 84). La “città” paradossalmente assurge sempre più a un deserto senza vita, senza colore, dove gli sguardi non si incrociano, una folla anonima senza direzione, dove non esistono parole ma solo comunicazioni di servizio, silenzio pesante e vuoto che impermea il caos rumoroso del traffico. La città è il deserto “vuoto” e sterile, senza punti di riferimento e in cui si corre a vuoto, intorno a se stessi e senza destinazione(il quadro di Munch, “L’urlo” ne potrebbe essere emblematica icona).  

     

     

    4. La sfida del deserto

     

    Tuttavia la coscienza attenta percepisce che il dramma della solitudine può trasmutarsi in  portatrice di certo temibili ma quanto salutari! rivelazioni. Essa potrebbe far emergere, più o meno violentemente, le proprie paure, i propri vuoti e conflitti, che nella vita quotidiana si cerca continuamente di mettere a tacere e di non affrontare perché scomodi, dolorosi, bisognosi di risposta e cambiamento.

    Accettare di entrare nella solitudine equivale ad accettare d’entrare in battaglia con i “nostri demoni”, obbligando la nostra coscienza ad assumere la propria libertà e responsabilità nei confronti della direzione da imprimere alla nostra vita. Si tratta di una vera e propria discesa nel “profondo” del cuore per scoprirvi la radice del senso della vita. Ci si dirige verso il luogo in cui si è collocati dinanzi all’essenziale! “Solo la solitudine permette all’uomo di scoprire, e dunque di affrontare, tutte le forze oscure ch’egli porta in sé. L’uomo che non sa restare solo, non sa neppure (e oscuramente non vuole) riconoscere, in fondo al suo cuore, i conflitto ch’egli si sente incapace di mettere a nudo, o anche solo di sfiorare. La solitudine è una prova terribile, perché fa scricchiolare ed andare a pezzi la vernice delle nostre sicurezze superficiali: essa ci scopre gli abissi sconosciuti che tutti portiamo in noi stessi. E, afferma la tradizione degli antichi monaci, essa ci scopre che questi abissi sono infestati: non sono soltanto le profondità della nostra anima, ignorate da noi stessi, che noi scopriamo, ma anche le potenze oscure che vi sono come rimpiattate, e di cui noi resteremo fatalmente schiavi fino a quando non ne avremo preso coscienza. E, a dire il vero, questa coscienza ci schiaccerebbe se non fosse illuminata dalla luce della fede. Solo il Cristo può impunemente scoprirsi “il mistero di iniquità”, perché egli solo, oggi in noi come una volta già per noi, può affrontarlo con successo” (L. Bouyer, Spiritualità dei Padri).

    Nella tradizione biblica e spirituale cristiana il deserto, la solitudine, assurge a luogo di una duplice rivelazione: quella di Dio e quella del male. Nella storia della spiritualità il deserto è il luogo della lotta con il demonio (cfr Vita di Sant’Antonio) perché nella sua essenzialità smaschera inevitabilmente tutti quei “demoni-mostri” che, in altri contesti, subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza e la governano.

    Intravediamo in questa disponibilità ad entrare in contatto, attraverso la solitudine, con le profondità del nostro essere. Questa è la condizione perché si recuperino quelle dimensioni che sono tipicamente “umane”: la riscoperta della libertà, della responsabilità dinanzi alla vita, del suo senso ultimo.

     

     

    5. Opportunità di crescita

     

    (dia 11). Se l’uomo si ritrova oggi sprofondato in queste solitudini per la maggior parte subite, sofferte, rifiutate è saggio e doveroso chiedersi: che fare per aiutare la persona ad affrontare la propria solitudine, a leggerla in modo costruttivo, a saperla utilizzare per il proprio sviluppo umano e spirituale?  Non potrebbe l’esperienza del vuoto e dell’angoscia trasformarsi in occasione (“crisi”) per intraprendere nella propria vita percorsi diversi che vadano in profondità, che rieduchino e risveglino le domande vere e i bisogni più profondi che nascono solo dall’ascolto della coscienza? L’uomo contemporaneo proprio perché frastornato, “sfilacciato”, “di-sperso”, nel rumore e nell’anonimato, nei suoi frustranti tentativi di colmare inutilmente il proprio disagio ha bisogno di riscoprire urgentemente proprio dentro la sua solitudine il luogo e l’occasione per ritrovare se stesso, cessando di vivere da “alienato” ovvero fuori di sé. Bernardo di Chiaravalle monaco cistercense affermava con lucidità che: “Dio non discorre con quelli che stanno al di fuori di se stessi” (Lettere, 107).

    Così la solitudine può trasmutarsi in trampolino per un balzo verso la ricerca della verità, e quindi verso il bene, il buono e il bello. Essa diviene possibilità in cui all’uomo è offerto di aprirsi alla consapevolezza di essere fatto per “un oltre” che “va al di là” di quel “soggettivismo-individualismo-relativismo” che ci impregna e costringe all’isolamento.

    Perché questo accada non rare volte si necessita di un evento che sia traumatico, un elettroshok spirituale..  Nella vita di ciascuno giunge quasi sempre – c’è da augurarselo! – il tempo di smettere di fuggire da se stessi – fosse pure negli ultimi istanti della vita – e di entrare nella tragedia-dramma della “propria” solitudine ovvero in quella grazia del ritrovarsi – finalmente – di fronte al mistero di  se stessi e dell’Altro. Qui si attua – se si fa in verità – un giudizio spietato, e talvolta dall’esito drammatico, sulla propria vita!: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.

    Nel “deserto” luogo dove si “spengono le luci e i colori del mondo esterno, per rivolgere lo sguardo verso l’interno” (P. Evdokimov) ci troviamo faccia a faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano alle nostre precostituite, illusorie, compromettenti immagini di noi stessi. (dia 13).Qui si offre un’opportunità preziosa per imparare l’essenziale, ovvero a discernere ciò che conta da ciò che non conta: “La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura, né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore” (T. Merton)

    Nel silenzio e nella solitudine del deserto si è obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento nelle nostre paure e angosce, o l’aprirci fiduciosi alla promessa e alla speranza che ci pone in cammino. Il deserto pone in uno stato di perenne tensione, di pellegrinaggio, obbligando a fissare lo sguardo fuori di noi all’orizzonte cercando sempre al di là. Non ci si può fermare nel deserto, pena la morte: si è obbligati o ad avanzare o a tornare indietro!

    In questo avanzare pellegrini nella solitudine è racchiusa una promessa di un tesoro che non è immediato e alla portata di mano, esso esige il lento, faticoso e paziente scavo nelle “profondità del proprio cuore”, perché liberato da tutte le macerie e i rottami di una vita inconcludente si apra alla rivelazione di un nuovo modo di guardare alla vita che passa attraverso la griglia dell’essenzialità e la categoria dell’eterno: il frutto è la pace interiore di un orizzonte sconfinato che si apre dinanzi alla propria libertà.

     

     

    6. Una proposta

     

    Da quanto detto appare chiaro come la fede biblica non debba e di fatto non annulla la solitudine “esistenziale” in cui l’uomo è collocato sin dall’inizio. Essa tuttavia all’interno della rivelazione si pone come una premessa in vista di un progetto di comunione per cui l’uomo è stato creato: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,21). La spiritualità biblica assume e riconosce la solitudine come situazione nella quale all’uomo è riofferta l’occasione di ritornare (“convertirsi”) a ciò per cui è stato creato.

    Tutta la spiritualità cristiana (pensiamo all’esperienza del monachesimo o all’esperienza degli Esercizi Spirituali) ben utilizza la solitudine some strumento, mai fine a se stesso!, per imparare a leggere nelle proprie nostalgie, ansie, paure, desideri più profondi un invito alla trascendenza per cui siamo stati fatti. Nel silenzio il cuore può parlare e dire ciò che più desidera senza la tentazione di fuggire a se stessi. Un motto monastico intuiva questo risvolto quando ripeteva: “O solitudo vera beatitudo”.

    Così la solitudine da nemica diviene amica irrinunciabile al fine di aiutarci a dare spessore e scopo alla vita quotidiana fatta di tante cose da fare, da mille contraddizioni da affrontare, di mille problemi da risolvere. Non diviene fuga ma luogo in cui ritrovare il bandolo della matassa e non sperdersi nei meandri della cose. Diviene maestra di “umanizzazione” in quanto insegna a riaccostarsi alla verità di se stessi senza fuggirla, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea“.

    E un grande testimone contemporaneo della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.

    Sono convinto della necessità di dare vita a “laboratori di umanizzazione” in cui alle persone che lo richiedono possano trovare un contesto fatto di luoghi e persone che siano di aiuto nell’insegnare a riprendere contatto con se stesse e con il Mistero.

    Rientra tutto questa proposta quell’emergenza educativa di cui oggi molto si parla, e a ragione! Alle coscienze troppo ottenebrate, distolte dall’essenziale, fagocitate da una società del consumo e del potere che trova enormi interessi a far sì che l’uomo disimpari a pensare e riscoprire la propria libertà e responsabilità, è urgente offrire loro la possibilità di rieducarsi anche attraverso il silenzio e  la solitudine al fine di saper riascoltare se stesse, al riprendere contatto con il proprio “io”.

    Urgenza da offrire soprattutto alle nuove generazioni che stanno vivendo e incontreranno disagi non indifferenti nel prossimo futuro, ma da offrire anche a non pochi adulti che ad un certo punto della loro cammino spesso domandano di essere aiutati a riprendere il “filo della matassa” della loro esistenza sfilacciate da sofferenze, abbandoni, sconfitte, malattie…

    Le comunità cristiane e in particolar modo quelle religiose e soprattutto quelle contemplative dovrebbero essere impegnate in questo in prima fila nella consapevolezza che quest’opera di rieducazione dell’ascolto della coscienza è la premessa indispensabile se si desidera poi procedere ad una significativa proposta di apertura alla fede.

     

     

    Bibliografia

     

    Sant’Atanasio, Vita di sant’Antonio-Lettere, ed Paoline, Milano 1995

    L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, EDB , Bologna 1968

    San Bruno; Lettera a Rodolfo il Verde, PL 154,421

    E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2001

    E. Borgna, Noi siamo un colloquio, feltrinelli, Milano 1999C.

    C. Carretto, Lettere dal deserto, La Scuola, Brescia, 1975

    S. De Fiores, Deserto, in “Nuovo dizionario di Spiritualità”, ed Paoline, 1975

    U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2005

    U. Galimberti, Psiche e tecne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999

    A. Grun, Lacerazioni. Il cammino verso l’unità personale, ed. Messaggero, Padova 2003

    M. Melenso, Passione per la vita, ed. CVX, Roma 1997

    Un Monaco, L’eremo-spiritualità del deserto, Queriniana, Brescia, 1976

    Posted by attilio @ 12:41

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