• 11 Set

    Il profeta e la pianta di ricino


    Lectio di Giona 4,5-11


    di p. Attilio Franco Fabris

    Un aforisma afferma: “Ogni  volta che mi guardo allo specchio mi convinco sempre più che Dio ha un ottimo senso dell’umorismo”. Non so se condividiamo questa intuizione: forse facciamo fatica a riconoscerci in essa perché un po’ tutti, piccoli aspiranti Narcisi, siamo sempre tentati di prenderci troppo “sul serio”. A questo proposito il romanziere Herman Hesse amava ripetere che: “Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere sul serio se stesso”. Quando l’uomo pretende di essere l’“ombelico del mondo”, quando vorrebbe essere cioè al centro di tutto e di tutti, riverito e applaudito, quando nella sua arroganza ritiene di dover assurgere al compito di giudice d’ogni cosa, quando è incapace di perdere allora manca di un sano realismo. Non sa vedersi cioè allo specchio per quel che è veramente. Questo è stato, come vedremo, il dramma del nostro povero Giona incapace di ridere di sé e di condividere il sorriso di Dio su di lui e sul mondo.

    Diceva Nathaniel Emmons che: “La pazzia distrugge la ragione, ma non l’umorismo”. Guardarci allo specchio attraverso gli occhi di Dio ci rinsavisce e fa tornare il sorriso sulle labbra e negli occhi perché ci introduce ad un sano umorismo che, alla fin fine, è una buona capacità di vivere il reale di sé, degli altri, delle situazioni, di Dio stesso che ride del riso di Sara (Gn 18,13). L’umorismo lo possiamo ben definire allora una delle virtù necessarie ad una vita autenticamente spirituale! È segno della presenza dello Spirito.

    Chiediamo allora allo Spirito il dono di saperci guardare allo specchio un po’ più spesso, un’occhiata di tanto in tanto al di fuori di noi stessi, ovvero  con una vena di sano umorismo: “I nostri occhi, o Spirito del Signore, avevano perduto la lucentezza di un tempo. Il sorriso s’era spento sulle nostre labbra tese. Il nostro sguardo s’era fatto anch’esso opaco e privo di gioia. E non potevamo più vedere oltre il campo ristretto dei nostro meschini interessi. Ma tu ci hai guarito gli occhi, li hai resi  trasparenti e sereni, occhi pieni di pace e comprensione. Hai allargato le labbra al sorriso che si fa accoglienza e perdono. Lo sguardo è stato  reso capace di riconoscere il sorriso e la pace  di Dio sul mondo”.

    Lectio

    Giona è chiamato da Dio a predicare la “penitenza” nella città di Ninive. Questa immensa città “lunga tre giorni di cammino”(3,3) è la capitale del regno assiro, e nella Bibbia è considerata l’emblema del mondo pagano (cfr Nm 3,7; Sof 2,13), città crudele e nemica acerrima del popolo d’Israele. (In questa metropoli straniera è ambientato anche il libretto di Tobia). Il compito che Dio affida a Giona non va assolutamente a genio al nostro protagonista: così lo vediamo imbarcarsi non verso la meta indicata ma esattamente in una linea di crociera che lo porta nella direzione opposta: la sua meta è addirittura la città di Tarsis che si trova in Spagna (1,1-3) ovvero il più lontano possibile da Ninive! Giona vuole scansare ad ogni costo l’incarico affidatogli che gli suscita da un lato timore e da un altro disapprovazione: da quando ora si deve predicare al nemico? Nella sua piccola testa non entra neppure l’idea della possibilità di una conversione della città avversaria; accettarne la possibilità metterebbe infatti troppo a rischio le certezze della “sua” religione!

    Mentre il nostro Giona è in fuga succede quella confusione che sappiamo: si scatena una terribile e inspiegabile tempesta.  C’è il pericolo che tutti affoghino (cfr. 1, 4) e continuare su quella rotta sarebbe solo una decisione insensata. In un barlume di lucidità Giona riconosce davanti ai marinai di aver peccato contro il suo Dio chiedendo perciò di essere buttato a mare (cfr. 14). Seppur a malincuore costoro allora lo gettato tra i flutti (cfr. 115) dove viene inghiottito provvidenzialmente – tra lo stupore dei lettori e prototipo del collodiano Geppetto – da una balena che lo ospita un po’ scomodamente a dir la verità nel monolocale del suo ventre (cfr. 2, 1).

    Nel buio pesto della pancia del cetaceo a Giona passa la voglia di mettersi a discutere con Dio.  Adesso in preda all’angoscia si mette a pregare e a scongiurare perché l’abisso della morte, che lo circonda da ogni parte senza che lui ne possa sfuggire (2,2), non lo travolga: “Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre(2,6s). Giona prende coscienza che la conseguenza del suo essere fuggito dalla sua missione e a voler far di testa sua è il ritrovarsi ora nelle profondità del mare, ovvero nell’inferno.

    Ma Dio “dopo tre giorni e tre notti (2,1)  gli fa dono della salvezza liberandolo dal suo “carcere” (2,3): Giona ributtato a riva, almeno per ora, è riconciliato con Dio e con la vita. (cap 2,11). E Jahvé dopo la salutare lezione gli rinnova il mandato della predicazione a Ninive. Gli sarà servita la tremenda lezione e l’esperienza di essere stato gratuitamente salvato?

    Per ora Giona sembra convertirsi e accettare il suo mandato. Così, pur non cambiando idea circa i pagani (cf 2,9), egli svolge la sua predicazione “forzata” nell’immensa metropoli. La sua parola ovviamente non può che essere fatta se non di minacce di castighi tremendi da parte del “suo” Dio: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!” (3,4). Guarda caso non gli passa minimamente per la testa di annunciare alla città la possibilità della conversione e quindi della salvezza! Lui ha già prestabilito il risultato.

    Ma la meraviglia è che ciò che tutti i profeti non hanno ottenuto per secoli con il popolo di Israele qui si produce all’istante: vi è una conversione generale, nessuno è escluso! Anche gli animali si convertono!  “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (3,10).

    La risposta di Dio è evidente… ma non per Giona!  La sua coscienza è ottusa e piccina: non era questo il risultato da lui aspettato e sospirato! Di fronte alla conversione dei nemici il testo biblico annota cheGiona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (4, 1). È talmente irritato e deluso da invocare la morte: se Dio è così, non vale più la pena di vivere (4,2-3). Meglio infatti la morte che spartire privilegi con altri ancor più se pagani e incirconcisi! Se non c’è più alcuna distinzione a cosa serve essere credenti e ancor più profeti? Cosa ci si guadagna? Tanto vale…

    Ed eccoci al nostro brano. Alla domanda postagli da Dio: “E’ giusta la tua collera?”” (4,4) il nostro protagonista non risponde e a testa alta, impettito e tutto corrucciato e sdegnato, pieno di acredine verso i neoconvertiti e Dio che li ha assecondati esce solennemente dalla città. Non trova di meglio che armare una piccola baracca di frasche e seduto mettersi ad aspettare: che cosa? Ovvio! Che Dio cambi idea.  Chissà! E così pregustare finalmente lo spettacolo pirotecnico della distruzione della città nemica. Ma Dio, a suo dispetto, non cambia affatto la sua decisione.

    Dio “procura” (v.6) invece una pianta di ricino (qiqaion) che provvidenzialmente cresce proprio dietro le spalle di Gíona offrendogli un po’ d’ombra “e liberarlo così dal suo male” (v.6) ovvero dalla sua “incavolatura”. Servirà questo gesto gentile da parte di Dio a mandargli via il cattivo umore e fargli cambiar idea?  In effetti Giona è molto contento di quella pianta: provò una grande gioia per quel ricino” (v. 6).

    Ma il giorno dopo, di mattina presto, Dio con fine ironia “provvide” (v.7) un dispettoso vermiciattolo che si mette di lena a corrodere la radice della povera pianta che si affloscia in pochi istanti seccandosi sotto il sole cocente.  Come non bastasse: “quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona”. Tutto ora sembra cospirare contro il povero profeta con spiacevoli risultati…insolazione, svenimenti e un terribile mal di testa. Oramai, mezzo incosciente e profondamente irritato, a motivo di una provvidenza che avverte ingiusta nei suoi confronti, Giona “si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere» “ (4, 8). È  “irritato a morte” per il ricino seccato come lo era per la provvidenza benevola di Dio verso Ninive! Non vede altre vie d’uscita!

    A questo punto Dio, da buon pedagogo paziente con un allievo testardo, tenta la possibilità di un cambiamento nella coscienza ottusa del  nostro Giona. Ritenta la stessa domanda fattagli precedentemente ma in altra forma “Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!» (4,9) Niente da fare! Giona non capisce o… non vuol capire!

    La domanda posta dal Signore è un invito rivolto a Giona, mandato a predicare la conversione a Ninive, perché, ironia della sorte, lui stesso profeta si avvii verso la strada di una sincera conversione al fine di assumere un cuore misericordioso come quello del Dio vero e abbandoni l’immagine balorda del “suo” dio: “Ma allora, tu ti addolori a causa di una pianta, per la quale non hai fatto nulla, che tu non hai piantato, né hai fatto crescere, che è nata in una notte e in una notte è morta; e io, invece, non dovrei aver pena di centoventimila esseri umani, che non sanno neppure distinguere la mano destra dalla sinistra e che vivono come bestie?  Uomini che io stesso ho creato! Giona, sei un grande egoista e il tuo egoismo ti acceca l’intelligenza! » (cfr. 4, 10-11).

    La parabola di Giona finisce qui mettendo allo scoperto attraverso una sana ironia, lo stridente contrasto che c’è nella coscienza del profeta. Quale la reazione finale di Giona?  Si sarà convertito? Avrà avuto il coraggio di cambiare modo di intendere Dio e la religione? Si sarà messo alla fine a ridere di se stesso e  a farsi una bella risata rappacificatrice con Dio? La  risposta a questo punto è rimandata a ciascun ascoltatore e sarà probabilmente ogni volta differente. Ma anche questo è umorismo!

    Collactio

    La storia di Giona non è una storia ma piuttosto una parabola in grado di descrivere e affrontare in modo ironico, (la Bibbia è capace anche di questo!), le nostre piccinerie e resistenze alla volontà di Dio che fortunatamente  ha vedute più larghe delle nostre. Esso ci invita al sorriso, a un guardare – attraverso l’avventura di Giona – le nostre stesse vicende e peripezie che rischiamo di vivere con la sua stessa ottica. Abbiamo tutti bisogno di vedere i nostri “drammi” o presunti tali, i nostri “problemi”, le nostre situazioni ingarbugliate da un altro punto di vista, diverso dal nostro, e che sia capace di “sdrammatizzarle” ovvero di riportarle a verità, alla loro giusta dimensione. Troppe volte infatti ci intestardiamo sulle nostre posizioni che, come Giona, ovviamente riteniamo le migliori e quelle giuste. Così accade che troppe volte ci si ripieghi su se stessi, sulle proprie tristezze e arrabbiature, ribelli come siamo a metterci davanti allo specchio della Parola, dei fratelli, e della nostra… coscienza.

    Se facciamo attenzione l’umorismo, il motto di spirito, la barzelletta hanno come funzione proprio lo smontare, lo smascherare, attraverso il paradosso, la presunta certezza con cui rivestiamo spesso la vita e i fatti. Di conseguenza se dovessimo definire Giona lo descriveremmo con la tipologia dell’uomo incapace di umorismo, è reazionario (i reazionari e i dittatori, non ridono mai!), fermo sulle sue posizioni che considera definitive. Per lui tutti sbagliano e tra questi pone anche Dio. Lo vediamo discutere con Dio sul compito che dovrebbe assumere nella vita degli uomini. E bisogna avere un grande coraggio e una gran faccia tosta per mettersi a discutere con Dio! Ma il suo coraggio lo possiamo identificare come ignoranza e di stupidità. Fa’ ridere! È profeta testardo il quale pensa che Dio debba essere soltanto il Dio del popolo ebreo e non degli altri popoli credendo che compito della religione sia quello di mantenere e difendere la situazione che lui ha già stabilito: i niniviti sono pagani e dunque cattivi e impenitenti perciò vanno distrutti, lui e il suo popolo sono invece gli unici buoni e ben accetti a Dio e sono degni di essere salvati Dio non si comporta come dovrebbe comportarsi e Giona è deciso a fargli sentire tutto il suo sdegno e preferisce morire piuttosto che… cambiare! E in questa caparbietà autodistruttiva, un po’ triste a dir la verità, è racchiuso tutto l’umorismo del libro.

    Giona risulta alla fine meschino perché possiede l’incredibile capacità di non vedere l’evidenza dei fatti; è un profeta fallito perché manca al suo ruolo essenziale che è quello di comprendere i segni dei tempi che dovrebbero parlare non solo e anzitutto agli altri ma anche a lui stesso.

    Non a caso l’autore allora nel racconto ci presenta, come contrapposizione (nella dinamica dell’umorismo la contrapposizione è essenziale), tutti i vari personaggi come buoni: i marinai stranieri che fanno di tutto per non gettare in mare Giona, il re di Ninive che si converte con tutta la città, anche gli animali appaiono buoni e indulgenti. Fra tutti l’unica figura dura e intransigente è Giona, per molti aspetti molto simile alla figura del “fratello maggiore” delineato dalla parabola del “Figlio prodigo” che non riesce a gioire per la misericordia e l’amore del “Padre” per i suoi due figli. Anche in questa parabola, guarda caso, l’unico capace di sorridere e di sdrammatizzare è il Padre.

    Ben venga dunque nella nostra esperienza spirituale una saggia dose di sano umorismo che ci aiuti a ridimensionarci, a guardare le cose da un diverso punto di vista, a non impuntarsi sulle nostre posizioni, a  sorridere delle nostre e altrui fragilità rendendoci un po’ più simili all’immagine di Dio. L’umorismo è una sorta di valvola di sicurezza che ci preserva dal rischio del mettere in pericolo l’autentico rapporto con sé stessi, gli altri, il mondo; una buona battuta, una barzelletta gentile opera “qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore” (H. Bergson), ovvero ci permette, attraverso l’empatia che produce, di identificarci con la persona o l’oggetto del riso esorcizzando in noi il rischio di cadere nella stessa trappola. In questo senso l’umorismo è uno svelamento, spesso improvviso e inaspettato (es. la conclusione di una barzelletta) di ciò che si può nascondere nel più profondo del cuore di tutti noi. Un piccolo Giona potrebbe abitare di nascosto come nel ventre della balena anche in te che stai leggendo! Ti fa sorridere, ma è la morale del libro! Così l’uomo che si crede maturo e rispettabile appare incompleto, mancante, bisognoso. L’umorismo, non dimentichiamolo, è un dono che Dio ha fatto solo all’uomo! Avete mai visto una gallina o un gatto ridere?  Gli animali non possono ridere per il semplice fatto che non hanno coscienza di sé e dunque non possono guardarsi dall’esterno. Diceva Henri Bergson: “Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”.A noi dunque l’imparare e il permetterci di sorridere benevolmente di noi e degli altri: “l’uomo saggio sorride appena in silenzio” (Sir 21,20).

    Ma non confondiamo mai il sano umorismo con l’ironia cinica e cattiva, con la battuta feroce e crudele, che si prefigge solo l’umiliazione dell’altro. Questa è una ferita che si infligge e fa sanguinare! Il vero umorismo invece è capace di ridere “con” l’altro: è un’opera di guarigione perché alleggerisce la vita e toglie il peso dal cuore. È  una specie di oasi, un punto di ristoro che ci permette di riprendere fiato e forza e continuare poi con allegrezza il cammino spesso pesante e grigio delle nostre giornate.

    Comprendiamo allora perché anche agli  austeri monaci del deserto Giovanni Climaco raccomandava la capacità di mantenere sempre la capacità di sorridere al fine di non lasciar spazio al diavolo nel proprio cuore. Nella sua “Scala Paradisi” scrive: “State sempre allegri nel Signore, o servi di Dio; riconoscendo in questa gioia il primo segno dell’amore di Dio per voi, e dell’avervi egli chiamati.”

    Oratio

    Al termine del nostro itinerario all’interno della storia di quella testa dura che è il povero Giona, non possiamo non chiedere al Signore di farci sorridere sempre e di mettere al bando quelle tristezze e piccinerie che tante volte appesantiscono le nostre giornate. Nel sorriso colmo di misericordia e di pace scopriremo la presenza e l’azione fantasiosa e sempre nuova dello Spirito: “Beati quelli che sanno ridere di se stessi: non finiranno mai di essere allegri. Beati quelli che sanno distinguere un ciottolo da una montagna: eviteranno tanti fastidi. Beati quelli che sanno ascoltare e tacere: impareranno molte cose nuove. Beati quelli che sono attenti alle richieste degli altri: saranno dispensatori di gioia. Beati sarete voi se saprete guardare con attenzione le cose piccole e serenamente quelle importanti: andrete lontano nella vita. Beati voi se saprete apprezzare un sorriso e dimenticare uno sgarbo: il vostro cammino sarà pieno di sole. Beati se saprete interpretare con benevolenza gli atteggiamenti degli altri anche contro le apparenze: sarete giudicati ingenui, ma questo è il prezzo dell’amore. Beati quelli che pensano prima di agire e che pregano prima di pensare: eviteranno tante stupidaggini. Beati soprattutto voi che sapete riconoscere il Signore in tutti coloro che incontrate: avete trovato la vera luce e la vera pace” (Da un manoscritto della Certosa di Padula)

    Posted by attilio @ 13:07

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