• 27 Mar

    LA PREGHIERA APOSTOLICA

    (Prima lettera ai Tessalonicesi 1,2-3)

    di Lyonnet


    Il lettore che dia una scorsa alle lettere di San Paolo rimane probabilmente sorpreso dal posto che vi occupa la preghiera, specialmente quell’aspetto particolare di essa che si potrebbe chiamare la preghiera apostolica: questa, essendo essenzialmente legata all’apostolato, non solo da esso trae la sua origine e trova in esso il suo alimento, ma lo prepara, lo accompagna, e persino lo supplisce (1).


    S. Paolo, per limitarci a un esempio, nei cinque capitoli della prima lettera indirizzata alla comunità di Tessalonica, ricorda questa preghiera non meno di cinque volte: Rendiamo grazie a Dio in ogni istante per voi tutti, quando vi ricordiamo nelle nostre preghiere. Ripensiamo senza posa, alla presenza del nostro Dio e Padre, all’attività della vostra fede, alla fatica della vostra carità, alla costanza della vostra speranza, che sono l’opera di nostro Signore Gesù Cristo (1,2-3).

    Ecco perché noi pure non cessiamo di render grazie a Dio, perché voi, una volta ricevuta la parola di Dio…, l’avete accolta non come una parola d’uomo, ma, quale essa è realmente, la parola di Dio (2,13).

    Come potremmo rendere a Dio grazie sufficienti riguardo a voi, per tutta la gioia di cui voi ci fate lieti davanti al nostro Dio? Notte e giorno gli domandiamo con estrema insistenza di rivedere il vostro volto e di poter completare ciò che ancora manca alla vostra fede (3,9-10).

    E alle preghiere di Paolo i fedeli devono aggiungere le proprie: Pregate senza posa. In ogni cosa state nell’azione di grazie… Pregate anche per noi (5, 17-25 ) (2).
    Preghiere di ringraziamento o di domanda; preghiere di Paolo o dei fedeli: tutte sono preghiere ‘apostoliche’; ogni volta ne viene specificato l’oggetto: si tratta sempre del regno di Dio che dev’essere incrementato
    .

    La preghiera di Paolo non solo è incessante, continua, come deve essere quella di ogni cristiano «notte e giorno» (1Tess. 2,9), – ma si rivolge a Dio con estrema insistenza: l’avverbio, intraducibile («supereccessivamente»), creato probabilmente dall’Apostolo, è usato un po’ più avanti nella stessa lettera (5, 13) per dire la stima in cui i cristiani devono tenere i loro superiori, e in Ef. 3,20 per qualificare la potenza di Dio, capace di esaudirci «infinitamente più di quanto noi possiamo domandare o concepire». È chiaro che qui Paolo vuol esprimere qualcosa dell’intensità della sua supplica.


    Già questo suggerisce che per lui la preghiera è una specie di lotta, di combattimento che l’uomo ingaggia con Dio. Certo è che in altri passi San Paolo non ha esitato ad usare tale termine. Alla fine della lettera ai Romani, riprendendo dopo lunghe esposizioni teologiche il tono confidenziale dell’amicizia, confessa ai fedeli di Roma l’inquietudine che lo tormenta. Li supplica che preghino secondo le sue intenzioni, affinché sfugga alle imboscate dei Giudei, e perché le elemosine raccolte con tanta cura tra le chiese dei gentili siano accettate di buon grado dalla chiesa-madre di Gerusalemme: «Ve lo domando, o fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e per la carità dello Spirito, lottate con me nelle preghiere che per me indirizzate a Dio» (Rom. 15,30).


    Nella lettera ai Colossesi lo stesso verbo caratterizza la preghiera di Epafra, il fondatore della chiesa di Colossi (Col. 1,17), per quelli che ha istruito: «Epafra, vostro compatriota, vi saluta: questo servitore del Cristo Gesù non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, affinché voi siate fermi, perfetti e decisi in tutti i voleri divini» (Col. 4,12). Anche all’inizio del capitolo secondo in un contesto simile ritorna la stessa immagine. Tutto effettivamente, e in special modo il passo parallelo di 4,12, fa capire che Paolo intende parlare dell’attività apostolica che egli, come Epafra, esercita per mezzo della preghiera e come preghiera. Prigioniero a Roma e lontano da Colossi, che è nell’Asia Minore, egli ha cura di informare i suoi destinatari che non cessa di essere attivamente il loro apostolo: «Poiché desidero che voi sappiate quale lotta io combatto per voi e per quelli di Laodicea – ai quali chiede che la sua lettera sia trasmessa (4, 16) e per tanti altri che non mi hanno mai visto con i loro occhi» (2, I). Paolo sicuramente concorre alla loro «edificazione nel Cristo» con tutta la sua vita di prigioniero e segnatamente con le sofferenze. che per essi sopporta «completando nella sua carne ciò che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1,24).

    Ma in tale attività apostolica del «prigioniero» la preghiera ha il suo posto, come l’aveva in quella di Epafra. Orbene, anche qui Paolo parla di una lotta che l’apostolo sostiene con Dio per la salvezza delle anime che gli sono affidate.
    Concezione ardita, ma perfettamente in accordo con l’insegnamento del vangelo, quale si ha, per esempio, nella parabola dell’amico importuno (Lc. 11, 5-8), la quale non dimentichiamolo, appare come un commento del Pater, cioè dell’insegnamento di Cristo sulla preghiera (3). E il Cristo non faceva altro che riprendere a sua volta la dottrina che la Bibbia si sforzava di inculcare fin dall’inizio. Si pensi alla preghiera di Abramo in favore di Sodoma e Gomorra, la prima che si incontri, come se dovesse servire da modello a tutte le altre (Cen. 18,17-39), oppure alla grande preghiera di Mosè (Es. 32, 11 – 14 e 30-32), quando, «prostrato davanti a Jahvé per quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane né bere acqua» (Deut. 9,18 e 25), intercede per il popolo di Israele. Cristo, novello Mosè, inaugurerà lui pure la sua carriera messianica, subito dopo il battesimo, con un soggiorno misterioso di quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, nel digiuno e – senza dubbio nella preghiera; soggiorno che S. Matteo chiaramente accosta alla solenne intercessione di Mosè sul Sinai nell’atto di concludere la prima alleanza (Mt.4,2).


    Né Cristo né San Paolo hanno esitato a insegnare che Dio vuol essere quasi importunato dalle nostre preghiere e lasciarsi strappare a viva forza, si direbbe, ciò che gli domandiamo. Così facendo essi si sono tenuti nello spirito della più pura tradizione biblica, che non rifugge dai paragoni più audaci. Si pensi che i Padri hanno visto nella lotta di Giacobbe coll’angelo di Jahvé raccontata nel Genesi (32,23-33) una immagine dell’efficacia della preghiera.


    Non bisogna però dimenticare che si tratta di espressioni paraboliche
    , di cui si deve precisare il significato. Col pretesto della fedeltà alla Scrittura si potrebbe lasciar capire che l’uomo con la preghiera si propone di piegar Dio a volere ciò che prima non voleva, come se la creatura potesse esercitare un’azione su Dio stesso, o come se Dio non fosse il padre pieno di amore, sempre disposto a dare ai suoi figli ciò che loro conviene (4), infinitamente più sollecito del loro vero bene che di nutrire gli uccelli del cielo o vestire i gigli del campo (5). Ciò equivarrebbe ad attentare a due prerogative del «Dio vivente», la trascendenza e l’amore, che la Bibbia presa nel suo insieme – poiché il Nuovo Testamento spiega l’Antico – sembra gelosa di salvaguardare più di ogni altra cosa.


    Se Paolo, fedele all’insegnamento di Cristo e della Bibbia, si compiace di designare la preghiera come una lotta che l’uomo sostiene con Dio, lo fa sicuramente per sottolineare la necessità
    . Orbene, è possibile fare ciò senza togliere nulla né alla trascendenza di Dio né al suo amore. Il problema non è solo di oggi, e già in passato eccellenti soluzioni furono proposte soprattutto da parte di Sant’ Agostino. Il suo insegnamento fu poi ripreso da San Tommaso in formule di particolare limpidezza; per esempio nel Compendio di Teologia rimasto incompiuto, in cui verso la fine spiega insieme «la necessità della preghiera e la differenza tra la preghiera che si rivolge a Dio e quella che si rivolge a un uomo»: Rivolta a un uomo la preghiera si presenta anzitutto per esprimere il desiderio di colui che prega e la sua indigenza e in secondo luogo per piegare il cuore di colui che si prega fino a farlo cedere. Quando invece si prega Dio…, non intendiamo manifestare i nostri bisogni o i nostri desideri a lui, che conosce tutto… Ancor meno intendiamo piegare con parole umane la volontà divina a volere ciò che prima non voleva… Ma, per ottenere qualcosa da Dio, la preghiera è necessaria all’uomo in ragione di colui stesso che prega per mezzo di essa egli si rende capace di ricevere (6). L’efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un’azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci.


    Perciò non si deve temere di essere importuni. Infine la sola cosa che possiamo domandare nelle nostre preghiere è il pieno compimento della volontà divina: «venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; ma, proprio perché essa si compia, non è indifferente che noi preghiamo, perché ciò costituisce la parte di collaborazione della nostra libertà, che Dio rispetta sempre in modo sovrano.
    Naturalmente ciò che San Tommaso afferma della preghiera che il cristiano indirizza a Dio per se stesso si applica a ciò che l’apostolo indirizza a Dio per le anime a lui affidate; Dio vuole servirsi di noi per l’espansione del suo regno e cioè, concretamente, per procurare la salvezza e la santificazione dei nostri fratelli, specialmente di quelli di cui ci ha fatti responsabili a un titolo particolare. Ora noi, così come siamo, non siamo strumenti adatti ad essere utilizzati da Dio: la preghiera – ogni preghiera, ma specialmente quella che indirizziamo a Dio per queste anime – permette a lui di servirsi di noi per comunicar loro i suoi doni secondo il piano della sua sapienza.


    È pur vero che la preghiera possiede ugualmente un’efficacia generale in virtù della comunione dei santi, ma ciò che abbiamo detto ci fa comprendere meglio, mi sembra, perché San Paolo attribuisce tale posto alla preghiera di intercessione – azione di grazia e di domanda, correlative l’una dell’altra – e perché nella sua fedeltà alla più pura tradizione biblica egli la concepisce volentieri come una lotta che l’Apostolo combatte con Dio in favore della missione stessa che gli ha assegnato. Quindi la preghiera, essendo effetto essa stessa della grazia di Dio, non esercita su di lui alcuna pressione, non mira affatto a cambiare la volontà di Dio, che non può essere se non una volontà d’amore, ma ha per fine di rendere lo strumento apostolico atto a compiere la parte di strumento di Dio e di permettere così a Dio di realizzare in noi e nell’umanità intera i suoi disegni d’amore. Una tale preghiera, lungi dall’entrare in conflitto con le «necessità dell’azione», trova piuttosto in questa la sua ragion d’essere: parte integrante quale essa è del nostro compito apostolico, se manchiamo ad essa manchiamo alla parte più importante del nostro dovere di apostoli.

    [1]. Nella rivista «Christus» n. 10 (1958), pp. 222-229, si troverà un’esposizione un po’ più ampia delle stesse idee.
    [2].
    Vedere anche, tra i molti altri esempi, 2 Tess. 1,3 e 11; 2,13; 3,12; oppure 2 Cor. 1,2-4 e 11; 2,14; 8,16; 9,15; 12,7-9; 13,7-9 e 14.
    [3].
    Lc.11,1-4. La stessa dottrina si trova anche nell’episodio della Cananea, Mc. 7,24-30; Mt.15,2I-28.
    [4].
    Lc. 11,11-13; Mt.7,9-11.
    [5].
    Lc. 12,22-31; Mt.6,25-34.
    [6].
    Compendium Theologiae II 2.

  • 10 Mar

    La discendenza: Una promessa confermata

    Gn 18,1-16a

    di p. Attilio Franco Fabris

    Abramo esce dall’incontro con Dio confermato ma confuso: egli ha già un figlio, Ismaele, circonciso su richiesta di Dio per entrare nell’alleanza, ma l’alleanza Dio non la farà con lui ma col figlio che non è ancora nato e che è solo promesso.

    Dio ora riconferma la promessa. Abramo ne ha bisogno!

    Tre visitatori alla tenda di Abramo: vv. 1-8

    E’ la terza volta che Dio appare ad Abramo.

    L’incontro ha luogo “alle querce di Mamre” dove Abramo si era stabilito e dove aveva costruito un altare al Signore (15,18).

    Abramo è seduto alla porta della tenda verso la metà giornata. “ed ecco…”  è una sorta di sorpresa vedere questi tre viaggiatori. Che ci fanno in giro con tutto questo caldo? Da dove vengono? Dove stanno andando?

    Nella cultura orientale e soprattutto nomade l’ospitalità rappresenta una dei doveri (e diritti) principali, connotata da caratteri fortemente religiosi. L’ospite ha diritto di essere accolto e difeso: “l’ospite è sacro”.

    Abramo che fa? “Corse loro incontro… e si prostrò a terra”: i due verbi sottolineano l’ospitalità di Abramo. Si corre incontro come ad uno di famiglia che torna da un viaggio, ci si prostra in segno di rispetto. Qui Abramo adora Dio, senza saperlo “Mio Signore!”.[1]

    Segue il pressante invito, rivolto al singolare, come mai? Si sta rivolgendo a colui che sembra il capo? Il testo gioca molto su queste ambiguità di forme verbali.

    Egli promette “un po’ d’acqua e un boccone di pane” ma sapremo che non sarà così. Abramo al modo orientale vuol fare l’umile per manifestare poi la sua magnanimità e generosità.

    La preparazione del pranzo è concitata e premurosa “si affrettò… Presto!… corse… si affrettò…”. La qualità del pranzo è straordinaria. Abramo prende “fior di farina” che è la farina richiesta per le offerte cultuali (cfr Lv 24,5) e prende addirittura “un vitello tenero e gustoso”. La quantità è esorbitante: sono “tre staia” (1 staia = otto litri). Abramo fa la sua parte di accoglienza e di padrone, Sara rimane in penombra a lavorare in cucina. Il pranzo viene servito. Abramo sta in piedi come un servo pronto a rispondere alle esigenze dei visitatori. E quelli “mangiarono”. Che si saranno detti nel frattempo?

    Abbiamo perso molta di questa cultura dell’accoglienza. L’altro, soprattutto se sconosciuto, che bussa alla porta ci infastidisce, ci obbliga a cambiare i nostri piani. Spesso ci sentiamo minacciati. L’altro da amico da accogliere diviene un “estraneo” da cui difendersi. E’ cultura dell’isolamento.

    La promessa confermata e derisa: vv. 9-16a

    Il pranzo termina e ha inizio la conversazione che rivela il motivo di quella visita inaspettata.

    La prima domanda è retorica: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Essi ovviamente sanno dov’è, ma fanno intendere l’oggetto della conversazione.

    Il testo continua al singolare: “Tornerò di sicuro da te, tra un anno (lett. al tempo della vita, ovvero del rinnovamento) e Sara avrà un figlio”.[2]

    Sara, “al quale da tempo erano cessato ciò che accade regolarmente alle donne”!, ovvero molto anziana, sterile, senza menopausa, sta ascoltando. Ella si mette a ridere “dentro di se”: la sua reazione è più che comprensibile. Fra se dice: “Proprio adesso che sono vecchia dovrò provare piacere?” (Di che piacere si tratta, del figlio o dal marito?).

    Dio reagisce al riso-dubbio di Sara. “C’è forse qualcosa (una parola) che sia impossibile per il Signore?”. Ecco la fede: credere l’impossibile possibile![3]

    Sara non esita a smentire, nega, nemmeno lei è perfetta. Lo fa per paura e vergogna.

    Il dialogo continua a vertere ironicamente (!) sul “ridere”, preannunciando in sottofondo la nascita di Isacco (= colui che ride).

    Ora Abramo e Sara non possono fare proprio nulla, non resta a loro che credere (vv.9-16a). Messi con le spalle al muro vivono il passaggio dal “fare per” al “ricevere da”.[4]

    Alla fretta della loro soluzioni umane, dettate dalla paura e quindi fragili e anch’esse sterili, Dio contrappone la sua azione che non può non essere feconda e stabile “come il cielo”.

    I nostri progetti sono anch’essi il più delle volte fragili, di breve durata. Scaturiscono dalla fretta e dalla paura: sono il più delle volte intrapresi al fine di “salvare noi stessi”. Essi per divenire autentici e fruttuosi non possono non scaturire dall’ascolto della Parola. E’ la Parola il germe, la fonte, da cui tutto deve trarre energia e vita vera.


    [1] Ebrei 13:2 Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.

    [2] Romani 9:9 Queste infatti sono le parole della promessa: Io verrò in questo tempo e Sara avrà un figlio.

    [3] Luca 1:36-37 Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio».

    [4] Romani 4:19-22 Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.

  • 08 Mar

    LE LEGGI DEL CAMMINO

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nelle fiabe a chi si mette in cammino per terre sconosciute vengono date sempre alcune precise raccomandazione da osservarsi scrupolosamente.

    Potremmo così enucleare anche noi alcune leggi che dovrebbero regolare il nostro cammino umano e spirituale:

    Ne accenno alcune:

    – vinci la paura

    – vinci il rimpianto

    – vinci la comodità

    – vinci la pretesa autosufficienza

    – vinci il sogno e la violenza

    VINCERE LA PAURA

    In ciascuno di noi esistono due spinte, due forze contrastanti. E’ l’esperienza che ci racconta Paolo nella lettera ai cristiani di Roma. Una forza di vita e una di morte che fratturano dolorosamente l’uomo. Possiamo chiamare queste forze:

    – il bisogno di crescere, di camminare, di progredire verso la pienezza

    – la paura di farlo che blocca il cammino.

    (Cf es. la paura di montagna…)

    Più volte nella nostra vita abbiamo sperimentato questo conflitto, tipico dell’età adolescenziale, ma che può permanere in certa misura, in chi più e chi meno, anche nell’età adulta.

    Sentiamo infatti il bisogno di migliorare, di crescere in quegli aspetti che avvertiamo carenti soprattutto nella nostra relazione con gli altri, con Dio e con noi stessi, di crescere nel cammino vero la nostra unificazione…

    Ma ecco che questo nostro desiderio viene a scontrarsi con innumerevoli ostacoli. Essi sono parte inevitabile del cammino della vita: “T’imbatti in rocce, valli, precipizi, scogli, tronchi, fiere, rettili, spine: devi tribolare per un poco ma poi li superi e vai avanti” (Basilio, sul salmo 1). Oppure sono ostacoli riconducibili alla nostra natura mortale, e di peccatori, oppure si debbono ricercare in noi stessi nelle nostre paure

    La paura ci blocca. Lasciandoci però in fondo al nostro essere una profonda insoddisfazione e nostalgia:

    “Molte volte ho studiato

    la lapide che mi hanno scolpito; una barca con vele ammainate, in un porto.

    In realtà non è questa la mia destinazione, ma la mia vita.

    Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

    il dolore bussò alla mia porta, io ebbi paura;

    l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

    Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

    Ma adesso so che bisogna alzare le vele

    e prendere i venti del destino

    dovunque spingano la barca.

    dare un senso alla vita può condurre a  follia

    ma una vita senza senso è la tortura

    dell’inquietudine e del vano desiderio – è una barca che anela al mare eppure lo   teme” (Masters, Spoon river, “George Gray”).

    Se partiamo dalla constatazione che camminare nella vita comporta inevitabilmente il salpare verso il mare che si teme, e che ciò significa inevitabilmente distacco, una morte, non ci meravigliamo allora che incontriamo un po’ di paura…

    Sintomo della paura è la nevrosi: possiamo definire il nevrotico come colui che “vuole continuare ad essere il bambino”, essere protetto e coccolato e difeso dalle insidie della vita. Egli ricorrerà a numerose manovre di salvataggio (l’eterno studente, l’indeciso…). Denominatore comune la paura e la noia, colta questa come uno stato di sospensione, un “vorrei ma ho paura”.

    Il progredire comporta la capacità di cambiamento che  suppone un affidamento fiducioso al futuro nella speranza. Ed ecco che questo futuro ci appare sempre insicuro, incerto. In questa direzione anche Gesù nell’orto del Getsemani, come uomo, sente la paura: “Gesù cominciò a sentire paura e angoscia” (Mc 14,33).

    Per noi tante volte risulta più rassicurante rimanere ancorati a riva, nel porto.

    “Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco gli egiziani muovevano il campo dietro di loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura, e gridarono al Signore. Poi dissero a Mosè: Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?” (Es 14,10-12).

    “Perché avete paura uomini di poca fede?” (Mt 8,26)

    “Per paura andai a nascondere il mio talento sottoterra” (Mt 25,26)

    “Tutti” i discepoli al momento cruciale della passione abbandonano Gesù e fuggono (Cf Mc 14,50).

    Ciascuno deve fare i conti con le sue paure.

    VINCERE IL RIMPIANTO

    Ciò che blocca tante volte il cammino, il cambiamento è la nostra “memoria affettiva” che ci fissa su un determinato passato, vissuto come piacevole o spiacevole, obbligandoci a ripeterlo infinitamente in noi. Ci “giriamo intorno”.

    Un bambino che perde sua madre sarà sopraffatto da un immenso dolore. Il dolore può essere represso e dimenticato. Ciononostante esso continua a influenzare la vita di questo bambino ora diventato uomo: potrà trovare difficile legarsi alle persone per paura di perderle, oppure potrà sentirsi incapace di accettare l’amore che gli viene offerto, oppure perderà gradualmente ogni interesse per la gente e per la vita in generale, perché emotivamente non s’è staccato dalla tomba di sua madre, si rifiuta di lasciarla andare via, pretende da lei un amore che non può più dargli.

    Si tratta allora di intraprendere un cammino di guarigione della nostra memoria. (A.Gentili, Dio nel silenzio, 96ss). “Sensazioni e immagini, pensieri e aneliti dello spirito confluiscono in quel “ventre dell’anima” che è la memoria (Agostino).

    Questa nostra memoria che è parte integrante di noi stessi, sedimentazione del nostro passato e che influisce sul presente e sull’avvenire. La nostra memoria è malata. nei suoi antri, nelle sue caverne, nei suoi segreti ripostigli vi sono raccolte e impresse, oltre a quelle positive, tutte le tracce negative del nostro sentire, del nostro pensare e del nostro operare. Questi ricordi rischiano di attirarci come una potente calamita impedendoci di guardare in avanti, al cammino che ci rimane da fare, alle possibilità che si aprono ogni giorno davanti a noi.

    La memoria guarisce dimenticando, sgombrando il cuore, lasciando a terra quegli inutili fardelli che rallentano o arrestano il cammino: Non ricordate più le cose passate… ecco faccio una cosa nuova…” (Is 43,18s).

    La memoria guarisce ri-cor-dando: ovvero ridando il cuore, la centralità, a Dio. E’ riporre la ricerca del volto di Dio come ragione e senso del nostro esistere.

    VINCERE LA COMODITA’

    Circe, la bellissima e crudele maga simbolo della seduzione, figlia del Sole e della ninfa Perse dimorava nell’isola Eea presso il monte Circeo. Quando Ulisse nel suo peregrinare capitò di incontrarla ella fece di tutto per distoglierlo dal cammino. Gli assicurò infatti vita e benessere per tutta l’eternità presso di lei. Lo stare troppo bene, il sentirsi soddisfatti di quello che si vive giorno per giorno può essere la tentazione di assestarsi e non camminare più. (cfr Il gabbiano Jonathan Livingston).

    E’ indispensabile che si abbia sempre dinanzi l’esigenza della sequela perché in noi c’è sempre la tendenza alla riduttività, al minimo sforzo necessario.

    Il non avvertire più la necessità di cambiare è una spia di allarme non indifferente. In questo caso l’omeostasi, la “completa soddisfazione” significa mancanza di obiettivi. Se non esiste alcuna necessità di cambiare, creare, completare, sperimentare si potrebbe alla fin fine mettere in questione la necessità di continuare a vivere. La comodità è la rinuncia a quei valori che ci pongono in una sana tensione tra quello che siamo e quello che dovremmo essere.

    Segno della scelta di comodità potrebbe essere il preteso realismo (cfr lettera circolare n.5). Il falso realista è colui che non vagheggia più possibilità inedite. Egli dimentica l’azione dello Spirito ed è velatamente ateo. “V’è di peggio che avere uno spirito perverso: è l’avere un animo abitudinario” (C. Peguy).

    La vita è ridotta a formulismo e formalismo. E’ la fossilizzazione, è l’installazione (e allora si sacralizzano le mediazioni, gli orari, modi di vita, strutture, costumi…

    Il rifugiarsi nella ripetitività della legge:  colui che sceglie tale strada cerca la sicurezza nella staticità della legge che preservi dal problema di porsi continuamente in discussione di fronte alle inevitabili novità della vita, si evita di scegliere di giudicare: “Si è sempre fatto così! E basta!; “Mi hanno sempre insegnato che…”. La legge invece di essere spinta diviene scappatoia, scusante al fine di mantenere lo status quo.

    Quante volte Gesù e Paolo apostolo si troveranno a far fronte a persone che usano la legge come scusante al cambiamento di vita. Facciamo attenzione che anche l’uso della Parola di Dio  e della regola può cadere in questo tranello.

    E’ tarpare le ali allo Spirito che continuamente vivifica e crea…

    VINCERE LA PRETESA AUTOSUFFICIENZA

    La crescita non avviene indipendentemente dagli altri, non è un processo che si può svolgere tra me e me.

    Si cresce solo e in misura in cui mi scopro come essere di relazione: il che significa nella misura in cui sono in grado di rispondere ad una chiamata che mi giunge dal di fuori. Questa legge è valida sul piano umano ma anche su quello spirituale.

    Se prendiamo il bambino ad esempio, ci accorgiamo che la sua crescita è armoniosa, solida, solo se scopre attorno a sé persone che sempre lo invitano ad operare dei passaggi progressivi, a rinunciare a sicurezze ormai acquisite per conquistarne di nuove. Sia i genitori (crescono anch’essi col bambino) che il bambino sviluppano allora quell’atteggiamento base della crescita che è la fiducia.

    Accettare il cammino in relazione significa accogliere con fede le mediazioni che il Signore mi offre: la mia famiglia, la mia comunità, le persone che incontro. E quella mediazione particolare e privilegiata che è la relazione con il padre o la guida spirituale.

    In tutte queste relazioni devo accettare che si attui ancora una morte perché possa nascere una nuova vita, è la dinamica pasquale. L’incontro con l’altro infatti fa sempre morire qualcosa di me. E questa è la condizione perché dall’incontro possa nascere qualcosa di nuovo.

    Detto in altri termini: il pormi in relazione significa dimenticarmi, divenire accoglienza, svuotarmi del mio io e dei miei bisogni per far posto in me all’altro, al fine di poterlo accogliere con amore e benevolenza. E questo porta con sé un arricchimento di crescita interiore inestimabile.

    RINUNCIARE AL SOGNO E ALLA VIOLENZA

    Il sogno: “Quanto mi piacerebbe…”; “Vorrei tanto, ma…”. Osservando attentamente lo spirito che si nasconde queste espressioni apparentemente tanto sincere e umili, scopriamo che l’illusione dei soli desideri  mi preserva dall’ adesione alle esigenze di cambiamento nella mia vita. Cerco però di fare bella figura di fronte a me stesso e agli altri, trovo giustificazioni magari pie. Ma le ipotesi di cambiamento non hanno alcuna incidenza sulla vita.

    La violenza: è l’opposto del sogno ma il fine è identico. Distruggo il reale che è base e stimolo per il cambiamento e la crescita autentica.

    Questa aggressività, ci insegna la psicologia, può assumere tantissimi aspetti.

    Quanto spesso l’aggressività rivolta al fratello, al superiore o alla struttura… è scappatoia che mi esenta dal pormi in discussione personalmente

  • 03 Mar

    MISTERO PASQUALE CAMMINO DI CRESCITA

    di p. Attilio Franco Fabris


    La destinazione del nostro pellegrinaggio nella fede ha un unico scopo: renderci sempre più conformi a Cristo sino a giungere alla piena maturità e vita: Ci ha predestinati – ricorda san Paolo – ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8,29).

    Si tratta di una conformità che è progressiva trasfigurazione, in un lento divenire e crescere (“Lui deve crescere e io diminuire”, “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me”) e questo attraverso l’indispensabile azione vivificante dello Spirito. Accogliendo in noi l’azione dello Spirito ci inseriamo nel mistero di Cristo che è mistero pasquale di morte e resurrezione.

    Questa divina conformazione fa sì che noi possiamo rinascere ad una vita nuova nello Spirito, come Gesù dice a Nicodemo nel vangelo di Giovanni.

    Si tratta per usare il linguaggio dei mistici di una “divina rinascita” (cfr. Paolo della Croce parla di “morte mistica” e “divina natività”). E’ una rinascita che trasforma l’uomo peccatore in “uomo nuovo”, ovvero spirituale, cristianizzati. Scrive san Paolo: “Dovete rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”.  Questo testo vuole affermare che l’uomo deve rivestirsi della sua vera immagine, quella originaria, e ciò è possibile in Cristo nuovo Adamo.

    E ancora: “Dovete camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Afferma la Gaudium ed Spes: “Colui che segue Cristo, uomo perfetto nel mistero redentivo della sua passione, morte e resurrezione si fa lui pure più uomo”.

    Ma non  ci può essere entrata nel riposo di Dio, nel Regno, nella gloria se non passando per la via stretta indicataci da Gesù, che è il suo mistero pasquale di morte e resurrezione. E’ il percorso da lui tracciato nella sua Pasqua, nel suo esodo da questo mondo al Padre: “Gesù camminava verso Gerusalemme” (Lc 13,22).

    Ci è dato perciò l’itinerario e il passaggio obbligato: “Chi mi vuol  seguire prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.

    LA SEQUELA DELLA CROCE

    Non siamo soli a percorrere la strada, davanti a noi c’è Gesù; il nostro compito è la sequela: “Gesù camminava davanti ai suoi discepoli” (Mc 10,32).

    Il prendere la croce dietro a Gesù è condizione per la sequela cristiana.

    Se ci domandiamo in cosa consiste la sequela, la croce, che ci porta a rinascere alla vita di uomini nuovi, la risposta che troviamo nei vangeli è molto chiara: la sequela, la croce, è il dono di noi stessi fatto a Dio e al nostro fratello sino alla fine (cfr. Gv 13,1)

    L’uomo adulto in Cristo, l’autentico discepolo, si riconosce dalla capacità di amore e di dono di sé: “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

    Cammino seguendo Gesù quando mi pongo nella stessa disponibilità di Gesù a fare della mia vita un sacrificio a Dio e al prossimo, quando mi pongo nell’atteggiamento del “servo”, dell’”ultimo”, del “piccolo”.

    E’ convinzione cristiana che ogni amore umano che non è dono di sé e non è seguito almeno implicitamente dal segno e dal sangue della croce, non è che una caricatura dell’amore” (A. Feuillet)

    Il nostro cammino per essere autenticamente cristiano deve procedere perciò dalla conformazione, dall’intima partecipazione, al mistero pasquale di Gesù: “Camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi” (Ef 5,2).

    Con ciò si vuole dire che la nostra crescita cristiana si misura sulla disponibilità ad accogliere in noi la “stoltezza della croce”.

    Sembra assurdo che la vita, la nostra crescita, debba passare attraverso la morte per divenire autentica ed eterna. Ma il mistero pasquale si è rivelato come legge imprescindibile di vita e di crescita “Se il chicco di frumento caduto a terra, non muore, resta solo. Ma se muore porta frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25).

    E ancora: al discepolo è necessario anzitutto il  morire nel momento in cui egli riconosce il suo peccato, la sua via larga lontana da Dio, la sua pretesa  d’imboccare la strada dell’orgoglio e dell’autosufficienza.

    La ricerca, l’amore per la vita comporta l’accettare paradossalmente che essa passi attraverso la morte, la sua perdita, il suo dono: e si tratta di un distacco doloroso.

    Un bene maggiore si trova rinunciando ad uno minore, senza per altro che questo venga perso, anzi… verrà ritrovato centuplicato.

    L’itinerario del discepolo passa dunque obbligatoriamente dal Calvario e dalla tomba ormai vuota: sono i due termini pasquali, i due momenti di un unico mistero che si apre ad un orizzonte infinito di vita.

    Il  movimento pasquale di morte-risurrezione ritma la più umile esistenza cristiana (e probabilmente ogni esistenza)… Arrivano per ciascuno momenti in cui tutto sembra perduto e svanito nel nulla senza ragione, tutto appare come tenebra e assurdo. Proprio in questi momenti all’uomo si apre la possibilità di una pasqua, di un passaggio che attraversi la valle tenebrosa, la palude di morte che sembra tutto inghiottire.  Questa possibilità si ancora alla fede in Gesù risorto. Allora la disperazione per una perdita totale viene trasformata dalla speranza; noi ci lasciamo afferrare da quella mano sempre tesa verso di noi nella notte che invita con dolcezza e forza: “Alzati e cammina”(Mt 9,5).

    Comprendiamo che questo gesto comporta una rottura battesimale, allora la pace, la forza, il rinnovamento pasquale ci pervadono. Le lacrime di amarezza diventano lacrime di gratitudine.

    Solo la fede nel Risorto è in grado di annunciare l’evangelo all’uomo spesso incapace di leggere il passaggio pasquale come parola, occasione, kairòs, di salvezza e di vita.

    Il passaggio della croce se accolto positivamente ed oblativamente apre a nuovi spiragli di vita, a ulteriori orizzonti ricchi di inattese vitalità e creatività. Per il discepolo “il mondo non è più una prigione, ma un passaggio oscuro, passaggio attraverso il quale passare, passaggio da decifrare in uno scritto più ampio, e in questo scritto tutto ha un senso, ciascuno è importante, ciascuno è necessario. Uno scritto che noi scriviamo insieme a Dio” (O. Clement).

    IL BATTESIMO


    Il battesimo ci ha inseriti nel vortice vivificante del mistero pasquale. Siamo stati immersi nella morte di Cristo per risorgere con lui alla vita nuova. Rimane a noi il ravvivare tale dono di Dio.

    Questa dimensione battesimale deve avvolgere, permeare, indirizzare, dare senso a tutto il nostro essere, operare e pensare. Deve essere dimensione costitutiva del nostro cammino di battezzati. Ne dobbiamo fare memoria ogni giorno.

    Questo significa ricominciare ogni giorno, un cammino mai concluso qui su questa terra; proteso a quel passaggio battesimale definitivo che è la nostra morte che nel Risorto viene trasformata in porta di accesso alla vita vera.

    Vivendo già questo passaggio nella quotidianità e sperimentando l’amarezza del calice amaro di “Thanatos”, ci è dato tuttavia di pregustare in certo qual modo la gloria della resurrezione. I “cieli e la terra nuovi” si profilano già  soffusi all’orizzonte.

    E’ un cammino che non compiamo da soli: siamo membra vive di un unico corpo che cammina e cresce, la Chiesa pellegrinante verso il Regno. Nella Chiesa il discepolo trova la testimonianza, la forza, l’aiuto sacramentale per attuare nella vita il suo passaggio pasquale. Nella misura in cui ciascuno lo compie fa sì che tutto il corpo mistico progredisca nel suo itinerario di fede.

    Non è indifferente allora che io accetti o meno l’invito a camminare verso la conformità a Cristo. La mia conformazione mi rinsalda, mi unisce, non solo a Cristo ma anche, nella comunione dello spirito, con tutte le altre membra del suo corpo.


    SCHEDA DI LAVORO

    1. Il mio cammino di sequela di Gesù passa inevitabilmente per la croce:

    – quali croci sono stato chiamato ad attraversare (e/o attraverso)? Le nomino.

    2. La croce di Gesù è totale dono sacrificale di sé al Padre e ai fratelli:

    – che significato concreto do a questa espressione teologica?

    – cerco di vivere questo atteggiamento nella mia vita?

    – se sì, come si manifesta? Dove si concretizza?

    – Mi accorgo forse di non riuscire a viverlo fino in fondo:

    – in quali situazioni concrete? Le nomino.

    – che atteggiamenti concreti mi trovo allora a vivere alternativamente? Li descrivo.

    3. Raggiungo il più profondo di me stesso, là dove aspiro a camminare con Dio seguendo Gesù suo Figlio:

    – a cosa mi sento invitato per poter attuare questa ispirazione?

    – che cosa occorre che io scelga o privilegi concretamente per rispondere a questo invito?

    – che cosa sento di dover lasciare o di dover modificare nella mia vita per rispondere a tale invito?

    LETTURA

    Ogni chiamata di Cristo conduce alla morte

    La croce non è disagio e duro destino, ma il dolore che colpisce solo a causa del nostro attaccamento a Gesù Cristo. La croce non è un dolore casuale, ma è necessario. La croce non è il dolore insito nella nostra normale esistenza, ma dolore che dipende dal fatto di essere cristiani. La croce, in genere, non è solo essenzialmente dolore, ma soffrire ed essere respinti; e anche qui nel vero senso di essere respinti per Gesù Cristo, non per un qualche altro comportamento o un’altra fede. Una cristianità che non prendeva più sul serio l’impegno di seguire Gesù, che aveva fatto del vangelo solo una consolazione a buon prezzo, e per la quale, del resto, la vita naturale e quella cristiana coincidevano senza alcuna differenza, doveva vedere nella croce il disagio quotidiano, la difficoltà e l’angoscia della nostra vita naturale. Si era dimenticata che la croce significa sempre allo stesso tempo essere respinti, che l’onta del dolore è parte della croce. Una cristianità che non sa distinguere vita civile da vita cristiana, non può più comprendere il segno essenziale del dolore della croce, cioè l’essere nel dolore espulsi, abbandonati dagli uomini, come il salmista lamenta senza fine. Croce significa soffrire con Cristo, passione di Cristo. Solo chi è legato a Cristo, come accade per chi lo segue, si trova sul serio sotto la croce. “… Prenda la sua croce”: essa è già pronta, sin dall’inizio, basta prenderla. Perché nessuno pensi di doversi cercare da sé una croce, Gesù dice che per ognuno è pronta la sua croce, quella a lui destinata e commisurata da Dio. Ognuno porti la misura di dolore e di abiezione a lui destinata. La misura è diversa per ognuno… Ma è sempre quell’unica croce. Viene imposta a ogni cristiano. Il primo dolore per amore di Cristo che ognuno deve sperimentare è la chiamata che ci invita ad uscire dai legami di questo mondo. E’ la morte del vecchio Adamo nell’incontro con Gesù Cristo. Chi si incammina con Gesù si dà alla morte di Gesù, pone la sua vita nella morte; è così sin dall’inizio; la croce non è la terribile fine di una felice vita religiosa, ma sta all’inizio della comunione con Gesù Cristo… La chiamata a seguire Gesù, il battesimo nel nome di Gesù, è morte e vita. La chiamata di Cristo, il battesimo, pone il cristiano nella lotta quotidiana contro il peccato e il diavolo. Perciò ogni giorno, con la tentazione a cui il discepolo è esposto per via della carne e del mondo, reca al discepolo nuovi dolori in Gesù Cristo. Le ferite che vengono inferte, e le cicatrici che restano al cristiano dopo il combattimento sono segni viventi della partecipazione alla croce di Gesù.

    Dietrich Bonhoffer, Sequela, Brescia 1971, pp. 69-72

  • 01 Feb

    PADRE ONNIPOTENTE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Per te chi è Dio?

    Sicuramente a questa domanda possono presentarsi molte risposte, forse, più facilmente, molti silenzi ed interrogativi.

    Se da un lato il pensiero di Dio attira, affascina, da un altro esso suscita un’infinità di atteggiamenti emozionali e talvolta contraddittori. Ne è prova una certa rinascita del sentimento religioso ai nostri giorni.

    Al di fuori della rivelazione biblica ed evangelica gli uomini hanno tentato diversi approcci al mistero del Dio Trascendente dandogli diversi volti e nomi. Ne sono prova la varietà di religioni che hanno visto il loro nascere lungo i secoli in tutte le parti del mondo.

    Paolo nell’Areopago di Atene vedendo la varietà dei templi e degli altari  esistenti sull’Acropoli i atene non perde l’occasione per annunciare il vangelo:

    Cittadini di Atene, vedo che siete in tutto molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un altare con l’iscizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio (At 17,22-23).

    Paolo non disprezza questa ricerca “a tentoni” da parte dell’uomo naturale; è un inizio, un preannuncio, una disponibilità a ricevere il dono della rivelazione. Certo egli afferma che, a causa del peccato, questa ricerca è destinata a girare a vuoto ed ad imboccare molte vie errate.

    Per passare dal Dio Ignoto al Dio unico e vero occorre che egli si riveli, mostri il suo volto irraggiungibile. E noi crediamo che Gesù abbia rivelato pienamente questo volto.

    Credo in Dio Padre onnipotente

    Al concetto di Dio onnipotente l’uomo naturale era giunto, ma dandole tonalità che facevano riferimento al suo concetto di potenza: quindi caratterizzata da un potere indiscriminato, imprevedibile, capace di incutere rispetto e paura… una onnipotenza, in fin dei conti, poco simpatica.

    Ma nel simbolo apostolico noi affermiamo che Dio è Padre onnipotente!

    La parola Padre frapposta a Dio e ad Onnipotente  ci abbaglia e ci sconcerta, perché queste due parole (Dio e Onnipotente) alla luce della paternità cambiano totalmente prospettiva.

    HA RIVELATO IL SUO NOME

    La rivelazione del nome di Padre è stata progressiva, e si è manifestata lungo la storia attraverso gli interventi di salvezza che JHWH ha compiuto per il suo popolo.

    Si tratta di ben quaranta secoli!

    Abramo ode una voce: Vattene da l tuo paese, dalla tua patria… verso il paese che io t’indicherò (Gn 12,1).

    E’ la voce di El: il Dio onnipotente, misterioso ed invisibile, eppur vicinissimo ad Abramo, tale da accompagnarlo nel suo cammino: proprio come un padre farebbe con suo figlioletto.

    Una  seconda tappa sarà la rivelazione del nome fatta a Mosè.

    JHWH lo chiama dal roveto ardente: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe… Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti… Sono sceso a liberarlo… Ora va’!

    Ma Mosè chiede esplicitamente il nome a Dio: Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loto: il dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?

    Ed è così che Dio rivela il suo nome: Io sono colui-che-sono… Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi… Questi è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione (cfr. Es 3).

    Si tratta di un evento straordinario, perché Dio rivelando il suo nome lascia che l’uomo entri in una relazione intima con lui, gli attribuisce un potere su di lui, come se gli dicesse: “Mi chiamo così e così, ormai sai come mi chiamo, puoi dunque chiamarmi, non hai che da chiamarmi, ora sai il mio nome”.

    Dare un nome implica qualcosa che va al di là di una semplice definizione. Dare un nome significa esercitare un dominio. Il nome implica sempre un rapporto, l’altro non è più uno sconosciuto tra tanti altri.

    Se Dio dice il suo nome e chiama per nome è per porsi in dialogo, dandosi in un rapporto di amicizia e di alleanza. Da questo momento Dio non è più uno sconosciuto misterioso.

    Il nome rivelato a Mosè non è una definizione ontologica. Si tratta di un nome proprio, di un nome che rivela la sua presenza (Io-sono-qui), è un nome che indica fedeltà.

    Passano secoli e appare un Rabbi nella Galilea. Egli proclama di se stesso: Se non credete che Io-Sono, morirete nei vostri peccati… Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io-Sono (Gv 8,24.28).

    Gesù si presenta come nuovo roveto ardente che rivela non più solo il nome ma anche il volto di Dio: Dio incarnato Dio con noi. Al termine della sua missione Gesù in pienezza potrà dire: Padre, ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini (Gv 17,6).

    Al culmine della rivelazione, il Signore Gesù si presenta come il rivelatore del nome/volto vero e vivo di Dio. Sentiamo Giovanni esclamare con giubilo nel prologo: Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.


    IL PADRE GUARDATO CON SOSPETTO

    Ma le affermazioni congiunte di “Dio” e “Padre” sollevano tante questioni.

    Sembra infatti assurdo assommare la divinità onnipotente con la paternità divina. L’onnipotenza sembra escludere la paternità. A meno che non ci si rifaccia ad una simbolica di padre-padrone.

    Ancora più la difficoltà aumenta pensando che la simbolica del padre oggi non è così scontata. Ai contemporanei suona quanto meno ambigua se non irritante.

    Purtroppo o per fortuna il linguaggio non indica sempre realtà univoche, spesso risulta addirittura mistificante. Alcuni filosofi hanno così denunciato il linguaggio religioso come il più soggetto a questo rischio.

    Per questi filosofi affermare “Dio Padre” equivale ad affermare solo un fantasma a servizio di una data stratificazione sociale (Marx), oppure a fomentare un risentimento camuffato da parte dei deboli (Nietzcshe), o ancora è frutto di un inconscio che si vorrebbe imbrigliare perché pericoloso (Freud)., infine potrebbe rappresentare solo un insieme di simboli sociali convenzionali (Althusser).

    Le parole nascondono dunque solo dei tranelli?

    Pensiamo di no, esse sono indicatrici, rivelatrici di una realtà da esse solo indicata. L’uso che la rivelazione fa del linguaggio umano è legittimo, poiché è la sola possibilità di parlare di Dio almeno per analogia.

    Per le nuove generazioni la parola Padre appare una provocazione bell’e buona. Sazie  di paternalismo si sono ripiegate su una forma di “parricidio”: ovvero su un rifiuto di ogni “paternità” al fine di rivendicare la propria autonomia, libertà, indipendenza.

    Il padre è morto, dunque… Dio Padre è morto.

    Ma ciascuno di noi si porta dentro, voglia o non voglia, nel profondo, questo archetipo, che stando alla psicologia del profondo è tra i fondamentali della psiche umana.

    Ne è prova il fatto che ciascuno sente la propria esperienza di figlio come fondamentale nel proprio cammino vitale. Mi ha colpito la vicenda raccontata in TV di un uomo ormai anziano che ha speso tutta la sua vita, le sue energie, nella disperata ricerca della propria madre in quanto abbandonato da piccolo e adottato. A ben sedici anni abbandonò improvvisamente la propria famiglia adottiva per mettersi alla ricerca della propria origine, a più di sessanta non desisteva ancora da questa ricerca che diceva essere l’”unico scopo della sua vita”.

    Ma una cosa importante è constatare che Dio quando si rivela come padre, non si richiama alla nostra esperienza di figli; non dice: Ricordatevi di vostro padre e di vostra madre: io sono come loro. Rimanda al contrario all’esperienza adulta dell’essere padre o madre nei confronti dei figli (cfr. Is 49,15; Os 11,1-4; Lc 11,11-13).

    La simbologia del padre applicata a Dio rimanda dunque non all’esperienza di figli, ma a quella dei genitori amorosi, alla loro tenerezza. Balzac in un suo romanzo dice: “Io ho veramente compreso ciò che poteva significare essere Dio, solo quando sono diventato padre”.

    L’essere padre o madre significa sentirsi immagine di Dio Padre.

    E a Dio compete l’originaria paternità di  ogni cosa creata, sulla quale si struttura ogni paternità e maternità. Nessuno è padre quanto Dio: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello dei cieli” (Mt 23,9).

    PADRE DI TUTTI E DI CIASCUNO

    Tutta la scrittura ci parla di un Dio che si rivela paterno nei confronti del suo popolo.

    Lungo la storia del popolo di Israele JHWH non si perde in chiacchiere e dichiarazioni, cosa tipica dei “paternalisti”. Egli è l’”Io-Sono-qui” che si manifesta attraverso avvenimenti concreti della storia,  ed è per questo che solo successivamente è colto da Israele come Dio che agisce ed è presente:

    Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e che ti ha costituito?… Hai dimenticato il Dio che ti ha creato!” (Dt 32,6.18).

    Io sono il Signore tuo Dio che ti tengo per la mano destra e ti dico: Non temere, io ti vengo in aiuto. Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele, io vengo in tuo aiuto – oracolo del Signore – tuo redentore è il Santo di Israele” (Is 41,12-14).

    Pur nella sua storia tormentata e costellata di tradimenti, Israele sa di poter contare sempre sulla fedeltà-amore-paternità del suo Dio:

    Dove sono il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non sforzarti all’insensibilità, perché tu sei il nostro padre… Tu Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (Is 63,15-16).

    E Dio sempre si lascerà muovere a compassione, come una tenera madre verso il suo piccolo:

    Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza. Oracolo del Signore” (Gr 31,20).

    Questa paternità di Dio che inizialmente è rivolta esclusivamente alla dimensione di Israele come popolo, nella rivelazione cristiana viene ad assumere pure il connotato di una relazione anche personale intima di ciascuno con Dio.

    Così si è sono portati a scoprire che il Padre che è nei cieli,  conosce ciascuno per nome, siamo suoi figli, contiamo per lui:

    Poi disse ai suoi discepoli: Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: Non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto voi valete più degli uccelli” (Lc 12,22-24; cfr. Mt 10,29-31).

    Il figlio è preservato dall’ansia e dall’affanno per le cose:

    Di tutte queste cose si preoccupano i pagani. Il Padre vostro celeste sa infatti che ne avete bisogno… Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,32-34).

    Questa rivelazione della paternità di Dio prima verso il popolo, poi per ciascuno porta il credente ad estendere la consapevolezza della paternità di Dio a tutti, nessuno è escluso perché Dio tratta tutti come figli, ama tutti dello stesso amore e con lo stesso cuore di Padre:

    Per questo Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti… Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt5,44-47).

    Egli è Padre di tutti i popoli, di tutti gli uomini; è Padre di ogni uomo, qualunque sia la sua razza, la sua religione, e il  suo… peccato. E’ questa la rivelazione del vangelo.


    PADRE ONNIPOTENTE

    Ora come conciliare la paternità premurosa di Dio per ciascuno e la sua maestosa onnipotenza di fronte alla quale ci sentiamo quasi annientati e lontani?

    Questa onnipotenza dicevamo spaventa un po’!

    Nella Scrittura essa è espressa in immagini temibili: “Dio delle moltitudini”, “Dio delle potenze”, Dio delle schiere”…Egli è il Dio “Sabaoth” sovrano di tutto e di tutti.

    Potenza assoluta-amore assoluto sono inconciliabili? Distanza assoluta-prossimità assoluta, l’essere assoluto e l’essere fattosi limitato e legato all’uomo sono irrimediabilmente concetti escludentesi a vicenda?

    Questa inconciliabilità trova uno sbocco sconcertante solo nella seconda parte del Credo: Credo in Gesù Cristo, suo figlio unigenito…

    L’incarnazione ha rivelato contemporaneamente il volto della paternità di Dio e la sua onnipotenza: un Dio che vagisce in una stalla, agonizzante su una croce…

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1Gv 4,8-10).

    Siamo così costretti a rivedere radicalmente tutte le nostre immagini di potenza e di sovranità.

    La potenza di Dio è l’esattamente contrario della potenza intesa umanamente. La potenza suprema di Dio è il poter completamnente rinunciare alla potenza: è onnipotenza di amore.

    Scrive F. Varillon: Quando usciamo dalla sfera propria dell’amore e, lavorando di fantasia introduciamo in Dio elementi estranei all’amore, quando pensiamo che l’amore è qualcosa in Dio o un aspetto di Dio e non Dio stesso, allora ci costruiamo un idolo. Siffatta idolatria alligna nel cuore dei cristiani sotto la parvenza della fede, quando appunto la fede non è abbastanza forte e pura per criticare i concetti e le immagini che si moltiplicano alla sua ombra.

    Gli attributi di Dio per quanto belli e numerosi non costituiscono la natura di Dio. Questa è amore, nient’altro. I nostri attributi ne esprimo sono delle qualità.

    Un esempio. Tu hai una casa al mare: è nuova, bianca, grande, luminosa… Quello che possiedi al mare non è il biancore, la grandezza, la luminosità. Tu hai una casa e nient’altro ed essa è bianca, grande, luminosa. Questi sono solo attributi della casa. Ora l’amore non è attributo di Dio, ma tutti gli attributi di Dio sono gli attributi dell’amore.

    Quanto allora dobbiamo purificare le nostre immagini di Dio!

    L’amore di Dio Padre per noi, per me, è antecedente, gratuito, senza ragione, senza condizioni.

    I genitori amano il figlio che deve arrivare prima ancora di vederne il volto, di saperne il sesso, il carattere, il colore dei capelli e degli occhi… (e quanto purtroppo sperimentiamo come il nostro amore umano rischia sempre di porre condizioni e ragioni!).

    L’amore del Padre dei cieli non presuppone nulla da parte mia, non ho nessun valore da presentargli prima, non aspetta che io lo ami o che io sia amabile.

    Scrive ancora Varillon: L’amante dice all’amata: “Tu sei la mia gioia”, il che significa: “Senza di te sono povero di gioia, infelice”. Oppure: “Tu sei tutto per me”, il che significa: “Senza di te non ho nulla, sono niente”. Amare vuol dire esistere mediante l’altro e per l’altro… Colui che ama di più, pertanto, è anche il più povero. L’infinitamente amante-Dio è infinitamente povero. Mendicante d’amore?!

    Anche l’amore dei fidanzati, degli sposi, non è mai completamente gratuito, perché è reciprocità.

    La gratuità totale ed eterna dell’amore è l’onnipotenza di Dio, del suo amore di Padre. Povertà, spinta all’infinito, dei genitori di un figlio ingrato che non cessano di amare…

    Quest’amore gratuito corre il rischio del rifiuto, della dimenticanza, del tradimento. D’altronde un’onnipotenza che piegasse l’uomo al proprio volere non esiste, negherebbe all’uomo il dono della libertà di figlio (cfr. la parabola : “Un uomo aveva due figli” Lc 15).

    Dio corre il rischio della libertà dell’uomo. Sartre diceva: Se l’uomo è libero Dio non esiste.

    Il Dio “Onnipotente” alla maniera umana non esiste.

    Esiste un Padre onnipotente, onnipotente nel suo amore.


    SCHEDA DI LAVORO

    1.                 Dio Padre Onnipotente: questa espressione che sentimenti suscita in te. Prova ad elencarli e a darne una motivazione.

    2.                 La rivelazione biblica ha conosciuto una diversità di nomi da dare a JHWH. L’islamismo conosce 99 nomi da attribuire a Dio: non inserisce quello di padre. Tu che nome sceglieresti per definire Dio? Perché?

    3.                 La paternità di Dio abbraccia tutti senza distinzioni. Cosa significa questo? Cosa comporta concretamente nel vissuto della tua fede?

    4.                 L’onnipotenza di Dio, e onnipotenza del farsi debole. Bimbo che vagisce e crocifisso sul Calvario. Questo cambia di molto la prospettiva con cui intendere la sua onnipotenza. Questo fatto cosa viene a togliere, a modificare, a migliorare nel tuo rapporto con lui? Nella tua vita cristiana cosa significa?

    5.                 Cerca di comporre una tua breve preghiera in cui cerchi di dire a Dio i tuoi sentimenti di fronte alla sua rivelazione di Onnipotente e Padre.

  • 15 Gen

    no images were found

  • 15 Gen

    no images were found

  • 11 Set

    Il profeta e la pianta di ricino


    Lectio di Giona 4,5-11


    di p. Attilio Franco Fabris

    Un aforisma afferma: “Ogni  volta che mi guardo allo specchio mi convinco sempre più che Dio ha un ottimo senso dell’umorismo”. Non so se condividiamo questa intuizione: forse facciamo fatica a riconoscerci in essa perché un po’ tutti, piccoli aspiranti Narcisi, siamo sempre tentati di prenderci troppo “sul serio”. A questo proposito il romanziere Herman Hesse amava ripetere che: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio se stesso”. Quando l’uomo pretende di essere l’“ombelico del mondo”, quando vorrebbe essere cioè al centro di tutto e di tutti, riverito e applaudito, quando nella sua arroganza ritiene di dover assurgere al compito di giudice d’ogni cosa, quando è incapace di perdere allora manca di un sano realismo. Non sa vedersi cioè allo specchio per quel che è veramente. Questo è stato, come vedremo, il dramma del nostro povero Giona incapace di ridere di sé e di condividere il sorriso di Dio su di lui e sul mondo.

    Diceva Nathaniel Emmons che: “La pazzia distrugge la ragione, ma non l’umorismo”. Guardarci allo specchio attraverso gli occhi di Dio ci rinsavisce e fa tornare il sorriso sulle labbra e negli occhi perché ci introduce ad un sano umorismo che, alla fin fine, è una buona capacità di vivere il reale di sé, degli altri, delle situazioni, di Dio stesso che ride del riso di Sara (Gn 18,13). L’umorismo lo possiamo ben definire allora una delle virtù necessarie ad una vita autenticamente spirituale! È segno della presenza dello Spirito.

    Chiediamo allora allo Spirito il dono di saperci guardare allo specchio un po’ più spesso, un’occhiata di tanto in tanto al di fuori di noi stessi, ovvero  con una vena di sano umorismo: “I nostri occhi, o Spirito del Signore, avevano perduto la lucentezza di un tempo. Il sorriso s’era spento sulle nostre labbra tese. Il nostro sguardo s’era fatto anch’esso opaco e privo di gioia. E non potevamo più vedere oltre il campo ristretto dei nostro meschini interessi. Ma tu ci hai guarito gli occhi, li hai resi  trasparenti e sereni, occhi pieni di pace e comprensione. Hai allargato le labbra al sorriso che si fa accoglienza e perdono. Lo sguardo è stato  reso capace di riconoscere il sorriso e la pace  di Dio sul mondo”.

    Lectio

    Giona è chiamato da Dio a predicare la “penitenza” nella città di Ninive. Questa immensa città “lunga tre giorni di cammino”(3,3) è la capitale del regno assiro, e nella Bibbia è considerata l’emblema del mondo pagano (cfr Nm 3,7; Sof 2,13), città crudele e nemica acerrima del popolo d’Israele. (In questa metropoli straniera è ambientato anche il libretto di Tobia). Il compito che Dio affida a Giona non va assolutamente a genio al nostro protagonista: così lo vediamo imbarcarsi non verso la meta indicata ma esattamente in una linea di crociera che lo porta nella direzione opposta: la sua meta è addirittura la città di Tarsis che si trova in Spagna (1,1-3) ovvero il più lontano possibile da Ninive! Giona vuole scansare ad ogni costo l’incarico affidatogli che gli suscita da un lato timore e da un altro disapprovazione: da quando ora si deve predicare al nemico? Nella sua piccola testa non entra neppure l’idea della possibilità di una conversione della città avversaria; accettarne la possibilità metterebbe infatti troppo a rischio le certezze della “sua” religione!

    Mentre il nostro Giona è in fuga succede quella confusione che sappiamo: si scatena una terribile e inspiegabile tempesta.  C’è il pericolo che tutti affoghino (cfr. 1, 4) e continuare su quella rotta sarebbe solo una decisione insensata. In un barlume di lucidità Giona riconosce davanti ai marinai di aver peccato contro il suo Dio chiedendo perciò di essere buttato a mare (cfr. 14). Seppur a malincuore costoro allora lo gettato tra i flutti (cfr. 115) dove viene inghiottito provvidenzialmente – tra lo stupore dei lettori e prototipo del collodiano Geppetto – da una balena che lo ospita un po’ scomodamente a dir la verità nel monolocale del suo ventre (cfr. 2, 1).

    Nel buio pesto della pancia del cetaceo a Giona passa la voglia di mettersi a discutere con Dio.  Adesso in preda all’angoscia si mette a pregare e a scongiurare perché l’abisso della morte, che lo circonda da ogni parte senza che lui ne possa sfuggire (2,2), non lo travolga: “Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre(2,6s). Giona prende coscienza che la conseguenza del suo essere fuggito dalla sua missione e a voler far di testa sua è il ritrovarsi ora nelle profondità del mare, ovvero nell’inferno.

    Ma Dio “dopo tre giorni e tre notti (2,1)  gli fa dono della salvezza liberandolo dal suo “carcere” (2,3): Giona ributtato a riva, almeno per ora, è riconciliato con Dio e con la vita. (cap 2,11). E Jahvé dopo la salutare lezione gli rinnova il mandato della predicazione a Ninive. Gli sarà servita la tremenda lezione e l’esperienza di essere stato gratuitamente salvato?

    Per ora Giona sembra convertirsi e accettare il suo mandato. Così, pur non cambiando idea circa i pagani (cf 2,9), egli svolge la sua predicazione “forzata” nell’immensa metropoli. La sua parola ovviamente non può che essere fatta se non di minacce di castighi tremendi da parte del “suo” Dio: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!” (3,4). Guarda caso non gli passa minimamente per la testa di annunciare alla città la possibilità della conversione e quindi della salvezza! Lui ha già prestabilito il risultato.

    Ma la meraviglia è che ciò che tutti i profeti non hanno ottenuto per secoli con il popolo di Israele qui si produce all’istante: vi è una conversione generale, nessuno è escluso! Anche gli animali si convertono!  “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (3,10).

    La risposta di Dio è evidente… ma non per Giona!  La sua coscienza è ottusa e piccina: non era questo il risultato da lui aspettato e sospirato! Di fronte alla conversione dei nemici il testo biblico annota cheGiona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (4, 1). È talmente irritato e deluso da invocare la morte: se Dio è così, non vale più la pena di vivere (4,2-3). Meglio infatti la morte che spartire privilegi con altri ancor più se pagani e incirconcisi! Se non c’è più alcuna distinzione a cosa serve essere credenti e ancor più profeti? Cosa ci si guadagna? Tanto vale…

    Ed eccoci al nostro brano. Alla domanda postagli da Dio: “E’ giusta la tua collera?”” (4,4) il nostro protagonista non risponde e a testa alta, impettito e tutto corrucciato e sdegnato, pieno di acredine verso i neoconvertiti e Dio che li ha assecondati esce solennemente dalla città. Non trova di meglio che armare una piccola baracca di frasche e seduto mettersi ad aspettare: che cosa? Ovvio! Che Dio cambi idea.  Chissà! E così pregustare finalmente lo spettacolo pirotecnico della distruzione della città nemica. Ma Dio, a suo dispetto, non cambia affatto la sua decisione.

    Dio “procura” (v.6) invece una pianta di ricino (qiqaion) che provvidenzialmente cresce proprio dietro le spalle di Gíona offrendogli un po’ d’ombra “e liberarlo così dal suo male” (v.6) ovvero dalla sua “incavolatura”. Servirà questo gesto gentile da parte di Dio a mandargli via il cattivo umore e fargli cambiar idea?  In effetti Giona è molto contento di quella pianta: provò una grande gioia per quel ricino” (v. 6).

    Ma il giorno dopo, di mattina presto, Dio con fine ironia “provvide” (v.7) un dispettoso vermiciattolo che si mette di lena a corrodere la radice della povera pianta che si affloscia in pochi istanti seccandosi sotto il sole cocente.  Come non bastasse: “quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona”. Tutto ora sembra cospirare contro il povero profeta con spiacevoli risultati…insolazione, svenimenti e un terribile mal di testa. Oramai, mezzo incosciente e profondamente irritato, a motivo di una provvidenza che avverte ingiusta nei suoi confronti, Giona “si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere» “ (4, 8). È  “irritato a morte” per il ricino seccato come lo era per la provvidenza benevola di Dio verso Ninive! Non vede altre vie d’uscita!

    A questo punto Dio, da buon pedagogo paziente con un allievo testardo, tenta la possibilità di un cambiamento nella coscienza ottusa del  nostro Giona. Ritenta la stessa domanda fattagli precedentemente ma in altra forma “Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!» (4,9) Niente da fare! Giona non capisce o… non vuol capire!

    La domanda posta dal Signore è un invito rivolto a Giona, mandato a predicare la conversione a Ninive, perché, ironia della sorte, lui stesso profeta si avvii verso la strada di una sincera conversione al fine di assumere un cuore misericordioso come quello del Dio vero e abbandoni l’immagine balorda del “suo” dio: “Ma allora, tu ti addolori a causa di una pianta, per la quale non hai fatto nulla, che tu non hai piantato, né hai fatto crescere, che è nata in una notte e in una notte è morta; e io, invece, non dovrei aver pena di centoventimila esseri umani, che non sanno neppure distinguere la mano destra dalla sinistra e che vivono come bestie?  Uomini che io stesso ho creato! Giona, sei un grande egoista e il tuo egoismo ti acceca l’intelligenza! » (cfr. 4, 10-11).

    La parabola di Giona finisce qui mettendo allo scoperto attraverso una sana ironia, lo stridente contrasto che c’è nella coscienza del profeta. Quale la reazione finale di Giona?  Si sarà convertito? Avrà avuto il coraggio di cambiare modo di intendere Dio e la religione? Si sarà messo alla fine a ridere di se stesso e  a farsi una bella risata rappacificatrice con Dio? La  risposta a questo punto è rimandata a ciascun ascoltatore e sarà probabilmente ogni volta differente. Ma anche questo è umorismo!

    Collactio

    La storia di Giona non è una storia ma piuttosto una parabola in grado di descrivere e affrontare in modo ironico, (la Bibbia è capace anche di questo!), le nostre piccinerie e resistenze alla volontà di Dio che fortunatamente  ha vedute più larghe delle nostre. Esso ci invita al sorriso, a un guardare – attraverso l’avventura di Giona – le nostre stesse vicende e peripezie che rischiamo di vivere con la sua stessa ottica. Abbiamo tutti bisogno di vedere i nostri “drammi” o presunti tali, i nostri “problemi”, le nostre situazioni ingarbugliate da un altro punto di vista, diverso dal nostro, e che sia capace di “sdrammatizzarle” ovvero di riportarle a verità, alla loro giusta dimensione. Troppe volte infatti ci intestardiamo sulle nostre posizioni che, come Giona, ovviamente riteniamo le migliori e quelle giuste. Così accade che troppe volte ci si ripieghi su se stessi, sulle proprie tristezze e arrabbiature, ribelli come siamo a metterci davanti allo specchio della Parola, dei fratelli, e della nostra… coscienza.

    Se facciamo attenzione l’umorismo, il motto di spirito, la barzelletta hanno come funzione proprio lo smontare, lo smascherare, attraverso il paradosso, la presunta certezza con cui rivestiamo spesso la vita e i fatti. Di conseguenza se dovessimo definire Giona lo descriveremmo con la tipologia dell’uomo incapace di umorismo, è reazionario (i reazionari e i dittatori, non ridono mai!), fermo sulle sue posizioni che considera definitive. Per lui tutti sbagliano e tra questi pone anche Dio. Lo vediamo discutere con Dio sul compito che dovrebbe assumere nella vita degli uomini. E bisogna avere un grande coraggio e una gran faccia tosta per mettersi a discutere con Dio! Ma il suo coraggio lo possiamo identificare come ignoranza e di stupidità. Fa’ ridere! È profeta testardo il quale pensa che Dio debba essere soltanto il Dio del popolo ebreo e non degli altri popoli credendo che compito della religione sia quello di mantenere e difendere la situazione che lui ha già stabilito: i niniviti sono pagani e dunque cattivi e impenitenti perciò vanno distrutti, lui e il suo popolo sono invece gli unici buoni e ben accetti a Dio e sono degni di essere salvati Dio non si comporta come dovrebbe comportarsi e Giona è deciso a fargli sentire tutto il suo sdegno e preferisce morire piuttosto che… cambiare! E in questa caparbietà autodistruttiva, un po’ triste a dir la verità, è racchiuso tutto l’umorismo del libro.

    Giona risulta alla fine meschino perché possiede l’incredibile capacità di non vedere l’evidenza dei fatti; è un profeta fallito perché manca al suo ruolo essenziale che è quello di comprendere i segni dei tempi che dovrebbero parlare non solo e anzitutto agli altri ma anche a lui stesso.

    Non a caso l’autore allora nel racconto ci presenta, come contrapposizione (nella dinamica dell’umorismo la contrapposizione è essenziale), tutti i vari personaggi come buoni: i marinai stranieri che fanno di tutto per non gettare in mare Giona, il re di Ninive che si converte con tutta la città, anche gli animali appaiono buoni e indulgenti. Fra tutti l’unica figura dura e intransigente è Giona, per molti aspetti molto simile alla figura del “fratello maggiore” delineato dalla parabola del “Figlio prodigo” che non riesce a gioire per la misericordia e l’amore del “Padre” per i suoi due figli. Anche in questa parabola, guarda caso, l’unico capace di sorridere e di sdrammatizzare è il Padre.

    Ben venga dunque nella nostra esperienza spirituale una saggia dose di sano umorismo che ci aiuti a ridimensionarci, a guardare le cose da un diverso punto di vista, a non impuntarsi sulle nostre posizioni, a  sorridere delle nostre e altrui fragilità rendendoci un po’ più simili all’immagine di Dio. L’umorismo è una sorta di valvola di sicurezza che ci preserva dal rischio del mettere in pericolo l’autentico rapporto con sé stessi, gli altri, il mondo; una buona battuta, una barzelletta gentile opera “qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore” (H. Bergson), ovvero ci permette, attraverso l’empatia che produce, di identificarci con la persona o l’oggetto del riso esorcizzando in noi il rischio di cadere nella stessa trappola. In questo senso l’umorismo è uno svelamento, spesso improvviso e inaspettato (es. la conclusione di una barzelletta) di ciò che si può nascondere nel più profondo del cuore di tutti noi. Un piccolo Giona potrebbe abitare di nascosto come nel ventre della balena anche in te che stai leggendo! Ti fa sorridere, ma è la morale del libro! Così l’uomo che si crede maturo e rispettabile appare incompleto, mancante, bisognoso. L’umorismo, non dimentichiamolo, è un dono che Dio ha fatto solo all’uomo! Avete mai visto una gallina o un gatto ridere?  Gli animali non possono ridere per il semplice fatto che non hanno coscienza di sé e dunque non possono guardarsi dall’esterno. Diceva Henri Bergson: “Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”.A noi dunque l’imparare e il permetterci di sorridere benevolmente di noi e degli altri: “l’uomo saggio sorride appena in silenzio” (Sir 21,20).

    Ma non confondiamo mai il sano umorismo con l’ironia cinica e cattiva, con la battuta feroce e crudele, che si prefigge solo l’umiliazione dell’altro. Questa è una ferita che si infligge e fa sanguinare! Il vero umorismo invece è capace di ridere “con” l’altro: è un’opera di guarigione perché alleggerisce la vita e toglie il peso dal cuore. È  una specie di oasi, un punto di ristoro che ci permette di riprendere fiato e forza e continuare poi con allegrezza il cammino spesso pesante e grigio delle nostre giornate.

    Comprendiamo allora perché anche agli  austeri monaci del deserto Giovanni Climaco raccomandava la capacità di mantenere sempre la capacità di sorridere al fine di non lasciar spazio al diavolo nel proprio cuore. Nella sua “Scala Paradisi” scrive: “State sempre allegri nel Signore, o servi di Dio; riconoscendo in questa gioia il primo segno dell’amore di Dio per voi, e dell’avervi egli chiamati.”

    Oratio

    Al termine del nostro itinerario all’interno della storia di quella testa dura che è il povero Giona, non possiamo non chiedere al Signore di farci sorridere sempre e di mettere al bando quelle tristezze e piccinerie che tante volte appesantiscono le nostre giornate. Nel sorriso colmo di misericordia e di pace scopriremo la presenza e l’azione fantasiosa e sempre nuova dello Spirito: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di essere allegri. Beati quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi. Beati quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove. Beati quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia. Beati sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita. Beati voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà pieno di sole. Beati se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore. Beati quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno tante stupidaggini. Beati soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace” (Da un manoscritto della Certosa di Padula)

  • 02 Set

    Rimanete saldi nel Signore

    Lectio di Fil 4,1-9

    di p. Attilio Franco Fabris

    La comunità è dono prezioso che lo Spirito ha posto nelle nostre mani per cui essa va amata e custodita, protetta come il tesoro più caro consegnatoci da nostro Signore. Essa è tesoro prezioso perché è luogo della sua presenza, è la scuola della nostra sequela e dell’esperienza concreta di fede, luogo infine in cui viene resa testimonianza viva ed efficace della Buona Notizia, perciò con il salmista possiamo cantare: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 132,1).

    Ma la comunità è purtroppo sempre insidiata dalla presenza del male che è in noi e attorno a noi, e le forze del male agiscono sempre in antitesi al progetto di Dio. Queste hanno un potere disgregante e… anticoagulante: sfaldano e talvolta distruggono la comunità; per cui bisogna essere sempre vigilanti e nutrire la comunità rafforzandola con il pane dei forti che è l’ascolto della Parola e l’Eucarestia, ed esercitando continuamente la pratica del perdono reciproco e della riconciliazione.

    Iinvochiamo con insistenza lo Spirito sulle nostre comunità e su ciascuno di noi perchè talvolta rischiamo di dimenticarci che è lui il protagonista e l’artefice primo del loro esistere e sussistere: “Non sentiamo un vento violento e non vediamo le lingue di fuoco eppure crediamo che lo Spirito agisce qui, ora, in mezzo a noi. Spirito di Dio, inondaci di luce! Strappaci al potere delle tenebre. Spirito di Dio, guarisci la nostra fragilità! Facci crescere come autentici figli di Dio. Quando le preoccupazioni si fanno troppo pesanti, Spirito di Dio, alleggerisci il nostro cuore! Quando attraversiamo i deserti della vita, Spirito di Dio, donaci una freschezza nuova! Quando l’insuccesso ci getta nella depressione, Spirito di Dio, donaci il coraggio necessario di agire.Spirito di Dio, imprimi sul nostro volto la traccia della bellezza e della tenerezza di Dio. Diventeremo una consolazione per tutte le creature della terra. Metti nei nostri cuori l’amore del Padre, fa’ risuonare dentro di noi la parola di Gesù. Conduci i nostri passi per vie nuove, quelle vie in cui si incontrano  la pace e la giustizia”.

    Lectio

    L’apostolo Paolo saluta i cristiani di Filippi definendoli “gioia e corona” del suo ministero. Essi sono da lui riconosciuti come il suo più grande vanto nell’opera di evangelizzazione per cui ha speso interamente la vita. Interessante il riferimento alla “corona” simbolo che fa riferimento all’ornamento sia del sacerdote che la indossava solennemente durante il suo ufficio, oppure del vincitore di una gara che con una corona di allora veniva premiato (cfr 1Cor 9,25). La comunità di Filippi, nata dall’annuncio della Buona Notizia, rappresenta per Paolo la realtà di cui gloriarsi e ornarsi nel Signore; e questo dimostra quanto cara e preziosa sia per lui.

    Il primo invito pressante di Paolo a questi nuovi cristiani è di “rimanere saldi nel Signore”: è un imperativo che fa da sfondo a tutta la sua esortazione apostolica. Esso è giustificato dal fatto che la fede, seppur accolta con entusiasmo all’inizio, non è mai un dato acquisito per sempre: essa essendo essenzialmente un vissuto di relazione e di consegna all’Altro all’interno di una comunità può essere sempre minata da mille ostacoli, pericoli e deviazioni che la pongono a rischio minacciando addirittura di farla scomparire. In questo senso la “vigilanza” è caratteristica essenziale del vissuto di fede personale e comunitario: “siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà” (1Pt 1,13).

    Che questo “rimanere saldi” sia necessario sembra motivato concretamente dal fatto che la comunità di Filippi sta vivendo un momento difficile al suo interno: divisioni, invidie, gelosie mettono sempre a repentaglio l’opera unificatrice dello Spirito del Signore. Vengono nominate esplicitamente due donne: Evodia e Sintiche. Esse sono state due valide collaboratrici  dell’azione evangelizzatrice di Paolo durante la sua missione (questo accenno è importante per riconoscere il ruolo non trascurabile delle donne nella chiesa primitiva). Tuttavia tra queste due donne emergenti deve essere sorta qualche tensione, che non viene esplicitata, ma che sicuramente sta procurando fratture e sofferenza non solo tra loro due ma a tutta la comunità. Desiderio di primeggiare? Forse! Queste sono le piaghe e le debolezze della comunità che sempre e ovunque affiorano mettendo in evidenza tutta la contraddittorietà del cuore umano! Paolo le invita pressantemente a ritrovare la via della riconciliazione e della “buona armonia”.  Per facilitare la loro rappacificazione Paolo invita ad intervenire un certo Sizigo e un certo Clemente; sono certamente  personaggi autorevoli all’interno della comunità: l’apostolo li invita a farsi mediatori tra le due operando per la loro riconciliazione. Sizigo letteralmente significa “compagno di giogo”, cioè “collega”: lo è di nome e molto di più di fatto se Paolo lo investe di questo delicato compito.

    Paolo esorta questi suoi collaboratori ricordando che i loro nomi verrà scritto “nel libro della vita” proprio a motivo del loro operare nel nome del Signore per il bene della comunità: avere i “nomi scritti in cielo nel libro della vita” significa che Dio terrà conto dei meriti di queste anime (cfr Sal 68,29; Dn 12,1; Ap 3,5; Lc 10,20; Es 32,32-33; Is 4,3).

    Dopo aver affrontato questo delicato problema di divisione e aver indicato vie concrete di soluzione Paolo esorta la comunità a vivere “nella gioia” (cfr 3,1) aggiungendo “sempre”. Le tensioni e le spaccature sono purtroppo spesso inevitabili e sono sempre fonte di tristezza per tutti! Ma questo non deve turbare la gioia e la pace della comunità. Dove trovare il motivo e il fondamento di una gioia permanete che nulla può turbare la comunità? Il fondamento di questa gioia permanente risiede unicamente nel riconoscere di aver ricevuto un annuncio che è promessa sicura di salvezza nel Signore, e questa salvezza non può non trasformarsi in una gioia dirompente che trasborda e chiede di essere comunicata agli altri anche quando si è nella prova.

    Conseguenza di questa gioia che consiste nel sentirsi amabili e amati in Cristo dal Padre, è un atteggiamento di “amabilitàaffabilità” (v.5) che deve contraddistinguere le relazioni tra i membri della comunità e che si riversa di conseguenza su tutti.

    Paolo offre un’ulteriore motivo e fondamento all’invito alla gioia che deve caratterizzare la comunità di Filippi: “Il Signore è vicino!” (v. 5). Questa espressione era molto cara alla liturgia delle prime comunità che ripetutamente invocavano: “Marana tha! Il Signore viene!” (1Cor 16,22; cfr Rm 13,12; Gc 5,8; 1Pt 4,7; Ap 22,20).  Non sembra che qui Paolo voglia pronunciarsi circa il tempo cronologico effettivo che separa la comunità dal ritorno del Signore glorioso in quanto il “giorno della parusia” è già presente e operante. La “gioia” che scaturisce dalla “vicinanza” del Signore è identificabile con la consapevolezza del dono sovrabbondante di vita che già fin d’ora ci sono donate in attesa del suo compimento definitivo.

    Certo questa pace e questa gioia si collocano sempre in una storia segnata dalla contraddittorietà: nella vita le prove, le sofferenze e le preoccupazioni non mancano e  Paolo non lo nasconde, tuttavia invita i cristiani di Filippi a far attenzione a che queste ansie non le soffochino. Di fondamentale importanza per conservarle sarà l’esercizio costante della preghiera: “in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (v. 6).

    Frutto della gioia, sorretta dalla preghiera, sarà l’esperienza di una profonda “pace” (v. 7; cfr 1Ts 5,23; 2Cor 13,11; Fil 4,9; Gv 14,27). Si tratta di una pace che pervade tutto l’essere e diviene esperienza unica non paragonabile a nessun’altra perché comporta un’unione con Dio, cosa “che sorpassa ogni intelligenza“. Come spiegare infatti la gioia e la pace in mezzo alle tribolazioni e sofferenze come testimonia lo stesso Paolo che scrive queste righe dal carcere?

    Questa “pace” è in grado d’essere “sentinella” (“custodirà”) dei pensieri e degli affetti che si affacciano al cuore; operando un fondamentale discernimento preserva il cuore da turbamenti e agitazioni inutili. Ciò che dà pace non può infatti se non venire da Dio!

    Segue un elenco di virtù umane e cristiane in cui continuamente i credenti dovranno esercitarsi; Nulla di quanto è profondamente umano può essere disprezzato dal credente: “Tutto ciò che è vero… tutto ciò che è giusto….” (v. 8).  E’ un vero e proprio programma di vita quello proposto dall’apostolo. L’esortazione infine termina con due imperativi: “questo attiri la vostra attenzione…questo mettete in pratica” (v. 9) in altre parole: questo pensate e questo fate!
    A Paolo non resta concludendo che rimandare con sollecitudine i suoi cristiani agli elementi del cammino di iniziazione cristiana ovvero catecumenale da lui annunciati e che devono rappresentare i fondamenti stabili e sicuri del loro cammino di fede pur in mezzo a tutte le difficoltà : “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!”. Solo questa obbedienza alla Parola sarà sorgente di vera pace e non di divisioni o inutili antagonismi che denotano il più delle volte l’aver perso questo essenziale punto di riferimento.

    Collactio

    Dall’ascolto di questa Parola di Paolo apostolo alla comunità di Filippi cerchiamo di trarre qualche spunto di meditazione applicandola alla vita.

    Anzitutto sottolineiamo come la “gioia e la corona” per Paolo è la comunità di credenti che lui ha generato attraverso l’annuncio della Parola del Vangelo: egli non si gloria di strutture, opere e successi umani transitori, ma riconosce che quella comunità, pur con tutti i suoi limiti, è il “coronamento” di un’azione che non è solo e anzitutto sua ma dello Spirito del Signore Gesù: questa comunità è da lui considerata la sua “corona” ovvero il tesoro prezioso, che lui ama e desidera custodire ad ogni costo.

    Di che cosa anzitutto noi ci gloriamo quando prendiamo in considerazione le nostre comunità? Il parroco si gloria dell’oratorio nuovo oppure della chiesa appena restaurata, il superiore della comunità illustra il numero di iniziative e opere messe in atto e portate avanti magari con eroismo ma forse è raro trovare il pastore che si gloria anzitutto della sua comunità, riconoscendovi il dono prezioso del Signore di cui prendersi amorevolmente cura prima ancora che dei muri e delle tante attività.

    Il “patrimonio” da custodire nelle nostre comunità non sono anzitutto le opere che realizziamo o le strutture che possiamo ancora innalzare o “tenere in piedi” ad oltranza: il rischio va in questa direzione perché sono queste realtà ad  attirare i riflettori, i consensi e gli applausi ma a poco o nulla servirebbero se non fossero espressione di una realtà ben più importante: quella costituita da quelle persone con dei volti precisi che il Signore ha raccolto in una sola famiglia perché il loro amarsi testimoni al mondo la possibilità e la bellezza della carità che da Dio attraverso Cristo ci è stata donata: purtroppo tante opere pur belle, nuove e splendenti di pulizia e ordine sono vuote, asettiche e fredde perché non trasmettono alcun calore, sono prive di vita, anche se ben organizzate: il motivo? Sono prive del primato della passione per il Regno di Dio, spesso sono solo autocelebrazione. Al Regno di Dio tutto questo non serve, anzi ne è ostacolo! Così purtroppo talvolta privi di discernimento come siamo scambiamo come patrimonio inalienabile ciò che non lo è.

    Una seconda riflessione che traiamo dal nostro testo consiste nel fatto che il tesoro, il “patrimonio” della comunità è purtroppo sempre minacciato di… estinzione. Le contraddizioni e le fratture, come nella comunità di Filippi, sono inevitabili a causa delle rivalità, gelosie, invidie, rancori… che si annidano nei nostri cuori e che affiorano anche se, come Sintiche ed Evodia, ci siamo indaffarati fino ad un minuto prima, a pieno ritmo per la causa del Vangelo! E’ la nostra povertà, la conseguenza della ferita del nostro peccato che ci porta a vedere nell’altro un antagonista e una minaccia e questo rischia di produrre nella comunità un’azione disgregante. Non bisogna scandalizzarsene perché si tratta di prendere umilmente atto della nostra realtà di creature segnate dal peccato e bisognose di guarigione. Jean Vanier ha scritto un testo intitolato: “La comunità: luogo di festa e di perdono“, in esso ricorda come la comunità non sia formata da uomini e donne perfetti perché tutti siamo feriti, chi più chi meno, nella capacità di amare ed essere amati: la comunità diviene così palestra in cui continuamente esercitarci nel perdonare e nell’essere perdonati: “La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti che prevaricano, situazioni nelle quali le suscettibilità si urtano. E’ per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un’accettazione che è un mutuo perdono quotidiano. Se si entra in una comunità senza sapere che vi si entra per imparare a perdonare e a farsi perdonare settanta volte sette, ben presto si renderà delusi” (J. Vanier, op cit.). Solo con questo costante atteggiamento si può costruire concretamente una comunità e accrescerne il vero “patrimonio” che è quello dell’amore che dà testimonianza. Questo è possibile se in ciascuno prende consistenza la consapevolezza che la comunità va costruita con l’apporto di tutti sapendo che è necessario, come fa Paolo, mettere in atto tutte le possibili strategie che possono aiutarci a preservare il “patrimonio” della comunità dall’estinzione. Spesso noi purtroppo ci arrestiamo di fronte ai problemi e non attuiamo nulla per risolverli cosicché il male si irretisce sempre più scavando fosse di divisione sempre più profonde. Quali gli strumenti privilegiati? Il ritrovarsi attorno alla Parola lasciando che sia lei e non noi a giudicare e illuminare la vita di tutti e di ciascuno facendoci intravedere  la direzione da percorrere, e poi un’autentica e sincera correzione fraterna vissuta guardandosi negli occhi e tenendo ben fisso l’obiettivo che è in primo luogo la propria conversione  prima che la conversione dell’altro, infine il dialogo e la condivisione sono per ogni comunità gli strumenti essenziali per costruire e/o sanare autentiche relazioni. Tante preghiere stereotipate e sganciate dalla vita non servono a nulla! I problemi ci saranno sempre e comunque, non bisogna illudersi su questo, ma l’importante è saper usare gli strumenti adatti a risolverli giorno per giorno, con una pazienza fiduciosa perché riposta nella fedeltà di Dio. Ricorda il documento “La vita fraterna in comunità” che “dal dono della comunione scaturisce il compito della costruzione della fraternità, cioè del diventare fratelli e sorelle in una data comunità dove si è chiamati a vivere assieme. Nell’accettazione ammirata e grata della realtà della comunione divina che viene partecipata a delle povere creature, proviene la convinzione dell’impegno necessario per renderla sempre meglio visibile attraverso la costruzione di comunità “piene di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52 )” (n. 11).

    Una comunità capace di questo non può dunque non sperimentare una gioia profonda, che non è da confondersi con la risata sguaiata o con la pungente ironia. Si tratta di una gioia che scaturisce dalla certezza che “il Signore è vicino“: non siamo soli, lui sta sulla barca con noi in mezzo alle onde in tempesta anche quando ci sembra che dorma, e allora nulla può nuocerci se lui è sentito presente: “Io sono in mezzo a voi tutti i giorni” cosicché il cuore rimane stabile e nella pace in ogni situazione: “la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (v. 7)

    Infine non scordiamo che “patrimonio” fondamentale d’ogni comunità sono il “deposito della fede” e del “carisma” ricevuti in dono. La premura della comunità deve essere quella di conservare e rafforzare la fede prima dei muri, il dono spirituale del carisma prima che le sue concretizzazioni storiche sempre provvisorie e passibili di cambiamento. Non scordiamoci che il “patrimonio” della fede e della comunità che su di essa si costruisce come casa sulla roccia si sperpera stoltamente quando le energie sono investite, come purtroppo spesso accade, in direzioni sbagliate. E’ al saldo fondamento della fede che occorre ancorare, assicurandolo fortemente il nostro vero “patrimonio”.

    Oratio

    Il salmo dice: “Chi si gloria nei carri e chi nei cavalli, noi siamo forti nel nome del nostro Dio”. Noi rischiamo sempre di gloriarci delle cose sbagliate perché privi di intelligenza spirituale. Donaci o Signore la grazia di poter riconoscere che la nostra gloria e forza sei Tu e la comunità che ci hai dato in dono anche se povera e segnata da tanti limiti e peccati: tu ce l’hai donata perché qui sperimentiamo il dono della tua presenza.

    Ho detto a Dio: fuori di te non ho altro bene”:  donaci di rimanere saldi in questa certezza che apre il cuore alla lode e sempre alla speranza, perché abbiamo sperimentato che “Dio solo basta!”.

    Quando questo non accade ci angustiamo, ci rattristiamo, ci preoccupiamo inutilmente e il cuore non è in pace e non può gustare la gioia. Non accade per il semplice fatto che abbiamo scambiato come ricchezza e patrimonio ciò che in realtà era di scarso o nullo valore, una tremenda svista che ci rende incapaci di scorgere il tesoro prezioso nascosto nel campo e la perla preziosa mischiata a tante altre cose inutili nel baule del mercante.

    E fa’ che ogni giorno con pazienza e tenacia, senza inutili abbagli, cerchiamo solo ciò che è nobile, giusto, puro, amabile, onorato perché riconosciuto come nostra ricchezza e unico nostro bene, solo  e avremo la pace che sorpassa ogni intelligenza.

    Signore Gesù custodisci i nostri cuori e i nostri pensieri nel tuo amore che è autentica e sola ricchezza e sorgente di stabile pace.

  • 23 Ago

    Lo vide e ne ebbe compassione

    Lectio di Lc 10,29-37

    di p. Attilio Franco Fabris

    È  con una certa ammirazione che ancora la gente minimamente informata, anche se lontana dalla fede, guarda alla Chiesa e in modo particolare alla vita consacrata, per il suo contributo benefico svolto a favore di quei settori della società in cui era ed è purtroppo ancora assente una presenza e un’azione di promozione della vita e della dignità di colui che viene considerato “ultimo”. Come ad esempio non ricordare il fondamentale ruolo sociale e culturale, oltre che ovviamente religioso, della chiesa e della vita monastica nella costruzione dell’Europa cristiana che l’ha vista impegnata a favore della promozione umana e spirituale con scuole, università e ospedali, grandi opere di edilizia e bonifica? Come non riandare poi a tutte quelle famiglie religiose che, soprattutto a partire dalla Controriforma sino ai nostri giorni, hanno svolto un servizio impareggiabile nel campo dell’assistenza ai poveri, ai malati e anziani, ai carcerati e ad altre fasce sociali diseredate?

    Si tratta di un patrimonio religioso e sociale che non appartiene solo ad un lontano passato. Esso è ancora quanto mai vivo e attuale, con figure di uno splendido spessore che per lo più vivono nel nascondimento e nell’anonimato perché il bene non fa rumore. Sono ancora oggi tanti gli uomini ma soprattutto donne che si piegano quotidianamente, con una fedeltà spesso eroica, sulle ferite di tanti fratelli e sorelle talvolta e pagando di persona questa loro scelta. Questa schiera di testimoni del passato e di oggi stanno a dire che la provvidenza fa sempre passare per la strada il “buon samaritano”, che ad immagine di Cristo, si prende cura dell’uomo ferito al bordo della strada. Essi ricevono dallo Spirito il carisma della compassione e trovano il coraggio di spendere la propria vita inginocchiati ai piedi del povero, facendosi così, con poche parole, concreto evangelo di un Dio che si china sull’uomo che grida, spesso in silenzio, il suo bisogno di aiuto.

    Chiediamo perciò per loro ma anche per noi allo Spirito un cuore capace di vedere, di farsi accanto, di compatire il piccolo e il povero che incontriamo abbandonato da tutti. Sia lo Spirito a donarci una “carità che non sia oziosa e che operi grandi cose”: “O Fuoco, abisso di carità, tu sei Fuoco che sempre ardi e non consumi:  tu sei pieno di letizia e di gaudio e di soavità.  Al cuore che è ferito da questa fiamma  ogni amarezza appare dolce,  ed ogni peso diventa leggero. E poiché ho detto che arde e non consuma,  ora dico che egli arde consuma,  e distrugge e dissolve ogni difetto, ignoranza,  ed ogni negligenza che è nell’anima.  Poiché la carità non è oziosa,  essa opera grandi cose” (s. Caterina da Siena 1347-1380).

    Lectio

    La parabola del “buon samaritano” è unita redazionalmente all’episodio della richiesta da parte del dottore della Legge di una delucidazione circa il problema del “cosa fare per avere la vita eterna?”.

    La riposta immediata di Gesù è in sintonia col vissuto religioso dell’uomo: egli lo rinvia infatti al nucleo di tutta la Toràh che è riassunto con il comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso” (10,27). Ma l’uomo di Legge non si accontenta di questa risposta: se per lui, il contenuto dell’amore verso Dio è, probabilmente, – non basta osservare la Legge! – non così è la seconda parte del comandamento riguardante l’amore del prossimo: in questo caso le cose si fanno più complicate perché occorre capire bene chi è il prossimo da amare. La sua deformazione religiosa è inguaribile: chiede a Gesù una casistica che lo aiuti a discernere chi sia il prossimo da amare in modo da avere la vita eterna! “E chi è il mio prossimo?”. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Pietro che domanda al maestro quante volte dovrà perdonare il fratello (cfr Mt 18,21). La domanda non è obsoleta; nell’AT è prescritto tale comandamento che però viene inteso come un dovere da assumere nei riguardi ci chi è membro del popolo eletto o al massimo del pellegrino che abita con i giudei; in tutta la letteratura rabbinica contemporanea a Gesù non si trova infatti nessuna ulteriore estensione al concetto di prossimo. Ad esempio nelle normative della comunità di Qumran troviamo questa posizione riferita in modo esplicito: “Amare tutti i figli della luce. Odiare tutti i figli delle tenebre”.

    Alla richiesta di delucidazione circa l’applicazione del comandamento Gesù risponde con una parabola. È tipico della sua pedagogia il non dare mai risposte immediate e teoriche alle domande che gli vengono rivolte. Egli preferisce condurre progressivamente l’interlocutore a scoprire da sé la risposta alla questione posta. E conduce a questa “auto-risposta” non attraverso complicati percorsi fatti di ragionamenti o concetti, ma molto più semplicemente – ma più incisivamente – attraverso immagini o esempi che obbligano al confronto non con la teoria ma con la concretezza della vita. Gesù fa quet’operazione anche in questo caso non rimandando il dottore della Legge nuovamente alle norme ma mettendolo a confronto con fatti concreti di vita.

    Così attraverso la parabola del buon samaritano Gesù porterà il dottore della legge ad un ribaltamento della domanda e della sua impostazione religiosa e morale aprendolo ad un orizzonte che oltrepassa ogni confine normativo.

    Ma veniamo ora alla parabola. Essa ci presenta una scena di vita non inconsueta al tempo di Gesù. La strada che discende da Gerusalemme a Gerico superando un dislivello di circa mille metri è deserta e nello stesso tempo percorsa da pellegrini e mercanti. Per tal motivo era infestata da bande di malavitosi dedite al saccheggio e ad assalti agli incauti viaggiatori. Al centro della parabola sta la figura di “un uomo” “lasciato “mezzo morto” che è stato assalito e ferito da briganti, egli è sul bordo della strada bisognoso di urgente aiuto. Intenzionalmente di quest’uomo bisognoso non viene detto chi sia, quale sia la condizione sociale, la nazionalità, la religione: potrebbe così essere chiunque, si tratti di un pio giudeo oppure di un delinquente o d’un eretico. È “solo” “un uomo” che ha bisogno urgente di un aiuto.

    I personaggi che appaiono nel racconto sono agli antipodi: da un lato due membri della classe elitaria e privilegiata, rappresentati da un sacerdote e da un levita, dall’altro appare inattesa e stridente la figura di un odiato e impuro samaritano. Ma sarà proprio quest’ultimo ad apparirà, a malincuore per il povero dottore delle legge, come colui che porterà a compimento il comandamento della legge che lo renderà beato ovvero erede della vita eterna. E non solo! Siccome il comandamento dell’amore trova in Cristo il suo supremo adempimento ecco che il samaritano diviene addirittura figura del Signore Gesù.

    Il sacerdote e il levita stanno tornando a Gerico alle loro case probabilmente dopo aver terminato il loro servizio al tempio. Entrambi vedono l’uomo sul ciglio della strada bisognoso di aiuto ma di tutti e due si dice che “passano oltre dall’altra parte” (v. 31). Non se ne esplicita il motivo: tutti i motivi potrebbero dunque essere “buoni” per loro. Generalmente si porta come motivazione la normativa circa la purità legale (cfr Lv 21) ma questo varrebbe solo per il sacerdote e non per il levita. Fosse questa la motivazione la lettera della legge permetterebbe loro di sentirsi “a posto”, ma eludendo lo spirito ultimo della legge stessa (Cfr Lc 11,42). Ma più che le motivazioni, che non vengono riportate, all’evangelista interessa piuttosto mettere in scena queste due categorie di persone che rappresentano l’elite religiosa della società giudaica in modo da poterle poi confrontare con l’inatteso personaggio successivo: un samaritano!

    Infatti gli ascoltatori si aspetterebbero, dopo il sacerdote e il levita, l’entrata in scena di un pio giudeo laico (la parabola assumerebbe così un condiviso e diffuso tono anticlericale!). Ma ecco che Gesù, ribaltando queste attese, fa entrare in scena un personaggio scomodissimo per tutti: un odiato, eretico e impuro samaritano! (v. 33).

    La descrizione della condotta del samaritano è fatta con cura in modo da sottolinearne il valore. L’evangelista usa diversi verbi: “passandogli accanto lo vide…n’ebbe compassione…gli si fece vicino… gli fasciò le ferite” (vv 33-34).

    Tra questi verbi uno in modo particolare colpisce per la sua importanza: “ne ebbe compassione” (lett. “si mossero le sue viscere” in riferimento alle viscere materne). Questo verbo “materno” è usato nella Sacra Scrittura per descrivere la compassione di JHWH  verso il povero e il debole, ed è il verbo applicato anche nel Nuovo Testamento a Gesù quando incontra l’uomo bisognoso di aiuto (cfr Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). Si comprende come bene la tradizione abbia sempre visto nella figura del samaritano la figura di Cristo e di conseguenza di Dio stesso che in lui rivela la sua compassione per l’uomo. Alle azioni esterne del samaritano corrisponde dunque un più decisivo e importante movimento interiore (“ne ebbe compassione”) che le motiva..

    Sulle piaghe dell’uomo il samaritano verso vino e olio (nella farmacopea del tempo il vino disinfetta e l’olio lenisce il dolore). Sono certamente dei dettagli che hanno tuttavia lo scopo di far intendere come per Gesù l’amore deve tradurre in gesti concreti.

    Il samaritano è colui che “si prese cura” dell’uomo bisognoso. La stessa espressione ritorna sulle labbra del samaritano al momento della consegna del malcapitato all’albergatore: “prenditi cura di lui” (v.35): la sua opera è in certo qual modo lasciata in eredità, essa va continuata e deve coinvolgere tutti.

    Il dottore della legge, preoccupato della sua casistica, aveva chiesto: “Chi è che devo amare?” ovvero “chi devo considerare prossimo?” (cfr Lv 19,18). Gesù gli risponde addirittura ribaltando l’interrogativo e la prospettiva: “Chi è che ha amato?”. Ovvero “Chi si è fatto prossimo?”. Il dottore della legge deve riconoscere (probabilmente a malincuore e a denti stretti!) che l’odiato samaritano è l’unico ad aver agito giustamente (v. 37).  Le posizioni si sono rovesciate rendendo impossibile una prospettiva impostata sulla casistica. Avviene scandalosamente che l’eretico pratica meglio l’insegnamento della legge del fedele giudeo. Gesù spinge ad un’interpretazione della legge non più legata ad una definizione giuridica ma ad un amore vissuto che rende “prossimi” al “prossimo” che si incontra lungo la strada di ogni giorno.

    La parabola termina con un forte invito-imperativo da parte di Gesù all’uomo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v. 37). La risposta è data: la condizione per entrare nella vita eterna (v. 25) è un amore che rende prossimi e si traduce in gesti concreti di compassione e misericordia.

    Collatio

    Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Alla domanda dell’uomo di legge preoccupato della propria giustificazione potremmo rispondere con le parole del profeta Michea:  “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,88). Dinanzi alla prospettiva di un comandamento che apre ad una giustizia e pietà che, in Cristo, non conoscono ormai più confini, la coscienza  ristretta preferirebbe piuttosto chiare delimitazioni per sentirsi giustificata, “a posto con se stessa”.

    Gesù capovolge questa visione nel grande discorso programmatico sulla montagna: “avete inteso, ma io vi dico…” (Mt 5,43-44),  qui egli addita una “giustizia più grande di quella degli scribi e farisei” (Mt 5,20).

    Alla preoccupazione di chi si deve considerare prossimo in modo da offrigli l’aiuto necessario Gesù risponde che è essenziale ribaltare la questione: sono io che devo farmi prossimo. Questo è lo spirito autentico e ultimo della Legge! Prospettiva oltremodo scomoda perché impedisce di porre limiti, di poter alla fine dire: “Ho fatto quel che dovevo”. Accettare la conclusione della parabola implica accettare di oltrepassare tutti quegli schemi e confini in cui vorremmo ingabbiare, per comodità di gestione, il comandamento dell’amore. Solo chi non ama sta a domandarsi chi sia il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuare, qui ed ora, chi è e dov’è il suo prossimo perché per lui non esistono più “spazi neutri”.

    Mi ha sempre colpito la frase scolpita a caratteri cubitali sulla facciata della “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino, che il Cottolengo riprese da Paolo apostolo: “Caritas Christi urget nos- L’amore di Cristo ci sospinge… ci obbliga…”. L’opera del Cottolengo come di tanti e tante altre non risponde ad una generica emozione e sempre passeggera filantropia, ma sgorga come risposta ad un incontro con un amore “smisurato” e immeritato che ha cambiato il modo di guardare alla vita: è l’incontro con Cristo che per primo si è chinato su di noi come buon samaritano. Se si sperimenta questo amore come si potrà trattenerlo solo per se stessi? Come non donare ad altri questa sovrabbondanza di compassione ricevuta? Come non mettere in atto nella storia segni di speranza e di amore perché altri si sentano a loro volta amati da Dio? Scrive Giovanni Paolo II: “la sincerità della risposta all’amore di Cristo conduce a vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri” (VC 82). È l’amore di e per Cristo che oramai spinge, obbliga a chinarsi verso il piccolo, al povero e il sofferente, verso colui che, agli occhi del mondo, non conta ed è quindi scartato e rifiutato:  “E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,39-40)).

    Non è più possibile a chi ha fatto esperienza dell’amore di Cristo “non vedere” e “passare oltre”.  La giovane suora madre Teresa di Calcutta era sul treno diretta verso la sede degli esercizi spirituali. In una stazione vede un povero moribondo sul marciapiedi abbandonato da tutti: che fare? continuare il suo viaggio – non ci sono i santi esercizi che attendono! – o scendere dal treno e prendersi cura dell’uomo? La scelta è subito fatta, e sarà determinante per il suo futuro e per la nascita dell’istituto delle Suore della Carità. È vero che “l’opzione per i poveri è insita nella dinamica stessa dell’amore vissuto secondo Cristo “ (VC 82) .

    Come il sacerdote e il levita rischiamo invece di non lasciarci coinvolgere da questo amore, e così passiamo oltre girando lo sguardo altrove, apportando certamente valide motivazioni capaci di mettere a tacere la nostra coscienza così religiosa: “Non tocca a me… se dovessi farmi carico di tutti sarebbe finita… ci devono pensare altri…non posso risolvere tutti i problemi… ci sono cose più urgenti… Ma alla fine non è colpa mia se l’è cercata lui!…”. Siamo così abili ad escogitare scappatoie per poter passare oltre le ferite altrui “illesi” nella nostra falsa coscienza.

    Come non ricordare a questo punto una figura straordinaria di “buon samaritano” dei nostri giorni quale è stato Roul Follerai: spese tutta la sua vita dopo aver incrociato casualmente la sofferenza dimenticata dei lebbrosi. Capì che la sua vita poteva e doveva essere ormai spesa nel chinarsi su  quegli uomini piagati e rifiutati. Sono sue queste parole dette in tutta coerenza: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo.” Follerai cercò di coinvolgere non solo la moglie, bensì il mondo politico, religioso e culturale perché superasse l’indifferenza o la dimenticanza di questo problema. La sua associazione vive e opera ancor oggi con migliaia di volontari.

    Si tratta perciò in primo luogo di saper “vedere” “l’uomo al bordo della strada”! Non è poi così scontato perché restringiamo senza accorgerci il nostro orizzonte alle nostre piccole cose non accorgendoci che così facendo restringiamo la nostra capacità di amare. Il Signore ci invita ad “udire il grido del povero”, “alzare lo sguardo” e “vedere”.

    Solo così può scaturire in noi la compassione. Questa è virtù estremamente rara nella cultura sempre più narcisistica nella quale siamo immersi e che ci vorrebbe costantemente impegnati a centrare tutto su noi stessi, non si ha tempo per gli altri, ci sono sempre cose più importanti da fare. “Cum-patere” significa “soffrire insieme””. In questo senso il primo samaritano è Cristo stesso che porta su di sé, agnello e servo di Dio tutta la nostra infermità. Egli la “con-divide” ovvero la “divide con noi” portandola  insieme a noi. Nelle “Cronache domenicane” del XIII sec. narrando della vita di san Domenico l’agiografo scrive: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione”. “Portare il dolore – di tutti e indistintamente – nel santuario della compassione” è il vertice della sequela di Cristo perché è conformazione piena a lui, che è com-passione di Dio fatta carne. Perché Cristo stesso si identifica col piccolo e il povero, il servizio resi a questi è reso a Cristo stesso: “Cristo si trova sulla terra nella persona dei suoi poveri…Come Dio, ricco, come uomo, povero. E infatti lo stesso uomo già ricco ascese al cielo, siede alla destra del Padre eppure quaggiù tuttora povero soffre la fame, la sete, è nudo” (Agostino, Sermoni 123).

    “Avere compassione” non è questione solo di pii sentimenti o facili entusiasmi. La vera compassione, insegna la parabola, si traduce in scelte e gesti concreti perché “il vangelo si rende operante attraverso la carità” (VC 82). L’apostolo Giacomo ammonisce a non cadere nel tranello di una fede vuota di opere, fatta solo di buone intenzioni e perciò inconsistente e perversa: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2,2-4). La fede vera si traduce obbligatoriamente in opere, ed è quindi con riconoscenza che vediamo come lo Spirito abbia spinto e spinge tuttora a porre in atto gesti concreti di “com-passione” – non importa se grandi o piccoli, anonimi o pubblici – che testimoniano al mondo che Dio “Caritas est”.  “La compassione – scrive p.J. Fuellenbach – non è solo passiva. Richiede la rimozione di ciò che pregiudica la vita in coloro che soffrono. Gesù ha sempre risanato la persona e l’ha portata nuovamente nel tessuto delle relazioni vitale (giustizia)”.

    Prenditi cura di lui” è la consegna che il samaritano fa all’albergatore affidandogli la cura dell’uomo ferito. Il suo servizio diviene così capace di coinvolgere altri, di responsabilizzare altri a proseguirlo. In questo modo si intesse una cultura di “com-passione”, di solidarietà. Le comunità cristiane e religiose dovrebbero divenire autentiche scuole di questo servizio e quindi di evangelizzazione. “Servire i poveri è atto di evangelizzazione e nello stesso tempo sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata, poiché – come dice san Gregario Magno – «Quando la carità si abbassa a provvedere anche agli infimi bisogni del prossimo, allora divampa verso le più alte vette. E quando benignamente si piega alle estreme necessità, allora vigorosamente riprende il volo verso le altezze»“(VC 82). Come non guardare con gratitudine a apprezzamento al sempre maggior coinvolgimento di laici/che in tanti settori di servizio un tempo strettamente riservate alle persone consacrate. Questo non mancherà di portare frutti abbondanti di vita e di testimonianza cristiane! Occorrerà tuttavia tenere sempre presente il rischio di ricadere in un’ottica che vuole tutto organizzare, prescrivere, delimitare. Si cadrebbe così ancora una volta nel tranello della “Legge”. La misura del “fare” non potrà mai essere predeterminata a priori così che sia possibile pensare un momento in cui essa sia esaurita, in cui l’esigenza dell’altro non ci interpella più; essa invece resta inesauribile perché tale è l’appello che ci è rivolto dalla presenza dell’altro.

    Che cosa dobbiamo fare per avere in eredità il Regno? Dio vuole che accogliemmo il suo stile, il suo farsi prossimo ad ogni uomo senza distinzione alcuna. L’attenzione e la cura data all’uomo bisognoso che giace al bordo delle strade delle nostre città diviene annuncio della Buona Notizia di un Dio che si fa vicino all’uomo amandolo concretamente; la vicinanza all’ultimo diviene sacramento della vicinanza di Dio all’uomo.

    Oratio

    È veramente giusto lodarti e ringraziarti, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, in ogni momento della nostra vita, nella salute e nella malattia, nella sofferenza e nella gioia, per Cristo tuo servo e nostro redentore. Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto. (Prefazio Comune IX del Messale Romano).

« Previous Entries