• 25 Gen

    Storia della Parrocchia di Sambuceto
    Tratta principalmente da
    “Nel Bacino Imbrifero dell’Entella.
    Val di Graveglia”

    di don Luigi Biagio Tiscornia

    La chiesa parrocchiale, col suo coro ad oriente, sorge quasi a metà del versante occidentale del monte S. Giacomo. E’ dedicata ai SS. Cipriano e Giustina che furono un tempo titolari di due chiese separate, cioè S. Giustina, titolare della parrocchiale, e S. Cipriano, titolare dell’oratorio, resi contitolari della parrocchia odierna nel 1836. Anticamente la Chiesa di Sambuceto dipendeva dalla Pieve di Lavagna, successivamente passò alla Pieve di Sestri, quindi al Vicariato di Libiola. In documenti assai antichi è ricordata la villa, la chiesa e l’oratorio di Sambuceto. Pare che i monaci benedettini, governanti la Prioria di Graveglia e l’Abbazia di Borzone, siano stati i fondatori della Chiesa di Sambuceto. Nel 1582 il Visitatore Apostolico Mons. Bossio propose la traslazione della cura parrocchiale nell’oratorio di S. Cipriano, avendolo trovato più bello del tempio parrocchiale, il che in seguito venne fatto dall’Arcivescovo di Genova. Ecco il decreto di Mons. Bossio: Ecclesia parrochialis S. Iustinae Sambusae – Oratorium S. Cipriani Sambusae – “Cum hoc Oratorium sit pulchrius Ecclesia parrochiali, deservire poterit loco ipsius ecclesiae; modo ab Ordinario potestas fiat etc.”. Verso il 1600 la popolazione di Sambuceto fu distrutta dalla peste e, non essendovi rimaste che due sole famiglie, la chiesa parrocchiale perdette la cura, passando aggregata alla parrocchia di S. Giacomo di Loto, che allora era sottoposta alla Pieve di Sestri Levante. Anche Domenico De Paoli (che fu custode della Chiesa di Sambuceto e poi nel 1835, ricostituita la parrocchia da Mons. Tadini arcivescovo di Genova, ne fu nominato primo parroco) riferisce che la Chiesa di Sambuceto dapprima era succursale di Zerli, quindi, in epoca ignota, lo divenne di Loto, da cui fu smembrata. Infatti il 14 luglio 1834 Mons. Tadini arcivescovo di Genova, nella visita pastorale fatta a Loto, vide questa succursale uffiziata come parrocchia; intese pure che il suo custode per consuetudine aveva il titolo di rettore, eletto dal popolo col consenso delparroco, e accolse l’istanza dei Sambucesi, e dopo otto mesi, cioè con suo decreto del 31 marzo 1835, la dichiarò parrocchia. Va notato che allora S. Giustina fu tramutata in cimitero e l’oratorio di S. Cipriano, tramutato in parrocchia, d’allora in poi ebbe la denominazione dei due titolari, cioè S. Cipriano e S. Giustina di Sambuceto. La chiesa nei suoi muri porta visibili tracce della sua antichità, che si vedono specialmente nella parte esteriore dell’abside, che è tutta di pietre quadre all’uso antico, ma internamente scialbate alla moderna. Vi sono tre altari: il maggiore e due laterali che sotto la reggenza del parroco Cuneo furono incavati nei rispettivi muri per oltre un metro. La cancellata del presbiterio è d’ardesia e nel coro i sedili di pietra secondo l’antico costume degli oratori. La vasca del fonte battesimale reca la data 1578. Sul campanile, oltre l’orologio, posano tre campane. La casa canonica fu costruita nel 1915. La festa principale è quella di S. Cipriano, che dal 26 settembre è trasportata alla prima domenica di agosto.

  • 22 Gen

    Note relative al Monastero di S. Andrea di

    Borzone desunte dai documenti notarili del

    notaio Andrea de Cairo, A.S.Ge –


    anni 1445-1451


    di Giovanni Ferrero


    Alcuni documenti notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Genova nelle filze del Notaio Andrea de Cairo tramandano oltre alle notizie tecniche relative ad acquisizioni, vendite, ed a quanto il mondo notarile disponeva per la legalità e la veridicità documentata anche alcuni rilievi di carattere cronachistico e toponomastico. Sono questi piccoli elementi che aiutano, in alcuni casi, a ricomporre la storia di uomini e di cose del nostro passato. Elementi inseriti nella formulazione documentaria che potrebbero non necessariamente farne parte ma che estrapolati dal contesto nel quale sono stati posti arricchiscono e migliorano le nostre conoscenze. È il caso delle brevi notizie relative al Monastero di San Andrea di Borzone. Ampi studi sono stati dedicati a questo importantissimo centro monastico sia per quanto riguarda le interessantissime vestigia architettoniche sia per quanto riguarda la sua funzione quale punto di riferimento per la diffusione religiosa nelle vallate appenniniche. Il lettore viene quindi indirizzato per gli approfondimenti a questi studi specifici di settore 1. Quanto di seguito riportato si propone lo scopo di trasmettere alcune notizie storiche riguardanti il complesso monastico e la sua conduzione tra il 1442 ed il 1451. Un documento datato 1 ottobre 1442 (Filza 781, doc.193) stipulato in Genova nella chiesa di S.Maria di Castello alla presenza di Fre Michele de Bandelis, priore della chiesa di Santa Croce, e Fre Filippo de Palagio, monaco del monastero di S.Maria di Castello, riferisce la presenza di Fre Cristoforo Ravaschieri Abate titolare del Monastero di S.Andrea di Borzone e di Fre Galzebart de Ulma, della diocesi de Alemania, monaco nello stesso monastero. Il documento datato 12 novembre 1442 (Filza 781, doc.198) rogato “in strada o platea” della chiesa di S.Maria di Castello di Genova con testimonianza di Fre Michele de Bandelis, priore della chiesa di Santa Croce, e di Gaspare Strata de Clavaro figlio di Pellegro e Benedetto de Vallario di Monelia, laici della diocesi di Genova, vede il Dom. Fre Cristoforo Ravaschieri Abate del Monastero di S. Andrea di Borzone dell’ordine di San Benedetto disporre l’incarico al suo procuratore Fre Filippo de Perago dell’Ordine di San Benedetto per il ricavo di alcuni suoi redditi. Il Venerabile Presbitero Dn. Fre Cristoforo Ravaschieri Abate del Monastero di S.Andrea di Borzone dell’Ordine di S. Benedetto della diocesi di Genova appare nel documento del 10 marzo 1442 (Filza 781, doc.121) rogato nella chiesa di S.Maria di Castello. La consequenzialità dei documenti porta ad ipotizzare che il Venerabile si fosse stabilito in città e tale ipotesi viene confermata dalla documentazione datata 1443 al 12 dicembre (Filza 781, doc. 316) con atto rogato in Genova “in via pubblica juxta hospitalis St. Antoni Jan.”che vede testimoni i Ven. Viri Dns.Gregorio de Anchona archidiacono della chiesa savonese e Fre Benedicto de Nigrono priore del priorato di S.Antonio di Genova. Nella documentazione viene chiaramente espresso che il “reverendo in Cristo Padre Dns. Fre Cristoforo de Ravaschieri Abate del Monastero di S. Andrea di Borzone è dimorante in Genova”. In questa occasione egli nomina Fre Gregorium de Verdura rettore della chiesa di San Quirico “de Pulcifera” suo procuratore con ampio mandato. Il 1 febbraio 1444 (Filza 782, doc. 11) con atto rogato in “Claustro” del Monastero di San Siro con le testimonianze del Presbitero Bartolomeo Ferrufinis de Alexandria e Damiano de Pastino notaio, viene posto in evidenza la presenza di un’altro Ravaschieri cioè Thebaldo de Ravaschieri 2. Nella documentazione appare il Reverendo in Cristo Fre Quirinus Bondenariis Abate del Monastero di San Siro di Genova che dispone la convocazione e riunione dei confratelli cioè: Fre Obertus Benvenuti, priore claustrale, Fre Bartolomeo de Florentia, Fre Gregorius Bondenariis, Fre Raffael de Capriata, Fre Jeronimo de Podio tutti monaci professi. In questa occasione viene discussa una controversia relativa ai beni di spettanza al monastero appartenenti a Fre Thebaldo de Ravaschieri monaco in detto monastero. Con il documento datato 3 febbario 1445 (Filza 782, doc 138) rogato in Genova in “contrada S.Antonio in quandam domo priore S.Maria de Tario” con le testimonianze del Presbitero Guglielmo de Bonoynis Cappellano della chiesa di San Luca di Genova e Battista de Vignolo q.dam Inofri e Jacobo Scarpa de Sigestro vengono segnalate le difficoltà nelle quali veniva a trovarsi il complesso monastico di Borzone. La consuetudine di disporre le dotazioni e le donazioni agli enti monastici di terreni e di beni immobili aveva costituito l’insieme di possedimenti sparsi nel territorio ed in qualche caso anche ubicati ad una significativa distanza dalla sede monastica stessa 3. La documentazione mette in evidenza che il Monastero di S.Andrea di Borzone era proprietario di possedimenti e terre poste nella Villa Colleralli nella Valle Sturla (Ora Corerallo, Isola di Borgonovo, nel Comune di Mezzanego) coltivate con vigna ed altre essenze arboree e con due case contigue ed altri piccoli appezzamenti che erano appartenuti al q.dam Bartolomeo de Collerallo padre di Domenico di Collerallo “pia ipsorum largitive a prefato monastero”. Questi beni si trovavano in cattive condizioni a causa di “guerrarum turbines et calamitates” in quanto queste terre ed i beni subirono delle devastazioni ed “afflicte fuere”. Il Reverendo in Cristo Fre Cristoforo Ravaschieri Abate del monastero di S.Andrea di Borzone in qualità di responsabile proprietario del bene dispone per la riedificazione delle case esistenti in questo bene. Nella documentazione viene pure segnalato che in quel periodo il monastero non aveva più monaci. Le proprietà secondo la documentazione vennero locate a Domenico di Collerallo q.dam Bartolomeo a livello perpetuo affinchè il fondo potesse essere rimesso in ordine. Il 20 maggio 1445 (Filza 782, doc. 206) viene rogato un documento nel Monastero di San Siro “in camera cubiculari” alla presenza del Presbitero Jacobo de Pinu de Sigistro, cappellano nella chiesa di questo monastero, e Philippo de Zuchareto cittadino genovese. La documentazione è riferita all’esame della petizione espressa da Thebaldo Ravaschieri monaco del monastero in “sacerdozio constituito” per l’ottenimento del trasferimento ad altro monastero. Licenza che gli venne accordata. Il 7 agosto 1445 (Filza 782, doc. 267) con atto rogato a Genova nella chiesa di S. Antonio nella cappella della Beata Maria e San Martino “contigua” alla presenza dei testimoni Ven. Fre Lanfranco de Squassis rettore della chiesa di S. Nazaro e Celso di Arenzano, Fre Bartolomeo de Quarina rettore della chiesa di S.Fede e il Presbitero Jacobo de Pinu di Sestri (Levante) cappellano della chiesa del monastero di San Siro venne stipulato il documento col quale Fre Gregorius de Bondenaris Abate del monastero di San Siro concedeva il trasferimento di Fre Tebaldo Ravaschieri al monastero di S. Andrea di Borzone. I FIESCHI dovevano essere informati della disastrosa situazione nella quale si trovava la storica istituzione sia per i fortissimi legami che li collegavano ai Ravaschieri sia per l’importanza della istituzione in un territorio che da sempre faceva parte del loro presidio di controllo e di espansione 4. Nel documento datato 18 settembre 1445 (Filza 782, doc. 289), fatto in “ecclesia priorato S. Antoni” appare in qualità di testimone il Ven. Fre Peregrino de FLISCO di San Vittore e Fre Johanni de Venturini di San Sixto “Prioratum Prioribus”. Nella documentazione appaiono Cristoforo de Ravaschieri Abate di S. Andrea di Borzone e Fre Tebaldo de Ravaschieri monaco “in sacerdotio constituito”. Viene in questa sede evidenziata la sistuazione precaria nella quale si trova il complesso monastico di S. Andrea di Borzone” guerrarum turbinis calamitatis ….. distructum et inabitabile existet”. Viene evidenziato che i monaci non vi possono più vivere. Nella documentazione viene paventato il loro possibile trasferimento presso il monastero di “Sancti Donini de Placentia” dello stesso ordine . Il 2 agosto 1447 (Filza 783, doc.151) con documento rogato in “Claustro maiori eccl.e Januense” con testimoni il Presbitero Antonio de Mazascho cappellano della chiesa maggiore e Andrea de Bonaparte de Carascho cappellano nella chiesa “nova” di San Salvatore di Lavagna viene nominato Cristoforo de Ravaschieri “Abbas”. Anche in questo caso la documentazione prevede la alienazione dei beni appartenenti al Monastero. Appare Johanni de Federicis a cui vengono ceduti dei possedimenti terrieri cioè delle terre coltivate con alberi di castagne ed altre essenze poste nella podesteria di Varese (Ligure) “loco dicto Valleti” confinante in parte “superioris cacumina Montis Verujole, per aliis terre illorum de Lagoraria, et terre eccl.e St. Marie de Tario, et ad alio latere costa de Bissa Lanza” (Tenute Valleti, oggi, in Comune di Varese Ligure). Si assiste in questo caso alla permuta con più sicuri e fruttuosi “locorum septe comperarum St. Georgii”. Il documento 152 (Filza 783) del 4 agosto trasmette ulteriori notizie e le ragioni relative a questa cessione o permuta. Viene evidenziata la presenza del monaco Fre Ludovici de Alemania monaco professo in questo monastero di S.Andrea de Borzono “cum nulli alii monaci dicti monasterii existant” e che il ” Monasterio St. Andree de Borzono quandamodo destituito, propter guerrarum turbines, calamitates”. Per tali ragioni viene decisa l’alienazione dei possedimenti che non producono reddito sostituendoli con più certi luoghi di San Giorgio. L’Arcivescovo di Genova concede la licenza per questa procedura. Due documenti delineano la figura del compratore. 1447, 11 agosto (Filza 783, doc. 156) con atto stipulato in”sala super. palatii causarum” testimoni Antonio de Magistris e Jacobo Rondanina di Antonio cittadino genovese, appare il “Magnificus Comes Dns. Johanni de Federicis” cittadino genovese che revoca il mandato ai procuratori che agiscono a suo nome in “Sicilia et ultra farum” e nomina suo agente e procuratore il Nobile Andream de Auria del Dn. Petro de Auria. Trattasi di una procura relativa alle contrattazioni svolte a suo nome nel regno di Sicilia ed alle trattative nel territorio del “Serenissimo Principe e Dns. Alfonsus Dei Gratia Aragonensem”. La trattativa relativa alla permuta ebbe ulteriori sviluppi con il documeno 179 (Filza 784) del 27 luglio 1448 nel quale appare Fre Cristoforo de Ravaschieri ormai “residens in civitate Janue”e la trascrizione del benestare della curia romana a questa operazione. Nel documento 302 (Filza 784) appaiono anche i FIESCHI che si presume concordi nella operazione di permuta o alienazione. 1448, 26 novembre. Atto in Genova in “Claustro super.” della maggiore chiesa di Genova con la testimonianza del Ven. Dom. Dominico Folieta cappellano in detta chiesa e Thoma Cassinello de Carascho chierico della diocesi di Genova. Nella documentazioni appaiono il Dn. Antonio Tarigo canonico nella maggiore chiesa di Genova ed il “legumdoctoris” Dns. Cristoforo de Burgarolis in qualtà di procuratore del Magnifico Dn. JohanniLudovico de FLISCO, “Palatini et Lavania Comites” e del Dn. JohanniPhilippo de FLISCO suo figlio. Viene fatto riferimento ad una Bolla Pontificia di Papa Eugenio V ottenuta dall’Abate del monastero di Borzone relativa alla vendita dei terreni posti nella podesteria di Sestri (Levante) a Johanne de Federicis. I procuratori nominati sono Spineta Malaspina “magiscola” nella maggiore chiesa di Genova, Antonio de Cruxilia Preposito della chiesa di S. Adriano di Trigoso e Nicolau de Pontremoli canonico nella chiesa di S. Maria in Vialata. Il 27 novembre del 1448 (Filza 784, doc. 290), secondo anno di pontificato di Papa Nicolò V, con il documento rogato “apud St. Atonii” avente testimonianza del Venerabile Vesconte de Cella de Clavari figlio di Pietro e Baptista de Gazio de Boliascho “vitrerio” abitante in Genova vede Fre Cristoforo de Ravaschieri Abate di S. Andrea di Borzono approvare le rendite del priorato della Beata Maria de Monte Mulacij istituzione il cui priorato era condotto da Fre Lanzaroto de Marchesolis de Mulatio della diocesi lunense permettendo di rilevare che il priorato è al momento vacante. Che i possedimenti terrieri appartenenti all’Abbazia di Borzone fossero diffusi nel territorio se ne ha ulteriore notizia dal documento 146 (Filza 785) del 16 maggio 1449. Atto rogato in “claustro” superiore della maggiore chiesa di Genova con testimonianza del Presbitero Jacobo de Calestano e Jacobo de Matheo di Rapallo cappellani in questa chiesa maggiore. Appaiono il Ven.Vir Dn. Marcus de Franchis de Burgaro Preposito, Ludovico de FLISCO Archidiacono, Spineta Malaspina magiscola, Domenicus Folieta, Bartholomeus de Senis, Laurentio de Morelo de Rapallo, Antonio de Multedo, Antonio Tarigo de Rapallo, Franciscus de Peregrinis de Novis, Paulus Justinianus Canonici del Capitolo della maggiore chiesa di Genova nonché patroni dell'”Hospitalis Sancti Cristofori de Clavaro Jan.dioc.” e Frater Sthephanus de Mathia anconitano “Hospitalarius seu rector dicti Hospitalis St.Cristophari”. La documentazione è relativa alla locazione di proprietà terriere appartenenti all’Hospitale poste nella Villa di Rij a Theramus de Robo. Nella descrizione dei limiti confinari viene specificata la terra appartenente al monastero di S. Andrea di Borzono. La conclusione della transazione tra l’Abate Ravaschieri e Johanni de Federici relativamente ai beni posti “in loco Varisi e Lagorarie” detta “Valleti” venne stipulata con atto del 21 giugno 1449 (Filza 785, doc. 222). Se ne deduce che l’Abate risulta ormai “dimorante a Genova” ed il documento rogato in “plateali juxta hostium monasterio S. Antonii” con testimonianza dell’Abate del monastero di S. Antonio Fre Benedicto de Nigrono ed ancora un FIESCHI cioè Fre Peregrino de FLISCO priore della chiesa di San Vittore. Si può presumere che l’Abate Ravaschieri avesse posto la sua residenza presso il monastero di S. Antonio del suo stesso ordine. Una più specifica indicazione relativa al Dn. Johanni de Federicis viene suggerita dal documento 313 (Filza 785 del 4 dicembre 1449) nel quale viene chiaramente indicato quale “Martorane Comes”. L’elevata posizione sociale del compratore dei beni di “Valleti”viene chiarita in questo documento nel quale egli nomina suo procuratore il Nobile Salvagiu de Vivaldis del Dn. Lazari cittadino genovese “mercator Neapolis presentiler comorante” affichè possa esigere e ricevere dal Serenissimo Principe e D.no Aloiso “Dei Gratia Regi Aragonense” i beni prestati. Il doc. 54 (Filza 786) alla data 1450, 10 febbraio, vede la risoluzione di una controversia sorta tra il Ven. Dn. Ludovico de FLISCO “Prepositus” e Spineta de Malaspinis “Canonicus” della chiesa di San Salvatore di Lavagna in qualità di rappresentanti del Capitolo di questa chiesa nei confronti di Andrea Bacigalupis erede per la sua parte di beni del q.dam Sthephani Bacigalupis de Clavari. Vengono fatti dei riferimenti confinari tra i beni dei Bacigalupis e quelli di pertinenza al canonicato di Augustino de FLISCO. Si tratta di beni posti in “Villa de Mezanego ubi dicitur in Porcili”. Questi beni indicati con il toponimo “lo pastine” alberati con alberi di castagne confinavano con la terra apprtenente al monastero di S. Andrea di Borzone. Il documento 218 (Filza 786) del 21 ottobre 1450 vede Fre Cristoforo de Ravaschieri rappresentante il priorato di S. Eufemiano di Graveglia revocare il mandato ai precedenti procuratori e nominare al loro posto il Ven.Vir Dn. Johanni de Serra Presbitero “accolitu Sanctissimi Dn. Nostri Pape”. Carica di breve durata in quanto con il documento 128 datato 16 aprile 1451 (Filza 787) l’Abate Cristoforo Ravaschieri sempre abitante a Genova col consenso ed a nome del priorato di S. Eufemiano di Graveglia dipendente dal monastero di S. Andrea di Borzone annulla la procura concessa a Johanni Serra. Nella documentazione riappare Fre Ludovico de Ulmo de Alemagna che è ora monaco in S. Eufemiano. Anche in questo caso tra i testimoni è presente un FIESCHI, cioè Fre Peregrino de FLISCO priore del priorato di San Vittore. Queste brevi note possono indicare l’estesa ramificazione dei beni del monastero di S. Andrea di Borzone ed una ampia giurisdizione che lo vide avere la sovranità di S. Eufemiano di Val Graveglia ma anche quella del più lontano monastero di Mulazzo. I documenti notarili esaminati mettono altresì in evidenza una grande crisi nel territorio appenninico dovuta alle devastazioni derivanti dal passaggio di truppe, di razzie, di incuria e dalla diffusione di malattie. Molti beni appartenenti ad ordini ecclesistici ridotti in rovina anche da eventi metereologici ed abbandonati dai coltivatori affidatari vennero ceduti o permutati con luoghi di San Giorgio che promettevano un rassicurante rendita. Note [1] Quale punto di riferimento aggiornato relativamente alla storia ed alla architettura dell’Abbazia vengono suggeriti i riferimenti contenuti nelle relazioni che appaiono in: “Atti del Seminario di Studi ‘L’Abbazia di Borzone’ Memoria e Futuro. Chiavari 20 Ottobre 2001. Società Economica di Chiavari. Sala Ghio Schiffini”, Edizioni Accademia dei Cultori di Storia Locale (Via Ravaschieri, 15 – 16043 Chiavari), aprile 2002 [2] I Ravaschieri nobili Conti di Lavagna ed i Fieschi sono stati i maggiori detentori del titolo di Abate [3] L’Abbazia già dalle sue origini (1184) venne dotata dagli istitutori di estesi beni terrieri, e benefici, le dotazioni vennero poi ampliate particolarmente con le donazioni dei Fieschi che imponevano il loro controllo sul territorio del levante e nell’entroterra. Tale espansione di possedimenti si ebbe particolarmente grazie alle donazioni dei papi Innocenzo IV e Adriano V [4] I Fieschi iniziando dal secolo XIII avevano contribuito alla istituzione di numerose entità monastiche in particolare all’inserimento nel territorio tra mare e pianura di numerosi “hospitali” per la sicurezza e rifugio di pellegrini e viandanti. L’Abbazia di Borzone è posta ad incrocio tra le vie dell’entroterra e quelle per raggiungere i centri della Lunigiana e Toscana

  • 14 Ott

    Tra Parola ed Eucaristia

    Il monachesimo in modo particolare rivela che la vita è sospesa tra due vertici: la Parola di Dio e l’Eucaristia. Ciò significa che esso è sempre, anche nelle sue forme eremitiche, al contempo risposta personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e comunitario.

    E la Parola di Dio il punta di partenza del monaco, una Parola che chiama, che invita; che personalmente interpella, come accadde agli Apostoli. Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce l’obbedienza, cioè l’ascolto che cambia la vita. Ogni giorno il monaco si nutre del pane della Parola. Privato di esso egli è come morto, e non ha più nulla da comunicare ai fratelli, perché la Parola è Cristo, al quale il monaco è chiamato a conformarsi.

    Anche quando canta con i suoi fratelli la preghiera che santifica il tempo, egli continua la sua assimilazione della Parola. …

    Di fronte all’abisso della divina misericordia al monaco non resta che proclamare la coscienza della propria povertà radicale, che diviene subito invocazione e grido di giubilo per una salvezza ancora più generosa, perché insperabile dall’abisso della propria miseria [cfr. ad esempio S. Basilio, Regola breve: PG 31,1079-1305; S. Giovanni Crisostomo, Sulla compunzione: PG 47 391-422; Omelie su Matteo, om. XV,3, PG 57,225-228; S. Gregorio di Nissa Sulle beatitudini, om. 3: PG 44,1219-1232]. Ecco perché l’invocazione di perdono e la glorificazione di Dio sostanziano gran parte della preghiera liturgica. …

    Al culmine di questa esperienza orante sta l’Eucaristia, l’altro vertice indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel quale la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove essa torna a farsi evento.

    Nell’Eucaristia si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi per celebrare il dono di Colui che è offerente ed offerta: essi, partecipando ai Santi Misteri divengono «consanguinei» [cfr. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, IV: PG 150,584-585; Cirillo d’Alessandria, Trattato su Giovanni, 11: PG 74,561; ibidem, 12, 1.c., 564; S. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo om. LXXXII,5: PG 58,743-744] di Cristo, anticipando l’esperienza della divinizzazione nell’ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità.

    Ma l’Eucaristia è anche ciò che anticipa l’appartenenza di uomini e cose alla Gerusalemme celeste. Essa svela così compiutamente la sua natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il monaco prosegue e porta a pienezza nella liturgia l’invocazione della Chiesa, la Sposa che supplica il ritorno dello Sposo in un «marana tha» continuamente ripetuto non solo a parole, ma con l’intera esistenza.

  • 11 Set

    Il profeta e la pianta di ricino


    Lectio di Giona 4,5-11


    di p. Attilio Franco Fabris

    Un aforisma afferma: “Ogni  volta che mi guardo allo specchio mi convinco sempre più che Dio ha un ottimo senso dell’umorismo”. Non so se condividiamo questa intuizione: forse facciamo fatica a riconoscerci in essa perché un po’ tutti, piccoli aspiranti Narcisi, siamo sempre tentati di prenderci troppo “sul serio”. A questo proposito il romanziere Herman Hesse amava ripetere che: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio se stesso”. Quando l’uomo pretende di essere l’“ombelico del mondo”, quando vorrebbe essere cioè al centro di tutto e di tutti, riverito e applaudito, quando nella sua arroganza ritiene di dover assurgere al compito di giudice d’ogni cosa, quando è incapace di perdere allora manca di un sano realismo. Non sa vedersi cioè allo specchio per quel che è veramente. Questo è stato, come vedremo, il dramma del nostro povero Giona incapace di ridere di sé e di condividere il sorriso di Dio su di lui e sul mondo.

    Diceva Nathaniel Emmons che: “La pazzia distrugge la ragione, ma non l’umorismo”. Guardarci allo specchio attraverso gli occhi di Dio ci rinsavisce e fa tornare il sorriso sulle labbra e negli occhi perché ci introduce ad un sano umorismo che, alla fin fine, è una buona capacità di vivere il reale di sé, degli altri, delle situazioni, di Dio stesso che ride del riso di Sara (Gn 18,13). L’umorismo lo possiamo ben definire allora una delle virtù necessarie ad una vita autenticamente spirituale! È segno della presenza dello Spirito.

    Chiediamo allora allo Spirito il dono di saperci guardare allo specchio un po’ più spesso, un’occhiata di tanto in tanto al di fuori di noi stessi, ovvero  con una vena di sano umorismo: “I nostri occhi, o Spirito del Signore, avevano perduto la lucentezza di un tempo. Il sorriso s’era spento sulle nostre labbra tese. Il nostro sguardo s’era fatto anch’esso opaco e privo di gioia. E non potevamo più vedere oltre il campo ristretto dei nostro meschini interessi. Ma tu ci hai guarito gli occhi, li hai resi  trasparenti e sereni, occhi pieni di pace e comprensione. Hai allargato le labbra al sorriso che si fa accoglienza e perdono. Lo sguardo è stato  reso capace di riconoscere il sorriso e la pace  di Dio sul mondo”.

    Lectio

    Giona è chiamato da Dio a predicare la “penitenza” nella città di Ninive. Questa immensa città “lunga tre giorni di cammino”(3,3) è la capitale del regno assiro, e nella Bibbia è considerata l’emblema del mondo pagano (cfr Nm 3,7; Sof 2,13), città crudele e nemica acerrima del popolo d’Israele. (In questa metropoli straniera è ambientato anche il libretto di Tobia). Il compito che Dio affida a Giona non va assolutamente a genio al nostro protagonista: così lo vediamo imbarcarsi non verso la meta indicata ma esattamente in una linea di crociera che lo porta nella direzione opposta: la sua meta è addirittura la città di Tarsis che si trova in Spagna (1,1-3) ovvero il più lontano possibile da Ninive! Giona vuole scansare ad ogni costo l’incarico affidatogli che gli suscita da un lato timore e da un altro disapprovazione: da quando ora si deve predicare al nemico? Nella sua piccola testa non entra neppure l’idea della possibilità di una conversione della città avversaria; accettarne la possibilità metterebbe infatti troppo a rischio le certezze della “sua” religione!

    Mentre il nostro Giona è in fuga succede quella confusione che sappiamo: si scatena una terribile e inspiegabile tempesta.  C’è il pericolo che tutti affoghino (cfr. 1, 4) e continuare su quella rotta sarebbe solo una decisione insensata. In un barlume di lucidità Giona riconosce davanti ai marinai di aver peccato contro il suo Dio chiedendo perciò di essere buttato a mare (cfr. 14). Seppur a malincuore costoro allora lo gettato tra i flutti (cfr. 115) dove viene inghiottito provvidenzialmente – tra lo stupore dei lettori e prototipo del collodiano Geppetto – da una balena che lo ospita un po’ scomodamente a dir la verità nel monolocale del suo ventre (cfr. 2, 1).

    Nel buio pesto della pancia del cetaceo a Giona passa la voglia di mettersi a discutere con Dio.  Adesso in preda all’angoscia si mette a pregare e a scongiurare perché l’abisso della morte, che lo circonda da ogni parte senza che lui ne possa sfuggire (2,2), non lo travolga: “Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre(2,6s). Giona prende coscienza che la conseguenza del suo essere fuggito dalla sua missione e a voler far di testa sua è il ritrovarsi ora nelle profondità del mare, ovvero nell’inferno.

    Ma Dio “dopo tre giorni e tre notti (2,1)  gli fa dono della salvezza liberandolo dal suo “carcere” (2,3): Giona ributtato a riva, almeno per ora, è riconciliato con Dio e con la vita. (cap 2,11). E Jahvé dopo la salutare lezione gli rinnova il mandato della predicazione a Ninive. Gli sarà servita la tremenda lezione e l’esperienza di essere stato gratuitamente salvato?

    Per ora Giona sembra convertirsi e accettare il suo mandato. Così, pur non cambiando idea circa i pagani (cf 2,9), egli svolge la sua predicazione “forzata” nell’immensa metropoli. La sua parola ovviamente non può che essere fatta se non di minacce di castighi tremendi da parte del “suo” Dio: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!” (3,4). Guarda caso non gli passa minimamente per la testa di annunciare alla città la possibilità della conversione e quindi della salvezza! Lui ha già prestabilito il risultato.

    Ma la meraviglia è che ciò che tutti i profeti non hanno ottenuto per secoli con il popolo di Israele qui si produce all’istante: vi è una conversione generale, nessuno è escluso! Anche gli animali si convertono!  “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (3,10).

    La risposta di Dio è evidente… ma non per Giona!  La sua coscienza è ottusa e piccina: non era questo il risultato da lui aspettato e sospirato! Di fronte alla conversione dei nemici il testo biblico annota cheGiona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (4, 1). È talmente irritato e deluso da invocare la morte: se Dio è così, non vale più la pena di vivere (4,2-3). Meglio infatti la morte che spartire privilegi con altri ancor più se pagani e incirconcisi! Se non c’è più alcuna distinzione a cosa serve essere credenti e ancor più profeti? Cosa ci si guadagna? Tanto vale…

    Ed eccoci al nostro brano. Alla domanda postagli da Dio: “E’ giusta la tua collera?”” (4,4) il nostro protagonista non risponde e a testa alta, impettito e tutto corrucciato e sdegnato, pieno di acredine verso i neoconvertiti e Dio che li ha assecondati esce solennemente dalla città. Non trova di meglio che armare una piccola baracca di frasche e seduto mettersi ad aspettare: che cosa? Ovvio! Che Dio cambi idea.  Chissà! E così pregustare finalmente lo spettacolo pirotecnico della distruzione della città nemica. Ma Dio, a suo dispetto, non cambia affatto la sua decisione.

    Dio “procura” (v.6) invece una pianta di ricino (qiqaion) che provvidenzialmente cresce proprio dietro le spalle di Gíona offrendogli un po’ d’ombra “e liberarlo così dal suo male” (v.6) ovvero dalla sua “incavolatura”. Servirà questo gesto gentile da parte di Dio a mandargli via il cattivo umore e fargli cambiar idea?  In effetti Giona è molto contento di quella pianta: provò una grande gioia per quel ricino” (v. 6).

    Ma il giorno dopo, di mattina presto, Dio con fine ironia “provvide” (v.7) un dispettoso vermiciattolo che si mette di lena a corrodere la radice della povera pianta che si affloscia in pochi istanti seccandosi sotto il sole cocente.  Come non bastasse: “quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona”. Tutto ora sembra cospirare contro il povero profeta con spiacevoli risultati…insolazione, svenimenti e un terribile mal di testa. Oramai, mezzo incosciente e profondamente irritato, a motivo di una provvidenza che avverte ingiusta nei suoi confronti, Giona “si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere» “ (4, 8). È  “irritato a morte” per il ricino seccato come lo era per la provvidenza benevola di Dio verso Ninive! Non vede altre vie d’uscita!

    A questo punto Dio, da buon pedagogo paziente con un allievo testardo, tenta la possibilità di un cambiamento nella coscienza ottusa del  nostro Giona. Ritenta la stessa domanda fattagli precedentemente ma in altra forma “Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!» (4,9) Niente da fare! Giona non capisce o… non vuol capire!

    La domanda posta dal Signore è un invito rivolto a Giona, mandato a predicare la conversione a Ninive, perché, ironia della sorte, lui stesso profeta si avvii verso la strada di una sincera conversione al fine di assumere un cuore misericordioso come quello del Dio vero e abbandoni l’immagine balorda del “suo” dio: “Ma allora, tu ti addolori a causa di una pianta, per la quale non hai fatto nulla, che tu non hai piantato, né hai fatto crescere, che è nata in una notte e in una notte è morta; e io, invece, non dovrei aver pena di centoventimila esseri umani, che non sanno neppure distinguere la mano destra dalla sinistra e che vivono come bestie?  Uomini che io stesso ho creato! Giona, sei un grande egoista e il tuo egoismo ti acceca l’intelligenza! » (cfr. 4, 10-11).

    La parabola di Giona finisce qui mettendo allo scoperto attraverso una sana ironia, lo stridente contrasto che c’è nella coscienza del profeta. Quale la reazione finale di Giona?  Si sarà convertito? Avrà avuto il coraggio di cambiare modo di intendere Dio e la religione? Si sarà messo alla fine a ridere di se stesso e  a farsi una bella risata rappacificatrice con Dio? La  risposta a questo punto è rimandata a ciascun ascoltatore e sarà probabilmente ogni volta differente. Ma anche questo è umorismo!

    Collactio

    La storia di Giona non è una storia ma piuttosto una parabola in grado di descrivere e affrontare in modo ironico, (la Bibbia è capace anche di questo!), le nostre piccinerie e resistenze alla volontà di Dio che fortunatamente  ha vedute più larghe delle nostre. Esso ci invita al sorriso, a un guardare – attraverso l’avventura di Giona – le nostre stesse vicende e peripezie che rischiamo di vivere con la sua stessa ottica. Abbiamo tutti bisogno di vedere i nostri “drammi” o presunti tali, i nostri “problemi”, le nostre situazioni ingarbugliate da un altro punto di vista, diverso dal nostro, e che sia capace di “sdrammatizzarle” ovvero di riportarle a verità, alla loro giusta dimensione. Troppe volte infatti ci intestardiamo sulle nostre posizioni che, come Giona, ovviamente riteniamo le migliori e quelle giuste. Così accade che troppe volte ci si ripieghi su se stessi, sulle proprie tristezze e arrabbiature, ribelli come siamo a metterci davanti allo specchio della Parola, dei fratelli, e della nostra… coscienza.

    Se facciamo attenzione l’umorismo, il motto di spirito, la barzelletta hanno come funzione proprio lo smontare, lo smascherare, attraverso il paradosso, la presunta certezza con cui rivestiamo spesso la vita e i fatti. Di conseguenza se dovessimo definire Giona lo descriveremmo con la tipologia dell’uomo incapace di umorismo, è reazionario (i reazionari e i dittatori, non ridono mai!), fermo sulle sue posizioni che considera definitive. Per lui tutti sbagliano e tra questi pone anche Dio. Lo vediamo discutere con Dio sul compito che dovrebbe assumere nella vita degli uomini. E bisogna avere un grande coraggio e una gran faccia tosta per mettersi a discutere con Dio! Ma il suo coraggio lo possiamo identificare come ignoranza e di stupidità. Fa’ ridere! È profeta testardo il quale pensa che Dio debba essere soltanto il Dio del popolo ebreo e non degli altri popoli credendo che compito della religione sia quello di mantenere e difendere la situazione che lui ha già stabilito: i niniviti sono pagani e dunque cattivi e impenitenti perciò vanno distrutti, lui e il suo popolo sono invece gli unici buoni e ben accetti a Dio e sono degni di essere salvati Dio non si comporta come dovrebbe comportarsi e Giona è deciso a fargli sentire tutto il suo sdegno e preferisce morire piuttosto che… cambiare! E in questa caparbietà autodistruttiva, un po’ triste a dir la verità, è racchiuso tutto l’umorismo del libro.

    Giona risulta alla fine meschino perché possiede l’incredibile capacità di non vedere l’evidenza dei fatti; è un profeta fallito perché manca al suo ruolo essenziale che è quello di comprendere i segni dei tempi che dovrebbero parlare non solo e anzitutto agli altri ma anche a lui stesso.

    Non a caso l’autore allora nel racconto ci presenta, come contrapposizione (nella dinamica dell’umorismo la contrapposizione è essenziale), tutti i vari personaggi come buoni: i marinai stranieri che fanno di tutto per non gettare in mare Giona, il re di Ninive che si converte con tutta la città, anche gli animali appaiono buoni e indulgenti. Fra tutti l’unica figura dura e intransigente è Giona, per molti aspetti molto simile alla figura del “fratello maggiore” delineato dalla parabola del “Figlio prodigo” che non riesce a gioire per la misericordia e l’amore del “Padre” per i suoi due figli. Anche in questa parabola, guarda caso, l’unico capace di sorridere e di sdrammatizzare è il Padre.

    Ben venga dunque nella nostra esperienza spirituale una saggia dose di sano umorismo che ci aiuti a ridimensionarci, a guardare le cose da un diverso punto di vista, a non impuntarsi sulle nostre posizioni, a  sorridere delle nostre e altrui fragilità rendendoci un po’ più simili all’immagine di Dio. L’umorismo è una sorta di valvola di sicurezza che ci preserva dal rischio del mettere in pericolo l’autentico rapporto con sé stessi, gli altri, il mondo; una buona battuta, una barzelletta gentile opera “qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore” (H. Bergson), ovvero ci permette, attraverso l’empatia che produce, di identificarci con la persona o l’oggetto del riso esorcizzando in noi il rischio di cadere nella stessa trappola. In questo senso l’umorismo è uno svelamento, spesso improvviso e inaspettato (es. la conclusione di una barzelletta) di ciò che si può nascondere nel più profondo del cuore di tutti noi. Un piccolo Giona potrebbe abitare di nascosto come nel ventre della balena anche in te che stai leggendo! Ti fa sorridere, ma è la morale del libro! Così l’uomo che si crede maturo e rispettabile appare incompleto, mancante, bisognoso. L’umorismo, non dimentichiamolo, è un dono che Dio ha fatto solo all’uomo! Avete mai visto una gallina o un gatto ridere?  Gli animali non possono ridere per il semplice fatto che non hanno coscienza di sé e dunque non possono guardarsi dall’esterno. Diceva Henri Bergson: “Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”.A noi dunque l’imparare e il permetterci di sorridere benevolmente di noi e degli altri: “l’uomo saggio sorride appena in silenzio” (Sir 21,20).

    Ma non confondiamo mai il sano umorismo con l’ironia cinica e cattiva, con la battuta feroce e crudele, che si prefigge solo l’umiliazione dell’altro. Questa è una ferita che si infligge e fa sanguinare! Il vero umorismo invece è capace di ridere “con” l’altro: è un’opera di guarigione perché alleggerisce la vita e toglie il peso dal cuore. È  una specie di oasi, un punto di ristoro che ci permette di riprendere fiato e forza e continuare poi con allegrezza il cammino spesso pesante e grigio delle nostre giornate.

    Comprendiamo allora perché anche agli  austeri monaci del deserto Giovanni Climaco raccomandava la capacità di mantenere sempre la capacità di sorridere al fine di non lasciar spazio al diavolo nel proprio cuore. Nella sua “Scala Paradisi” scrive: “State sempre allegri nel Signore, o servi di Dio; riconoscendo in questa gioia il primo segno dell’amore di Dio per voi, e dell’avervi egli chiamati.”

    Oratio

    Al termine del nostro itinerario all’interno della storia di quella testa dura che è il povero Giona, non possiamo non chiedere al Signore di farci sorridere sempre e di mettere al bando quelle tristezze e piccinerie che tante volte appesantiscono le nostre giornate. Nel sorriso colmo di misericordia e di pace scopriremo la presenza e l’azione fantasiosa e sempre nuova dello Spirito: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di essere allegri. Beati quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi. Beati quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove. Beati quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia. Beati sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita. Beati voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà pieno di sole. Beati se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore. Beati quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno tante stupidaggini. Beati soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace” (Da un manoscritto della Certosa di Padula)

  • 03 Set

    Il vino vecchio è più buono?


    Lectio di Lc 5,36-39

    di p. Attilio Franco Fabris

    La moglie di Lot è presa dalla nostalgia quando, per salvarsi, è costretta a fuggire dalla città di Sodoma. Deve abbandonare la sua casa costruita con tanti sacrifici e tutte le sue cose (cfr Gn 19): la partenza imposta dai messaggeri divini è immediata, senza dilazioni di sorta. La donna non vorrebbe partire così nel cuore della notte, desidererebbe starsene ancora tranquilla fra le sue mura,nonostante l’ammonimento sia grave: la città sarà distrutta: “Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: «Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!»” (Gn 19,17). La sventurata donna in un impeto di nostalgia non può però dopo aver fatto pochi passi non girarsi indietro per piangere su se stessa e sulle sue cose. Ma tale scelta porta con sé una conseguenza sconvolgente: “ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26).

    Chi si volta indietro per rimpiangere il vecchio non è adatto al Regno nuovo (cfr Lc 9,62). Girarsi indietro è una scelta che blocca, impietrisce perché impedisce di proseguire il cammino e di guardare al futuro. Girarsi indietro è perciò sinonimo di morte perché le cose passate non sono più: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio» (Luca 9,60)

    Se lo sguardo è costantemente rivolto a ciò che si è lasciato e il cuore continua a rimpiangerlo, incapace di distacco e in preda alla paura del nuovo, la vita diviene ma mano insapore: ciò che si è lasciato non torna più ed è da stolti attardarsi cercando di racimolare piccoli avanzi e resti di un passato ormai trascorso, bloccata nel guardare avanti la vita si blocca, si irrigidisce, si diventa una “statua di sale” e per giunta… insapore!

    La sequela di Cristo è un tendere in avanti, uno proiettarsi verso il Regno che sta per arrivare e che lui annuncia; e se lo sguardo e il cuore sono impegnati nel non perder di vista questa meta allora non ha più senso perder tempo volgendosi indietro a quel che si lascia: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62; cfr Lc 5,11).

    Chiediamo allo Spirito un cuore nuovo, capace di stupore sempre nuovo dinanzi ad un Dio che fa sempre “nuove tutte le cose”:

    “Vieni, o Spirito santo, da’ a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore puro, allenato ad amare Dio, un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni  meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande, forte, beato di palpitare col cuore di Dio.  Amen”. (Paolo VI)

    Lectio

    Il testo evangelico segue immediatamente il brano che narra una discussione riguardante il digiuno. La questione è suscitata da alcuni scribi e farisei che vedono Gesù e i suoi discepoli non solo trasgredire questa norma ascetica inculcata dalla tradizione, ma addirittura cosa nuova, inaudita e scandalosa mangiare e bere in compagnia di “pubblicani e peccatori”: “«I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno orazioni; così pure i discepoli dei farisei; invece i tuoi mangiano e bevono!». Gesù rispose: «Potete far digiunare gli invitati a nozze, mentre lo sposo è con loro?»” (5,33-34). Emerge già qui il tema dell’incompatibilità tra vecchio e nuovo – tra digiuno e festa di nozze – che si prolunga nell’insegnamento di Gesù offerto nei due esempi del vestito nuovo e del vino nuovo incompatibili con vestiti logori e otri già impiegati.

    Nel testo parallelo di Marco leggiamo che: “Non si cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio” (Mc 2,21). Viene sottolineata in Marco l’inconciliabilità del voler combinare nuovo e vecchio.  Luca modifica il testo di Marco evidenziando ancor più l’assurdità di una tale operazione che ora consiste addirittura nello strappare una pezza da un vestito nuovo per ricucirla su uno vecchio!: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per attaccarlo a un vestito vecchio”. A differenza di Marco per Luca il danno non riguarda perciò soltanto il vecchio vestito ma tutt’e due; cosicché l’incompatibilità fra il nuovo e il vecchio viene messa ancor più in risalto. È assurdo distruggere un vestito nuovo per riparare uno straccio! Il pezzo nuovo poi si restringerebbe rendendo inutile anzi peggiorando lo strappo! Così non soltanto il rattoppo fa il vestito vecchio ancora più brutto, ma soprattutto si rovina l’abito nuovo: “altrimenti egli strappa il nuovo, e la toppa presa dal nuovo non si adatta al vecchio”.

    Per Luca l’annuncio della vicinanza del Regno di Dio comporta l’accoglienza di una realtà completamente nuova rispetto all’antico ordine della Legge. L’avvertimento è rivolto alla comunità perché eviti il rischio di accogliere parte del messaggio della Buona Notizia evangelica volendola poi accomodare al vecchio impianto religioso, ovvero ceda alla tentazione di voler rigiudaizzare l’evangelo. Il kerygma esige disponibilità ad un cambiamento radicale di prospettiva nel rapporto con Dio e con la tradizione. Scrive a questo proposito un noto esegeta: “Il nuovo che Gesù ha portato non è fatto per riparare il vecchio, ma deve veramente prendere il posto del vecchio” (Scheider). Ignorare questo significa operare una manovra disastrosa in riferimento sia alla novità evangelica sia alla comunità che la vive.

    Il secondo esempio è parallelo al primo: “nessuno mette vino nuovo in otri vecchi” (v.37a). Il vino nuovo dell’ultima vendemmia non va messo negli otri vecchi. Gli otri, un tempo ricavati dalla pelle di capra, col tempo perdono ogni elasticità per cui con la fermentazione del vino nuovo sono inevitabilmente destinati a scoppiare cosicché vanno persi sia il vino nuovo che gli otri vecchi: “altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti” (v.37b).

    Anche in questo caso il riferimento è sufficientemente chiaro: lo stratagemma di voler combinare vecchio e nuovo è destinato a fallire e a rovinare tutto. “Voler ricomporre l’antico ordinamento con l’ausilio della novità portata da Gesù. Ciò rovinerebbe la realtà nuova e non servirebbe a quella vecchia” (Schurmann).

    Ecco allora la saggia ammonizione da parte di Gesù: “Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi” (v.38)! Alla novità dell’evangelo della grazia deve corrispondere per il discepolo e la comunità un concreto ordine nuovo, che non vada a rimpiangere e non ceda alla tentazione del voler recuperare l’antico ma ormai superato ordine della Legge, ma si apra gioiosamente a quel compimento che non ha più bisogno di apparati preparatori e ormai inutili. Sarà questo uno degli insegnamenti più pressanti dell’apostolo Paolo preoccupato per le sue comunità che rischiano di cadere nella tentazione di svilire la novità del dono del vangelo. Nella Lettera ai Galati ad esempio egli ammonirà una comunità che è solleticata dall’ascolto di fatiscenti predicatori giudaizzanti che la invitano a ritornare alla sicurezza derivante dalle norme della Legge: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?” (3,1-2).

    Dopo le due brevissime parabole Luca introduce un detto riportato da lui solo che, paradossalmente sembrerebbe contraddire a prima vista quanto detto prima: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: Il vecchio è buono!» (v. 39). Come interpretare quest’apprezzamento del “vino vecchio? Probabilmente Gesù, con sottile ironia, fa una constatazione dettata dal buon senso e dall’esperienza: comprende benissimo che per l’uomo “religioso” non è facile staccarsi dalla propria mentalità. È difficile per i giudei (di ogni tempo!) abbandonare le sicurezze offerte dalla Torah e da tutte le sue norme fatte di precetti e di divieti che offrono l’impressione di poter raggiungere una propria giustizia. È difficile accogliere il “vino nuovo” della gioia del banchetto di nozze in cui la giustificazione scaturisce dalla gratuità del dono della grazia offerta dal Padre in Cristo. Per costoro il vino nuovo, a differenza del giudizio entusiasta del direttore del banchetto delle nozze di Cana (cfr Gv 2,10),  il vino nuovo è meno buono di quello vecchio!

    È un dato costante che chiunque si attacchi rigidamente e orgogliosamente al passato non sarà mai in grado di desiderare e gustare la novità del nuovo: “Faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,19).

    Collatio

    L’etimologia della parola “nostalgia” contiene in sé il riferimento al “dolore” (algia) e alla “casa” (naos). Il termine esprime perciò molto bene lo struggimento che avviene in noi quando lontani sospiriamo il ritorno alle nostre cose, alla nostra patria, alla nostra casa e ai nostri cari. Questo ritorno viene a colmare il vuoto, l’ansia che ne scaturisce, offrendo un riparo di sicurezza, legami, di calore. In tal senso l’uomo “nostalgico” per antonomasia è Ulisse il quale viene rappresentato da Omero nell’ “Odissea” come colui che vive in funzione del suo ritorno all’isola di Itaca, un ritorno ostacolato dagli dei ma al quale egli non rinuncerà mai. Il suo futuro si costruisce sul suo passato. Ma ad Ulisse si contrappone l’uomo biblico nella figura di Abramo che è al contrario l’uomo costantemente invitato a “uscire”, ad “abbandonare lasciando tutto” ciò che rappresenta per lui sicurezza (padre, clan, terra, tradizione cultura…cfr Gn 12,1ss) per vivere in funzione di una “promessa” divina che non ha nessun immediato riscontro. Abramo vive il suo futuro non come un ritorno ma come una speranza nella promessa che lo obbliga a fissare lo sguardo sempre in avanti. Abramo è l’uomo il quale, salendo la scala, vede svanire dietro di sé gli scalini percorsi: non può far altro che continuare a salire!

    Ulisse od Abramo? Vivere in funzione della nostalgia o della speranza? Del vecchio ormai logoro ma sicuro o del nuovo da sperare e da scoprire? Tenere fisso lo sguardo in avanti come Mosé verso la Terra della Promessa e della libertà, o volgere caparbiamente lo sguardo indietro come Israele che nel deserto continua a rimpiange le cipolle lasciate in Egitto a bollire? : “gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna»” (Nm 11,4-6).

    La tentazione di rifugiarsi nel già visto, nel risaputo è ricorrente e la ritroviamo presente un po’ ovunque a livello sociale, culturale, politico e religioso: essa riemerge in modo prepotente soprattutto nei momenti in cui si attraversano fasi critiche, di svolta e di cambiamento. Allora la paura vorrebbe avere il sopravvento e l’ultima parola. Vengono infatti a mancare saldi punti di riferimento e di appoggio che finora offrivano sicurezza, sopraggiunge il nuovo, l’inaspettato, lo sconosciuto. Qui sta il dilemma: rischiare vie nuove o dar retta alla paura che spinge a rincorrere antiche sicurezze che vanno sbriciolandosi? L’offerta di un vestito nuovo e di un vino nuovo appena vendemmiato impongono una scelta, una nuova disponibilità che obbliga al cambiamento… ma questa scelta ha un prezzo molto alto che la maggioranza generalmente non è disposta a versare, o tutt’al più alle condizioni più basse (la pezza vecchia o l’otre vecchio vengono buoni).

    Israele non ha ancora terminato di assaporare l’ebbrezza del dono della libertà che alle prime difficoltà dettate dalla nuova situazione preferirebbe il ritorno alla schiavitù. È la stessa fatica delle prime generazioni cristiane provenienti dal giudaismo nell’accogliere sino in fondo la sconcertante novità della Buona Notizia che la obbligano a lasciare le tradizioni dei padri, i marinai di Colombo vorrebbero tornare indietro stanchi e delusi da un viaggio interminabile rinunciando al sogno di una terra nuova da scoprire, i professori dell’università di Padova si rifiutano di guardare nel cannocchiale inventato da Galileo con la scusante: “Noi sappiamo già com’è il cielo!”, il gesuita Matteo Ricci si vede impedire dall’alto il permesso di inculturare la fede cristiana nella Cina del ‘500 …e così via: sarebbero innumerevoli gli esempi che dicono la paura del nuovo e il tentativo di rifugiarsi nel vecchio con la scusante evangelica che “il vecchio è migliore!” (v.39).

    È una tentazione che serpeggia fortissima anche oggi tra le mura della Chiesa! Una Chiesa che si trova dinanzi alla sfida di un mondo sempre più secolarizzato, in cui impera la dittatorialità del relativismo che marginalizza sempre più il suo annuncio della verità. Di fronte a questo progressivo indebolimento è allora forte la volontà di voler riacquisire una forte identità. Operazione lecita e doverosa se però viene intrapresa nella giusta direzione che è quella di un nuovo radicarsi nel “kerygma” e in un rinnovato impegno di nuova evangelizzazione. Ma la tentazione è quella di rincorrere modalità più facili – perché di poco costo in termini di conversione! – che consistono nel recuperare questa identità tra la polvere delle soffitte, nell’illusione data di riaccarezzare le vecchie glorie del passato! Rimane allora valido il monito a non cadere in tale mortale tranello: “In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se le sue cose sono in casa, non scenda a prenderle; così chi si troverà nel campo, non torni indietro” (Lc 17,31). Rischioso rifugiarsi nelle soffitte quando le fondamenta vacillano!

    Le due parabole evangeliche vogliono rispondere alle perplessità e ai dubbi di un discepolo e di una comunità, di ieri e di oggi, ancora troppo incerti e che non osano fare il passo decisivo fidandosi unicamente della promessa contenuta nella novità dell’evangelo. Per gli indecisi vale sempre un detto popolare prudentemente ripetuto: “Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quel che perde ma non sa quel che trova!”. Certo si tratta di buon senso! Ma il “buon senso” umano (il vestito e l’otre vecchi) mal si adatta alla “sapienza divina” della Parola di Dio. Improntare la vita sul “buon senso” che si spaccia per prudenza significa permettere all’imperativo della paura di governare l’esistenza impedendoci di sperimentare l’ebbrezza della libertà dello Spirito. È un atteggiamento mondano che nasce da una inconfessata sfiducia nei confronti della vita e in ultimo di Dio stesso: “Ma questo popolo ha un cuore indocile e ribelle; si voltano indietro e se ne vanno” (Gr 5,23). Probabilmente è proprio qui il nocciolo del problema: la resistenza operata dalla coscienza ad affidarsi nella speranza al Dio che “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5) nasce proprio dalla paura che questa Promessa che mi invita ad un orizzonte nuovo di vita sia un “imbroglio” di cui diffidare, anzi da cui starsene lontano. Molto meglio rifugiarsi nelle solite cose che danno l’impressione di sicurezza. Così che l’uomo “religioso” tenterà perlopiù di rattoppare “toppe vecchie” sul vestito nuovo della fede cristiana. Sono le operazioni attraverso le quali tutti cerchiamo di rendere innocuo il vangelo volendolo far andare d’accordo col “buon senso”, con “saggia prudenza”. Questo impedirà sempre di sperimentare la novità e la verità della Buona Notizia.

    Al contrario la comunità e il discepolo accoglie la sfida del nuovo non come un rischio e un pericolo, ma come opportunità per percorrere con una fedeltà sempre rinnovata il cammino della sequela. Ogni giorno è sempre il giorno delle nozze in cui bisogna mettere il vestito nuovo e bere il vino nuovo per sperimentarne la bellezza e la dolcezza!

    Il cristiano, e ancor più in consacrato, si è ormai “rivestito di Cristo” (Gal 3,27) ed è chiamato perciò a divenire in lui “uomo nuovo” (1Cor 12,12s). Questa tensione di conformazione gli impedisce di perder tempo a trascinarsi dietro inutili masserizie e rimpianti: “Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio»” (Lc 9,62). Desideroso di vestire l’abito nuovo nella sala del Regno dove gusterà il vino nuovo il discepolo non esisterà ogni giorno a buttare nell’immondizia quel che è vecchio, logoro e inservibile: “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello Spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22).

    Oratio

    Chiediamo allo Spirito il coraggio della fede dei padri, di Maria. Il coraggio di non volgerci indietro dopo aver posto mano all’aratro, di non rischiare di impietrirci come la moglie di Lot,  ma come Abramo di “partire” ogni giorno per quel pellegrinaggio cui il Signore ci ha chiamati, avendo nella bisaccia solo la fiducia e la speranza che riposa unicamente sulla promessa della sua Parola: il resto non serve!

    Meglio di me, Signore, tu sai su quali orizzonti si allarga il paese delle promesse.
    Abbandonerò i territori dove, da padrone,
    organizzo la dolcezza per i miei occhi
    e l’ebbrezza per il mio corpo,
    facendo scorrere latte e miele
    nel comodo allineamento dei miei giorni.
    Partirò!

    Abbandonerò le mie terre di comodità,
    dove mi è indifferente l’ordine delle cose,
    fino a quando i diluvi dell’odio e dell’ingiustizia

    non sommergono la mia dimora.
    Abbandonerò le mie terre di disprezzo,
    dove gli uomini sono catalogati secondo il rendimento,

    come se fossero prodotti sul mercato.

    E tu mi butti fuori dalla mia casa,
    dove gli armadi sono pieni e gli scaffali ordinati.
    E tu sempre mi costringi a guardare più lontano
    e a piantare altrove le radici del mio cuore.

    (Charles Singer)

  • 02 Set

    Rimanete saldi nel Signore

    Lectio di Fil 4,1-9

    di p. Attilio Franco Fabris

    La comunità è dono prezioso che lo Spirito ha posto nelle nostre mani per cui essa va amata e custodita, protetta come il tesoro più caro consegnatoci da nostro Signore. Essa è tesoro prezioso perché è luogo della sua presenza, è la scuola della nostra sequela e dell’esperienza concreta di fede, luogo infine in cui viene resa testimonianza viva ed efficace della Buona Notizia, perciò con il salmista possiamo cantare: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” (Sal 132,1).

    Ma la comunità è purtroppo sempre insidiata dalla presenza del male che è in noi e attorno a noi, e le forze del male agiscono sempre in antitesi al progetto di Dio. Queste hanno un potere disgregante e… anticoagulante: sfaldano e talvolta distruggono la comunità; per cui bisogna essere sempre vigilanti e nutrire la comunità rafforzandola con il pane dei forti che è l’ascolto della Parola e l’Eucarestia, ed esercitando continuamente la pratica del perdono reciproco e della riconciliazione.

    Iinvochiamo con insistenza lo Spirito sulle nostre comunità e su ciascuno di noi perchè talvolta rischiamo di dimenticarci che è lui il protagonista e l’artefice primo del loro esistere e sussistere: “Non sentiamo un vento violento e non vediamo le lingue di fuoco eppure crediamo che lo Spirito agisce qui, ora, in mezzo a noi. Spirito di Dio, inondaci di luce! Strappaci al potere delle tenebre. Spirito di Dio, guarisci la nostra fragilità! Facci crescere come autentici figli di Dio. Quando le preoccupazioni si fanno troppo pesanti, Spirito di Dio, alleggerisci il nostro cuore! Quando attraversiamo i deserti della vita, Spirito di Dio, donaci una freschezza nuova! Quando l’insuccesso ci getta nella depressione, Spirito di Dio, donaci il coraggio necessario di agire.Spirito di Dio, imprimi sul nostro volto la traccia della bellezza e della tenerezza di Dio. Diventeremo una consolazione per tutte le creature della terra. Metti nei nostri cuori l’amore del Padre, fa’ risuonare dentro di noi la parola di Gesù. Conduci i nostri passi per vie nuove, quelle vie in cui si incontrano  la pace e la giustizia”.

    Lectio

    L’apostolo Paolo saluta i cristiani di Filippi definendoli “gioia e corona” del suo ministero. Essi sono da lui riconosciuti come il suo più grande vanto nell’opera di evangelizzazione per cui ha speso interamente la vita. Interessante il riferimento alla “corona” simbolo che fa riferimento all’ornamento sia del sacerdote che la indossava solennemente durante il suo ufficio, oppure del vincitore di una gara che con una corona di allora veniva premiato (cfr 1Cor 9,25). La comunità di Filippi, nata dall’annuncio della Buona Notizia, rappresenta per Paolo la realtà di cui gloriarsi e ornarsi nel Signore; e questo dimostra quanto cara e preziosa sia per lui.

    Il primo invito pressante di Paolo a questi nuovi cristiani è di “rimanere saldi nel Signore”: è un imperativo che fa da sfondo a tutta la sua esortazione apostolica. Esso è giustificato dal fatto che la fede, seppur accolta con entusiasmo all’inizio, non è mai un dato acquisito per sempre: essa essendo essenzialmente un vissuto di relazione e di consegna all’Altro all’interno di una comunità può essere sempre minata da mille ostacoli, pericoli e deviazioni che la pongono a rischio minacciando addirittura di farla scomparire. In questo senso la “vigilanza” è caratteristica essenziale del vissuto di fede personale e comunitario: “siate vigilanti, fissate ogni speranza in quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà” (1Pt 1,13).

    Che questo “rimanere saldi” sia necessario sembra motivato concretamente dal fatto che la comunità di Filippi sta vivendo un momento difficile al suo interno: divisioni, invidie, gelosie mettono sempre a repentaglio l’opera unificatrice dello Spirito del Signore. Vengono nominate esplicitamente due donne: Evodia e Sintiche. Esse sono state due valide collaboratrici  dell’azione evangelizzatrice di Paolo durante la sua missione (questo accenno è importante per riconoscere il ruolo non trascurabile delle donne nella chiesa primitiva). Tuttavia tra queste due donne emergenti deve essere sorta qualche tensione, che non viene esplicitata, ma che sicuramente sta procurando fratture e sofferenza non solo tra loro due ma a tutta la comunità. Desiderio di primeggiare? Forse! Queste sono le piaghe e le debolezze della comunità che sempre e ovunque affiorano mettendo in evidenza tutta la contraddittorietà del cuore umano! Paolo le invita pressantemente a ritrovare la via della riconciliazione e della “buona armonia”.  Per facilitare la loro rappacificazione Paolo invita ad intervenire un certo Sizigo e un certo Clemente; sono certamente  personaggi autorevoli all’interno della comunità: l’apostolo li invita a farsi mediatori tra le due operando per la loro riconciliazione. Sizigo letteralmente significa “compagno di giogo”, cioè “collega”: lo è di nome e molto di più di fatto se Paolo lo investe di questo delicato compito.

    Paolo esorta questi suoi collaboratori ricordando che i loro nomi verrà scritto “nel libro della vita” proprio a motivo del loro operare nel nome del Signore per il bene della comunità: avere i “nomi scritti in cielo nel libro della vita” significa che Dio terrà conto dei meriti di queste anime (cfr Sal 68,29; Dn 12,1; Ap 3,5; Lc 10,20; Es 32,32-33; Is 4,3).

    Dopo aver affrontato questo delicato problema di divisione e aver indicato vie concrete di soluzione Paolo esorta la comunità a vivere “nella gioia” (cfr 3,1) aggiungendo “sempre”. Le tensioni e le spaccature sono purtroppo spesso inevitabili e sono sempre fonte di tristezza per tutti! Ma questo non deve turbare la gioia e la pace della comunità. Dove trovare il motivo e il fondamento di una gioia permanete che nulla può turbare la comunità? Il fondamento di questa gioia permanente risiede unicamente nel riconoscere di aver ricevuto un annuncio che è promessa sicura di salvezza nel Signore, e questa salvezza non può non trasformarsi in una gioia dirompente che trasborda e chiede di essere comunicata agli altri anche quando si è nella prova.

    Conseguenza di questa gioia che consiste nel sentirsi amabili e amati in Cristo dal Padre, è un atteggiamento di “amabilitàaffabilità” (v.5) che deve contraddistinguere le relazioni tra i membri della comunità e che si riversa di conseguenza su tutti.

    Paolo offre un’ulteriore motivo e fondamento all’invito alla gioia che deve caratterizzare la comunità di Filippi: “Il Signore è vicino!” (v. 5). Questa espressione era molto cara alla liturgia delle prime comunità che ripetutamente invocavano: “Marana tha! Il Signore viene!” (1Cor 16,22; cfr Rm 13,12; Gc 5,8; 1Pt 4,7; Ap 22,20).  Non sembra che qui Paolo voglia pronunciarsi circa il tempo cronologico effettivo che separa la comunità dal ritorno del Signore glorioso in quanto il “giorno della parusia” è già presente e operante. La “gioia” che scaturisce dalla “vicinanza” del Signore è identificabile con la consapevolezza del dono sovrabbondante di vita che già fin d’ora ci sono donate in attesa del suo compimento definitivo.

    Certo questa pace e questa gioia si collocano sempre in una storia segnata dalla contraddittorietà: nella vita le prove, le sofferenze e le preoccupazioni non mancano e  Paolo non lo nasconde, tuttavia invita i cristiani di Filippi a far attenzione a che queste ansie non le soffochino. Di fondamentale importanza per conservarle sarà l’esercizio costante della preghiera: “in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti” (v. 6).

    Frutto della gioia, sorretta dalla preghiera, sarà l’esperienza di una profonda “pace” (v. 7; cfr 1Ts 5,23; 2Cor 13,11; Fil 4,9; Gv 14,27). Si tratta di una pace che pervade tutto l’essere e diviene esperienza unica non paragonabile a nessun’altra perché comporta un’unione con Dio, cosa “che sorpassa ogni intelligenza“. Come spiegare infatti la gioia e la pace in mezzo alle tribolazioni e sofferenze come testimonia lo stesso Paolo che scrive queste righe dal carcere?

    Questa “pace” è in grado d’essere “sentinella” (“custodirà”) dei pensieri e degli affetti che si affacciano al cuore; operando un fondamentale discernimento preserva il cuore da turbamenti e agitazioni inutili. Ciò che dà pace non può infatti se non venire da Dio!

    Segue un elenco di virtù umane e cristiane in cui continuamente i credenti dovranno esercitarsi; Nulla di quanto è profondamente umano può essere disprezzato dal credente: “Tutto ciò che è vero… tutto ciò che è giusto….” (v. 8).  E’ un vero e proprio programma di vita quello proposto dall’apostolo. L’esortazione infine termina con due imperativi: “questo attiri la vostra attenzione…questo mettete in pratica” (v. 9) in altre parole: questo pensate e questo fate!
    A Paolo non resta concludendo che rimandare con sollecitudine i suoi cristiani agli elementi del cammino di iniziazione cristiana ovvero catecumenale da lui annunciati e che devono rappresentare i fondamenti stabili e sicuri del loro cammino di fede pur in mezzo a tutte le difficoltà : “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!”. Solo questa obbedienza alla Parola sarà sorgente di vera pace e non di divisioni o inutili antagonismi che denotano il più delle volte l’aver perso questo essenziale punto di riferimento.

    Collactio

    Dall’ascolto di questa Parola di Paolo apostolo alla comunità di Filippi cerchiamo di trarre qualche spunto di meditazione applicandola alla vita.

    Anzitutto sottolineiamo come la “gioia e la corona” per Paolo è la comunità di credenti che lui ha generato attraverso l’annuncio della Parola del Vangelo: egli non si gloria di strutture, opere e successi umani transitori, ma riconosce che quella comunità, pur con tutti i suoi limiti, è il “coronamento” di un’azione che non è solo e anzitutto sua ma dello Spirito del Signore Gesù: questa comunità è da lui considerata la sua “corona” ovvero il tesoro prezioso, che lui ama e desidera custodire ad ogni costo.

    Di che cosa anzitutto noi ci gloriamo quando prendiamo in considerazione le nostre comunità? Il parroco si gloria dell’oratorio nuovo oppure della chiesa appena restaurata, il superiore della comunità illustra il numero di iniziative e opere messe in atto e portate avanti magari con eroismo ma forse è raro trovare il pastore che si gloria anzitutto della sua comunità, riconoscendovi il dono prezioso del Signore di cui prendersi amorevolmente cura prima ancora che dei muri e delle tante attività.

    Il “patrimonio” da custodire nelle nostre comunità non sono anzitutto le opere che realizziamo o le strutture che possiamo ancora innalzare o “tenere in piedi” ad oltranza: il rischio va in questa direzione perché sono queste realtà ad  attirare i riflettori, i consensi e gli applausi ma a poco o nulla servirebbero se non fossero espressione di una realtà ben più importante: quella costituita da quelle persone con dei volti precisi che il Signore ha raccolto in una sola famiglia perché il loro amarsi testimoni al mondo la possibilità e la bellezza della carità che da Dio attraverso Cristo ci è stata donata: purtroppo tante opere pur belle, nuove e splendenti di pulizia e ordine sono vuote, asettiche e fredde perché non trasmettono alcun calore, sono prive di vita, anche se ben organizzate: il motivo? Sono prive del primato della passione per il Regno di Dio, spesso sono solo autocelebrazione. Al Regno di Dio tutto questo non serve, anzi ne è ostacolo! Così purtroppo talvolta privi di discernimento come siamo scambiamo come patrimonio inalienabile ciò che non lo è.

    Una seconda riflessione che traiamo dal nostro testo consiste nel fatto che il tesoro, il “patrimonio” della comunità è purtroppo sempre minacciato di… estinzione. Le contraddizioni e le fratture, come nella comunità di Filippi, sono inevitabili a causa delle rivalità, gelosie, invidie, rancori… che si annidano nei nostri cuori e che affiorano anche se, come Sintiche ed Evodia, ci siamo indaffarati fino ad un minuto prima, a pieno ritmo per la causa del Vangelo! E’ la nostra povertà, la conseguenza della ferita del nostro peccato che ci porta a vedere nell’altro un antagonista e una minaccia e questo rischia di produrre nella comunità un’azione disgregante. Non bisogna scandalizzarsene perché si tratta di prendere umilmente atto della nostra realtà di creature segnate dal peccato e bisognose di guarigione. Jean Vanier ha scritto un testo intitolato: “La comunità: luogo di festa e di perdono“, in esso ricorda come la comunità non sia formata da uomini e donne perfetti perché tutti siamo feriti, chi più chi meno, nella capacità di amare ed essere amati: la comunità diviene così palestra in cui continuamente esercitarci nel perdonare e nell’essere perdonati: “La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti che prevaricano, situazioni nelle quali le suscettibilità si urtano. E’ per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un’accettazione che è un mutuo perdono quotidiano. Se si entra in una comunità senza sapere che vi si entra per imparare a perdonare e a farsi perdonare settanta volte sette, ben presto si renderà delusi” (J. Vanier, op cit.). Solo con questo costante atteggiamento si può costruire concretamente una comunità e accrescerne il vero “patrimonio” che è quello dell’amore che dà testimonianza. Questo è possibile se in ciascuno prende consistenza la consapevolezza che la comunità va costruita con l’apporto di tutti sapendo che è necessario, come fa Paolo, mettere in atto tutte le possibili strategie che possono aiutarci a preservare il “patrimonio” della comunità dall’estinzione. Spesso noi purtroppo ci arrestiamo di fronte ai problemi e non attuiamo nulla per risolverli cosicché il male si irretisce sempre più scavando fosse di divisione sempre più profonde. Quali gli strumenti privilegiati? Il ritrovarsi attorno alla Parola lasciando che sia lei e non noi a giudicare e illuminare la vita di tutti e di ciascuno facendoci intravedere  la direzione da percorrere, e poi un’autentica e sincera correzione fraterna vissuta guardandosi negli occhi e tenendo ben fisso l’obiettivo che è in primo luogo la propria conversione  prima che la conversione dell’altro, infine il dialogo e la condivisione sono per ogni comunità gli strumenti essenziali per costruire e/o sanare autentiche relazioni. Tante preghiere stereotipate e sganciate dalla vita non servono a nulla! I problemi ci saranno sempre e comunque, non bisogna illudersi su questo, ma l’importante è saper usare gli strumenti adatti a risolverli giorno per giorno, con una pazienza fiduciosa perché riposta nella fedeltà di Dio. Ricorda il documento “La vita fraterna in comunità” che “dal dono della comunione scaturisce il compito della costruzione della fraternità, cioè del diventare fratelli e sorelle in una data comunità dove si è chiamati a vivere assieme. Nell’accettazione ammirata e grata della realtà della comunione divina che viene partecipata a delle povere creature, proviene la convinzione dell’impegno necessario per renderla sempre meglio visibile attraverso la costruzione di comunità “piene di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52 )” (n. 11).

    Una comunità capace di questo non può dunque non sperimentare una gioia profonda, che non è da confondersi con la risata sguaiata o con la pungente ironia. Si tratta di una gioia che scaturisce dalla certezza che “il Signore è vicino“: non siamo soli, lui sta sulla barca con noi in mezzo alle onde in tempesta anche quando ci sembra che dorma, e allora nulla può nuocerci se lui è sentito presente: “Io sono in mezzo a voi tutti i giorni” cosicché il cuore rimane stabile e nella pace in ogni situazione: “la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (v. 7)

    Infine non scordiamo che “patrimonio” fondamentale d’ogni comunità sono il “deposito della fede” e del “carisma” ricevuti in dono. La premura della comunità deve essere quella di conservare e rafforzare la fede prima dei muri, il dono spirituale del carisma prima che le sue concretizzazioni storiche sempre provvisorie e passibili di cambiamento. Non scordiamoci che il “patrimonio” della fede e della comunità che su di essa si costruisce come casa sulla roccia si sperpera stoltamente quando le energie sono investite, come purtroppo spesso accade, in direzioni sbagliate. E’ al saldo fondamento della fede che occorre ancorare, assicurandolo fortemente il nostro vero “patrimonio”.

    Oratio

    Il salmo dice: “Chi si gloria nei carri e chi nei cavalli, noi siamo forti nel nome del nostro Dio”. Noi rischiamo sempre di gloriarci delle cose sbagliate perché privi di intelligenza spirituale. Donaci o Signore la grazia di poter riconoscere che la nostra gloria e forza sei Tu e la comunità che ci hai dato in dono anche se povera e segnata da tanti limiti e peccati: tu ce l’hai donata perché qui sperimentiamo il dono della tua presenza.

    Ho detto a Dio: fuori di te non ho altro bene”:  donaci di rimanere saldi in questa certezza che apre il cuore alla lode e sempre alla speranza, perché abbiamo sperimentato che “Dio solo basta!”.

    Quando questo non accade ci angustiamo, ci rattristiamo, ci preoccupiamo inutilmente e il cuore non è in pace e non può gustare la gioia. Non accade per il semplice fatto che abbiamo scambiato come ricchezza e patrimonio ciò che in realtà era di scarso o nullo valore, una tremenda svista che ci rende incapaci di scorgere il tesoro prezioso nascosto nel campo e la perla preziosa mischiata a tante altre cose inutili nel baule del mercante.

    E fa’ che ogni giorno con pazienza e tenacia, senza inutili abbagli, cerchiamo solo ciò che è nobile, giusto, puro, amabile, onorato perché riconosciuto come nostra ricchezza e unico nostro bene, solo  e avremo la pace che sorpassa ogni intelligenza.

    Signore Gesù custodisci i nostri cuori e i nostri pensieri nel tuo amore che è autentica e sola ricchezza e sorgente di stabile pace.

  • 29 Ago


    Mentre le porte erano chiuse

    Lectio di Gv 20,19-23

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano chiuse per paura” (v. ). Come ripartire nel nostro cammino di fede e di sequela se le nostre porte sono ben serrate, sprangate a doppia mandata perché presi da mille timori e scoraggiamenti e incertezze?

    Le nostre paura ci immobilizzano, ci impediscono ogni movimento. Il cammino ci mette in gioco verso il nuovo, ma il nuovo ci spaventa ed è meglio rifugiarci nelle nostre piccole sicurezze che comunque prima o dopo saranno, inevitabilmente, spazzate via. Paura di giocarci, paura del futuro, paura di perdere i nostri vantaggi e sicurezze, paura del cambiamento…

    Lo Spirito vuole “abbattere” queste porte sprangate e barricate, infondendo in ciascuno di noi una sventagliata di coraggio e santa intraprendenza. Vuole, col suo solito impeto di vita, farci ripartire, come i discepoli di Emmaus dalle porte della locanda, perché sa bene che saremo sempre tentati di rallentare, fermarci, o deviare dal percorso imboccando strade alternative,vicoli ciechi, angoli bui.

    Chiediamo allo Spirito che soffi in modo sì travolgente da costringerci a muoverci, e che con la forza della Parola udita, nella quale il Risorto nuovamente ci parla e ci invia, trovi in noi disponibilità a riprendere il cammino.

    “Spirito del Signore, vieni su di noi, trasforma il nostro cuore e prendine possesso. Brucia le nostre paure, sciogli le nostre resistenze… Fa’ che non restiamo prigionieri della nostalgia o del rimpianto del passato, ma sappiamo aprirci con serena fortezza alle sorprese di Dio… Rendici vigili, fiduciosi e prudenti nell’attendere il domani della promessa nella fatica delle opere e nella pazienza dei giorni della nostra vita” (B. Forte).

    Lectio

    La nostra pagina evangelica si apre con un’introduzione in cui vengono offerte all’ascoltatore le coordinate di tempo – “la sera di quello stesso giorno” –  e di spazio – “nel luogo dove erano i discepoli” –  all’interno delle quali avviene l’incontro di Gesù risorto con i discepoli impauriti e disorientati dopo i tragici avvenimenti della sua passione e morte. Tutta la scena ha Gesù come protagonista: è lui il punto di convergenza da cui si diparte nuovamente la sequela e la missione.

    Il racconto è ambientato alla “sera del primo giorno della settimana”. E’ il giorno della resurrezione stessa di Gesù: Maria di Magdala ha già portato la buona notizia al gruppo incredulo, Pietro e Giovanni sono già corsi alla tomba vuota.

    L’apparizione di Gesù è descritta da Giovanni come una “venuta” – “venne” -. E’ un verbo significativo perché rimanda all’esperienza liturgica e di preghiera delle comunità cristiane delle origini pervasa insistentemente dall’invocazione “Maranahthà” che potrebbe tradursi con: Vieni, Signore, oppure con: Il Signore viene. Da parecchi indizi, e da tutto il contesto, possiamo cogliere nel nostro brano evangelico una sottintesa volontà dell’evangelista di sottolineare l’esperienza liturgica della comunità come luogo di incontro col risorto (la “sera”, il verbo “venne”, lo stare insieme dei discepoli, il mandato….).

    I discepoli sono “a porte chiuse dentro al luogo dove si trovavano per paura dei Giudei”. Essi hanno paura. Di cosa? Avvertono un’ostilità crescente fuori di quelle stesse mura, e che potrebbe riversarsi su di loro da un momento all’altro come lo è stato per il loro Maestro di cui hanno terrore di fare la fine. Sono tuttavia angosciati e impauriti perché incapaci di dare senso, ragione a tutto ciò che è avvenuto: quella morte di croce è lì fissa dinanzi alla loro coscienza come uno scandalo insormontabile. E’ in fin dei conti una comunità alla deriva, destinata allo sgretolamento, alla dispersione (Tommaso se ne è già andato, e così i due di Emmaus!). Senza il punto di riferimento rappresentato da Gesù essa si sente sola, abbandonata, isolata, impossibilitata a muoversi.

    Dopo questa introduzione “in tonalità minore”, il nostro evangelista ecco procedere con l’esplosione di due scene che vengono a frantumare questa esperienza di vuoto e di angoscia.

    Due scene susseguenti che è possibile porre benissimo in parallelo.

    La prima scena trova il suo nucleo nel riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli intimoriti. La prima parola che il risorto pronuncia è: “Pace a voi! – Shalom ‘alekem”. Non si tratta semplicemente di un augurio, ma è una consegna effettiva e autorevole del dono promesso dello “shalom” quale pienezza di vita, quel dono che i profeti e lo stesso Gesù avevano preannunciato come compimento delle promesse dei tempi messianici. Durante i discorsi dell’ultima cena Gesù aveva preannunciato ai suoi: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Gv 14,27), e ancora: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Finalmente questa shalom tanto attesa può pervadere il cuore di ogni uomo che accoglie il dono della venuta del Signore risorto.

    Dopo queste parole Gesù mostra le ferite delle mani e del costato. La menzione del costato è tipica di Giovanni il quale certamente ci rimanda così alla scena della morte e del costato trafitto dalla lancia (19,34-37). In quel momento “uscirono sangue e acqua” simbolo della vita e del dono dello Spirito che Gesù sta per fare. Notiamo che per Giovanni questo gesto di Gesù risorto non ha alcuna intenzione apologetica, quasi che volesse dimostrare la verità della resurrezione, esso possiede una finalità più profonda di rivelazione; infatti nel nostro evangelista il verbo “mostrare” ha quasi sempre questa valenza “rivelativa” (cfr 2,18; 5,20; 10,32; 14,8).

    La reazione dei discepoli è immediata. I discepoli “vedendo” il Signore che “mostra” le sue piaghe riconoscono in lui il Crocifisso Risorto: “gioirono nel vedere il Signore”.

    Anche la gioia, e non solo la pace, è frutto dell’adempimento della promessa. Sempre nei discorsi di addio Gesù aveva infatti affermato: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.” (16,21-23). Questa promessa ora si realizza.

    Dopo l’offerta del dono della pace e della gioia, il cuore dei discepoli si infiamma: la “contemplazione” delle piaghe testimoni di un amore “sino alla fine” (13,1), la pace e la gioia che scaturiscono dall’incontro li predispone ad un ulteriore passo, all’accoglienza di un ulteriore dono.

    Si apre così la seconda scena. Essa contiene nel suo nucleo il mandato missionario di Gesù ai discepoli: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Anche questa formula è già presente nei discorsi di addio: “Come tu mi hai inviato nel mondo, così io li ho inviati nel mondo” (17,18). Ciò che appare evidente e caratteristico è che Gesù pone un chiaro parallelismo tra la missione a lui affidata dal Padre e quella che lui affida ai suoi discepoli. Vi è perciò, per i discepoli, una partecipazione alla missione stessa del Figlio, sono chiamati a continuarne “nel mondo” l’opera di annuncio della buona notizia dell’amore del Padre.

    Dopo queste parole di mandato Gesù compie un gesto estremamente significativo: “soffiò su di loro”. Tale gesto è accompagnato dalle parole: “Ricevete lo Spirito santo”. Nell’antico testamento abbiamo due riferimenti importanti: in Gn 2,7 dove Dio creando dalla terra Adamo “soffiò nelle sue narici un alito di vita”, e in Ez 37,9: dove il soffio di Dio è invocato sulle ossa aride “perché riprendano vita” (cfr Sap 15,11). Dunque il gesto di Gesù ha un valore di dono di vita e di nuova creazione. E’ questa, secondo alcuni esegeti, la “pentecoste giovannea”.

    Per rendere effettiva la missione i discepoli, in certo qual modo, hanno bisogno di essere ricreati-rigenerati mediante l’accoglienza della buona notizia della morte di Gesù: ma questa è opera dello Spirito di verità. Vi è perciò una strettissima relazione tra la missione e il dono dello Spirito. Senza quest’ultimo la missione non sarebbe possibile. Invasi dallo Spirito, che li apre all’accoglienza del dono della morte-resurrezione di Gesù, i discepoli sono così consacrati per la missione.

    Questa missione si riassume con l’incarico di annunciare il perdono dei peccati.(cfr Mt 16,19; 18,18. La terza persona plurale – “sono rimessi… sono ritenuti” – sottintende che è Dio stesso che rimette o ritiene i peccati) è un il compito affidato alla comunità cristiana e ai suoi responsabili col il quale essi sono chiamati ad annunciare la buona notizia e di ammettere al battesimo coloro che l’accolgono. E’ inevitabile che l’annuncio della parola e i gesti che l’accompagnano portino un giudizio sul mondo dinanzi al quale gli uomini sono chiamati a scegliere: alcuni l’accolgono ricevendo il perdono altri lo rifiutano indurendosi nel proprio male (14,17; 16,8).

    Collatio

    La comunità dei discepoli rinserrata dentro il cenacolo è allo sbando, il disorientamento è totale e immobilizza ogni sforzo per ripartire. Serpeggia solamente la nebbia dello scoraggiamento e della sfiducia. I discepoli sono incagliati, arenati in quello scoglio “scandaloso” che è la croce. sono come una barca impossibilitata a prendere il largo.

    Per loro, negli angusti orizzonti di quella stanza buia dalle porte e finestre sbarrate, non appare alcuna via di uscita, alcuna soluzione: è l’immobilizzazione così simile alla morte. Sempre la paura paralizza, immobilizza e spegne ogni desiderio. Il cammino fatto fino a quel punto sembra dissolversi come un’illusione da strapazzo.

    Ripartire come? Da dove? È una domanda che avrà sicuramente rimbalzato nelle menti di tutti i discepoli ma alla quale nessuno sa trovare risposta né soluzione.

    Se il Crocifisso risorto non mettesse mano lì dentro sarebbe la catastrofe per tutti. E’ solo l’incontro con lui a possedere la forza straordinaria capace di rimettere in moto quella comunità, di infonderle nuovo dinamismo capace di stravincere ogni paura. E’ il soffio impetuoso dello Spirito donato dal Risorto a possedere la forza travolgente di spingere questo gruppo sparuto e impaurito ad affrontare i confini del mondo per portare la Buona Notizia.

    Cosa significherà per noi “ripartire” nuovamente, come i discepoli, da quel cenacolo ostruito dai massi delle nostre paure?

    Ripartiamo se ci accorgiamo anzitutto che abbiamo ancora tanta strada da fare, e che forse ci siamo per troppo tempo fermati. Capita di trovare persone, autodefinitisi credenti, che si sentono già arrivate, già a posto. A costoro la parola “ripartire” non evoca nulla, non suscita alcun desiderio, perché “ripartire” è un verbo compreso solo da chi abita il mistero, da chi avverte una nostalgia indefinibile di bellezza, di vita e di pienezza di cui si vuole cercare la fonte; è compreso da chi vive una sana insoddisfazione nella propria vita perché sente l’urgenza di cercare nuovamente, di non accontentarsi. Riparte l’uomo “desideroso”, ovvero etimologicamente (desiderio = ad sidera) l’uomo capace di “guardare le stelle”, ovvero di alzare lo sguardo e di uscire dalla stanza chiusa del suo piccolo mondo per cercare qualcosa di più grande, non accontentandosi più del “già visto”. E’ l’uomo desideroso di infinito che richiama a quell’Infinito che è Dio stesso.

    Questo significa vincere il rischio di quella terribile malattia che la miopia della coscienza che porta al ripiegamento su di sé. Ma questo significa la rinuncia a quelle fragili sicurezze fatte di tante piccole e grandi chiusure che sono disseminate nella nostra vita e nelle nostre comunità.

    Vi è inoltre un’ulteriore strada che può spingere a “ripartire”, ad uscire dalla stanza chiusa, ed è quella che possiamo percorrere accanto al dolore. È una strada rischiosa e faticosa perché sollecita fortemente alla rabbia, alla rivendicazione, all’immobilizzazione: come i discepoli impauriti e pervasi dal dolore siamo incapaci di alzare nuovamente lo sguardo e di tornare a sperare.

    Tuttavia, se ci lasciamo interrogare dallo scandalo del male nostro e di quello che ci circonda e che sembra avere l’ultima parola, dall’assurdità della violenza che abita il cuore nostro e di ogni uomo,  avvertiremo la necessità di andare oltre, di uscire, di cercare, di appunto… ripartire. Il dolore possiede la grazia di scomodare la fede scontata fatta di facili risposte artefatte che rinserrano la mente e il cuore.

    In tutto questo ciò che è fuoco che può riscaldarci, vivificarci e illuminarci, ciò che è soffio capace di farci rivivere sarà il nostro “perseverare nell’ascolto della parola”. Una comunità che desidera “ripartire”, è una comunità disponibile all’ascolto. Tale dono impedisce di rinserrarci dentro le illusorie sicurezze delle nostre quattro mura (fatte magari anche di belle progettazioni, di belle celebrazioni, di agende stracariche di impegni ma in cui perdiamo di vista il cardine essenziale).

    Una autentica “ripartenza” porrà Cristo e la Buona Notizia della sua morte e resurrezione al centro di ogni cosa, come perno imprescindibile e insostituibile. Ciò significa lasciare che sia lui il fondamento e la misura di tutto che siamo e facciamo. È necessario in un mondo che vede più che mai la tentazione titanica dell’uomo di farsi misura a se stesso, di voler ripartire da sé stesso per trovarsi poi a girare a vuoto, o “in tondo” come afferma la scrittura parlando dello stolto.

    Contemplando le piaghe del Cristo crocifisso e risorto, riudendo sempre la sua parola che è promessa di pace e perdono, ci apriamo sempre più al soffio del suo Spirito. Ed è lo Spirito a trasformare la nostra vita in un itinerario, un pellegrinaggio, una missione. La vita non sarà più un circolo vizioso avvolto dalle brume delle nostre noie, della nostra sfiducia e  delle nostre paure. Essa si aprirà al futuro di Dio, alla sua promessa… nonostante tutte le nostre porte sprangate.

    Oratio

    L’incontro con te, Signore Gesù, attraverso l’ascolto della tua parola diventi una rinnovata occasione del dono del tuo Spirito di vita su di noi, sulla Chiesa e il mondo intero.

    Soffia ancora Signore Gesù: ne abbiamo bisogno! Come i discepoli spesso ci intristiamo e ripieghiamo nei nostri scoraggiamenti, siamo attanagliati dalle nostre mille paure. Nonostante questo tu “vieni” ancora e sempre in mezzo a noi con il dono della tua presenza fatta parola e pane. Questo rinnovato incontro con te infonde, come un tempo ad Elia stanco e scoraggiato, una nuova energia, ci rialza e ci fa riprendere il tratto di strada. Ora ci inviti a percorrere con te le strade del mondo per portare quello che tu stesso ci hai donato: la pace e la gioia contenute nella Buona Notizia.

    Trasformarci in strumenti di pace e di riconciliazione in questo nostro mondo, in cui troppe barriere e steccati chiusi impediscono di uscire, di incontrarsi, di riconciliarsi. Ci si rinserra nella propria paura e la vita intristisce e la gioia della comunione non viene vissuta.

    Che la comunità dei tuoi discepoli risplenda in questo nostro mondo per la missione che tu le hai affidato: sia capace con la forza dell’evangelo di dissolvere ogni porta chiusa perché tutti si possano incontrare sulla strada ed insieme ripartire verso l’unico Padre di tutti.

  • 23 Ago

    Lo vide e ne ebbe compassione

    Lectio di Lc 10,29-37

    di p. Attilio Franco Fabris

    È  con una certa ammirazione che ancora la gente minimamente informata, anche se lontana dalla fede, guarda alla Chiesa e in modo particolare alla vita consacrata, per il suo contributo benefico svolto a favore di quei settori della società in cui era ed è purtroppo ancora assente una presenza e un’azione di promozione della vita e della dignità di colui che viene considerato “ultimo”. Come ad esempio non ricordare il fondamentale ruolo sociale e culturale, oltre che ovviamente religioso, della chiesa e della vita monastica nella costruzione dell’Europa cristiana che l’ha vista impegnata a favore della promozione umana e spirituale con scuole, università e ospedali, grandi opere di edilizia e bonifica? Come non riandare poi a tutte quelle famiglie religiose che, soprattutto a partire dalla Controriforma sino ai nostri giorni, hanno svolto un servizio impareggiabile nel campo dell’assistenza ai poveri, ai malati e anziani, ai carcerati e ad altre fasce sociali diseredate?

    Si tratta di un patrimonio religioso e sociale che non appartiene solo ad un lontano passato. Esso è ancora quanto mai vivo e attuale, con figure di uno splendido spessore che per lo più vivono nel nascondimento e nell’anonimato perché il bene non fa rumore. Sono ancora oggi tanti gli uomini ma soprattutto donne che si piegano quotidianamente, con una fedeltà spesso eroica, sulle ferite di tanti fratelli e sorelle talvolta e pagando di persona questa loro scelta. Questa schiera di testimoni del passato e di oggi stanno a dire che la provvidenza fa sempre passare per la strada il “buon samaritano”, che ad immagine di Cristo, si prende cura dell’uomo ferito al bordo della strada. Essi ricevono dallo Spirito il carisma della compassione e trovano il coraggio di spendere la propria vita inginocchiati ai piedi del povero, facendosi così, con poche parole, concreto evangelo di un Dio che si china sull’uomo che grida, spesso in silenzio, il suo bisogno di aiuto.

    Chiediamo perciò per loro ma anche per noi allo Spirito un cuore capace di vedere, di farsi accanto, di compatire il piccolo e il povero che incontriamo abbandonato da tutti. Sia lo Spirito a donarci una “carità che non sia oziosa e che operi grandi cose”: “O Fuoco, abisso di carità, tu sei Fuoco che sempre ardi e non consumi:  tu sei pieno di letizia e di gaudio e di soavità.  Al cuore che è ferito da questa fiamma  ogni amarezza appare dolce,  ed ogni peso diventa leggero. E poiché ho detto che arde e non consuma,  ora dico che egli arde consuma,  e distrugge e dissolve ogni difetto, ignoranza,  ed ogni negligenza che è nell’anima.  Poiché la carità non è oziosa,  essa opera grandi cose” (s. Caterina da Siena 1347-1380).

    Lectio

    La parabola del “buon samaritano” è unita redazionalmente all’episodio della richiesta da parte del dottore della Legge di una delucidazione circa il problema del “cosa fare per avere la vita eterna?”.

    La riposta immediata di Gesù è in sintonia col vissuto religioso dell’uomo: egli lo rinvia infatti al nucleo di tutta la Toràh che è riassunto con il comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso” (10,27). Ma l’uomo di Legge non si accontenta di questa risposta: se per lui, il contenuto dell’amore verso Dio è, probabilmente, – non basta osservare la Legge! – non così è la seconda parte del comandamento riguardante l’amore del prossimo: in questo caso le cose si fanno più complicate perché occorre capire bene chi è il prossimo da amare. La sua deformazione religiosa è inguaribile: chiede a Gesù una casistica che lo aiuti a discernere chi sia il prossimo da amare in modo da avere la vita eterna! “E chi è il mio prossimo?”. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Pietro che domanda al maestro quante volte dovrà perdonare il fratello (cfr Mt 18,21). La domanda non è obsoleta; nell’AT è prescritto tale comandamento che però viene inteso come un dovere da assumere nei riguardi ci chi è membro del popolo eletto o al massimo del pellegrino che abita con i giudei; in tutta la letteratura rabbinica contemporanea a Gesù non si trova infatti nessuna ulteriore estensione al concetto di prossimo. Ad esempio nelle normative della comunità di Qumran troviamo questa posizione riferita in modo esplicito: “Amare tutti i figli della luce. Odiare tutti i figli delle tenebre”.

    Alla richiesta di delucidazione circa l’applicazione del comandamento Gesù risponde con una parabola. È tipico della sua pedagogia il non dare mai risposte immediate e teoriche alle domande che gli vengono rivolte. Egli preferisce condurre progressivamente l’interlocutore a scoprire da sé la risposta alla questione posta. E conduce a questa “auto-risposta” non attraverso complicati percorsi fatti di ragionamenti o concetti, ma molto più semplicemente – ma più incisivamente – attraverso immagini o esempi che obbligano al confronto non con la teoria ma con la concretezza della vita. Gesù fa quet’operazione anche in questo caso non rimandando il dottore della Legge nuovamente alle norme ma mettendolo a confronto con fatti concreti di vita.

    Così attraverso la parabola del buon samaritano Gesù porterà il dottore della legge ad un ribaltamento della domanda e della sua impostazione religiosa e morale aprendolo ad un orizzonte che oltrepassa ogni confine normativo.

    Ma veniamo ora alla parabola. Essa ci presenta una scena di vita non inconsueta al tempo di Gesù. La strada che discende da Gerusalemme a Gerico superando un dislivello di circa mille metri è deserta e nello stesso tempo percorsa da pellegrini e mercanti. Per tal motivo era infestata da bande di malavitosi dedite al saccheggio e ad assalti agli incauti viaggiatori. Al centro della parabola sta la figura di “un uomo” “lasciato “mezzo morto” che è stato assalito e ferito da briganti, egli è sul bordo della strada bisognoso di urgente aiuto. Intenzionalmente di quest’uomo bisognoso non viene detto chi sia, quale sia la condizione sociale, la nazionalità, la religione: potrebbe così essere chiunque, si tratti di un pio giudeo oppure di un delinquente o d’un eretico. È “solo” “un uomo” che ha bisogno urgente di un aiuto.

    I personaggi che appaiono nel racconto sono agli antipodi: da un lato due membri della classe elitaria e privilegiata, rappresentati da un sacerdote e da un levita, dall’altro appare inattesa e stridente la figura di un odiato e impuro samaritano. Ma sarà proprio quest’ultimo ad apparirà, a malincuore per il povero dottore delle legge, come colui che porterà a compimento il comandamento della legge che lo renderà beato ovvero erede della vita eterna. E non solo! Siccome il comandamento dell’amore trova in Cristo il suo supremo adempimento ecco che il samaritano diviene addirittura figura del Signore Gesù.

    Il sacerdote e il levita stanno tornando a Gerico alle loro case probabilmente dopo aver terminato il loro servizio al tempio. Entrambi vedono l’uomo sul ciglio della strada bisognoso di aiuto ma di tutti e due si dice che “passano oltre dall’altra parte” (v. 31). Non se ne esplicita il motivo: tutti i motivi potrebbero dunque essere “buoni” per loro. Generalmente si porta come motivazione la normativa circa la purità legale (cfr Lv 21) ma questo varrebbe solo per il sacerdote e non per il levita. Fosse questa la motivazione la lettera della legge permetterebbe loro di sentirsi “a posto”, ma eludendo lo spirito ultimo della legge stessa (Cfr Lc 11,42). Ma più che le motivazioni, che non vengono riportate, all’evangelista interessa piuttosto mettere in scena queste due categorie di persone che rappresentano l’elite religiosa della società giudaica in modo da poterle poi confrontare con l’inatteso personaggio successivo: un samaritano!

    Infatti gli ascoltatori si aspetterebbero, dopo il sacerdote e il levita, l’entrata in scena di un pio giudeo laico (la parabola assumerebbe così un condiviso e diffuso tono anticlericale!). Ma ecco che Gesù, ribaltando queste attese, fa entrare in scena un personaggio scomodissimo per tutti: un odiato, eretico e impuro samaritano! (v. 33).

    La descrizione della condotta del samaritano è fatta con cura in modo da sottolinearne il valore. L’evangelista usa diversi verbi: “passandogli accanto lo vide…n’ebbe compassione…gli si fece vicino… gli fasciò le ferite” (vv 33-34).

    Tra questi verbi uno in modo particolare colpisce per la sua importanza: “ne ebbe compassione” (lett. “si mossero le sue viscere” in riferimento alle viscere materne). Questo verbo “materno” è usato nella Sacra Scrittura per descrivere la compassione di JHWH  verso il povero e il debole, ed è il verbo applicato anche nel Nuovo Testamento a Gesù quando incontra l’uomo bisognoso di aiuto (cfr Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). Si comprende come bene la tradizione abbia sempre visto nella figura del samaritano la figura di Cristo e di conseguenza di Dio stesso che in lui rivela la sua compassione per l’uomo. Alle azioni esterne del samaritano corrisponde dunque un più decisivo e importante movimento interiore (“ne ebbe compassione”) che le motiva..

    Sulle piaghe dell’uomo il samaritano verso vino e olio (nella farmacopea del tempo il vino disinfetta e l’olio lenisce il dolore). Sono certamente dei dettagli che hanno tuttavia lo scopo di far intendere come per Gesù l’amore deve tradurre in gesti concreti.

    Il samaritano è colui che “si prese cura” dell’uomo bisognoso. La stessa espressione ritorna sulle labbra del samaritano al momento della consegna del malcapitato all’albergatore: “prenditi cura di lui” (v.35): la sua opera è in certo qual modo lasciata in eredità, essa va continuata e deve coinvolgere tutti.

    Il dottore della legge, preoccupato della sua casistica, aveva chiesto: “Chi è che devo amare?” ovvero “chi devo considerare prossimo?” (cfr Lv 19,18). Gesù gli risponde addirittura ribaltando l’interrogativo e la prospettiva: “Chi è che ha amato?”. Ovvero “Chi si è fatto prossimo?”. Il dottore della legge deve riconoscere (probabilmente a malincuore e a denti stretti!) che l’odiato samaritano è l’unico ad aver agito giustamente (v. 37).  Le posizioni si sono rovesciate rendendo impossibile una prospettiva impostata sulla casistica. Avviene scandalosamente che l’eretico pratica meglio l’insegnamento della legge del fedele giudeo. Gesù spinge ad un’interpretazione della legge non più legata ad una definizione giuridica ma ad un amore vissuto che rende “prossimi” al “prossimo” che si incontra lungo la strada di ogni giorno.

    La parabola termina con un forte invito-imperativo da parte di Gesù all’uomo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v. 37). La risposta è data: la condizione per entrare nella vita eterna (v. 25) è un amore che rende prossimi e si traduce in gesti concreti di compassione e misericordia.

    Collatio

    Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Alla domanda dell’uomo di legge preoccupato della propria giustificazione potremmo rispondere con le parole del profeta Michea:  “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,88). Dinanzi alla prospettiva di un comandamento che apre ad una giustizia e pietà che, in Cristo, non conoscono ormai più confini, la coscienza  ristretta preferirebbe piuttosto chiare delimitazioni per sentirsi giustificata, “a posto con se stessa”.

    Gesù capovolge questa visione nel grande discorso programmatico sulla montagna: “avete inteso, ma io vi dico…” (Mt 5,43-44),  qui egli addita una “giustizia più grande di quella degli scribi e farisei” (Mt 5,20).

    Alla preoccupazione di chi si deve considerare prossimo in modo da offrigli l’aiuto necessario Gesù risponde che è essenziale ribaltare la questione: sono io che devo farmi prossimo. Questo è lo spirito autentico e ultimo della Legge! Prospettiva oltremodo scomoda perché impedisce di porre limiti, di poter alla fine dire: “Ho fatto quel che dovevo”. Accettare la conclusione della parabola implica accettare di oltrepassare tutti quegli schemi e confini in cui vorremmo ingabbiare, per comodità di gestione, il comandamento dell’amore. Solo chi non ama sta a domandarsi chi sia il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuare, qui ed ora, chi è e dov’è il suo prossimo perché per lui non esistono più “spazi neutri”.

    Mi ha sempre colpito la frase scolpita a caratteri cubitali sulla facciata della “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino, che il Cottolengo riprese da Paolo apostolo: “Caritas Christi urget nos- L’amore di Cristo ci sospinge… ci obbliga…”. L’opera del Cottolengo come di tanti e tante altre non risponde ad una generica emozione e sempre passeggera filantropia, ma sgorga come risposta ad un incontro con un amore “smisurato” e immeritato che ha cambiato il modo di guardare alla vita: è l’incontro con Cristo che per primo si è chinato su di noi come buon samaritano. Se si sperimenta questo amore come si potrà trattenerlo solo per se stessi? Come non donare ad altri questa sovrabbondanza di compassione ricevuta? Come non mettere in atto nella storia segni di speranza e di amore perché altri si sentano a loro volta amati da Dio? Scrive Giovanni Paolo II: “la sincerità della risposta all’amore di Cristo conduce a vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri” (VC 82). È l’amore di e per Cristo che oramai spinge, obbliga a chinarsi verso il piccolo, al povero e il sofferente, verso colui che, agli occhi del mondo, non conta ed è quindi scartato e rifiutato:  “E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,39-40)).

    Non è più possibile a chi ha fatto esperienza dell’amore di Cristo “non vedere” e “passare oltre”.  La giovane suora madre Teresa di Calcutta era sul treno diretta verso la sede degli esercizi spirituali. In una stazione vede un povero moribondo sul marciapiedi abbandonato da tutti: che fare? continuare il suo viaggio – non ci sono i santi esercizi che attendono! – o scendere dal treno e prendersi cura dell’uomo? La scelta è subito fatta, e sarà determinante per il suo futuro e per la nascita dell’istituto delle Suore della Carità. È vero che “l’opzione per i poveri è insita nella dinamica stessa dell’amore vissuto secondo Cristo “ (VC 82) .

    Come il sacerdote e il levita rischiamo invece di non lasciarci coinvolgere da questo amore, e così passiamo oltre girando lo sguardo altrove, apportando certamente valide motivazioni capaci di mettere a tacere la nostra coscienza così religiosa: “Non tocca a me… se dovessi farmi carico di tutti sarebbe finita… ci devono pensare altri…non posso risolvere tutti i problemi… ci sono cose più urgenti… Ma alla fine non è colpa mia se l’è cercata lui!…”. Siamo così abili ad escogitare scappatoie per poter passare oltre le ferite altrui “illesi” nella nostra falsa coscienza.

    Come non ricordare a questo punto una figura straordinaria di “buon samaritano” dei nostri giorni quale è stato Roul Follerai: spese tutta la sua vita dopo aver incrociato casualmente la sofferenza dimenticata dei lebbrosi. Capì che la sua vita poteva e doveva essere ormai spesa nel chinarsi su  quegli uomini piagati e rifiutati. Sono sue queste parole dette in tutta coerenza: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo.” Follerai cercò di coinvolgere non solo la moglie, bensì il mondo politico, religioso e culturale perché superasse l’indifferenza o la dimenticanza di questo problema. La sua associazione vive e opera ancor oggi con migliaia di volontari.

    Si tratta perciò in primo luogo di saper “vedere” “l’uomo al bordo della strada”! Non è poi così scontato perché restringiamo senza accorgerci il nostro orizzonte alle nostre piccole cose non accorgendoci che così facendo restringiamo la nostra capacità di amare. Il Signore ci invita ad “udire il grido del povero”, “alzare lo sguardo” e “vedere”.

    Solo così può scaturire in noi la compassione. Questa è virtù estremamente rara nella cultura sempre più narcisistica nella quale siamo immersi e che ci vorrebbe costantemente impegnati a centrare tutto su noi stessi, non si ha tempo per gli altri, ci sono sempre cose più importanti da fare. “Cum-patere” significa “soffrire insieme””. In questo senso il primo samaritano è Cristo stesso che porta su di sé, agnello e servo di Dio tutta la nostra infermità. Egli la “con-divide” ovvero la “divide con noi” portandola  insieme a noi. Nelle “Cronache domenicane” del XIII sec. narrando della vita di san Domenico l’agiografo scrive: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione”. “Portare il dolore – di tutti e indistintamente – nel santuario della compassione” è il vertice della sequela di Cristo perché è conformazione piena a lui, che è com-passione di Dio fatta carne. Perché Cristo stesso si identifica col piccolo e il povero, il servizio resi a questi è reso a Cristo stesso: “Cristo si trova sulla terra nella persona dei suoi poveri…Come Dio, ricco, come uomo, povero. E infatti lo stesso uomo già ricco ascese al cielo, siede alla destra del Padre eppure quaggiù tuttora povero soffre la fame, la sete, è nudo” (Agostino, Sermoni 123).

    “Avere compassione” non è questione solo di pii sentimenti o facili entusiasmi. La vera compassione, insegna la parabola, si traduce in scelte e gesti concreti perché “il vangelo si rende operante attraverso la carità” (VC 82). L’apostolo Giacomo ammonisce a non cadere nel tranello di una fede vuota di opere, fatta solo di buone intenzioni e perciò inconsistente e perversa: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2,2-4). La fede vera si traduce obbligatoriamente in opere, ed è quindi con riconoscenza che vediamo come lo Spirito abbia spinto e spinge tuttora a porre in atto gesti concreti di “com-passione” – non importa se grandi o piccoli, anonimi o pubblici – che testimoniano al mondo che Dio “Caritas est”.  “La compassione – scrive p.J. Fuellenbach – non è solo passiva. Richiede la rimozione di ciò che pregiudica la vita in coloro che soffrono. Gesù ha sempre risanato la persona e l’ha portata nuovamente nel tessuto delle relazioni vitale (giustizia)”.

    Prenditi cura di lui” è la consegna che il samaritano fa all’albergatore affidandogli la cura dell’uomo ferito. Il suo servizio diviene così capace di coinvolgere altri, di responsabilizzare altri a proseguirlo. In questo modo si intesse una cultura di “com-passione”, di solidarietà. Le comunità cristiane e religiose dovrebbero divenire autentiche scuole di questo servizio e quindi di evangelizzazione. “Servire i poveri è atto di evangelizzazione e nello stesso tempo sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata, poiché – come dice san Gregario Magno – «Quando la carità si abbassa a provvedere anche agli infimi bisogni del prossimo, allora divampa verso le più alte vette. E quando benignamente si piega alle estreme necessità, allora vigorosamente riprende il volo verso le altezze»“(VC 82). Come non guardare con gratitudine a apprezzamento al sempre maggior coinvolgimento di laici/che in tanti settori di servizio un tempo strettamente riservate alle persone consacrate. Questo non mancherà di portare frutti abbondanti di vita e di testimonianza cristiane! Occorrerà tuttavia tenere sempre presente il rischio di ricadere in un’ottica che vuole tutto organizzare, prescrivere, delimitare. Si cadrebbe così ancora una volta nel tranello della “Legge”. La misura del “fare” non potrà mai essere predeterminata a priori così che sia possibile pensare un momento in cui essa sia esaurita, in cui l’esigenza dell’altro non ci interpella più; essa invece resta inesauribile perché tale è l’appello che ci è rivolto dalla presenza dell’altro.

    Che cosa dobbiamo fare per avere in eredità il Regno? Dio vuole che accogliemmo il suo stile, il suo farsi prossimo ad ogni uomo senza distinzione alcuna. L’attenzione e la cura data all’uomo bisognoso che giace al bordo delle strade delle nostre città diviene annuncio della Buona Notizia di un Dio che si fa vicino all’uomo amandolo concretamente; la vicinanza all’ultimo diviene sacramento della vicinanza di Dio all’uomo.

    Oratio

    È veramente giusto lodarti e ringraziarti, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, in ogni momento della nostra vita, nella salute e nella malattia, nella sofferenza e nella gioia, per Cristo tuo servo e nostro redentore. Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto. (Prefazio Comune IX del Messale Romano).

  • 22 Ago

    Noi serviremo il Signore nostro Dio

    e obbediremo alla sua voce!


    Lectio di Gs 24,1-3.13-25

    di p. Attilio Franco Fabris

    Leggera è l’obbedienza vissuta alla luce dell’Evangelo, perché testimonia una gioiosa appartenenza e una libertà desiderata. Gioiosa appartenenza all’unico e indiviso Signore, libertà desiderata perché ci riscatta da ogni umiliante schiavitù in cui sprofondiamo ogniqualvolta vogliamo sganciarci dal nostro rapporto con il “Dio Uno” al quale solo spetta il nostro servizio di lode.

    La fede non è l’obbedienza, né è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J.Guillet), per cui l’obbedienza vera è la fede radicale riposta unicamente in Dio: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,23).

    L’obbedienza biblica non è un rapporto di dipendenza, di sottomissione dell’uomo a Dio, ma un libero rapporto d’amore sollecitato da Dio stesso attraverso il dono dell’alleanza prima offerta nella Legge e poi nella carne del Figlio.

    Accogliendo questo dono veniamo liberati da ogni idolatria, mettiamo a morte l’uomo vecchio con le sue pretese di indipendenza egocentrica, ci volgiamo a Dio in una esigente relazione d’amore.

    Certo essa non è facile! Questa obbedienza domanda l’assunzione di tutta la propria responsabilità e il rifiuto di ogni scorciatoia comoda attraverso la quale rinunciarvi. La vera obbedienza non è mai disgiunta dalla responsabilità! Gesù ci insegna la via di questa obbedienza, donandoci il suo Spirito che, in lui Figlio obbediente, fa di noi altrettanti figli (cfr Rom 8,15), ed è perciò lo Spirito che dobbiamo invocare perché ci sia dato in Cristo di poter dire a nostra volta: “Abbà sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”: “Vieni, Spirito Santo, dal tuo trono celeste a consacrare i cuori dei tuoi fedeli, tu che il Cristo, la sapienza incarnata, promise di mandare da presso il Padre. Tu sei il “Dono” eterno e nuovo che il Cristo in croce fece alla sua Chiesa, quando la sposò con un’alleanza eterna, ornata di porpora dal sangue del Re. A colui che ti riceve, si aprono i misteri; nell’intimo, tu gli insegni ogni cosa. Questa è la caparra che già su questa terra il Cristo ha voluto dare alla sua Sposa”. (Rabano Mauro, PL 107,211).

    Lectio

    Il testo tratto dal cap. 24 del libro di Giosué è il resoconto del secondo solenne rinnovo dell’alleanza sinaitica (a cui stranamente qui non si accenna) celebrato da tutte le tribù d’Israele dopo la presa di possesso della terra promessa.

    Alcuni esegeti motivano a livello storico l’episodio con la volontà da parte di Giosué di radunare e stringere in un’unica confederazione tutte le tribù in quanto alcune di esse erano già stanziate in terra di Canaan allorquando Giosuè e le altre tribù vi entrarono. Per tale ragione quelle tribù non avevano conosciuta l’alleanza del Sinai.. In tal senso si può affermare che quanto Mosè aveva celebrato sul Sinai (cfr Es 24) viene ora ripetuto e riproposto nell’adunanza di Sichem.

    La struttura del brano e il suo lessico per quanto antichi denotano tuttavia un contesto liturgico con una sottostante teologia dell’alleanza tipica della tradizione “deuteronomistica”. Questa era caratterizzata dalla centralità della storia del popolo eletto letta come un continuo intervento salvifico da parte dell’iniziativa di Dio, il quale domanda una libera risposta di alleanza al “popolo che si è scelto”.

    Il testo ci si offre nella forma di un grande dialogo intessuto tra Giosuè, in qualità di portavoce di JHWH (“Dice il Signore, Dio d’Israele…” v 2), e tutti gli israeliti. Giosué, immediato successore di Mosè, ci appare come figura di mediatore alla stressa stregua del suo predecessore. Interessante come la sua funzione qui appare molto simile a quella successiva dei profeti quando richiameranno il popolo alla fedeltà all’alleanza con JWHW.

    Ma ripercorriamo ora gli elementi e i momenti fondamentali del nostro brano.

    Esso si apre solennemente con la convocazione da parte di Giosuè di “tutte le tribù…insieme agli “anziani d’Israele, i capi, i giudici, gli scribi del popolo” (v 1). L’atto ufficiale che si sta per compiere è di straordinaria importanza se esige la presenza di tutti, nessuno escluso.

    Anche il luogo della convocazione non è casuale: “Sichem” (v. 1). Tale località è centrale nella memoria di Israele: lì infatti JWHW era apparso ad Abramo la prima volta dopo che fu entrato nella terra promessa al fine di rinnovargli l’alleanza (Gn 12,6-8), lì Giacobbe aveva successivamente acquistato un terreno consacrandolo al Signore (Gn 33,18-20). A Sichem, dopo l’ingresso nella terra promessa, sempre ad opera di Giosuè, si era già svolto già un primo grande raduno con un primo rinnovo dell’alleanza (Gs 8,30-35). Sichem, molto prima di Gerusalemme, per molto tempo rivestirà l’importanza di una sorta di “capitale” della confederazione israelita e lì quasi sicuramente vi fu il primo santuario in cui risiedeva l’Arca dell’Alleanza (cfr 8,33). Logico allora che Giosuè scelga proprio Sichem come luogo simbolico strettamente collegato al tema della promessa e dell’alleanza. Ciò che sta per avvenire viene ricollegato in tal modo alla storia e una memoria di fede.

    Tutti “si presentarono davanti a Dio” (v.1): questa è un’espressione tipica utilizzata nel linguaggio liturgico per designare un’adunanza sacra e solenne. Non si tratta anzitutto e solo di un atto politico: è vera e propria azione liturgica celebrata dinanzi al Dio dell’alleanza.

    “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d’Israele…»” (v, 2). Giosuè parla in modo autorevole in nome di Dio stesso, come faranno successivamente i profeti con discorsi strutturati su un identico schema.

    E il raduno assume sin dal principio l’andamento di un solenne dialogo che viene intessuto tra Giosuè e le tribù d’Israele.

    La prima fase del discorso di Giosuè ha come obiettivo il far memoria delle azioni salvifiche di JHWH (i verbi sono tutti alla prima persona singolare: Io…) nei riguardi di Israele a partire da Terach padre di Abramo sino a giungere all’”oggi” (v 15). Vengono perciò ripercorse le grandi tappe di una storia che Israele ha potuto sperimentare come liberazione/salvezza dalla schiavitù dell’idolatria. Un’azione che si apre ora al dono gratuito della terra: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v. 12).

    Dopo aver rievocato l’opera di Dio nel passato (vv 2-13) il discorso si traduce in un invito esplicito a corrispondere al suo dono: “Temete dunque il Signore e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume e in Egitto e servite il Signore” (v.14). Importanti sono i verbi “temere” e “servire” i quali sono un condensato del rapporto di Israele con la Legge implicando l’impegno di “servire Dio” con “integrità” e “fedeltà”. Non si cada in compromessi perché si tratta di decidersi per il Dio dell’esodo e della conquista, cioè della storia, contro l’attrattiva del culto delle divinità cananee, egizie e mesopotamiche (v. 14).

    La risposta non è scontata perché l’alleanza offerta da Dio si offre nel rispetto della libertà dell’uomo: “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate” (v. 15): in genere il verbo “scegliere” ha come soggetto Dio nei confronti dell’uomo, ma qui appare il contrario perché alla scelta di Dio deve ora corrispondere la scelta dell’uomo.

    La risposta di Israele non tarda, essa è entusiasta ed immediata: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (vv. 16-17). Queste sono parole significative perché vi si scorge che l’obbedienza di Israele all’alleanza non nasce da un dovere morale o dalla paura, ma dal semplice fatto che Israele ha sperimentato lungo la sua storia che Dio è salvatore e liberatore, fedele alla parola data e dunque affidabile. Siccome “Egli è il nostro Dio” (v. 17), non è più possibile “servire (=obbedire!) altri dei” (v. 16).

    Ma, quasi una doccia fredda, la risposta di Giosuè è un forte richiamo alla serietà di tale decisione. Sembra quasi che Giosuè voglia mettere in guardia il popolo da una risposta troppo scontata: “Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, Egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà”(v.20). Con Dio non si gioca al compromesso: ne va della vita stessa perché l’uomo si gioca interamente nella sua libertà. L’adesione all’Alleanza di Colui che è tre volte“Santo” non può essere presa alla leggera, sull’onda dell’entusiasmo (si tratta della stessa serietà che domanderà Gesù a chi gli chiederà di porsi alla sua sequela: cfr Lc 18.58ss): va ponderata attentamente nelle conseguenze che essa comporta: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati”(v 19). La “santità” (cfr Is 6,3) e la “gelosia” (cfr Es 34,14) di Dio non sopportano contaminazioni: si tratta di una “grazia a caro prezzo” (D. Bonhoeffer)! Non è possibile “servire a due padroni” ammonirà severamente Gesù (cfr Mt 6,24)!

    La reazione delle tribù radunate è unanime al grido: “Noi serviremo il Signore” (v 21). Israele riconosce come vere le parole di Giosué e protesta la sua volontà di mantenersi a sua volta, come lui e la sua famiglia, fedele all’Alleanza. Di questa scelta tutti si rendono “testimoni” gli uni nei confronti degli altri davanti a Dio (v 22).

    Giosuè intima perciò immediatamente al popolo di a mettere in atto tale scelta: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!» (v 23). Si allude qui con chiarezza alla presenza in quel momento di forme idolatriche all’interno delle tribù d’Israele. Non scordiamo pure i reali attestati dell’idolatria di Israele quando si trovava schiavo in Egitto (Ez 20,7-8; 23,3). Significativa allora appare l’esortazione di Giosuè a “rivolgere il cuore verso il Signore”: il cuore sta ad indicare il centro della persona, la sede della sua affettività e volontà. La scelta di sottoscrivere all’alleanza e di servire/obbedire il Signore deve procedere dal centro di se stessi, non può essere imposta dall’esterno: “Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!” (v.24). E’ la stessa risposta del popolo d’Israele a Mosè al termine dell’alleanza del Sinai: “Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).

    A questo punto come gesto finale il testo afferma che Giosuè “concluse l’alleanza” (v 25) o meglio “tagliò un’alleanza”: qui si conclude il brano alludendo forse al sacrifico di animali coma parte integrante del rituale dell’alleanza, come già fece Mosè ai piedi del Sinai (cfr Es 24,3-8).

    Collatio

    Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (v.24). Il verbo “servire” è equivalente ad “obbedire”, ora l’obbedienza suppone l’ascolto della parola nella quale Dio rivela al suo popolo il suo disegno d’amore. “Ascoltare” rappresenta così il verbo più importante della Sacra Scrittura perché l’azione più importante che Dio compie è quella di “parlare”, ovvero di comunicarsi all’uomo!

    Per parlare di “obbedienza” l’ebraico usa il verbo “sama” che significa “ascoltare”: non esiste infatti nell’ebraico una parola corrispettiva al nostro “obbedire”. La stessa radice etimologica la ritroviamo sia nel latino (da ob-audire) e nel greco (hypò =koùo). In quest’ultimo il verbo ascoltare ha come prefisso “hypò” che indica “sotto”: l’idea qui espressa è che l’ascolto-obbedienza implichi un atteggiamento di sottomissione a colui che parla.

    Da cosa si caratterizza l’ascolto autentico della Parola di Dio? Da una costante tensione “non lasciar andare a vuoto alcuna delle parole di Dio” (1Sam 2,19), a custodirle gelosamente, nella consapevolezza che esse sono il cibo di cui l’uomo ha bisogno per raggiungere la vita (cfr Mt 4,4) dalla quale si è allontanato a causa della sua disobbedienza. Questa parola si farà, in Cristo, carne da mangiare per la vita eterna (cfr Gv 6,54). Isaia esplicita bene questa tensione: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,4).

    Nell’assemblea di Sichem ci viene presentato un popolo che radunato dalla Parola di Dio “non si tira indietro” , “non oppone resistenza” alla parola annunciata, ma entusiasta si rende subito disponibile all’obbedienza, riconoscendo in quella parola stessa il principio della sua sussistenza e della sua vocazione. Senza l’ascolto-obbedienza alla parola Israele cesserebbe infatti di esistere:“Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio” (Dt 27,9-10).

    Un aspetto essenziale dell’obbedienza biblica è il fatto che essa non scaturisce da un precetto moralistico, ovvero non è norma che improvvisamente cala dal cielo imponendosi dispoticamente all’uomo. Essa rispetta la libertà dell’uomo che può anche rifiutarsi di obbedire (come accade al principio, accade e accadrà con tutte le conseguenze che questa scelta comporta). È altamente significativo rileggere il dialogo che viene intessuto tra Dio e il popolo adunato a Sichem: esso è caratterizzato dal fatto che l’alleanza non è imposta al popolo ma proposta alla libertà di tutti e di ciascuno (“se vi dispiace…”v. 15). Essa fa appello dunque a quella libertà nella quale fin dall’inizio il Creatore ha costituito l’uomo, e che ne costituisce la dignità e che sola assicura un reale rapporto d’amore (=alleanza) tra partner.

    A una libertà sganciata da qualsiasi verità e dunque impazzita come oggi purtroppo accade, l’obbedienza biblica si propone come via di accesso alla verità del disegno di Dio, il quale promuove l’autentica realizzazione dell’essere umano. Scriveva Giovanni Paolo II: “Non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà. In effetti l’atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d’obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell’obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà” (VC 91).

    Questa libertà lascia lo spazio anche al tradimento dell’alleanza, ovvero alla disobbedienza. Quando Israele viene meno all’obbedienza  sperimenta immediatamente la schiavitù come conseguenza irrimediabile: “Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti” (Dn 3,28ss; cfr Es 17,7). Risuona perciò continuamente l’ammonimento del salmista: Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito…Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie” (Sal 81,12.14). La disobbedienza conduce all’idolatria, all’indifferenza, ad un vuoto legalismo religioso. L’ingiunzione di Giosué appare dunque chiara: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!».(v 23). Israele sperimenterà lungo la storia che quando questa eliminazione non è reale subentrerà il suo sgretolamento e fallimento; ovvero andrà incontro alla morte. In questo senso Giosué premunisce il popolo contro la tentazione della disobbedienza, perché qualora accadesse “egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà” (v. 20).

    L’obbedienza alla Parola è essenziale all’uomo in vista della sua libertà. Essa infatti lo preserva dall’inginocchiarsi dinanzi ai tanti idoli di ieri e di oggi, l’obbedienza al contrario restituisce l’uomo alla sua dignità di figlio, lo riapre a quella libertà per cui è stato fatto e che fa sì che senta di appartenere  a colui che lo ama: “mediante l’obbedienza si è uniti in maniera più costante e più sicura alla volontà salvifica del Padre” (PC 14).

    Un ulteriore importante aspetto dell’obbedienza che Dio chiede al suo popolo è che essa non è imposta dalla e con la paura. Al contrario essa deve rappresentare una risposta libera e gioiosa al fatto di aver toccato con mano l’azione salvifica di Dio. Gli imperativi divini non sono né dispostici,né tanto meno arbitrari e autoritari. L’obbedienza che Dio chiede è in certo qual modo. .. spiegata, motivata come conseguenza ovvia di ciò che è il Signore e del suo rapporto con il suo popolo.

    Comprendiamo allora perché il discorso di Giosuè si apra con un riepilogo della storia della salvezza che ha condotto Israele fino all’”oggi”: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Es 19,4-5). Anche il Decalogo suppone questo dinamismo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2).

    Nel discorso di Giosué JHWH è un Dio che si presenta al suo popolo con credenziali di tutto rispetto: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v.13). E quel che Dio ha fatto nel passato, lo sta compiendo in questo stesso momento e lo porterà a compimento nel futuro: questa è la convinzione di fede che sta alla base dell’alleanza, ovvero alla risposta positiva dell’uomo a ciò che Dio domanda per il suo bene. A questo punto l’uomo non potrebbe desiderare altro che obbedire: “Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio” (Sal 142,10)!  Il fare costante “memoria” della presenza e dell’agire del Signore è essenziale perché Israele perseveri nel “servizio”, ovvero nell’obbedienza a JHWH: «Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi!7 Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio. La nostra obbedienza deve radicarsi nel continuo memoriale di quanto Dio ha fatto, fa e farà per noi: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,3). Cosicché la “Torah” dovrebbe essere vissuta da Israele non come un peso insopportabile ma come un dono, e l’obbedienza come l’occasione per entrare nel gioco d’amore con JHWH, sperimentando nella comunione con la sua volontà la beatitudine: “beato l’uomo di integra condotta che cammina nella legge del Signore” (Sal 119,1).

    L’obbedienza biblica non è dunque un’obbedienza servile, o “cieca” a dir si voglia; si tratta di un’obbedienza gioiosa, libera  che sgorga da un cuore che ha sperimentato la misura “smisurata” dell’amore di Dio: rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele” (v.23). È questa l’obbedienza che Dio domanda al suo popolo, a ciascuno di noi: un’obbedienza adulta e matura, da figli e non da schiavi (cfr Rm 8,15).

    Ma proprio perché libera, adulta e responsabile essa comporta, ed è il terzo aspetto, forti esigenze e conseguenze: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati” (v. 20). L’amore di Dio è esigente! L’obbedienza esige un sacrificio reale di quella volontà che appartiene all’ “uomo vecchio” sospettoso, incredulo e pauroso che sfugge alla Parola nascondendosi e illudendosi di poter costruire autonomamente la propria vita: “con la professione di obbedienza i religiosi offrono a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi” (PC 14)

    Quando l’obbedienza decade e si snatura? Quando essa invece di radicarsi nella memoria delle opere di Dio si fossilizza nella lettera perdendo in tal modo la sua vera sorgente. Quando questo accade l’obbedienza si snatura, diviene legalismo vuoto e ricerca di autoperfezione e autogiustificazione. Contro questa falsa obbedienza si scaglieranno sia i profeti (cfr Is 1,11-17) come anche Gesù: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” (Mt 23,23)

    Il teologo protestante R. Bultmann scrive: “Dio chiede all’uomo un’obbedienza dal profondo e non dall’esterno. Sino a quando l’azione sta solo accanto all’agire, l’uomo non è totalmente obbediente. L’obbedienza esiste dove l’uomo è volto interamente a ciò che fa, dove è tutto ciò che fa, cioè dove egli non fa qualcosa ubbidendo, bensì è obbediente nel suo essere…L’obbedienza è radicale. Questo significa che l’uomo si trova nella situazione di decisione; se non si dà per lui alcuna possibilità di neutralità, allora deve decidersi tra le uniche due possibilità che ci sono nel suo essere, cioè tra il bene e il male” (R. Bultmann, Gesù).

    Che lo Spirito ci dia sempre di vivere un’obbedienza dal profondo di noi stessi che non scaturisca solo dall’esterno.

    Oratio

    Modello di obbedienza libera, responsabile e matura è Maria. È lei che, come Abramo, con “integrità” e “fedeltà” ha sempre “volto il cuore” unicamente al suo Dio in un “servizio” perfetto alla sua volontà: “eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”..

    A lei dunque affidiamo i propositi sgorgati dall’ascolto della Parola perché la nostra obbedienza si conformi sempre più alla sua perfetta discepola del Figlio: “Santa Maria, donna obbediente, Tu che hai avuto la grazia di “camminare al cospetto di Dio”, fa’ che anche noi, come Te, possiamo essere capaci di “cercare il suo volto “. Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E quando Egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto, e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia”. (mons. Tonino Bello)

  • 20 Ago

    Il tempo dell’antibabele

    Lectio di Isaia 2,1-5

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il mondo sta camminando a passi sempre più spediti verso una trasformazione globale. Sta cambiando la cultura, la vita e le strutture sociali e di comunicazione, cambia l’economia sempre più globale: il mondo è realmente diventato più piccolo, un “villaggio globale” come alcuni amano dire. Vediamo le nostre città, e non solo, trasformare il loro volto. Viviamo, volenti o nolenti, uno dei cambiamenti più grandi della storia dell’umanità che segnerà sicuramente una svolta.

    Questo cambiamento è percepito con sentimenti diversi e spesso contrastanti: se ne avvertono le immense potenzialità di bene e di sviluppo per tutti, ma d’altra parte lo si teme perché esso comporta inevitabilmente lo smantellamento di strutture economiche, sociali, politiche, che per secoli avevano assicurato un orizzonte di sicurezza e stabilità.

    Uno dei segni più evidenti di questo cambiamento è dato dal fatto che, sempre più spesso, camminando per strada, salendo sul tram o al supermercato incontriamo donne col velo islamico, volti  neri, occhi a mandorla, sentiamo parlare lingue perfettamente sconosciute, vengono aperti negozi stranieri e inaugurati nuovi luoghi di culto per le religioni più disparate. In alcune scuole e quartieri si sta ponendo il problema di una minoranza fatta di… italiani! Un grande movimento di popoli sta avvenendo sotto i nostri cuori, obbligando ad un incontro, che può purtroppo come sta avvenendo in diverse parti del mondo e anche in Italia degenerare in scontro, di culture.

    Anche il volto delle comunità cristiane e religiose sta cambiando di conseguenza. Alla messa domenicale è facile scambiare il segno della pace a destra con l’africano e a sinistra con una filippina. Tanti istituti religiosi hanno scelto di integrare (talvolta importare!), per motivi più o meno validi, vocazioni provenienti dall’Africa e dall’Asia: per cui nel paesino più sperduto delle montagne dell’Abruzzo non è difficile intravedere l’anziana suora italiana che si accompagna a una giovane consorella indonesiana per andare alla messa celebrata dal prete indiano!

    Ci domandiamo: quale il ruolo della società, della chiesa, della vita religiosa, in questo frangente storico così delicato? Cosa Dio ci sta chiedendo? Quale il segno dei tempi che ci fa scorgere?

    Il profeta Isaia ha la forza e il coraggio di aprire il credente ad una visione di straordinaria bellezza: Dio annuncia che tutti i popoli sono chiamati a percorrere una via di riconciliazione e di pace che li faccia sempre più incontrare e unificare. Si tratta di una via che non passa attraverso i meschini calcoli politici o interessi economici, ma attraverso il riconoscimento che vi è una realtà più grande di ogni singolo popolo, lingua, cultura, religione. Questa realtà noi la chiamiamo Regno di Dio verso il quale tutti siamo incamminati per raggiungerlo in pienezza alla fine dei tempi. Nel frattempo la provvidenza di Dio ci pone nella condizione di pregustarne gli anticipi.

    Nel frattempo a noi collaborare con lo Spirito che fa percorrere alla storia sentieri ancora inesplorati: “Vieni Spirito Santo,scendi come rugiada dal cielo. Fa’ sentire la tua presenza mite, dolce e forte, nel profondo della coscienza. Apri i nostri occhi, fa’ che siano fissi sul volto di Cristo. Apri le nostre orecchie perché ascoltino solo le sue parole. Rendici suoi discepoli. Prepara il nostro cuore all’incontro sempre nuovo con il Signore risorto, in attesa di conoscerlo pienamente accanto a te, con tutti i nostri fratelli nella gioia del Padre, che non avrà mai fine. Allora ogni parola del Signore ci apparirà chiara e luminosa. E noi saremo introdotti nella vita della Trinità. Per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

    Lectio

    La cittadella di Sion raccoglie in sé il Tempio, dimora di Dio, e il palazzo del re suo luogotenente. Sia il tempio che il palazzo reale sono segni che rimandano costantemente all’elezione d’Israele da parte di JWHW e alle sue promesse.  Numerosi testi dell’AT si premurano di ricordare che JWHW abita in Sion: “Il Signore degli eserciti abita sul monte Sion” (Is 8,18), che è lui che “ha fondato Sion e in essa si rifugiano gli oppressi del suo popolo” (Is 14,32). “Sul monte della sua eredità, santuario che le sue mani hanno fondato” (Es 15,17). È da questa sede da lui scelta che JHWH vuole da sempre incontrare e parlare, tramite il profeta, al suo popolo.

    Il profeta Isaia abita proprio in Gerusalemme, e nei suoi oracoli si intravede un grande innamorato della sua città: egli è sempre pronto a decantarne tutta la bellezza che scaturisce dal fatto che Dio stesso abita in essa:“Eccelso è il Signore poiché dimora lassù; egli riempie Sion di diritto e di giustizia”  (33,5).

    Isaia ogni anno ha modo di contemplare il continuo confluire di tutti gli israeliti che in pellegrinaggio, in occasione delle grandi feste, si recano al monte di Sion cantando i “Salmi delle Ascensioni” “in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Era questo certamente uno spettacolo capace di suscitare memorie antiche e speranze sempre nuove. Una speranza necessaria in quanto il tempo in cui Isaia annuncia il suo oracolo è difficile: la situazione del regno di Giuda è drammatica. Esso è aggredito e strattonato da ogni lato dalle spinte politiche dei paesi circonvicini che lo vorrebbero obbligare ad alleanze in vista di un suo coinvolgimento in una impossibile guerra contro l’Assiria (Is 7,2). Mentre le truppe nemiche si apprestano ad assediare la capitale per ridurla alla sottomissione Isaia rimane fermo nella speranza che la salvezza starà unicamente nell’affidarsi a Dio, non nei poveri e umani calcoli politici. Se Israele confiderà unicamente nel suo Dio Gerusalemme non potrà essere conquistata. Ma il suo annuncio profetico non si ferma qui; egli va oltre offrendo un’ulteriore e sconcertante promessa, quella contenuta nel nostro testo.

    “Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme” (v.1). Isaia “vede” ciò che deve dire, o meglio annuncia ciò che Dio gli mostra. La sua parola sarà perciò infallibile in quanto Parola di Dio! Ciò che Isaia dice non è una sua intuizione, un suo ragionamento ma è “visione”, ovvero capacità/dono di leggere la storia e le vicende con lo sguardo di Dio stesso. Dio stesso che “mostra” il suo disegno servendosi del profeta. E ciò che egli “vede” è in riferimento al regno di Giuda e della sua capitale: la città santa di Gerusalemme.

    “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti” (v.2). Troviamo anzitutto una precisazione riguardante il tempo. Quando avverrà ciò che vede? “Alla fine dei giorni”. Espressione enigmatica che non comporta tuttavia necessariamente la fine della storia. Può stare ad indicare il tempo di un nuovo inizio nel quale il Regno di Dio sarà sperimentato come realtà concreta e nel quale l’umanità potrà sperimentare un cambiamento radicale.

    Una nuova era che inizierà con l’esaltazione del monte di Sion sopra tutti gli altri monti. Isaia vede il monte di Sion – sul quale si erge il grande Tempio costruito da Salomone – elevarsi divenendo il monte più alto della terra. Questo non per suoi meriti… orografici! Ma perché luogo scelto da Dio a sua dimora. Il luogo cui Dio ha legato la propria presenza verrà elevato dalla sua attuale posizione nella quale passa pressoché inosservato cosicché tutto il mondo lo potrà vedere nella sua vera realtà di “monte di Dio”.

    Immediatamente dopo il profeta scorge una folla immensa di pellegrini di ogni razza, popolo e lingua e nazione che si dirige unanimemente verso il santuario di Dio. Se in precedenti oracoli Isaia annunciava lo sterminio dei popoli ribelli (cfr 10,24-34; 17,12-14; 30,19) qui manifesta che Gerusalemme diverrà luogo di incontro per tutti i popoli (lo stesso tema verrà ripreso dal contemporaneo Michea: 4,1-5). Al termine della storia Dio non annienterà dunque i popoli pagani ma ad essi offrirà la conversione, la possibilità della loro spontanea sottomissione all’autorità di Dio: “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe,perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore”(v.3).

    Sorge inevitabile la domanda: qual è il motivo di questa comune e inattesa attrazione? Questa fiumana di popoli diversi non si reca al monte di Dio per offrire sacrifici o sciogliere voti o per altri scopi cultuali quanto per porsi in ascolto della Parola di JHWH. Da questo ascolto potranno tutti apprendere a camminare nelle vie del Signore: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105).

    Dunque la forza di attrazione, il punto di convergenza e di comunione tra tutti i popoli, sarà rappresentato dalla Parola che Dio rivela e che “esce” dal tempio, non vi rimane!, per andare incontro all’uomo. È solo la Parola che può attrarre e unificare i cuori un tempo divisi in un comune desiderio, nella misura in cui la “legge” sarà riconosciuta come verità dal cuore di ciascuno. Ciò significa che al dono della Legge deve far riscontro la disponibilità dell’orecchio all’ascolto e della volontà per realizzare la parola udita cosicché “possiamo camminanare per i suoi sentieri”.

    Il santo monte diviene centro di un duplice movimento: da un lato il concorso universale di tutti i popoli dall’altro la Parola che da esso viene a tutti indistintamente offerta. Il grande cammino umano della storia si trasforma in un cammino dell’uomo verso Dio e di un cammino “di Dio” verso l’uomo. La marcia della storia diviene “santo pellegrinaggio”:Sono canti per me le tue parole, nella terra del mio pellegrinaggio” (Sal 118,54). Le vie del mondo e della storia si trasformano in strade di Dio, nei “suoi sentieri”. La storia per la rivelazione biblica non è un  girovagare a vuoto, senza meta e direzione!

    “Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si  serciteranno più nell’arte della guerra” (v.4). Frutto del convergere al monte di Dio da parte di tutti i popoli, il che rappresenta una dinamica opposta a quella del monte/torre di Babele, è l’instaurarsi di un’era di pace, di riconciliazione: ovvero del regno di Dio. Gli strumenti di morte – spade e lance – sono trasformati in strumenti di vita: vomeri e falci-. I popoli pongono fine alla guerra, le armi sono totalmente  dimesse (forgeranno) perché non avranno più alcun senso di esistere. Le divisioni e le ostilità dell’umanità si dissipano ai piedi del monte quando la Parola è accolta da tutti!

    È utile tener presente che oracoli di questo tenore erano frequenti in tutta l’antica area mediorientale: ad ogni ascesa di un re si annunciava l’avvento di un’era di pace universale, del ritorno alla mitica età dell’oro. Ad esempio un canto che inneggia al faraone Ramses IV proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese si sono rappacificati”. Ma proprio nel giorno in cui il faraone era proclamato apportatore di pace per il mondo intero egli ritualmente scagliava una freccia in direzione di ciascun punto cardinale: era un gesto simbolico violento tutto teso a scoraggiare chiunque pensasse di attentare alla sicurezza del regno. Il faraone prometteva sì la pace ma sotto l’egida della minaccia dell’impiego delle forze di guerra! Isaia annuncia invece una pace totalmente diversa che trova origine da una direzione totalmente diversa: essa non si basa sulla forza e sul potere violento, non su calcoli umani e diplomatici, ma sull’adesione di tutti i popoli – convocati in “Jerushalaim – Città della Pace” alla Parola di Dio. E’ la Parola che ha la forza di annullare la forza disgregatrice e violenta del peccato di Babele e di porre in atto una nuova creazione che riordini il caos.

    Sion ottiene così lo statuto di città in cui è possibile dissipare e annullare il titanico e drammatico episodio di Babele: in tale città l’ybris dell’uomo antagonista di Dio pretese di costruire il monte artificiale capace di giungere a competere col cielo, ovvero con Dio. Tale progetto ebbe come conseguenza l’instaurarsi del disordine e dell’ingiustizia che scaturì dal fatto che l’uomo pretese (e pretende) di scardinare l’ordine voluto da Dio. Il frutto fu l’incomprensione reciproca, una frantumazione e una dispersione generatrici solo di guerra e divisione. Ora contro questa torre-monte presuntuoso si erge il monte di Sion sul quale Dio dimora e dal quale risuona la parola ricreatrice. Contro l’incomunicabilità, la divisione, l’incomprensione a Sion è donata la Parola capace di riunificare e di far parlare tutti nell’unico linguaggio dell’amore. Coloro che accolgono la Parola cessano di costruire torri capaci di provocare solo divisione e incomunicabilità.

    “ Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore” (v. 5). Fin da ora Israele, la “Casa di Giacobbe”, ha il compito di rendere presente quell’unità che sarà donata a tutti i popoli “alla fine dei giorni”. Esso è chiamato fin d’ora a fare esperienza di ciò che il mondo potrà essere solo nel futuro. Per far questo la strada è una sola: Israele deve “camminare nella luce del Signore”, perché vi è e vi sarà sempre il rischio di deviare dal sentiero non prestando l’orecchio all’ascolto (cfr Is 50,4). Una luce (è ancora la Parola che Dio pronuncia nelle tenebre all’inizio della creazione) scaturisce da Sion capace di far intravedere in un’epoca di buio e incertezza una direzione che contiene in sé una speranza inaspettata: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”  (9,1). Luce che indica la via all’unità di tutti noi in Dio.

    Collatio

    È faticoso dopo il fatidico 11 settembre sperare ancora nella possibilità di uno scambio di mano tra le varie razze, popoli, culture e religioni. I muri di divisione tra est e ovest che, pochi anni prima, si erano abbattuti si sono precipitosamente rialzati. Ne sono stati edificati addirittura di nuovi e proprio nella Gerusalemme in cui Isaia aveva la sua casa! Sui nostri giornali troviamo ogni giorno che l’allontanamento – se non la violenza perpetrata in tanti modi – nei confronti del “diverso”, dello “straniero” e talvolta in nome stesso di Dio, viene troppo spesso utilizzata come l’unica risposta che può garantire la sicurezza del… proprio orticello.

    Eppure in tutta Europa  l’accelerazione dei flussi migratori non si sta arrestando, anzi le dimensioni di questo movimento diviene sempre più planetarie. Ciò che sta avvenendo ci trova un po’ tutti impreparati. Sporadici i casi di una tranquilla convivenza, ancora molto lontane invece le occasioni di un vero incontro. Quasi nessuno ha piacere di avere a fianco del proprio pianerottolo la famiglia rumena, africana o il gruppetto di mussulmani. Il disagio e l’insofferenza ci sono, inutile negarli e sinora la gestione di questo incontro-scontro di culture, razze e religioni diverse è improvvisata. Si tentano normative che hanno la consistenza di un tampone. Il risultato è che, almeno per ora, la nostra società non sta diventando correttamente interculturale ma rimane tutt’al più solo plurietnica di fatto e suo malgrado.

    Le strade perché l’incontro e la fusione avvengano non possono essere dettate solo da strategie politiche od economiche. Generalmente queste sono sempre tentate dall’ybris cosmopolita e fallimentare di Babele! La radice cristiana dell’Europa si è voluta dimenticare. Su quali fondamenta profonde si costruirà la nuova Europa quando ne abbiamo divelto le radici?

    Un ruolo fondamentale l’avranno proprio le religioni. Oggi l’incontro tra le religioni ha fatto molta strada, ma ancora troppo poca a ragione di ciò che esse sono chiamate a fare. Tutte – come insisteva nel suo insegnamento e con i suoi gesti profetici Giovanni Paolo II – avranno un ruolo di primaria importanza per la costruzione di una nuova società multietnica.

    La profezia di Isaia è offerta come visione capace di aiutarci a sperare e ad intraprendere cammini di incontro e di riconciliazione. E allora ci domandiamo: in quale misura la mia fede in Dio mi sta aiutando a superare ostacoli e divisioni e a stendere la mano al fratello e alla sorella perché insieme possiamo “salire al monte del Tempio del Signore”?

    La profezia di Isaia non si è realizzata nel tempo del profeta. Ma la promessa non è stata posta in cantina ad ammuffire. Anzi! Dalla comunità dei discepoli di Gesù è stata nuovamente rilanciata e ampliata a orizzonti ancora più vasti che abbracciano l’universo e l’eternità. L’apostolo Giovanni pronuncia la stessa profezia di Isaia proiettandola alla fine dei tempi, quando tutto “sarà ricapitolato in Cristo”. Egli vede la nuova Gerusalemme, a cui sono confluiti i centoquarantaquattromila di ogni stirpe, lingua e nazione, che discende, come dono, dal cielo da Dio (cfr Ap 21,1). In questa nuova Sion, di cui la Chiesa è già ora sacramento, tutti i popoli hanno iniziato a convergere attorno alla Parola fatta carne: “Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani” (Ap 7,9).

    La Chiesa in Cristo riconosce l’inizio di tale adempimento: Matteo all’inizio del suo vangelo ci  presenta una “casa” in cui attorno a Cristo si raccolgono ebrei e pagani. Luca presenterà a sua volta la stessa “casa” all’inizio degli Atti in cui ebrei, proseliti e pagani si ritrovano accomunati nella fede in Cristo (Atti 2,8-11). All’annuncio del kerygma che scaturisce dalle labbra degli apostoli usciti di corsa dal cenacolo ecco che tutti si pongono in ascolto della Parola. È una Parola  che indica a tutti i “sentieri di Dio” capaci di operare la trasformazione del cuore e indurlo alla pace con Dio e con ogni fratello: “Che cosa dunque dobbiamo fare?”.

    La “fine dei giorni” (v.2) preannunciata da Isaia è perciò iniziata: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”.  Ciò significa che la grazia di Cristo, “per mezzo della sua croce” (Ef 2,16),  può infrangere ogni separazione, ogni ostilità tra uomo e uomo, tra nazione e nazione: “Egli è la nostra pace, è venuto ad annunziare la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14.17).

    Quale il futuro che ci aspetta e il ruolo della Chiesa e delle comunità religiose in questo contesto sociale?

    Il futuro appare relativamente chiaro anche se ancora molto lontano: la strada dell’interculturalità sarà quella del riconoscere l’altro nella sua cultura affermando contemporaneamente la propria sicché dal mutuo riconoscimento scaturisca un processo di trasformazione che idealmente porti entrambi a superarsi per giungere ad una realtà completamente nuova, altra da entrambi. In poche parole: il futuro attende il nascere di una sorta di “meticciato culturale”, un colore completamente nuovo come quello della luce della Pentecoste che ingloba tutti i colori. Non si tratterà perciò di abolire le differenze, né di operare separazioni, bensì di far nascere un “nuovo e altro” che prendendo da entrambi va oltre. Per ora la strada percorsa sembra essere solo giunta alla formulazione di un multiculturalismo dove viene sancita e riconosciuta la differenza dando diritto ad un mosaico culturale dove però ognuno è tutelato nella misura in cui rimane rinchiuso nel suo gruppo e di nuovo separato dagli altri.

    Ecco allora il compito della Chiesa e delle altre religioni: quello di porre in atto coraggiosamente iniziative che vadano controcorrente ad un rifiuto generalizzato di questa evoluzione. Come fu capace di visione Giovanni Paolo II quando nel 1986 decise di invitare tutti i rappresentanti delle grandi religione per implorare insieme il dono della pace e della comunione fra i popoli. Ora lo si comprende!

    La chiesa e le altre religioni saranno sempre più chiamate a mostrare di favorire concretamente la pace mondiale e soprattutto di non usare il nome di Dio per dare atto a sfoghi di violenza inconsulta. Per noi cristiani, la dottrina conciliare della Chiesa come “popolo di Dio”, deve essere la forza trainante di questo impegno: e la visione di Isaia torna a rivivere: un unico popolo di diverse culture e lingue in cui le identità di ciascuno sono rispettate ma insieme trascese in quanto tutti tesi ad un “tertium” che è il regno di Dio.

    Saremo capaci come comunità del Crocifisso Risorto di presentarci al mondo in preda alla paura, al sospetto e alla violenza nei confronti del “diverso”, come segno contraddittorio e visibile di comunione? Non dimentichiamo le parole del catechismo della Chiesa cattolica dove si dice che: “la Chiesa è il luogo in cui l’umanità deve ritrovare l’unità e la salvezza. È il “mondo riconciliato”. È la nave che “spiegate le ali della croce del Signore al soffio dello Spirito santo naviga sicura in questo mondo”” (CCC845).

    E veniamo al ruolo delle comunità religiose. Ormai sembra un dato scontato che esse siano incamminate a divenire sempre più “internazionali”. Nella stessa casa troviamo persone consacrate di diverse nazionalità, colore e lingua. Al di là delle motivazioni originarie più o meno valide che hanno portato vari istituti religiosi ad optare per questa scelta, appare evidente che tale situazione appaia oggi provvidenziale visto che anche la nostra società è chiamata a percorrere la stessa strada.

    Allora perché non cogliere questa varietà all’interno delle singole comunità non come un peso che “purtroppo” ci si deve accollare per necessità ma come occasione di autentica evangelizzazione, in cui la comunità presentarsi nel suo ambiente come profezia di una realtà possibile?

    I problemi in questo cammino interculturale non mancheranno certamente ma quante opportunità sono date in essa! Che le nostre comunità divengano consapevoli che si tratta di un “segno dei tempi” di straordinaria importanza, che incalzando sta facendo incamminare l’umanità verso il Regno. La profezia di Isaia si sta realizzando sotto i nostri occhi, non ce ne accorgiamo?

    Oratio

    È veramente giusto renderti grazie,
    e innalzare a te, Signore, Padre buono,
    l’inno di benedizione e di lode.
    Per mezzo del tuo Figlio,
    splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi,
    hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa.
    Con la forza del tuo Spirito
    continui a radunare in una sola famiglia
    i popoli della terra,
    e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo Regno.
    Così la Chiesa risplende
    come segno della tua fedeltà all’alleanza
    promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore,
    che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
    un solo Dio per i secoli dei secoli. Amen

    (V Preghiera Eucaristica, Prefazio D).

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