• 22 Ago

    Noi serviremo il Signore nostro Dio

    e obbediremo alla sua voce!


    Lectio di Gs 24,1-3.13-25

    di p. Attilio Franco Fabris

    Leggera è l’obbedienza vissuta alla luce dell’Evangelo, perché testimonia una gioiosa appartenenza e una libertà desiderata. Gioiosa appartenenza all’unico e indiviso Signore, libertà desiderata perché ci riscatta da ogni umiliante schiavitù in cui sprofondiamo ogniqualvolta vogliamo sganciarci dal nostro rapporto con il “Dio Uno” al quale solo spetta il nostro servizio di lode.

    La fede non è l’obbedienza, né è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J.Guillet), per cui l’obbedienza vera è la fede radicale riposta unicamente in Dio: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,23).

    L’obbedienza biblica non è un rapporto di dipendenza, di sottomissione dell’uomo a Dio, ma un libero rapporto d’amore sollecitato da Dio stesso attraverso il dono dell’alleanza prima offerta nella Legge e poi nella carne del Figlio.

    Accogliendo questo dono veniamo liberati da ogni idolatria, mettiamo a morte l’uomo vecchio con le sue pretese di indipendenza egocentrica, ci volgiamo a Dio in una esigente relazione d’amore.

    Certo essa non è facile! Questa obbedienza domanda l’assunzione di tutta la propria responsabilità e il rifiuto di ogni scorciatoia comoda attraverso la quale rinunciarvi. La vera obbedienza non è mai disgiunta dalla responsabilità! Gesù ci insegna la via di questa obbedienza, donandoci il suo Spirito che, in lui Figlio obbediente, fa di noi altrettanti figli (cfr Rom 8,15), ed è perciò lo Spirito che dobbiamo invocare perché ci sia dato in Cristo di poter dire a nostra volta: “Abbà sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”: “Vieni, Spirito Santo, dal tuo trono celeste a consacrare i cuori dei tuoi fedeli, tu che il Cristo, la sapienza incarnata, promise di mandare da presso il Padre. Tu sei il “Dono” eterno e nuovo che il Cristo in croce fece alla sua Chiesa, quando la sposò con un’alleanza eterna, ornata di porpora dal sangue del Re. A colui che ti riceve, si aprono i misteri; nell’intimo, tu gli insegni ogni cosa. Questa è la caparra che già su questa terra il Cristo ha voluto dare alla sua Sposa”. (Rabano Mauro, PL 107,211).

    Lectio

    Il testo tratto dal cap. 24 del libro di Giosué è il resoconto del secondo solenne rinnovo dell’alleanza sinaitica (a cui stranamente qui non si accenna) celebrato da tutte le tribù d’Israele dopo la presa di possesso della terra promessa.

    Alcuni esegeti motivano a livello storico l’episodio con la volontà da parte di Giosué di radunare e stringere in un’unica confederazione tutte le tribù in quanto alcune di esse erano già stanziate in terra di Canaan allorquando Giosuè e le altre tribù vi entrarono. Per tale ragione quelle tribù non avevano conosciuta l’alleanza del Sinai.. In tal senso si può affermare che quanto Mosè aveva celebrato sul Sinai (cfr Es 24) viene ora ripetuto e riproposto nell’adunanza di Sichem.

    La struttura del brano e il suo lessico per quanto antichi denotano tuttavia un contesto liturgico con una sottostante teologia dell’alleanza tipica della tradizione “deuteronomistica”. Questa era caratterizzata dalla centralità della storia del popolo eletto letta come un continuo intervento salvifico da parte dell’iniziativa di Dio, il quale domanda una libera risposta di alleanza al “popolo che si è scelto”.

    Il testo ci si offre nella forma di un grande dialogo intessuto tra Giosuè, in qualità di portavoce di JHWH (“Dice il Signore, Dio d’Israele…” v 2), e tutti gli israeliti. Giosué, immediato successore di Mosè, ci appare come figura di mediatore alla stressa stregua del suo predecessore. Interessante come la sua funzione qui appare molto simile a quella successiva dei profeti quando richiameranno il popolo alla fedeltà all’alleanza con JWHW.

    Ma ripercorriamo ora gli elementi e i momenti fondamentali del nostro brano.

    Esso si apre solennemente con la convocazione da parte di Giosuè di “tutte le tribù…insieme agli “anziani d’Israele, i capi, i giudici, gli scribi del popolo” (v 1). L’atto ufficiale che si sta per compiere è di straordinaria importanza se esige la presenza di tutti, nessuno escluso.

    Anche il luogo della convocazione non è casuale: “Sichem” (v. 1). Tale località è centrale nella memoria di Israele: lì infatti JWHW era apparso ad Abramo la prima volta dopo che fu entrato nella terra promessa al fine di rinnovargli l’alleanza (Gn 12,6-8), lì Giacobbe aveva successivamente acquistato un terreno consacrandolo al Signore (Gn 33,18-20). A Sichem, dopo l’ingresso nella terra promessa, sempre ad opera di Giosuè, si era già svolto già un primo grande raduno con un primo rinnovo dell’alleanza (Gs 8,30-35). Sichem, molto prima di Gerusalemme, per molto tempo rivestirà l’importanza di una sorta di “capitale” della confederazione israelita e lì quasi sicuramente vi fu il primo santuario in cui risiedeva l’Arca dell’Alleanza (cfr 8,33). Logico allora che Giosuè scelga proprio Sichem come luogo simbolico strettamente collegato al tema della promessa e dell’alleanza. Ciò che sta per avvenire viene ricollegato in tal modo alla storia e una memoria di fede.

    Tutti “si presentarono davanti a Dio” (v.1): questa è un’espressione tipica utilizzata nel linguaggio liturgico per designare un’adunanza sacra e solenne. Non si tratta anzitutto e solo di un atto politico: è vera e propria azione liturgica celebrata dinanzi al Dio dell’alleanza.

    “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d’Israele…»” (v, 2). Giosuè parla in modo autorevole in nome di Dio stesso, come faranno successivamente i profeti con discorsi strutturati su un identico schema.

    E il raduno assume sin dal principio l’andamento di un solenne dialogo che viene intessuto tra Giosuè e le tribù d’Israele.

    La prima fase del discorso di Giosuè ha come obiettivo il far memoria delle azioni salvifiche di JHWH (i verbi sono tutti alla prima persona singolare: Io…) nei riguardi di Israele a partire da Terach padre di Abramo sino a giungere all’”oggi” (v 15). Vengono perciò ripercorse le grandi tappe di una storia che Israele ha potuto sperimentare come liberazione/salvezza dalla schiavitù dell’idolatria. Un’azione che si apre ora al dono gratuito della terra: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v. 12).

    Dopo aver rievocato l’opera di Dio nel passato (vv 2-13) il discorso si traduce in un invito esplicito a corrispondere al suo dono: “Temete dunque il Signore e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume e in Egitto e servite il Signore” (v.14). Importanti sono i verbi “temere” e “servire” i quali sono un condensato del rapporto di Israele con la Legge implicando l’impegno di “servire Dio” con “integrità” e “fedeltà”. Non si cada in compromessi perché si tratta di decidersi per il Dio dell’esodo e della conquista, cioè della storia, contro l’attrattiva del culto delle divinità cananee, egizie e mesopotamiche (v. 14).

    La risposta non è scontata perché l’alleanza offerta da Dio si offre nel rispetto della libertà dell’uomo: “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate” (v. 15): in genere il verbo “scegliere” ha come soggetto Dio nei confronti dell’uomo, ma qui appare il contrario perché alla scelta di Dio deve ora corrispondere la scelta dell’uomo.

    La risposta di Israele non tarda, essa è entusiasta ed immediata: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (vv. 16-17). Queste sono parole significative perché vi si scorge che l’obbedienza di Israele all’alleanza non nasce da un dovere morale o dalla paura, ma dal semplice fatto che Israele ha sperimentato lungo la sua storia che Dio è salvatore e liberatore, fedele alla parola data e dunque affidabile. Siccome “Egli è il nostro Dio” (v. 17), non è più possibile “servire (=obbedire!) altri dei” (v. 16).

    Ma, quasi una doccia fredda, la risposta di Giosuè è un forte richiamo alla serietà di tale decisione. Sembra quasi che Giosuè voglia mettere in guardia il popolo da una risposta troppo scontata: “Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, Egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà”(v.20). Con Dio non si gioca al compromesso: ne va della vita stessa perché l’uomo si gioca interamente nella sua libertà. L’adesione all’Alleanza di Colui che è tre volte“Santo” non può essere presa alla leggera, sull’onda dell’entusiasmo (si tratta della stessa serietà che domanderà Gesù a chi gli chiederà di porsi alla sua sequela: cfr Lc 18.58ss): va ponderata attentamente nelle conseguenze che essa comporta: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati”(v 19). La “santità” (cfr Is 6,3) e la “gelosia” (cfr Es 34,14) di Dio non sopportano contaminazioni: si tratta di una “grazia a caro prezzo” (D. Bonhoeffer)! Non è possibile “servire a due padroni” ammonirà severamente Gesù (cfr Mt 6,24)!

    La reazione delle tribù radunate è unanime al grido: “Noi serviremo il Signore” (v 21). Israele riconosce come vere le parole di Giosué e protesta la sua volontà di mantenersi a sua volta, come lui e la sua famiglia, fedele all’Alleanza. Di questa scelta tutti si rendono “testimoni” gli uni nei confronti degli altri davanti a Dio (v 22).

    Giosuè intima perciò immediatamente al popolo di a mettere in atto tale scelta: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!» (v 23). Si allude qui con chiarezza alla presenza in quel momento di forme idolatriche all’interno delle tribù d’Israele. Non scordiamo pure i reali attestati dell’idolatria di Israele quando si trovava schiavo in Egitto (Ez 20,7-8; 23,3). Significativa allora appare l’esortazione di Giosuè a “rivolgere il cuore verso il Signore”: il cuore sta ad indicare il centro della persona, la sede della sua affettività e volontà. La scelta di sottoscrivere all’alleanza e di servire/obbedire il Signore deve procedere dal centro di se stessi, non può essere imposta dall’esterno: “Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!” (v.24). E’ la stessa risposta del popolo d’Israele a Mosè al termine dell’alleanza del Sinai: “Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).

    A questo punto come gesto finale il testo afferma che Giosuè “concluse l’alleanza” (v 25) o meglio “tagliò un’alleanza”: qui si conclude il brano alludendo forse al sacrifico di animali coma parte integrante del rituale dell’alleanza, come già fece Mosè ai piedi del Sinai (cfr Es 24,3-8).

    Collatio

    Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (v.24). Il verbo “servire” è equivalente ad “obbedire”, ora l’obbedienza suppone l’ascolto della parola nella quale Dio rivela al suo popolo il suo disegno d’amore. “Ascoltare” rappresenta così il verbo più importante della Sacra Scrittura perché l’azione più importante che Dio compie è quella di “parlare”, ovvero di comunicarsi all’uomo!

    Per parlare di “obbedienza” l’ebraico usa il verbo “sama” che significa “ascoltare”: non esiste infatti nell’ebraico una parola corrispettiva al nostro “obbedire”. La stessa radice etimologica la ritroviamo sia nel latino (da ob-audire) e nel greco (hypò =koùo). In quest’ultimo il verbo ascoltare ha come prefisso “hypò” che indica “sotto”: l’idea qui espressa è che l’ascolto-obbedienza implichi un atteggiamento di sottomissione a colui che parla.

    Da cosa si caratterizza l’ascolto autentico della Parola di Dio? Da una costante tensione “non lasciar andare a vuoto alcuna delle parole di Dio” (1Sam 2,19), a custodirle gelosamente, nella consapevolezza che esse sono il cibo di cui l’uomo ha bisogno per raggiungere la vita (cfr Mt 4,4) dalla quale si è allontanato a causa della sua disobbedienza. Questa parola si farà, in Cristo, carne da mangiare per la vita eterna (cfr Gv 6,54). Isaia esplicita bene questa tensione: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,4).

    Nell’assemblea di Sichem ci viene presentato un popolo che radunato dalla Parola di Dio “non si tira indietro” , “non oppone resistenza” alla parola annunciata, ma entusiasta si rende subito disponibile all’obbedienza, riconoscendo in quella parola stessa il principio della sua sussistenza e della sua vocazione. Senza l’ascolto-obbedienza alla parola Israele cesserebbe infatti di esistere:“Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio” (Dt 27,9-10).

    Un aspetto essenziale dell’obbedienza biblica è il fatto che essa non scaturisce da un precetto moralistico, ovvero non è norma che improvvisamente cala dal cielo imponendosi dispoticamente all’uomo. Essa rispetta la libertà dell’uomo che può anche rifiutarsi di obbedire (come accade al principio, accade e accadrà con tutte le conseguenze che questa scelta comporta). È altamente significativo rileggere il dialogo che viene intessuto tra Dio e il popolo adunato a Sichem: esso è caratterizzato dal fatto che l’alleanza non è imposta al popolo ma proposta alla libertà di tutti e di ciascuno (“se vi dispiace…”v. 15). Essa fa appello dunque a quella libertà nella quale fin dall’inizio il Creatore ha costituito l’uomo, e che ne costituisce la dignità e che sola assicura un reale rapporto d’amore (=alleanza) tra partner.

    A una libertà sganciata da qualsiasi verità e dunque impazzita come oggi purtroppo accade, l’obbedienza biblica si propone come via di accesso alla verità del disegno di Dio, il quale promuove l’autentica realizzazione dell’essere umano. Scriveva Giovanni Paolo II: “Non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà. In effetti l’atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d’obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell’obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà” (VC 91).

    Questa libertà lascia lo spazio anche al tradimento dell’alleanza, ovvero alla disobbedienza. Quando Israele viene meno all’obbedienza  sperimenta immediatamente la schiavitù come conseguenza irrimediabile: “Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti” (Dn 3,28ss; cfr Es 17,7). Risuona perciò continuamente l’ammonimento del salmista: Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito…Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie” (Sal 81,12.14). La disobbedienza conduce all’idolatria, all’indifferenza, ad un vuoto legalismo religioso. L’ingiunzione di Giosué appare dunque chiara: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!».(v 23). Israele sperimenterà lungo la storia che quando questa eliminazione non è reale subentrerà il suo sgretolamento e fallimento; ovvero andrà incontro alla morte. In questo senso Giosué premunisce il popolo contro la tentazione della disobbedienza, perché qualora accadesse “egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà” (v. 20).

    L’obbedienza alla Parola è essenziale all’uomo in vista della sua libertà. Essa infatti lo preserva dall’inginocchiarsi dinanzi ai tanti idoli di ieri e di oggi, l’obbedienza al contrario restituisce l’uomo alla sua dignità di figlio, lo riapre a quella libertà per cui è stato fatto e che fa sì che senta di appartenere  a colui che lo ama: “mediante l’obbedienza si è uniti in maniera più costante e più sicura alla volontà salvifica del Padre” (PC 14).

    Un ulteriore importante aspetto dell’obbedienza che Dio chiede al suo popolo è che essa non è imposta dalla e con la paura. Al contrario essa deve rappresentare una risposta libera e gioiosa al fatto di aver toccato con mano l’azione salvifica di Dio. Gli imperativi divini non sono né dispostici,né tanto meno arbitrari e autoritari. L’obbedienza che Dio chiede è in certo qual modo. .. spiegata, motivata come conseguenza ovvia di ciò che è il Signore e del suo rapporto con il suo popolo.

    Comprendiamo allora perché il discorso di Giosuè si apra con un riepilogo della storia della salvezza che ha condotto Israele fino all’”oggi”: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Es 19,4-5). Anche il Decalogo suppone questo dinamismo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2).

    Nel discorso di Giosué JHWH è un Dio che si presenta al suo popolo con credenziali di tutto rispetto: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v.13). E quel che Dio ha fatto nel passato, lo sta compiendo in questo stesso momento e lo porterà a compimento nel futuro: questa è la convinzione di fede che sta alla base dell’alleanza, ovvero alla risposta positiva dell’uomo a ciò che Dio domanda per il suo bene. A questo punto l’uomo non potrebbe desiderare altro che obbedire: “Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio” (Sal 142,10)!  Il fare costante “memoria” della presenza e dell’agire del Signore è essenziale perché Israele perseveri nel “servizio”, ovvero nell’obbedienza a JHWH: «Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi!7 Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio. La nostra obbedienza deve radicarsi nel continuo memoriale di quanto Dio ha fatto, fa e farà per noi: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,3). Cosicché la “Torah” dovrebbe essere vissuta da Israele non come un peso insopportabile ma come un dono, e l’obbedienza come l’occasione per entrare nel gioco d’amore con JHWH, sperimentando nella comunione con la sua volontà la beatitudine: “beato l’uomo di integra condotta che cammina nella legge del Signore” (Sal 119,1).

    L’obbedienza biblica non è dunque un’obbedienza servile, o “cieca” a dir si voglia; si tratta di un’obbedienza gioiosa, libera  che sgorga da un cuore che ha sperimentato la misura “smisurata” dell’amore di Dio: rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele” (v.23). È questa l’obbedienza che Dio domanda al suo popolo, a ciascuno di noi: un’obbedienza adulta e matura, da figli e non da schiavi (cfr Rm 8,15).

    Ma proprio perché libera, adulta e responsabile essa comporta, ed è il terzo aspetto, forti esigenze e conseguenze: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati” (v. 20). L’amore di Dio è esigente! L’obbedienza esige un sacrificio reale di quella volontà che appartiene all’ “uomo vecchio” sospettoso, incredulo e pauroso che sfugge alla Parola nascondendosi e illudendosi di poter costruire autonomamente la propria vita: “con la professione di obbedienza i religiosi offrono a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi” (PC 14)

    Quando l’obbedienza decade e si snatura? Quando essa invece di radicarsi nella memoria delle opere di Dio si fossilizza nella lettera perdendo in tal modo la sua vera sorgente. Quando questo accade l’obbedienza si snatura, diviene legalismo vuoto e ricerca di autoperfezione e autogiustificazione. Contro questa falsa obbedienza si scaglieranno sia i profeti (cfr Is 1,11-17) come anche Gesù: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” (Mt 23,23)

    Il teologo protestante R. Bultmann scrive: “Dio chiede all’uomo un’obbedienza dal profondo e non dall’esterno. Sino a quando l’azione sta solo accanto all’agire, l’uomo non è totalmente obbediente. L’obbedienza esiste dove l’uomo è volto interamente a ciò che fa, dove è tutto ciò che fa, cioè dove egli non fa qualcosa ubbidendo, bensì è obbediente nel suo essere…L’obbedienza è radicale. Questo significa che l’uomo si trova nella situazione di decisione; se non si dà per lui alcuna possibilità di neutralità, allora deve decidersi tra le uniche due possibilità che ci sono nel suo essere, cioè tra il bene e il male” (R. Bultmann, Gesù).

    Che lo Spirito ci dia sempre di vivere un’obbedienza dal profondo di noi stessi che non scaturisca solo dall’esterno.

    Oratio

    Modello di obbedienza libera, responsabile e matura è Maria. È lei che, come Abramo, con “integrità” e “fedeltà” ha sempre “volto il cuore” unicamente al suo Dio in un “servizio” perfetto alla sua volontà: “eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”..

    A lei dunque affidiamo i propositi sgorgati dall’ascolto della Parola perché la nostra obbedienza si conformi sempre più alla sua perfetta discepola del Figlio: “Santa Maria, donna obbediente, Tu che hai avuto la grazia di “camminare al cospetto di Dio”, fa’ che anche noi, come Te, possiamo essere capaci di “cercare il suo volto “. Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E quando Egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto, e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia”. (mons. Tonino Bello)

    Posted by attilio @ 14:54

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