• 12 Feb

    Fa’ che io veda!

    Lectio di Marco 10,46-52

    di p. Attilio Franco Fabris

    E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.
    47 Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
    49
    Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
    51
    Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato».
    E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

    L’etimologia della parola “luce” (rad. luk=splendere) trova le sue antiche radici  nell’esperienza colma di stupore e gioia con cui l’uomo contempla lo splendere del sole, il sorgere dell’alba, l’apparire del lampo luminosissimo e della fiamma che divampa nella notte. Simbolo positivo di vita e di ciò che è ineffabile la luce è divenuto uno dei simboli più utilizzati dalle religioni; anche nell’ambito biblico, per parlare di Dio e della vita che scaturisce da lui viene usata spessissimo la simbologia della luce. Il buio e le tenebre rientrano invece nella sfera della morte, del caos e quindi per analogia del male. Nell’inno delle lodi del mercoledì la liturgia fa cantare la Chiesa con queste parole: “Notte, tenebre e nebbia / fuggite, entra la luce, / viene Cristo Signore. Il sole di giustizia / trasfigura ed accende / l’universo in attesa… Salvatore dei poveri, / la gloria del tuo volto / splenda su un mondo nuovo”. Il tema pasquale di “Cristo luce del mondo” vincitore di ogni notte ritorna spessissimo nella Liturgia delle Ore del mattino, quando uscendo dalla notte veniamo richiamati ad accogliere quella Luce intramontabile che è lo stesso Cristo e a lasciarcene illuminare. La luce di Cristo è dono che scaturisce dalla fede, che nata dall’ascolto conduce al battesimo che è vera e propria immersione nella luce pasquale: “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo.” (2Cor 4,6).

    Questa luce che “rifulge nelle tenebre” è fonte di speranza e di consolazione per tutti. Ne abbiamo bisogno perché stiamo attraversando un tempo contrassegnato da una sorta di persistente stato crepuscolare di “tenebra e nebbia” in cui fatichiamo a scorgere la luce di un’alba nuova. Crepuscolo – da discernere se di tramonto o di alba! – in cui tutto sembra farsi indistinto, relativo e si fatica a intravedere la giusta direzione e i contorni esatti delle cose. Crepuscolo nel quale, anche come comunità cristiana, saremmo tentati come il cieco Bartimeo di sederci al bordo della strada a mendicare un senso che stentiamo a trovare.

    Ormai le “liturgie laiche delle ore” sembrano essere quelle della notte in cui tutto si confonde senza differenziazione con la conseguente “euforia del “tutto è lecito e relativo”. In queste “notti” senza “ombra di Dio” – che possono essere paradossalmente definite “bianche” – sono offerte e ricercate luci artificiali con cui si cerca, con una sorta di inconscia disperazione, d’illuminare esistenze ubriache che girano su se stesse senza meta. Allora la luce del giorno, lo splendore della verità, rischia di divenire insopportabile, portatrice com’è di tremende rivelazioni e disillusioni: “l’alba è per tutti loro come spettro di morte; quando schiarisce, provano i terrori del buio fondo” (Gb 24,17).

    Tuttavia anche da questo “buio fondo” della coscienza dell’uomo il gemito dello Spirito vuol far scaturire in noi un grido di preghiera, d’invocazione di una luce vera che porti con sé liberazione e pace per il cuore: “Nel giorno dell’angoscia io cerco il Signore, tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca” (Sal 76,3). In questo grido siamo sostenuti dalla silenziosa testimonianza di fratelli e sorelle che nella notte vegliano in preghiera sostenuti dalla promessa della parola del Signore che solo in lui la vita si apre al mistero: “È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce.” (Sal 35,10).

    Lectio

    Gesù, partito da Cesarea di Filippo, è in cammino verso Gerusalemme dove si compirà il suo destino di Messia sofferente. In questo tragitto verso la Città Santa una tappa obbligata per i pellegrini era l’antichissima cittadina di Gerico (v. 46) collocata sulle rive del Mar Morto e distante da Gerusalemme una trentina di chilometri. Anche Gesù, insieme a molta folla (v. 46) vi fa tappa per l’ultima volta.

    È in quest’occasione che avviene l’ultimo miracolo: la guarigione del cieco Bartimeo che serve da cerniera tra la cosiddetta fase galilaica del ministero di Gesù e quella conclusiva che si svolgerà a Gerusalemme. Il cieco bisognoso di guarigione per Marco rappresenta la comunità dei discepoli sorda alla parola della croce e cieca dinanzi alla sua rivelazione. Questo miracolo sta a esplicitare la necessità per i discepoli di una guarigione in ordine al “poter vedere”- ovvero comprendere – nel destino sofferente del Maestro non il fallimento ma il pieno annuncio della sua identità e missione. Ma veniamo al racconto.

    Un luogo di passaggio per  delle folle di pellegrini è, per i mendicanti, occasione da non perdere per racimolare qualcosa di cui vivere. Tra costoro vi è anche un cieco: Bartimeo (v. 46) ovvero letteralmente il “figlio di Timeo”. Marco ce lo presenta al bordo della strada di passaggio. È seduto perché il cieco non sa dove andare, egli non può che rimanere ai margini della vita.

    Bartimeo stende la mano “a mendicare” (v. 46) chiede ai passanti qualcosa di che sostenersi cercando di impietosirli dinanzi alla sua disgrazia. È questa una condizione di umiliazione condannata dalla tradizione che ammoniva: “Figlio, non vivere da mendicante. È meglio morire che mendicare” (Sir 40,28).

    Quando Gesù, noto come “il Nazareno” (v. 47), entra in Gerico la sua fama di profeta e taumaturgo l’ha già preceduto. Anche Bartimeo “sente” (v. 47) la notizia e in lui affiora una speranza. Nella sua notte l’annuncio della venuta di Cristo è in grado di accendere una luce di speranza. Non è forse dall’ascolto che scaturisce la fiducia e da questa un’invocazione di salvezza? “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

    Bartimeo si  indirizza a Gesù di Nazaret con un grido insistente: “gridava”! Sarà proprio la forza di questo grido a far cadere il muro della cecità di Bartimeo. Il “gridare” aiuto a Dio è una preghiera ben conosciuta nella sacra Scrittura nella quale l’uomo consapevole della propria insufficienza apre la bocca e il cuore in una supplica di salvezza: “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi!” (Sal 26,7; cfr Mt 15,23).

    Egli si rivolge al Nazareno con le invocazioni: “Figlio di Davide” (v. 47)  e successivamente  “Rabbunì (lett: mio signore)” (v. 51). Il titolo di “Figlio di Davide” è usato da Marco solo in questa occasione e sta a designare Gesù come il messia discendente di Davide venuto ad inaugurare il regno di Dio (cfr 2Sam 7,12-16). È al suo messia-servo che JHWH rivolge la sua parola: «Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre…Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono,li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di farle”  (42,6-7.16).  Nel suo discorso inaugurale a Nazaret Gesù aveva letto proprio il testo di Isaia che identifica se stesso con l’avvento del regno:Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista” (Lc 4,18). Ora Gesù, diversamente da prima, accetta l’acclamazione messianica a lui rivolta; può terminare il segreto messianico poiché il suo destino di sofferenza e morte è già deciso e non vi è più il rischio di fraintendere il suo modo d’essere messia.

    Al titolo di “Figlio di Davide” il cieco premette familiarmente anche l’invocazione del nome proprio di Gesù, il cui significato è “Dio salva” (cfr Rm 10,13; At 2,21). Bartimeo identifica la propria salvezza al nome di Gesù:  “In nessun altro nome c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

    Il cieco implora Gesù d’ “aver pietà di lui” (v. 47), espressione che rimanda al tema biblico della misericordia, del prendersi cura con viscere materne, da parte di Dio, dell’uomo e non in base ai meriti ma nella misura del suo bisogno: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono” (Sal 102,13; 26,20; 30,15).

    Ma tra il grido fiducioso del cieco e Cristo si frappone una barriera costituita dall’intromissione di quella “folla” che sta accompagnando Gesù. Quali i motivi dei ripetuti tentativi di mettere a tacere Bartimeo (v. 48)? Forse le motivazioni potevano sembrare buone: tutti intenti al Maestro credono di fargli piacere impedendogli ogni disturbo. Costoro pretendono di relegare Gesù all’interno della loro cerchia, lo vogliono monopolizzare a proprio uso e consumo. Gesù non sta a queste pretese né tanto meno Bartimeo si lascia intimorire da queste voci esterne di benpensanti e devoti, obbedisce invece alla voce del suo cuore che lo incita a non desistere: “Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte” (Sal 87,2). Il coraggio non è forse il contrario della paura divenendo sinonimo della fede?

    Gesù si “ferma” (v. 49), come si è fermato in tante altre occasioni dinanzi al grido e al pianto dei poveri. Proprio a Gerico egli si era già fermato una volta per incontrare, tra lo scandalo della folla, il pubblicano Zaccheo: Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»” (Lc 19,5).

    Significativo è il fatto che la chiamata di Bartimeo passi proprio attraverso quella folla che voleva impedire l’incontro (v. 49). I presenti sono obbligati dal Signore a farsi mediatori tra lui e Bartimeo: essi sono forse l’immagine di una comunità segnata dal peccato, dalla durezza di cuore e dalla cecità di sguardo interiore ma che tuttavia rimane il mezzo per incontrare il Signore. L’appello fatto da costoro a Bartimeo è: “Alzati! Ti chiama!”. È il verbo tipico dei racconti di guarigione (5,41;9,27) che rimanda implicitamente al dono di una vita nuova, ovvero ad una risurrezione (16,6).

    La risposta di Bartimeo è immediata, quasi concitata, Tre verbi che dipingono la scena in modo vivo: “gettato il mantello, balzò in piedi, venne da Gesù” (v. 50). Vi è il riferimento esplicito all’abbandono del mantello, particolare apparentemente irrilevante se non fosse per il fatto che per il povero il mantello rappresenta tutti i suoi averi (cfr Dt 24,13; Lc 14,23; Mt 5,40; Mc 13,16; ).  Bartimeo, come i discepoli, abbandona ogni cosa alla chiamata di Cristo.

    A questo punto Gesù può impostare il dialogo col cieco e lo fa a partire da una domanda solo all’apparenza banale data la risposta scontata: “Che vuoi che io ti faccia?” (v. 51). E’ una interrogazione decisiva che si potrebbe tradurre con: “Che cosa vuoi realmente?”. Il suo intento è di far sì che Bartimeo diventi consapevole del proprio bisogno e, da mendicante qual è, non si affidi ancora una volta alla sola iniziativa altrui ma si assuma la responsabilità di chiedere in modo chiaro ciò di cui ha bisogno. Gesù non vuole compiere un generico gesto di pietà o carità ma desidera incontrare l’uomo. Un’ulteriore elemosina – fosse pure quella della guarigione della vista – non cambierebbe infatti l’uomo: lo stesso giorno il cieco guarito avrebbe chiesto qualcos’altro a qualcun altro per avere ancora di più, non uscendo così dalla sua perenne condizione di mendicante.

    La risposta di Bartimeo è puntuale: “Che io riabbia la vista!” (v. 51). Cosa chiede realmente Bartimeo? Sappiamo come il verbo “vedere” sia fondamentale nel linguaggio di Marco, la parola greca sta a significare non solo un generico poter “vedere” ma un “guardare in su” riferimento implicito al desiderio di trovare un senso alla sua vita. Al termine del suo cammino sarà chiamato a “guardare in su” contemplando il crocifisso: “guarderanno a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10) e attraverso questa visione l’uomo “cieco” potrà finalmente vedere ciò che gli era nascosto, ovvero l’amore infinito di Dio. Gesù riconosce questa fede e disponibilità di Bartimeo la quale fa sì che l’effetto sia immediato:“E subito riacquistò la vista” (v. 52).

    Va’ la tua fede ti ha salvato” (v. 52): è l’affermazione chiave di Gesù che permette di interpretare correttamente il miracolo. Sono le stesse parole pronunziate da Gesù nei confronti della donna che l’aveva toccato di nascosto per essere guarita (cfr 5,34). Esse significano che la guarigione più profonda, che si identifica con la salvezza della totalità dell’uomo e non con la guarigione di un solo organo fisico, è in ordine all’incontro e all’esperienza di salvezza che scaturisce da Cristo. La fede ha ottenuto a Bartimeo non solo e anzitutto una guarigione fisica, ma soprattutto la grazia di incontrare Cristo e di sperimentarlo come luce per la sua vita. Ora non gli è più possibile dirigersi altrove (cfr Gv 6,68): “Prese a seguirlo per la strada” (v. 52). La vita di Bartimeo  esce cambiata radicalmente dall’incontro con il “Figlio di Davide”, egli può risorgere dall’immobilità e affrontare la strada ovvero la vita in sua compagnia. Rimanendo all’ascolto della parola proseguirà in una sequela impegnativa che lo condurrà alla visione del crocifisso del Golgota dove col centurione potrà professare la pienezza della fede: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).

    Meditatio

    Il primo atto creatore di Dio è la creazione della luce che viene separata dalle tenebre e dall’abisso del caos (Gn 1,3s). Le creature possono in tal modo “venire alla luce”, essere portate all’esistenza nella loro bellezza e bontà, in armonia le une con le altre. Anche il termine della storia della salvezzaè contrassegnato dal dono di una luce intramontabile che avvolgerà la nuova creazione, questa luce si identifica con Dio stesso: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello” (Ap 21,23; cfr 1Gv 1,5).  Volontà di Dio è dunque che l’uomo partecipi, ora mediante la fede e poi in visione, di questa luce che “non conosce tramonto” (1Gv 1,5), in altri termini che entri in comunione eterna di vita con lui. È questo un atto di misericordia e di amore gratuito da parte del Creatore: “ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce” (Col 1,12).

    La nostra storia si trova a sostenere un conflitto con le tenebre, ovvero tra morte e vita, tra menzogna e verità L’etimologia della parola “cecità” è “involucro, copertura”, ovvero situazione nella quale all’uomo non è dato di aprirsi alla luce e l’uomo dopo il peccato si trova in certo qual modo avviluppato come Lazzaro in queste bende della morte (cfr Gv 11,44) in attesa di una parola liberatrice capace di portarlo nuovamente alla luce della verità e della vita. Opera del male è rendere l’uomo cieco, avviluppandolo in suo potere e ripiombandolo in un destino di caos e di morte, di assenza di luce. Straordinaria nella sua bellezza e simbolicità la statua barocca della cappella Sansevero di Napoli rappresentante il “Disinganno” di Francesco Queirolo, che riproduce un uomo che si libera ansiosamente da una rete con l’aiuto di un piccolo genio: statua che ben rappresenta l’uomo che ricerca con fatica e angoscia una possibilità di liberazione da tutti i lacci di inganno che lo accecano e imprigionano. All’uomo da solo è impossibile trovare salvezza, occorre un aiuto come nel caso dell’opera del Queirolo.

    Per Bartimeo cieco tutto è notte, ovvero esperienza anticipata di morte. Egli vive questa situazione aggrovigliato nel suo mantello, sperimentando in anticipo una morte che lo tiene imprigionato ai margini della vita come un mendicante: salvezza per lui è l’attesa e la speranza di una parola di liberazione che insieme alla luce gli ridoni la dignità e la vita di cui sente di aver diritto. Non siamo fatti per le tenebre-morte ma per la luce-vita e l’invocazione gridata di Bartimeo esprime bene la coscienza dell’uomo che si ribella ad uno stato di cose che avverte non suo: “voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre” (1Tess 5,5). Non sperimentiamo forse il male come una groviglio di oscurità, che ci blocca, disorienta e ci impedisce di camminare? È vera in questo caso l’espressione che fuoriesce dalle labbra di Giobbe: “Di giorno gli empi incappano nel buio e brancolano in pieno sole come di notte” (Gb 5,14).

    Salvezza è prendere coscienza del nostro destino fatto per la luce non scendendo a patti con rassegnazioni che ottenebrano questa consapevolezza. Ma non è facile se già nel libro dell’Apocalisse alla chiesa di Laodicea viene detto di fare attenzione a non cadere nell’illusione di saper già vedere abbastanza: “Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista” (Ap 3,17-18). Vivere in un’illusione di autosufficienza equivale a decretare la nostra situazione di cecità: significherebbe rimanere seduti ai margini della strada, sordi e ciechi alla Buona Notizia. Accogliere questa luce significa invece credere, cioè essere salvi: “il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). Ciò che salva Bartimeo è dunque la sua consapevolezza e il suo grido carico di speranza!

    Se l’uomo che “giace nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1,79; cfr Mal 3,20; Is 9,1; 42,7) invoca luce sulla sua vita, sul senso del vivere e del morire, del soffrire e del gioire, Cristo gli è donato come luce intramontabile e sicura. Egli può avanzare questa pretesa in quanto è Parola di Dio fatta carne: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). Parola che donata ad Israele e al mondo è offerta quale lampada per camminare nei sentieri della vita: “lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Sal 118,105). È luce che si offre alla libertà dell’uomo e non gli si impone da cui la possibilità che l’uomo chiuda la finestra a questa luminosità. Scrive sant’Ambrogio a questo proposito:  “Ma se uno avrà chiuso le finestre, si priverà da se stesso della luce eterna. Allora, se tu chiudi la porta della tua mente, chiudi fuori Cristo” (Commento al Salmo 118). Infatti questa stessa luce viene osteggiata da tutte le “potenze di tenebra e di male” che rifiutano la verità di Dio: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5; cfr 13,30; Lc 22,53). E’ questo un dato che riscontriamo anche nel nostro racconto proprio in quella folla che vorrebbe impedire l’incontro di Bartimeo con Gesù. E’ una folla cieca, anche se apparentemente sta seguendo Gesù, che però in definitiva rifiuta il suo cammino verso Gerusalemme, vorrebbe infatti che intraprendesse un’altra direzione, facesse altre scelte.

    Ciascuno si trova così a dover scegliere da che parte stare: se accogliere lo splendore della verità che, come sul Tabor, rifulge sul volto di Cristo accogliendo la grazia della sua alleanza che ci rende “figli della luce”,  oppure indurirci nella sordità alla Parola e nella cecità nei confronti della rivelazione scegliendo di restare “figli di questo mondo” (cfr Lc 16,8; Ef 4,18). E’ una battaglia che si svolge quotidianamente nel cuore di tutti noi: la avvertiamo nella fatica, nella resistenza nell’accogliere la luce della verità della Parola di Dio sulla nostra vita, preferendo spesso l’illusione di essere illuminati dalle luci fioche e artificiali dei nostri criteri e giudizi. Dovremmo sempre chiedere la grazia e il coraggio di lasciarci illuminare: “Ti ringraziamo di averci illuminati con lo Spirito che procede da Te e dal Figlio tuo, fa’ che ci saziamo della sua luce per tutta la lunghezza di questa giornata” (lodi del Giovedì).

    Le parole e i gesti di Bartimeo esprimono bene il suo cammino di fede; egli si apre fiducioso sin dall’inizio all’accoglienza della luce della Buona Notizia di Gesù di Nazaret per giungere alla fine alla decisione di porsi alla sequela di lui scoperto come luce irrinunciabile della propria vita. Bartimeo diviene in tal modo perfetto modello di discepolato. Il mantello è abbandonato: ovvero viene liberato da ogni groviglio di oscurità e rimpianti e false sicurezze; egli compie, superando ogni ostacolo, la sua scelta senza esitazione, in fretta perché non c’è tempo da perdere in ordine alla salvezza: “Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va»” (Gv 12,35).

    Non ci resta che ringraziare la misericordia di Dio e la gratuità del suo amore che ci ha raggiunti e ci ha “chiamati dalle tenebre alla sua mirabile luce” (1Pt 2,9). Grazia che ha trovato il suo sigillo sacramentale del giorno del nostro battesimo chiamato nella chiesa antica anche “illuminazione”. La luce attinta al cero pasquale, il Cristo risorto, ci è stata consegnata e sarà nostra premura impedire che essa si estingua per mancanza di olio (cfr Mt 25,8; Ebr 6,4). La parola di Dio ascoltata e assimilata farà sì che la fiamma non si spenga nel cuore e che essa illuminandoci ci renda ogni giorno più discepoli.

    È l’esperienza di Bartimeo che ricevuto il dono dell’illuminazione “prese a seguire Gesù per la strada”. Una sequela esigente che vedrà i discepoli rifiutare di continuare a vedere (cfr Mc 14,40) e che lo porterà ai piedi della croce dove la fede giungerà al suo vertice come visione di luce che scaturisce dalla croce: chi “guarda in alto”, chi “contempla” Gesù sulla croce, “vede” ciò che il centurione ha visto: la gloria che rifulge sul volto del “Figlio di Dio” (cfr Mc 15,39).

    Oratio

    Gesù chiede al cieco: “Cosa vuoi che io ti faccia?”. E’ la domanda che egli pone ora anche a ciascuno di noi. Chiediamo che la riposta sia la medesima: “”Rabbunì, che io riabbia la vista!”. Ovvero chiediamo il dono di “saper vedere”, il dono di una visione che scaturisca dalla fede in lui crocifisso e risorto e che ci guarisca da tutte le nostre cecità, dai nostri sguardi miopi, dalle nostre false visioni che ci impediscono il cammino. Si tratta di rinnovare il dono della luce che ci è stata data il giorno della nostra “illuminazione”, ossia del nostro battesimo.

    Ci piace terminare questa lettura biblica ricordando un personaggio straordinario nella sua semplicità che ha saputo vivere di questa luce interiore: Fratel Ave Maria, eremita della congregazione fondata da don Luigi Orione. Era nato il 24 febbraio 1900 a Pogli di Ortovero (SV). Un giorno mentre giocava in paese con alcuni coetanei per un involontario colpo di fucile ritenuto dai bambini scarico, sparato dall’amico Bartolomeo Vignola, diventò cieco. Ospitato in un istituto di Don Luigi Orione dopo aver superato una crisi di fede sentì nascere in sè la vocazione. Nel 1923, entrò tra gli Eremiti ciechi della Divina Provvidenza  e venne destinato all’ Eremo di S.Alberto di Butrio (PV) dove, rivestito l’abito religioso prese il nome di Frate Ave Maria. Il segreto della santità di Frate Ave Maria, si può comprendere in queste poche parole che pronunciò appena dopo la vestizione religiosa: “Io non ho altro desiderio se non quello di adempiere sempre la santissima volontà di Dio. Questo è il solo desiderio che mi rende felice“. La lunga sofferenza accompagnata da una profonda esperienza meditativa, la saggezza delle sue parole attirarono su di lui la venerazione di tante anime di cui divenne quasi un faro di luce capace di aiutare ad orientarsi nella vita. Soleva ripetere: “Io, povero e ignorante peccatore, sono solo capace di pregare e di essere felice. Non ho niente e sono felice, ho solo una cosa: l’amore verso Dio. Io sono capace di due cose soltanto: parlo di Gesù alle anime, o parlo alle anime di Gesù“. Muore il 21 gennaio del 1964.

    Di lui riportiamo la preghiera che compose in occasione del cinquantesimo anniversario della sua cecità. Le sue parole ben si collocano all’interno della nostra riflessione e preghiera: “Convertisti in luce le mie tenebre ed in gioia la mia tristezza, sicché la mia è veramente una luminosa e deliziosa notte, perché l’unica mia luce, l’unica mia gioia sei tu solo, o Gesù Figlio di Dio”.

  • 03 Feb

    Open Land Art 2009 a Borzone

    Open Land Art secondo quanto recita il titolo stesso, è “arte aperta”. In molti sensi: in primo luogo perché le opere sono distribuite all’interno di un ampio parco naturale, secondariamente perché la rassegna è veramente “aperta” a quanti hanno qualcosa di significativo da dire. Il visitatore si troverà confrontato non solo con le opere, ma anche con un luogo incontaminato e denso di storia, in cui il tempo sembra essersi fermato. L’ampio spazio in cui le opere saranno installate è un territorio vissuto, in cui il lavoro dei campi si intreccia, in modo sorprendente e naturale, con questa iniziativa che vuole mettere a contatto diretto artisti, operatori del mondo dell’arte e semplici appassionati dell’espressione umana. Nata con l’intento di rendere l’arte accessibile a tutti, la rassegna, che si estenderà in un territorio agricolo-boschivo di oltre 50.000 metri quadrati in Località Borzone, è ad ingresso gratuito e resterà aperta per tutta l’estate dal 26 luglio al 26 settembre. Open Land Art ha l’ambizione, come ben indicato nel titolo, di essere “arte aperta”: le modalità espressive degli artisti, che si troveranno ad interagire con gli ampi spazi del territorio e con una natura ancora estremamente fresca e incontaminata, saranno molto diversificate e rappresenteranno molte delle tendenze dell’arte contemporanea. La caratteristica del luogo è oltremodo importante poichè in questo luogo sorge l’antica e superba abbazia di Borzone. Qui i Bizantini eressero al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI sec., un baluardo difensivo sede di un distaccamento militare, a presidio di un itinerario transappenninico che dalla regione rivierasca conduceva in Val Padana. Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa con annesso monastero col titolo di Sant’Andrea continua ad essere motivo di incertezza e discussione storica. Il documento che menziona per la prima volta il monastero di Borzone è una bolla del 1120 di papa Callisto II (1119-1124) che ne conferma il possesso all’Abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, ma molti indizi inducono a ritenerlo di fondazione più antica.Se tali ipotesi corrispondono a verità, anche il suo assoggettamento alla ricca e potente abbazia di Pavia potrebbe risalire alle origini, nella prima metà dell’VIII sec., ad opera re longobardo Liutprando (712 – 744) L’abbazia stessa essendo opera d’arte indiscussa è l’emblema, il logo maestoso che indicherà l’inizio del percorso dove la plasticità delle forme dell’opera scultorea, sia essa di carattere figurativo o astratto, troveranno nel confronto con gli elementi di natura (tronchi secolari, distese di prati, zone boschive) un motivo ulteriore di espressione e di declinazione della propria presenza. Gli Artisti Sono complessivamente una decina gli artisti italiani ed europei che saranno presenti in mostra questa prima edizione (l’elenco definitivo sarà disponibile entro la metà di giugno). Concerto A segnare la cadenza della giornata di inaugurazione saranno proprio le campane dell’antica Abbazia che eseguiranno una sinfonia appositamente scritta per l’occasione e mai altrove presentata, dai compositori di musica contemporanea Philip Corner e Valerio R. Pizzorno .

  • 02 Feb

    La Via dei monaci

    di Pietra Martina

    Un antico itinerario percorso dai pellegrini valorizzato dalla Provincia di Genova

    Francesco Gambino

    In occasione del Giubileo del 2000 e nel quadro di una serie di iniziative volte a valorizzare il patrimonio culturale e storico del proprio territorio, la Provincia di Genova ha promosso, con l’iniziativa Sentieri della Memoria, la conoscenza e la valorizzazione di due percorsi utilizzati nell’antichità da pellegrini e viandanti. Lo ha fatto realizzando e distribuendo, con la collaborazione della sezione genovese dell’Associazione Italiana Cultura e Sport, un’originale brochure contraddistinta da un logo raffigurante un pellegrino in marcia e contenente: un passaporto da convalidare in appositi punti-tappa, la mappa del percorso e diverse schede con immagini a colori e notizie storico-artistiche. I punti più importanti del percorso sono stati poi segnalati con appositi cartelli informativi. L’invito era chiaro: stimolare cittadini e turisti a ripercorrere lento pede quelle antiche tracce e conoscere così località, beni storici e artistici spesso poco conosciuti.
    L’itinerario proposto si sviluppa nel levante del territorio provinciale e può essere considerato come una delle numerose diramazioni di quell’importante rete di vie di comunicazione costituita dalla Via Francigena, percorsa a partire dall’XI secolo da migliaia di pellegrini diretti a Roma.
    Fu in questo periodo infatti che si diffuse il pellegrinaggio verso i più importanti luoghi di culto della cristianità, con la nascita di importanti vie di comunicazione che dal nord Europa portavano verso il sepolcro di Cristo in Terra Santa, le tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma e verso Santiago di Compostela in Galizia dove erano conservate le spoglie dell’apostolo Giacomo (Santiago in spagnolo). Su questi itinerari sorse una costellazione di chiese, monasteri, luoghi di sosta con hospitalis che costituiscono tuttora un immenso patrimonio di arte e cultura.
    Una delle direttrici più importanti era proprio la Via Francigena, così denominata perché attraversava la Francia nel suo lungo percorso da Canterbury verso Roma. In realtà, più che di una via, è forse più corretto parlare di un’area di transito, un insieme di itinerari che da nord convergevano a sud scavalcando le Alpi attraverso i valichi del Moncenisio e del Gran San Bernardo.
    La via dei monaci di Pietra Martina inizia nel territorio di Rezzoaglio, in Val d’Aveto, e giunge sulla costa a Chiavari, passando per i territori di Borzonasca, Mezzanego, San Colombano Certenoli, Carasco e Cogorno. Il suo itinerario originario saliva a Villa Cella da Rezzoaglio e proseguiva poi per il passo delle Rocche e, toccando le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca. Da qui giungeva poi a Chiavari passando per Carasco e la località di Ri.
    Il percorso prende il nome dalla località di Petramartina, dove nel 1103 frate Alberto e altri sette monaci benedettini del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia fondarono un piccolo cenobio dedicandolo a San Michele (sostituito nel 1655 con San Lorenzo). La piccola cella monastica fu collocata nella zona in cui oggi sorge il borgo di Villa Cella (da cui il toponimo), in prossimità del Passo delle Rocche, dove l’antica strada che da Rezzoaglio portava alla Valle Sturla e poi al litorale superava il crinale: ciò a dimostrazione dell’importanza di queste vie di transito appenniniche che da un lato portavano verso il pavese e dall’altro verso la Valle Sturla e la costa.
    L’insediamento monastico era compreso nel territorio della Corte di Alpepiana, anch’essa dipendente dal monastero pavese, verso il quale i monaci si erano impegnati a versare annualmente 20 soldi, 20 forme di formaggio e 20 libbre d’olio. Proprio la produzione dell’olio, ricavato da possedimenti terrieri sulle alture di Rapallo, dimostra i rapporti della cella con l’area costiera. Il fatto poi che Gerardo di Cogorno sia stato abate di Sancti Michaelis de Petramartina nel 1232 e successivamente del monastero di Sant’Andrea di Borzone nel 1244 conferma i collegamenti tra la Val d’Aveto e la Valle Sturla.
    L’insediamento religioso si caratterizzò non solo per l’attività di assistenza a pellegrini e viandanti, ma anche per quella relativa alla cura del territorio: agli stessi monaci benedettini sono attribuiti lo svuotamento e la bonifica del lago-palude che occupava la piana di Cabanne, un tempo feudo dei Della Cella, famiglia che si sostituì ai de Meleto ricoprendo un ruolo primario nel controllo dei traffici commerciali della zona.

    Punto di partenza dell’itinerario è Rezzoaglio, centro turistico dell’alta Val d’Aveto. Citato per la prima volta nel 1211 in un documento di permuta con la locale famiglia dei de Meleto, fu feudo dei Malaspina per investitura di Federico Barbarossa.

    Da qui l’itinerario originario saliva a Villa Cella, dove i resti dell’insediamento religioso fondato dai monaci pavesi sono ancora oggi riconoscibili anche se inglobati nella costruzione di un mulino ad acqua attivo fino al dopoguerra. Toccando poi le frazioni di Temossi e Caregli, scendeva direttamente a Borzonasca.
    Antico centro dell’alta Valle Sturla, Borzonasca conserva nel suo territorio uno dei più importanti complessi monastici medievali e una delle più antiche fondazioni benedettine della Liguria: l’abbazia di Sant’Andrea nella località di Borzone, lungo quell’importante via di comunicazione che collegava le antiche saline di Chiavari alla Val Padana. La sua fondazione trova origine nell’impulso del re longobardo Liutprando che, alla fine del VII secolo, affidò ai monaci di Bobbio la costruzione del monastero. L’abbazia fu eretta così nel 1184 dal benedettino Ugone della Volta ed è monumento nazionale dal 1910. La sua attuale struttura, con la caratteristica torre quadrata, risale alla ricostruzione avvenuta nel 1244 e che una lapide sulla parete est della torre attribuisce al già citato abate Gerardo di Cogorno.
    Nei pressi di Borzonasca, nella frazione di Levaggi, è possibile vedere l’Oratorio di N.S. del Perpetuo Soccorso che presenta tuttora le caratteristiche tipiche dell’hospitalis per pellegrini: portico ad ampie arcate e corpo centrale allungato per l’ospitalità e il riparo notturno, con il piano superiore probabilmente destinato al ristoro e alla degenza dei malati.
    La via dei pellegrini continua toccando le località di Borgonovo e Prati, entrambe frazioni di Mezzanego, centro abitato della valle Sturla che vanta nel suo territorio numerosi ponti medievali che, insieme agli ospedali, erano strutture fondamentali per il transito dei pellegrini. Spesso, nel Medioevo, lo stesso termine ponte aveva un significato più ampio di quello attuale, indicando un complesso di strutture ricettive situate accanto o nei pressi dello stesso ponte costruzione. Si ipotizza che una di queste strutture possa rinvenirsi proprio a Prati di Mezzanego dove un’antica costruzione in pietra fa corpo unico con il ponte costruito sul Rio Carnella.
    Proseguendo si entra nel territorio di San Colombano Certenoli, borgo cresciuto in epoca romana intorno al monastero benedettino intitolato proprio a San Colombano, il monaco irlandese fondatore nel 614 del monastero di Bobbio.
    Il tragitto tocca poi Carasco, centro di convergenza di diversi itinerari tra la riviera e la catena appenninica e importante nodo commerciale durante il Medioevo. Posseduto in parte dal monastero di San Giovanni di Pavia, Carasco conserva nelle sue frazioni numerose testimonianze di insediamenti religiosi. Poco prima del paese, situata sulla sponda sinistra del torrente Sturla, sorge la chiesa di Santa Maria di Sturla (detta di San Pellegrino) già citata in documenti risalenti al 1253. Nella località di Comorga sono rinvenibili invece i resti -di epoca anteriore al X secolo- di uno dei primi insediamenti bobbiesi della zona.
    Di rilievo è poi la Prioria di Graveglia, situata alla confluenza dell’omonimo torrente in una località che figurava già intorno al Mille su diplomi imperiali e bolle pontificie. Dal XIV al XVI secolo la giurisdizione su Graveglia fu affidata all’Abbazia di Borzone, retta dai monaci benedettini francesi di Clermont. Oltre Carasco, nella frazione di San Lazzaro, sorge l’omonima cappella con annesso hospitale fondata dalla famiglia dei Fieschi e ricordata nel testamento del cardinale Luca Fieschi del 1252.
    Una deviazione verso levante porta alla Basilica dei Fieschi nella località di San Salvatore di Cogorno, uno dei più importanti e meglio conservati monumenti romanico-gotici della Liguria fatto erigere nel 1245 da Sinibaldo Fieschi dei Conti di Lavagna (poi Papa Innocenzo IV) e ultimato dal nipote Cardinale Ottobono Fieschi, poi Papa Adriano V.
    Proseguendo in direzione del litorale e di Chiavari, l’itinerario tocca il luogo dove sorgeva l’antico borgo di Ri con la chiesa-ospedale di Maria Maddalena: i resti della pieve medievale sono ora incorporati in un abitazione privata. Nella zona, caratterizzata dalla presenza dell’Entella e ricordata anche da Dante nella Divina Commedia, erano presenti anche altre strutture religiose destinate all’assistenza dei viandanti come l’hospitale di San Cristoforo e, sulla collina che separa Chiavari da Zoagli, l’importante Santuario di Nostra Signora delle Grazie. Edificato alla fine del XIV secolo, l’edificio presenta in facciata il caratteristico porticato simbolo dell’antica funzione di ricovero e riparo.
    I numerosi edifici religiosi costituiscono un ricchissimo patrimonio architettonico e storico della stessa Chiavari, importante centro costiero del levante genovese di origini antichissime. Risale infatti al 1959 la scoperta di una necropoli protostorica, testimonianza della presenza di un insediamento organizzato sulle sponde del Rupinaro già 2700 anni fa. Nodo stradale in epoca romana, la cittadina è attraversata dai caratteristici porticati medievali.
    La sua chiesa più antica è quella di San Giacomo di Rupinaro, originaria del VII secolo, più volte distrutta e ricostruita. Il suo nome originario era San Giacomo dell’Arena, a conferma che prima del 1300 la località probabilmente si affacciava su una spiaggia e che il mare giungeva fin quasi ai piedi della collina. Poco distante sorgeva un altro edificio con funzioni di assistenza, l’hospitale di San Giacomo di Rupinaro: ulteriore testimonianza che queste località rappresentarono luoghi di transito su quei lunghi e faticosi itinerari percorsi dai pellegrini verso le loro mete devozionali.
    Queste vie divennero poi grandi arterie di comunicazione e favorirono la circolazione di uomini, conoscenze, idee e tradizioni, stimolando un fervido scambio culturale tra le genti d’Europa e lo sviluppo di traffici e relazioni commerciali.


  • 01 Feb

    Il Santuario della Madonna

    del Monte di Mulazzo (SP)

    e in monaci di Borzone


    ll santuario della Madonna del Monte risale al XII secolo quando i monaci benedettini dell’abbazia di Borzone crearono un priorato dedicato alla vergine. L’edificio, a 970 metri d’altezza, isolato da folti boschi, è in stile romanico. Il portico ed il campanile in fronte rimandano allo stile di alcune costruzioni francesi. All’interno, dietro l’altare è incisa sul muro la data del 1302, ritenuta da molti l’anno della fondazione, ma probabilmente data dell’ampliamento della cella benedettina. Altre due date sono presenti nel santuario: una del 1502 ai piedi di un bassorilievo raffigurante la Madonna col Bambino e un’altra del 1505 incisa sull’architrave della porta. I monaci vi rimasero fino all’inizio del XVI secolo e poi lo lasciarono, per tornare all’abbazia di Borzone, a sua volta venne abbandonata nel 1536. Nel 1548 il marchese Ottaviano Malaspina di Mulazzo ne divenne proprietario. Seguirono anni di incuria e di abbandono, fino al 1887, quando un decreto della S. Congregazione del Concilio diede il santuario, come cappellania, alla parrocchia di Pozzo. Negli ultimi tempi è stato ristrutturato il porticato romanico, l’interno, l’esterno e l’antica prioria.

    Il santurio della Madonna del Monte

  • 30 Gen

    Secondo la tradizione, il Volto megalitico sarebbe un’effigie di Cristo, scolpita,forse come ex voto, dai frati che un tempo abitavano l’Abbazia di Borzone, in ringraziamento per l’avvenuta cristianizzazione della vallata. A seguito dell’ abbandono del convento da parte dei frati, il volto fu sommerso dalla vegetazione e dimenticato. Oggi è stata avanzata l’ipotesi che la grande scultura si possa far risalire al paleolitico superiore, cioè ad un periodo variabile da 20.000 a 12.000 anni fa. Infatti sono state ravvisate notevoli somiglianze tra le tecniche di lavorazione ed il soggetto stesso di quest’opera da un lato, e molti menhir antropomorfi rinvenuti in varie località d’Europa ed appartenenti alla stesso periodo dall’altro. Qualunque sia la verità, essa resta un’opera grandiosa. La scultura è ben visibile dalla strada, poichè è stata ripulita e disboscata la parte anteriore della rupe. La vista del monumento desta una grande impressione, per le gigantesche dimensioni (circa m. 7 di altezza per 4 di larghezza, che ne fanno la scultura rupestre più grande d’Italia e forse d’Europa), per la collocazione incombente sull’osservatore e per la bellezza dei luoghi, in gran parte sfuggiti all’aggressività dell’uomo moderno. Il Volto megalitico è scolpito su di una rupe situata nel comune di Borzonasca, in provincia di Genova. Per giungervi, si lascia l’autostrada Genova-Livorno al casello di Lavagna e da qui si procede verso Carasco e poi Borgonovo. Si attraversa quindi il paese di Borzonasca e si seguono le indicazioni per l’Abbazia di Borzone(di epoca medievale, anch’essa merita una visita). Si giunge ad un bivio: a destra si arriva all’Abbazia, a sinistra si prosegue per il passo delle Rocche. Dopo poche minuti si arriva alla rupe. Bisogna prestare molta attenzione, perchè il Volto non si vede arrivando da questa direzione, ma è visibile dal lato opposto e attualmente vi sono, come unica indicazione, due piccoli segnali sbiaditi. Comunque la rupe si nota qualche minuto prima perchè spunta assai aspra dalla vegetazione. Alla base del monumento si può lasciare l’automobile. Il sentiero che porta alla base del volto richiede un’ascesa di 10 minuti, ma è molto aspro e non privo di pericoli, specialmente se accompagnati da bambini. Dalla sommità della rupe si ha un ampio panorama sulle vallate circostanti.

  • 29 Gen

    La chiesa o prioria di Sant’Eufemiano è un edificio religioso della frazione di Graveglia nel comune ligure di Carasco, nella val Fontanabuona in provincia di Genova. La comunità parrocchiale fa parte della diocesi di Chiavari. La chiesa fu costruita dai monaci colombaniani dell’abbazia di San Colombano di Bobbio, intitolandola al santo Eufemiano, nella frazione di Graveglia[1]. In zona vi era inoltre il monastero di Comorga, sempre gestito dagli stessi monaci che come prioria amministrava il territorio. Nel XIII secolo la proprietà delle terre di Graveglia passarono dai monaci di Bobbio ai Benedettini, subentrati ai colombaniani nell’abbazia di Sant’Andrea di Borzone (Borzonasca). La sua prioria fu data in commenda, all’inizio del XVI secolo, alla Santa Sede che con breve del 6 novembre 1519 concederà il patronato alla famiglia locale dei Ravaschieri. Eredita in seguito dalla famiglia Solari la curia arcivescovile di Genova decise di sospendere il giuspatronato familiare e, nel 1873, di conferire il beneficio priorale mediante un apposito concorso ecclesiastico. L’attuale chiesa fu eretta nel 1866 e consacrata il 12 maggio del 1868 dall’arcivescovo genovese monsignor Andrea Charvaz.


  • 28 Gen
    Eredità celtica all’Abbazia di Borzone?

    A Borzonasca, in provincia di Genova, singolari volti scolpiti nella roccia rimandano alla tradizione celtica di collocare guardiani simbolici per proteggere i luoghi sacri.

    Risalendo a nord ovest dell’Abbazia, in località Rocche, si incontra un singolare mascherone scolpito nella roccia, probabilmente con intenzioni protettive. La testa, dotata di capigliatura fluente e di un inconsueto copricapo sacerdotale, fa pensare a un contrassegno, volto a ribadire la sacertà del luogo e a difenderlo da energie negative e influenze perturbatrici.

    Ancora teste umane, questa volta di piccole dimensioni, compaiono in veste di guardiani anche sugli stipiti e sulle locali fontane. Non è inverosimile che si tratti di una tradizione ereditata dai Celti, che usavano conservare come amuleti e inchiodare sulla soglia le teste mozze dei nemici.

    Sempre nei dintorni, presso il rifugio Monte Aiona, in località Prato Molle, si può osservare una rara formazione geologica, forse un meteorite, che si racconta dotata di incredibili proprietà: infatti, devierebbe con forza l’ago della bussola e, se percossa, risuonerebbe come una campana.

    Laura Tuan

  • 27 Gen

    ABBAZIA DI BORZONE:

    IL REBUS DI BORZONE

    di Paolo Mira

    La storia dell’abbazia di Borzone inizia “ufficialmente” nel 1120 con una bolla di papa Callisto II, ma tanti sono gli indizi che fanno pensare a una sua origine molto più antica. Stiamo parlando dell’abbazia ligure di Sant’Andrea di Borzone, nei pressi di Lavagna. Dalla storia sappiamo che, nel luogo in cui sorge l’attuale complesso, i Bizantini eressero al tempo della “guerra gotica”, nella prima metà del VI secolo, un baluardo difensivo a presidio di un collegamento viario tra la riviera e la pianura Padana.
    Quando e da chi sulle rovine della fortezza bizantina fu edificata la chiesa di Sant’Andrea con l’annesso monastero continua a rimanere motivo di incertezza e discussione. Il primo documento scritto, infatti – come accennato – è la bolla pontificia del 1120, nella quale Callisto II confermava il possesso del cenobio di Borzone all’abbazia di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia.La tradizione locale indica il nostro monastero come fondazione dell’abbazia piacentina di San Colombano di Bobbio; tuttavia la mancanza di Borzone negli antichi documenti bobbiesi e la sua presenza nella bolla papale tra le dipendenze pervenute all’abbazia pavese – essa pure colombiniana per dotazione di re Liutprando – proporrebbero una retrodatazione della sua erezione forse alla prima metà dell’VIII secolo, a opera dello stesso re longobardo.
    Nella seconda metà del XII secolo, venuti a mancare i monaci colombiniani, l’arcivescovo di Genova Ugo della Volta nel 1184 decise di restaurare il complesso ormai cadente e chiamò la congregazione benedettina francese di “La Chaise Dieu”. Accettata la donazione i benedettini garantirono la loro presenza a Borzone fino agli esordi del XVI secolo. Nel 1535 l’abbazia divenne commenda, realtà che durò fino al 1847. Tra gli abati commendatari vi furono figure di spicco come il cardinale Michele Ghislieri, il futuro papa San Pio V. Dopo le soppressioni Borzone divenne chiesa parrocchiale, nel 1910 fu dichiarata monumento nazionale, mentre dal 2000 si sta procedendo a un delicato intervento di restauro dell’intero complesso, al fine di dare vita a una “Casa di Preghiera e Accoglienza”, un luogo dello spirito alla cui base stanno l’ascolto della Parola e la preghiera, l’accoglienza, il silenzio e la solitudine, l’essenzialità e la gratuità.
    “La chiesa abbaziale – spiega padre Attilio Fabris, responsabile della Casa di preghiera, oltre che profondo conoscitore della storia del cenobio – è un vero gioiello artistico e un monumento fra i più importanti del patrimonio storico e architettonico ligure. La muratura esterna e interna della facciata e dei fianchi corrisponde, con poche modifiche, a quella originaria, probabilmente dell’VIII-IX secolo, giocata sulla bicromia dei due materiali di costruzione impiegati – pietra e mattone – e sulle ritmate proporzioni del doppio ordine di arcatelle cieche, che ininterrottamente la percorrono, dando un’impressione di grande armonia e raffinatezza nonostante la povertà dei materiali”.L’austerità architettonica è ingentilita all’interno da opere di grande rilievo artistico. Al centro del presbiterio, vi è l’altare maggiore, opera in stucco risalente alla prima metà del XVIII secolo, sormontato da un grande crocifisso coevo, attribuito alla scuola del Maragliano, uno dei più importanti scultori in legno, donato all’abbazia dall’allora cardinale Spina, vescovo di Genova, in qualità di abate commendatario. Sul lato sinistro del presbiterio vi è, invece, un bel tabernacolo in ardesia datato il 1513. Pregevoli anche gli altari della navata: quello dedicato a Sant’Anna del 1755, con una statua seicentesca che la raffigura, e quello di Maria Vergine, commissionato nel 1644 dall’abate Gaspare Gazzolo, con una scultura in marmo raffigurante la Vergine con il Bambino.
    Nella parete absidale, era un tempo collocato – oggi al Museo Diocesano di Chiavari – un grande polittico, opera del pittore di origine milanese Carlo Braccesco, realizzato nel 1484.Accanto alla chiesa, sorge, infine, la possente torre campanaria che presenta una muratura di circa un metro di spessore; incastonata in essa si trova un’importante lapide, un tempo forse collocata all’interno della chiesa, che recita: “MCCXLIII abbas gerardus de cucurno natus fecit fieri has ecclesia et turrem”, certamente a documentare importanti lavori di ammodernamento voluti nel 1243 dall’abate Gerardo di Cogorno, nella medesima epoca di costruzione della vicina e famosa basilica di San Salvatore dei Fieschi a Lavagna.
    Per chi è disposto a un’ultima fatica, dopo aver ammirato il cipresso plurisecolare del sagrato, annoverato tra le piante monumentali della Liguria con i suoi cinque-sei secoli di vita, va segnalato il misterioso “Volto megalitico di Gesù Cristo”, in località Rocche di Borzone. Si tratta di un grande masso, scoperto nel 1965, che raffigura un volto umano dell’altezza di circa 7 metri.

    COME RAGGIUNGERE BORZONE

    L’abbazia di Sant’Andrea di Borzone si trova in Liguria e, più precisamente, in Val Sturla, nei pressi di Lavagna. E’ facilmente raggiungibile utilizzando l’autostrada Genova-Livorno, uscendo al casello Lavagna. Si prosegue, quindi, per 10 km in direzione Carasco-Borzonasca e giunti a Borzonasca, deviando a destra, con altri 3 km di strada si sale all’abbazia di Borzone. Quest’ultimo tratto è percorribile in auto, ma per i più volenterosi anche a piedi, in quanto i pullman sono impossibilitati a salire a causa delle misure ristrette della strada.
    Responsabile dell’abbazia e della “Casa di preghiera” Sant’Andrea è padre Attilio Fabris, che può essere contattato al numero
    0185.340056.
    Per ulteriori informazioni e approfondimenti storico-artistici è possibile consultare il sito: www.abbaziaborzone.it.


    Pubblicato su: “Segno”, mensile
    dell’Azione Cattolica Italiana

    n° 1 – Gennaio 2010

  • 26 Gen

    PROVINCIA DI GENOVA Piano Territoriale di Coordinamento

    DESCRIZIONE FONDATIVA Cap. 7 – GRADO DI STABILITA’ AMBIENT 81 ALE E SUSCETTIVITA’ ALLE TRASFORMAZIONI – Ambito 2.6

    Area : 2 – TIGULLIO

    Ambito : 2.6 – STURLA : Borzonasca, Mezzanego


    GRADO DI STABILITA’ AMBIENTALE E SUSCETTIVITA’ ALLE TRASFORMAZIONI

    Valori presenti sul territorio

    • SUOLO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − permeabilità del suolo : in corrispondenza delle terrazze fluviali dello Sturla e del T. Penna, laddove sono presenti alluvioni permeabili per porosità, ancorché in modo disomogeneo.

    • AMBIENTE – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − generalizzata buona condizione dell’aria ;

    − buona qualità complessiva delle acque presenti nell’ambito, risultando assenti, o di modesta entità, le situazioni di compromissione ;

    − presenza di zone di protezione faunistica :

    − Zone di ripopolamento e cattura : “Monte Bozale” (Borzonasca), “Monte Aiona” (Borzonasca); “Monte Ramaceto” (Borzonasca) ;

    − Oasi faunistiche : “Monte Zatta” (Mezzanego, Borzonasca) ;

    − Foresta demaniale del Monte Penna;

    − Foresta demaniale di Monte Zatta, ubicata a ridosso della caratteristica cresta montuosa a doppia sommità, con una maggior estensione sui versanti meridionali (comune di Ne);

    − presenza del Parco naturale regionale dell’Aveto.

    • INFRASTRUTTURE – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − Nell’ambito si rileva la presenza di molte percorrenze con valenza turistica :

    − Strada Provinciale n. 26bis e 27 della Valmogliana e di Cassego. La strada del Bocco ha un’evidente funzione di itinerario turistico, struttura di accesso ad escursioni montane e ad attività di fruizione del tempo libero sul territorio;

    − Strada Provinciale n. 49 di Sopralacroce. Anche in questo caso la specializzazione prevalente è quella turistica, rivolta sia agli insediamenti di Perlezzi, Prato, Zanoni, Vallepiana, Belvedere, per i quali svolge un supporto di percorso residenziale, sia per le diramazioni di itinerari escursionistici verso il Bocco da una parte e verso le catene montane dell’Aiona e del Penna dall’altra;

    − Strada di Giacopiane. La strada che conduce al lago di Giacopiane fornisce diversi spunti per la fruizione turistica, dal breve anello di Gazzolo, al vivaio forestale, al passaggio in quota attorno al monte Bregaceto, all’anello viario che circonda l’invaso del lago.

    • SERVIZI – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − Presenza delle strutture turistiche interne al parco dell’Aveto;

    Polarità dell’importante testimonianza storico architettonica dell’Abbazia di Sant’Andrea di Borzone.

    • INSEDIATIVO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    Sistema insediativo urbano

    − nuclei urbani storici, a Borzonasca e Borgonovo, in quanto espressivi, per l’organizzazione dell’edificazione e per le relative tipologie edilizie, della fase più avanzata e matura dell’organizzazione del sistema insediativo presente nell’ambito;

    − aree libere nel sistema urbano, a Borgonovo di Mezzanego, costituite dalle due piane agrarie poste in sponda destra dello Sturla, in quanto concorrono a delimitare il passaggio dal territorio rurale del versante esposto ad est e quello urbanizzato;

    Sistema Insediativo rurale

    − nuclei rurali ed insediamenti frazionali, in quanto espressione del sistema insediativo originario di mezzacosta, specie nei nuclei storici di Perlezzi, Prato Sopra la Croce, Zanoni, Vellepiana, Belvedere e con il nucleo di Borzone;

    − territorio rurale in generale, per la rilevante partecipazione alla definizione dei quadranti paesistici e la conservazione della sua identità ed organizzazione territoriale, ed in particolare, negli ambiti che circondano i nuclei e gli aggregati storici in quanto elemento essenziale per la leggibilità dell’organizzazione agraria, nel versante a ponente dello Sturla, dalla località di Levaggi – La Costa sino ad Acero, nella valle di Borzone e nel ventaglio dell’alta Val Penna, a monte di Prato Sopra la Croce, Zanoni e Belvedere;

    Sistema naturalistico

    − territorio non insediato, specie quello compreso nel Parco dell’Aveto e segnalandosi, in particolare, la faggeta del M.te Zatta con l’insediamento della Fondazione Devoto.

    • PAESAGGIO – Rappresentano valori le seguenti situazioni:

    − aree agrarie o terrazzate in ambito urbano ed a margine, a Mezzanego, le piane alluvionali nel fondovalle del T. Sturla, in sponda destra tra Campovecchio e Borgonovo, utilizzate per colture agrarie;

    − edifici specialistici dismessi di valore paesistico : a Borzonasca, la Malga di Zanoni ed il fabbricato ex Albergo Passo del Bocco a Mezzanego, la Fondazione Devoto a Giaiette, il fabbricato ex albergo sul Passo del Bocco, l’edificio produttivo ex fabbrica nocciole a Prati, in prossimità del ponte romano, l’antica Fornace sulla SS 586;

    − manufatti emergenti reali e virtuali (P.T.C.P. e relativi Studi Propedeutici);

    − Aree protette regionali : l’ambito fa parte del Sistema di Aree di Interesse naturalistico – ambientale dell’Aveto

    (L.R.50/89 e L.R.12/95);

    − situazioni naturalistiche, morfologiche e geomorfologiche di particolare rilievo : zone umide montane in regione Gasparelle, Moglia Grande, Pascoli di Per lezzi; siti rocciosi di interesse naturalistico del crinale Valle Sturla – Valli Nure e Taro, le Comunaglie e le foreste frazionali (faggete) del M. Ramaceto, elementi emergenti sono le dorsali principali costituite dagli spartiacque con il T. Aveto a nord, con il Taro ad est, con il T. Lavagna ad ovest, e dai crinali secondari all’interno del bacino dello Sturla ; i sistemi di vette, con le vette più elevate ed incombenti dei M. Aiona (1701 mt) e M. Penna (1735 mt), ma anche i M. degli Abeti (1542 mt), M. Bocco (1084 mt), i passi e valichi, fra tutti il Passo della Forcella (875 mt), le foreste del Bregaceto, le faggete sopra Giaiette, i laghi Malanotte e Giacopiane, le praterie e piane in quota, la zona umida di Prato Mollo;

    − vincolo paesistico ambientale : il territorio dell’ambito in questione presenta vaste aree, in particolare quelle caratterizzate dal valore della montagna appenninica, (zone verdi, specie endemiche rare, configurazioni morfologiche, valli, corsi d’acqua) interessate da vincoli paesistico – ambientali ; nel complesso, quindi, l’ambito risulta adeguatamente tutelato, dovendosi riconoscere che le motivazioni originarie risultano in gran parte ancora coerente con lo stato del territorio.

    • SOCIO ECONOMICO – TURISMO – Si evidenziano i seguenti valori :

    a livello di ambito

    − Facilità di accesso dalla fascia costiera;

    − Presenza di pregi ambientali e storico culturali significativi ai fini del turismo, con particolare riferimento al territorio compreso nel Parco naturale dell’Aveto;

    − Presenza di nuove piccole strutture ricettive in fase di realizzazione.

    a livello di Comune :

    − a Borzonasca : Elevata estensione territoriale con bassa densità di popolazione ; presenza di pregi ambientali e storico – culturali (Abbazia di Sant’Andrea di Borzone);

    − a Mezzanego : Popolazione residente in lieve crescita ; presenza di un significativo territorio agrario su fasce coltivate a noccioleti ; presenza nel passato di una intensa attività di lavorazione del legname, di cui rimane una segheria (dismessa) ; facilità di accesso dalla fascia costiera.

    SITUAZIONI DI CRITICITA’

    • SUOLO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − fenomeni di rischio idraulico :

    − T. Sturla, in corrispondenza delle aree fluviali contigue al corso d’acqua principale situate

    prevalentemente in sponda sinistra immediatamente a monte (località Chiesola) e di alcune porzioni in comune di Mezzanego ;

    − fenomeni di instabilità diffusa, particolarmente rilevante in corrispondenza dei nuclei di Prato Sopralacroce e Bertigaro;

    − condizione di bassa permeabilità, diffusa su Borzonasca, presente prevalentemente nei versanti del T. Penna.

    • AMBIENTE – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − presenza di inquinamento atmosferico, di origine prevalentemente domestica, nelle aree urbanizzate di fondovalle dello Sturla in corrispondenza delle località Prati e Borgonovo di Mezzanego ;

    − inquinamento di tipo atmosferico (polveri sospese) e di tipo acustico, a carattere puntuale, in corrispondenza degli ambiti di cava in attività (in particolare la Cava di Pietra, ubicata nel fondovalle presso confine con il comune di Carasco) ;

    − lieve inquinamento del tratto del T. Sturla compreso tra il centro urbano di Borzonasca e il confine con il comune di Carasco ;

    − prevalenza degli scarichi civili rispetto agli scarichi di pubblica fognatura nei territori di entrambi i comuni, ma più rilevante in Mezzanego, in ragione della presenza di un sistema insediativo connotato da una elevata “dispersione” territoriale.

    • INFRASTRUTTURE – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − gli attraversamenti dei centri di Prati, Borgonovo e Borzonasca dell’asse portante del sistema infrastrutturale dell’ambito, costituito dalla SS n. 586 dell’Aveto, che percorre l’intero fondovalle dello Sturla e risale poi fino al valico della Forcella per entrare nella valle dell’Aveto, in ragione della insufficienza e dell’inadeguatezza del tracciato rispetto alla duplice funzione urbana e territoriale che ivi viene ad assumere.

    • SERVIZI – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − l’attuale scarsa dotazione di servizi territoriali che può costituire un elemento di debolezza in relazione al

    progressivo accrescimento di peso del polo di Carasco;

    la carenza di attrezzature a servizio della viabilità turistica in un ambito prevalentemente caratterizzato da valori naturalistici e paesistici, quali laghi, foreste demaniali, zone umide, testimonianze storico architettoniche (l’Abbazia di Sant’Andrea di Borzone), contesti rurali tradizionali, malghe, ecc.;

    − la mancata valorizzazione della Colonia del M. Zatta, situata in territorio comunale di Mezzanego in una zona di notevole interesse naturalistico (Oasi faunistica e Parco Regionale).

    • INSEDIATIVO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − La pressione che può essere esercitata sulle aree rurali libere presenti nel fondovalle, attorno ai centri di Borzonasca, Borgonovo e Prati di Mezzanego, tendente alla loro utilizzazione a fini edificatori;

    − La criticità dell’assetto degli insediamenti produttivi nella zona di Costa del Canale, ove la riorganizzazione funzionale e la riqualificazione paesistica sono condizioni indispensabili per lo sfruttamento delle risorse spaziali ancora disponibili;

    − L’inadeguatezza della rete viaria di impianto territoriale secondario, costituita prevalentemente dalle strade provinciali che innervano e permettono l’accessibilità al vasto territorio rurale, dovendosi segnalare, in particolare, la situazione di insufficienza della viabilità comunale lungo la direttrice Borzonasca, Levaggi, Belpiano, Acero e Passo della Forcella;

    − I punti di insufficienza e pericolosità della SS 586, in corrispondenza della località di Vignolo Piano e dell’attraversamento di Borgonovo.

    • PAESAGGIO – Rappresentano fattori di criticità le seguenti situazioni:

    − infrastrutture di rilevante impatto ambientale : a Borzonasca, la diga e relative sistemazioni d’area dell’invaso artificiale di Giacopiane e dell’invaso in prossimità del Passo del Bocco;

    − artificializzazioni degli ambiti fluviali : a Borzonasca, le opere collegate al Lago Giacopiane (T. Calandrino) e gli attraversamenti e le situazioni di disordine nel T. Sturla, in prossimità dei centri edificati ; a Mezzanego, le opere di copertura e sistemazioni improprie delle sponde del T. Sturla verso lo sbocco nel T. Entella;

    − elettrodotti : la rete attraversa il territorio dell’ambito longitudinalmente da Mezzanego a Borzonasca capoluogo, lungo il fondovalle del T. Sturla, e trasversalmente il Comune di Borzonasca dal Capoluogo fino all’isola amministrativa di Giaiette;

    − cave, discariche, riempimenti : a Borzonasca, il Frantoio alta Val di Taro e la cava in località Belvedere di Sopralacroce ; a Mezzanego, la cava di pietra e frantoio, la cava di Costa del Canale, la cava di arenaria in costa di Cicana;

    carenze nella tutela paesistico ambientale : la zona dell’Abbazia di Borzone non risulta adeguatamente tutelata, non sussistendo vincoli di tipo specifico di cui alla L. 1497/39 e s.m.i., che evidenzi, con l’imposizione di un vincolo non generico, la presenza di un bene che integra valori vegetazionali e costruiti, ed il contesto a contorno della stessa.

    • SOCIO ECONOMICO – TURISMO – Si evidenziano i seguenti fattori di criticità :

    a livello di ambito

    − Pendolarismo verso la fascia costiera;

    − Scarsa iimprenditorialità e specializzazione turistica;

    − Difficoltà di mobilità e conseguente isolamento della popolazione nelle parti alte del territorio.

    a livello di Comune

    − a Borzonasca : l’incidenza della popolazione anziana e la scarsa specializzazione turistica;

    − a Mezzanego : la scarsa presenza di mentalità turistica e lo spiccato pendolarismo verso la fascia costiera.

  • 26 Gen

    Il Volto Megalitico di Borzone

    di Jonathan Ferroni

    Una delle opere più importanti ed enigmatiche della storia ligure si trova a Borzone, comune di Borzonasca, nell’alta Valle Sturla. Il borgo, raccolto intorno ad un’abbazia del X secolo intitolata a S. Andrea, è poco più che un pugno di case. La strada, malagevole e stretta, si snoda per gli ameni dintorni tra boschi, torrenti e speroni di roccia. Ed è proprio una di quelle aspre rocce che ospita un grande tesoro della preistoria ligure. Si tratta di una colossale effige, scolpita nella dura pietra, che raffigura evidentemente i tratti di un volto umano. L’opera, alta più di sette metri e larga circa quattro, si staglia sopra la strada che collega con Borzone lo sperduto borgo di Zolezzi. L’effige, infatti, fu scoperta nel 1965 da un assessore della provincia di Genova, il quale si trovava in loco proprio per effettuare un sopralluogo della strada, allora in fase di costruzione. Il gigantesco volto presenta sicuramente i tratti fondamentali del viso umano: occhi, naso, mento, una sorta di busto e qualcosa sul lato destro che alcuni dicono essere capelli ma che, a mio parere, vuole rappresentare un orecchio. Dopo la “scoperta” del colosso, si venne a sapere che gli indigeni lo conoscevano già e che ci vedevano il volto di Cristo, la cui costruzione era attribuita ai monaci che un tempo abitavano l’abbazia di S. Andrea, in funzione di ex voto. A tutt’oggi, la scarsa segnaletica locale lo indica come “Volto di Cristo megalitico”. Tuttavia, visitando il sito, si comprende come quest’ipotesi sia infondata, sia per la posizione e per l’orientamento, sia per la tipologia di lavorazione dell’opera. La lavorazione è, infatti, molto primitiva e i tratti somatici sono resi solo rozzamente, scevri di particolari o caratteri individualizzanti. Anche la posizione del volto, non visibile da Borzone o dall’Abbazia e posizionato “di spalle” a entrambi, non fa certo pensare ad una pia opera di monaci. La conservazione del manufatto, infine, lascia pensare che esso sia veramente molto più antico di quanto la memoria orale cristianizzata ricordi. Alcuni studiosi, infatti, lo avrebbero datato al Paleolitico Superiore (20000 – 12000 a.C.), trovando una compatibilità con le tecniche di lavorazione di quell’epoca. L’ipotesi, assai affascinante, si sta facendo largo, pian piano, tra quei pochi che si sono interessati al Volto. Si tratta sicuramente di un’ipotesi fondata anche se, per ora, indimostrabile poiché, come al solito, l’archeologia ufficiale non si è minimamente interessata a condurre ricerche in questo senso. Un’opera di questo calibro trova al mondo soltanto due simili, uno in sicilia, a Petralia Sottana, dove sono state identificate titaniche sculture su pareti di roccia viva e l’altro agli antipodi, in Nuova Zelanda, chiamato Colosso di Whangape. Il Volto di Borzone è stato ricavato in uno sperone di roccia, sul lato nord, tramite l’asportazione di materiale. Il naso, il mento e l’orecchio, infatti, sono stati rappresentati in rilievo, eliminando il materiale intorno. Stessa cosa vale per l’occhio destro, mentre il sinistro appare in negativo, cioè concavo; l’effige appare priva di bocca. Sotto al mento si nota, invece, una prosecuzione della lavorazione, forse per rappresentare una sorta di busto o petto che, comunque, apparirebbe molto sproporzionato rispetto alla testa. Di fianco al mento, sulla sinistra, potrebbe esserci un altro nucleo iconico scolpito, che appare in rilievo, anche se è difficile comprendere cosa rappresenti e di che natura sia. Anche in basso, poco sotto il “busto”, potrebbe esserci una parte lavorata dall’uomo, che spicca per la sua convessità ma, anche in questo caso, è arduo ipotizzare un’interpretazione. Sulla sinistra dell’opera, invece, è possibile osservare un ampio distacco del blocco roccioso su cui essa è scolpita, rispetto alla roccia madre. Questo fenomeno ha dato origine ad una fessura che si collega con il retro, attraverso cui filtra la luce, che alcuni hanno interpretato come un tentativo di tridimensionalità o, almeno, di prosecuzione della scultura. Personalmente, non sono d’accordo con questa ipotesi in quanto il fenomeno appare del tutto naturale e, inoltre, la situazione geologica potrebbe essere stata ben diversa nel Paleolitico. Direi che si potrebbe dividere l’opera in diverse parti: 1. La linea del volto, che definisce il mento e arriva fino alle tempie, disperdendosi poi nella roccia grezza sopra gli occhi, delineando una ampia fronte 2. Gli occhi, di cui il sinistro in negativo e il destro in rilievo 3. Il naso e la linea delle sopracciglia 4. L’orecchio 5. Il “busto” o comunque la lavorazione sottostante il mento 6. La scolpitura alla sinistra del mento, di dubbia natura 7. La scolpitura sotto al “busto”, anch’essa di dubbia natura Si noti, inoltre, che il Volto è segnato da due vistose scanalature orizzontali, forse di origine erosiva, poste a sinistra del naso. L’azione erosiva frontale è evidente e, forse, potrebbe aver cancellato una lavorazione della bocca, originariamente esistente. È assai arduo dare una interpretazione all’effige, affermare se si tratti di un volto maschile o femminile. I tratti sono essenziali, manca qualsiasi segno di espressività e caratterizzazione. È stato supposto, come sempre, che si tratti del volto di una divinità, anche se tale ipotesi è del tutto opinabile. Potrebbe trattarsi di un volto apotropaico, come i tanti – di più ridotte dimensioni – che si possono osservare in molti borghi della Liguria. Potrebbe essere legato a funzioni funerarie, potrebbe essere molte altre cose. I termini di paragone mancano del tutto e gli studi sono ancora agli albori. In ogni caso, credo non sia illogico affermare che, verosimilmente, il Volto doveva essere visibile dal luogo di insediamento dei suoi creatori e forse il suo sguardo doveva vegliare proprio sulla comunità. Se questo è vero, allora l’accampamento paleolitico a cui appartenevano i creatori del Volto doveva trovarsi dove oggi si trovano gli abitati di Perlezzi e Sopralacroce. In ogni caso, la zona è ricca di grotte ed anfratti naturali ancora inesplorati che, forse, custodiscono tracce preziose del passato. Attualmente, il Volto è sconosciuto alla maggior parte delle persone. Ciò è dovuto all’assoluta mancanza di interesse da parte delle istituzioni locali a pubblicizzarne l’esistenza. A monte di questo, credo ci sia una mancanza di coscienza del patrimonio nostrano che, in questo modo, non viene riconosciuto e, quindi, valorizzato. Cosa piuttosto triste se pensiamo che il Volto Megalitico di Borzone è la più grande scultura rupestre d’Europa e, forse, del Mondo.

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