• 13 Ago

    Assetati di felicità

    Lectio dal Qoelet  2,1-11

    di p. Attilio Franco Fabris

    1 Mi son detto: «Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione». Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto. 2 Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. 3 Allora ho cercato il piacere nel bere, ma senza perdere il controllo. Mi son dato alla pazza gioia. Volevo vedere se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita. 4 Ho fatto anche grandi lavori. Ho fabbricato palazzi, ho piantato vigneti. 5 Ho costruito giardini e parchi, dove ha piantato ogni qualità di alberi da frutto. 6 Ho costruito serbatoi d’acqua per irrigare quegli alberi. 7 Ho comprato schiavi e schiave; avevo molti servi in casa mia, possedevo moltissimi buoi e pecore, più di tutti i re di Gerusalemme. 8 Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti. Ho fatto venire nel mio palazzo cantanti e ballerine: per i miei piaceri, tante belle donne. 9 Insomma, ero diventato più ricco e più famoso di tutti i miei predecessori di Gerusalemme. Per di più, non ho mai perso la testa! 10 Ho soddisfatto ogni mio desiderio; non ho rinunziato a nessun piacere. Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche. 11 Ho tentato di fare un bilancio di tutte le opere che avevo fatte e della fatica che mi erano costate. Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento. In questa vita sembra tutto inutile.

    (traduzione interconfessionale)

    Perché tanto malessere nella società del… benessere? E’ un interrogativo che si affaccia ripetutamente nella mente di chi possiede ancora – speriamo –  il dono di interrogarsi sulla vita e di non semplicemente “lasciarsi vivere”. Il benessere dovrebbe portare con sé, secondo la nostra “mitologia” culturale, la felicità. Più benessere equivale a più felicità! E chi non desidera essere felice? Così si crede di trovare appagamento in quella vacuità proposta dal consumismo. Ciò che si crede appaghi il cuore è riempirlo di “cose” sempre nuove, di sempre nuove “esperienze”. Ma, ahimè! Come un miraggio nel deserto la felicità è sempre più in là, all’orizzonte sempre irraggiungibile. Così l’insoddisfazione diviene il comun denominatore dell’esperienza umana.

    Noi vogliamo leggere tutto questo non in chiave negativa ma come un’opportunità, un richiamo che spinge il cuore a cercare più a fondo e più in verità. Una sana insoddisfazione si tramuta allora in occasione di grazia, nella quale lo Spirito può suggerire alla nostra coscienza di cercare la “perla preziosa” che ci farà veramente felici: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” canta il salmo 36 (v.3).

    Che il Soffio divino di Dio apra ora le orecchie del cuore ad accogliere il dono della Parola che sarà luce nel nostro cammino di ricerca: Spirito della gioia, noi crediamo che ci sei dato per educarci alla gioia vera, per formarci alla gioia della carità e del servizio, per comunicare a tutti la tua gioia piena che non avrà mai fine. Amen.

    Lectio

    Qoelet – la tradizione lo identifica con lo stesso re Salomone – è un uomo che al termine della sua vita ripercorre tutta la sua lunga esistenza spesa nella ricerca della sapienza apportatrice di felicità. Egli cerca di trarne una valutazione finale: Qoelet ci appare come un uomo che nei confronti della vita ha acquisito uno sguardo a dir poco “disincantato”: “Vanità delle vanità, tutto è vanità e un inseguire il vento”(1,2). Dove la parola “vanità” (ebr. hebel) indica il respiro che si condensa fuggevolmente sullo specchio per poi subito svanire evaporando. Ovvero: nella vita nulla possiede un valore eterno e una consistenza, tutto prima o poi precipita inesorabilmente nell’oblio dello Scheol. Come definire allora il nostro autore: un pessimista e un cinico? Difficile trovare una connotazione adatta. Egli sembra sfuggire a qualsiasi collocazione: forse è semplicemente un uomo capace di penetrare con estrema lucidità e realismo nelle contraddittorie trame della vita.

    Qoelet ha potuto toccare con mano l’inutilità di tutti i suoi sforzi per sfuggire ad un’amara e continua insoddisfazione. Nel suo animo torna incessante l’interrogativo che non gli lascia tregua: può l’uomo eludere l’assurdità con cui la vita gli si presenta? Le promesse della vita alla fine non gli si sgretolano inesorabilmente tra le mani? Non rimane forse solo una nausea insopportabile per ogni cosa, un senso amaro di fallimento? Cosa rimane terminata la festa che illude con le sue promesse di gioia straripante? Solo un senso di vuoto e di cenere.

    Qoelet ha cercato la felicità in ogni direzione. Ha tentato dapprima nella linea della sapienza trasmessa dagli antichi, si è posto alla loro scuola, si è confrontato con essi, ha accolto il loro ammonimento di fuggire la stoltezza: “La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;l’uomo prudente cammina diritto” (Pr 15,21). Ma alla fine egli rimane perplesso, se non deluso. Di fronte alla consapevolezza che il sapiente e lo stolto alla fine scenderanno entrambi nello Scheol e nessuno di loro sarà ricordato il nostro autore costata amaramente: allora a che serve la sapienza? Nulla ricompensa la fatica estenuante a cui l’uomo ha sottostato per giungere alla sapienza (cfr 1,3). Anzi, la sapienza reca con sé una sofferenza ulteriore che scaturisce da una maggior consapevolezza della propria insoddisfazione: “Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza, e, se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore” (1,18). Allora quale vantaggio se ne ricava perseguendola?

    Tuttavia Qoelet non desiste, non si arrende. Egli vuol cercare altrove tentando nuove piste. Il suo progetto a questo punto si fa temerario: egli decide di percorrere addirittura la via della stessa stoltezza. Forse qui scoprirà una risposta. Dandosi ai piaceri della vita il cuore troverà finalmente pace e appagamento?

    E giungiamo così al nostro testo.

    Mi son detto: Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione”(v.1). Teniamo presente che non si tratta di una ricerca sconsiderata; Qoelet “sa”, è “consapevole” che sta cercando una risposta alla sua insoddisfazione proprio nella “stoltezza”: “senza perdere il controllo” annota egli quasi compiaciuto. Decide così con lucidità di percorrere una strada alternativa quasi fosse un osservatore esterno in ascolto delle risonanze del cuore. Vuole costatare “se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita”(v.3).  Sono “i giorni contati” che lo assillano, la breve vita scorre inesorabile e l’uomo angosciato cerca qualcosa che dia ad essa senso e gioia.

    Inizia col buttarsi nel vino e nella “pazza gioia”. Il vino ha la capacità di mettere allegria e di far dimenticare: ma si tratta di un’allegria vuota, che ha solo l’effetto di stordire. Il risultato è la constatazione che: “il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente”(v.2).

    Vista l’inutilità di questa pista eccolo tentarne subito un’altra: gettarsi sull’attività frenetica, sul  lavoro, nella costruzione di grandi opere “faraoniche” che diano la sensazione di essere protagonisti e persone di successo capaci di realizzare qualcosa che resterà nel tempo. Qoelet può affermare con una certa qual fierezza: “Ho fatto anche grandi lavori” (v.4).  Ha fatto costruire “grandi palazzi”, piantare grandi “giardini” (lett. “paradisi” v.5), innaffiati con immense “cisterne d’acqua”.  Per coltivarli si procura ovviamente schiere di “schiavi e schiave più di tutti i suoi predecessori in Gerusalemme” (v.7).

    Dopo aver realizzato tutto questo il cuore rimane tuttavia ancora insoddisfatto. Altra pista: “Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti” (v.8). I “tesori di re” sono i frutti delle battaglie vinte, mentre i tesori “dei governanti” sono i tributi degli stati vassalli. La nuova strada alla ricerca della felicità è dunque incrementare all’inverosimile la propria ricchezza. In effetti il denaro non offre un senso di onnipotenza? Con esso l’uomo può accaparrarsi qualsiasi cosa, si illude di poter comprare con essa anche la felicità. Ma già il salmo 48 accennava alla stoltezza del gettarsi nell’illusione della ricchezza: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (v 9).

    Quale pista rimane? Se stordimento, successo e denaro non sono serviti allora non resta che tentare la strada dei piaceri e del sesso. Ecco il nostro Qoelet circondarsi allora di una corte gaudente e di “tante belle donne” (v.8; cfr 1Re 11,3). Trascorrere le giornate tra musica, balli e piaceri riempirà finalmente il suo cuore?

    Alla fine Qoelet può ben affermare a ragion di causa: “Ho soddisfatto ogni mio desiderio”. Non si è negato nulla! Ha provato di tutto pur di trovare una risposta alla sua insoddisfazione.

    Ma quale la sua risposta finale? Da un lato egli afferma solo un unico guadagno: una certa soddisfazione per ciò che è riuscito a realizzare: “Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche”(v.10).  Ma dopo questa considerazione ecco riaffacciarsi con lucidità spietata il solito e lucido ritornello: “Ma ho concluso che tutto è vanità” (v.11). Sì c’è un guadagno in ciò che si è riusciti a fare con le proprie forze, ma tutto questo a che scopo? L’agire umano, il suo agitarsi, il suo affannarsi alla fine gli risulta senza senso. Chi sa quel che all’uomo convenga durante la vita, nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra?” (6,12).

    La tesi finale di Qoelet sarà che pur ricercando il bene, sola cosa che conta, il cuore dell’uomo rimane insoddisfatto. Il discorso rimane aperto perché rimane una nostalgia di assoluto che attende una rivelazione ulteriore, una nuova possibilità che Qoelet non può ancora intravedere.

    Collatio

    Il libro del Qoelet è un libro attualissimo, può essere dato in mano all’uomo di oggi che vi si rispecchierà alla perfezione. Come Qoelet egli può, in questa nostra società del benessere ammalata di un indefinito malessere, avere tutto, provare tutto… rimanendo, a quanto pare, sempre insoddisfatto. Non è felice anche se la sua vita è piena di “cose”, di nuove opportunità.

    Come bambini scontenti vogliamo giocattoli sempre nuovi: le novità per un certo tempo mettono a tacere il nostro vuoto, le paura, l’ansia. Ma ben presto le “novità” cessano di essere tali e l’insoddisfazione, inesorabile e appiccicaticcia compagna di viaggio, si riaffaccia bussando alla nostra porta e pretendendo un nuovo appagamento in un inesauribile circolo vizioso. Nelle nostre città dove sono offerti a cascata miriadi di svaghi, di divertimenti e di piaceri i volti rimangono nonostante tutto tristi, tirati, fuggevoli, chiusi. Alla fine la vita diviene insopportabile perché sembra tradire quella sete di felicità sempre inappagata: “In questa vita sembra tutto inutile” (v.11) ricorda, scotendo il capo, il nostro Qoelet..

    Vi è il più delle volte un’allegria sguaiata che è una gioia falsa: una maschera della felicità. Essa cerca di nascondere miseramente il vuoto e l’angoscia che si cerca a forza di mettere a tacere, schiacciare, rinchiudere come il bagaglio in una valigia troppo piccola. E quando questa falsa allegria svanisce come “hebel-soffio che svanisce” l’uomo si trova attanagliato dalla noia dalla quale non riesce a fuggire. Non sa più cosa volere e cosa cercare: “Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione. Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto” (v.1). Qoelet è annoiato. Ma cos’è la noia, chi è la sua “infelice madre”? La psicologia insegna che essa è figlia di un rifiuto inconsapevole di un “qualcosa”. Questo rifiuto inconscio crea un vuoto che non è rimpiazzato da nulla se non dalla… noia appunto che sola rimane conscia.  In un testo conciso lo scrittore francese Antoine de Saint Exupery diceva: “E lavorano nella noia /  nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose / e tutto manca”. “Tutto manca” e la noia come un campanello rosso d’allarme segnala un vuoto al quale non si riesce a dare un nome. Rimane l’infelicità: fortunatamente! perché questa può trasformarsi in un richiamo a qualcos’“altro”, impedendoci di sprofondare nella voragine disperata del non senso. L’insoddisfazione allora, come accade a Qoelet, si trasforma in nostalgia di una pienezza di vita avvolta ancora nella nebbia, di un legame che tenga insieme finalmente il tutto: “nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose”.

    A questo punto diamo atto al coraggio della ricerca di Qoelet che non si ripiega su se stesso e sulla propria infelicità. Ha il coraggio di rimanere in ascolto della propria insoddisfazione, non la nega, non la tarpa, ma accondiscende alla sua richiesta che lo spinge a cercare oltre: “Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. Allora ho cercato…” (v.2s).

    Non teme di  percorrere le strade più diverse al fine di trovare una risposta che appaghi finalmente il suo cuore. A questo scopo l’alcol, il sesso, il denaro, il successo divengono percorsi, anche se infruttuosi, di una ricerca consapevole di senso, di felicità. Tutte queste strade per Qoelet si trasformano in successivi – e provvidenziali! – trampolini di lancio per una ricerca che lo costringe ad andare  sempre più in profondità al proprio cuore. E il cuore reclama l’infinito.

    Sant’Agostino afferma più volte che il cuore dell’uomo è stato creato a misura dell’infinito che è Dio stesso. Egli inizia il libro delle sue “Confessioni” con una delle sue frasi lapidarie, riassuntive di tutta un’esperienza, che è un grido di preghiera: “Signore ci hai fatti per te, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te”. Inutile allora tentare di colmare il proprio vuoto mediante poveri espedienti umani che si riducono alla fine a inutili tentativi di riempirlo di “cose”. Il cuore  mai potrà essere colmato se non da ciò che è infinito: da Dio solo.  Non per nulla il santo appare come l’uomo più felice di questa terra: ha scoperto una gioia piena e infinita che nulla potrà mai turbare. Il monaco Landuino nell’elogio di san Bruno, fondatore della Certosa, poteva affermare di lui: “Sempre erat festo vulto – Il suo volto era sempre gioioso”.

    Il nostro Dio non vuole la sua creatura triste e annoiata: l’ha creata per la gioia che scaturisce dalla comunione nell’amore con lui e con i nostri fratelli. Non per nulla la gioia del regno è paragonata a un festoso banchetto e il primo miracolo di Gesù avviene forse proprio nel contesto gioviale di un pranzo di nozze? Fiodor Dostoevskij, nei “I fratelli Karamazov” fa dire a Mytia, uno dei protagonisti: Signore facci ricordare che il tuo primo miracolo lo facesti per aiutare degli uomini a far festa, alle nozze di Cana. Facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è sempre pieno della tua misericordia infinita”.

    Oratio

    Dio della mia gioia e del mio giubilo”: sono parole del salmo 42 e il credente, nel grigio e nella noia di tante strade percorse dall’uomo d’oggi, dovrebbe testimoniarlo.

    Signore, donaci allora la tua gioia, quella che hai promesso la sera di pasqua ai tuoi discepoli. Una gioia che nessuno potrà mai toglierci, perché non costruita sulla sabbia delle cose, dei ruoli, dei successi, ma sulla roccia certa che la nostra vita è ancorata alla tua, che tu ci hai fatti per te, per la vita, per la comunione con te. Facci scoprire che la felicità non sta nell’avere ma nel donare senza misura. E che nel dono di noi stessi, in questa partecipazione alla tua passione, possiamo sperimentare la gioia della vita nuova.

    Liberaci dalla tentazione di credere che saranno le cose di questo mondo a riempirci il cuore, liberaci da questa illusione. Fa’ che ti cerchiamo in verità con cuore indiviso, sostieni tu il nostro incerto cammino e la nostra faticosa ricerca: facci sin d’ora toccare con mano che solo tu puoi riempire totalmente il nostro cuore rendendolo capace di amore e di gratuità.

    Annunceremo così al mondo che tu hai colmato la nostra vita della gioia più vera “in misura colma e pigiata”, più di “quando abbondano vino e frumento” (Sal 42). La nostra gioia e il nostro sorriso diverranno testimonianza più di tante altre parole.

  • 12 Ago

    Nel villaggio multiculturale

    Lectio di Atti 8,26-40

    di p. Attilio Franco Fabris

    Volti di colori diversi, lingue diverse, diverse culture e religioni: il mondo va trasformandosi in un piccolo villaggio multiculturale. Ci incrociamo frettolosamente mille volte sulle nostre strade, ciascuno verso la sua meta. Ciascuno portando nel cuore insieme attese e speranze insieme a delusioni e talvolta grossi pesi di sofferenza. Tanti “perché?”che invocano una risposta che non si sa da dove possa giungere, affollano la mente della persona che incontriamo sull’autobus, al supermercato, o sulla metropolitana.

    Ma l’indifferenza se non talvolta il sospetto, la diffidenza o addirittura la paura impongono tra noi e i “diversi”, i “lontani”, una distanza di sicurezza, un allontanamento: innalziamo steccati e muri per difenderci da un presunto pericolo che l’ “altro” sembra inevitabilmente rappresentare.

    O Spirito del Signore risorto tu sei al lavoro in questa onnipresente e sempre incipiente Babele, tu pervadi ogni cosa: vuoi abbattere ogni distanza e indifferenza, vincere ogni timore, disintegrare ogni muro innalzato dalla nostra angoscia. Con la croce di Cristo tu vuoi disintegrare ogni barriera: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo” (Ef 2,14). In te le differenze si trasformano in meravigliosa ricchezza e varietà di doni che vicendevolmente ci arricchiscono. Tu desideri farci incontrare perché “i nemici si aprano al dialogo, gli avversari si stringano la mano, i popoli si incontrino della concordia” (Pregh. Eucarist. Riconc. II).

    Solo così ci trasformeremo in compagni di viaggio gli uni per gli altri. E  a tutti, noi discepoli di Gesù,  offriremo d’udire la sua Parola che salva, la sola capace di offrire vere risposte e aprire nuovi insperati orizzonti di cammino.

    Lectio

    Il vero protagonista si presenta subito nel testo: è lo Spirito del Signore, mediato dalla figura dell’ “angelo”. L’iniziativa dell’annuncio non appare come iniziativa dell’uomo ma dello Spirito del Signore stesso. Da parte dell’angelo vi è un preciso comando: “Alzati e va!” (v. 26).

    L’ubbidienza di Filippo è immediata, senza alcuna obiezione e resistenza. Quest’obbedienza è encomiabile perché umanamente il comando è ambiguo, appare come un controsenso: dirigersi infatti in una “strada deserta verso l’ora di mezzogiorno” significa rischiare di non incontrare nessuno perdendo il proprio tempo e spendendo inutilmente energie. Filippo parte e mentre il nostro è incamminato sotto il sole cocente di mezzogiorno “ecco…”: un senso di sorpresa e di attesa pervade improvvisamente il nostro racconto. Sta giungendo un carro sul quale c’è qualcuno che sta leggendo ad alta voce un rotolo di un libro.

    Il personaggio che Filippo incontra viene descritto con particolare minuziosità dall’autore degli Atti. Viene offerta all’ascoltatore una sua descrizione a vari livelli: etnico, religioso, sociale.

    In primo luogo viene detto che è un “etiope”: l’Etiopia è la nazione posta ai confini della terra abitata  e civilizzata, rappresenta “gli estremi confini della terra” (cfr 1Sam 2,10). Nei testi profetici è interessante notare come l’Etiopia sia nominata tra i popoli che Dio vuole condurre a Gerusalemme alla fine dei tempi. Lo stesso Gesù darà il mandato ai suoi di “essere testimoni fino ai confini della terra”. L’incontro di Filippo con l’etiope realizza così in germe questa promessa e attesa messianica.

    In secondo luogo ci viene presentata la sua fisionomia religiosa. Il nostro etiope è “venuto per il culto a Gerusalemme”. Probabilmente si tratta di quella categoria denominata da Luca col termine di “timorati di Dio”, sono i pagani simpatizzanti del giudaismo di cui accolgono il monoteismo e alcune indicazioni morali ma che non appartengono di diritto al popolo di Israele. Non si tratta dei “proseliti” che a pieno titolo potranno un giorno entrare nel popolo di Dio mediante il rito della circoncisione. Questa considerazione viene rafforzata dal fatto che egli è classificato come “eunuco”. E’ l’aspetto peculiare col quale Luca presenta insistentemente il nostro personaggio. Questa menomazione fisica nell’antichità era contrassegnata da grande disprezzo. Dal punto di vista religioso di Israele l’eunuco è una persona permanentemente impura e quindi esclusa irrimediabilmente dall’assemblea cultuale. Non mancano tuttavia alcuni riferimenti profetici nei quali affiora per i tempi messianici la possibilità che anche gli eunuchi possano un giorno far parte a pieno titolo del popolo dell’alleanza (cfr Is 56,3-8; Sap 3,14-15). E’ un personaggio che Luca sembra voler perciò affiancare a quei “disprezzati” e “ultimi” ai quali viene annunciata la Buona Notizia di Gesù.

    In terzo ed ultimo luogo il testo ci offre l’indicazione del suo “status” sociale:è  “funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori”. È quindi un uomo di alto rango, prestigio, cultura e ricchezza. Un rango e una ricchezza che non gli impediscono tuttavia di vivere in profondità una esperienza di “morte” interiore e di umiliazione arrecatagli dalla sua menomazione.

    L’annuncio di Filippo sarà proprio un invito ad affidare la realizzazione della sua vita non alle ricchezze e al prestigio sociale che possiede ma alla promessa del Signore.

    L’eunuco etiope è certamente rappresentativo dell’uomo in ricerca: egli sul carro sta leggendo il rotolo del profeta Isaia. Il diacono Filippo si mostra estremamente rispettoso di questa ricerca. Non la interrompe prepotentemente nell’ansia di inculcare certezze, non tenta di pilotare il discorso in direzioni precostituite. Egli sapientemente si introduce con una semplice domanda: “Capisci ciò che stai leggendo?” (v.30). La risposta è una richiesta indiretta di un aiuto che lo introduca, al di là della lettura, alla comprensione più profondo, diremmo esistenziale: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” (v. 31).  Non basta dunque leggere, occorre “comprendere”! Ecco allora Filippo proporsi come compagno in questo cammino di “comprensione”.

    Filippo tesse la sua opera di evangelizzazione a partire dalla Scrittura che viene a rivestire un ruolo centrale. Questo cammino che si dipana lungo la strada non sarà solo fisico, geografico, ma soprattutto interiore, un cammino che si trasforma in una forte esperienza di condivisione della Parola dalla quale sola può nascere la fede.

    Il testo di Isaia sul quale si impernia la condivisione è estremamente significativo; ci offre uno spiraglio per comprendere che tipo di evangelizzazione compie Filippo nei confronti dell’eunuco.

    Chiave di volta è la domanda rivolta dall’eunuco a Filippo: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?” (v. 34). Non è solo curiosità, egli probabilmente avverte che tale testo potrebbe parlare anche alla sua esperienza aprendogli uno spiraglio di speranza. Non a caso il brano offrirà la possibilità di introdurre l’ascoltatore alla centralità del mistero di umiliazione e esaltazione di Gesù di Nazareth e nello stesso di parlare di riflesso alla reale condizione dell’eunuco.

    Per giungere a tale scopo Luca estrapola dal testo di Isaia alcuni versetti tralasciandone altri al fine di porre in evidenza l’aspetto di umiliazione che rappresenta la morte violenta del Servo di Dio la quale sembra “recidere” drammaticamente e irrimediabilmente ogni sua speranza di discendenza (“la sua vita è stata recisa dalla terra”!). Nonostante questo dramma la potenza di Dio è in grado di ribaltare questa situazione in un rinnovato dono di vita. Ma allora non potrebbe tutto questo potersi riferirsi anche all’esperienza di morte e umiliazione che l’eunuco vive in sé nella sua impossibilità di generare? Egli fissando gli occhi sul Servo sofferente non potrebbe appellarsi ad una speranza di vita, di reintegrazione? L’annuncio di Filippo consisterà nel testimoniare Cristo crocifisso e risorto come promessa di realizzazione di tale speranza.

    Il cuore dell’etiope si apre all’ascolto e all’obbedienza della fede che da esso scaturisce. E’ un itinerario, un cammino di evangelizzazione – di catecumenato potremmo dire in altri termini – al termine del quale si pone come apice la richiesta dell’eunuco: “Ecco qui c’è dell’acqua: che cosa impedisce che io sia battezzato?” (v. 36).  Nella umiliazione della croce e nell’annuncio della resurrezione ogni impedimento può essere decisamente superato, il velo del tempio è stato infatti definitivamente strappato. La domanda dell’eunuco è un forte invito alla comunità cristiana giudaica a superare ogni resistenza, blocco, pregiudizio nella proposta dell’evangelizzazione a tutti i popoli, ad ogni uomo e donna in qualsiasi situazione essi si trovino.

    Filippo si mostra docile non opponendo riserve e resistenze: “e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò” (v. 38). Il momento sacramentale pone il sigillo sul cammino iniziatico svolto.

    Al termine le strade dei due si dividono: Filippo è nuovamente “rapito dallo Spirito” e trasportato esattamente alla parte opposta della terra santa: vi sono altri confini da superare, altri popolo da evangelizzare. Da parte sua l’eunuco prosegue la sua strada “pieno di gioia”: è la gioia di colui che ha udito, toccato e veduto la salvezza che gratuitamente in Cristo gli è stata offerta e che lo ha trasformato a sua volta in evangelizzatore.

    Collatio

    Il brano che narra dell’incontro e dell’annuncio dell’evangelo da parte del diacono Filippo all’eunuco etiope è di una ricchezza sorprendente.

    Il primo aspetto che si evidenzia è l’imprevidibilità di questo incontro che sembra nascere dal caso, ma che in profondità è da sempre pensato e progettato dalla Provvidenza di Dio. Anche nell’incontro più inaspettato, strano, imprevisto lo Spirito può agire perché, attraverso l’ascolto e il dialogo, sia offerta all’interlocutore la possibilità di udire la Buona Notizia. Non è un annuncio di massa, anonimo: qui si parla di un annuncio “personalizzato” che raggiunge la persona nella sua concreta e unica  situazione.

    Perché questo si attui necessitano due condizioni: la prima è che l’evangelizzatore, in questo caso Filippo, sia docile, si colga realmente come ministro di una Parola che non gli appartiene ma di cui è semplicemente servitore, e questo fa sì che egli assuma un atteggiamento di totale disponibilità, senza resistenze, pregiudizi, calcoli.

    La seconda condizione è che a sua volta l’interlocutore, in questo caso l’eunuco etiope, si lasci raggiungere dalla Parola, entri in una dinamica di ascolto, di dialogo e di confronto con essa, vincendo anche da parte sua resistenze, paure, pregiudizi.

    L’incontro narrato negli Atti è straordinario proprio perché queste due condizione si presentano, per così dire, allo stato puro. E la conclusione non può essere che una: l’annuncio gioioso da parte dell’evangelizzatore e l’accoglienza piena della Buona Notizia da parte del “catecumeno”.

    Riflettendo su questo incontro la nostra riflessione deve puntare sulla nostra capacità e disponibilità a quell’annuncio che in termini ormai usuali viene definito “nuova evangelizzazione”. Filippo ha il coraggio di percorrere strade realmente nuove, apparentemente improduttive e “stravaganti”, prive di quelle “masse” che facevano la gioia un tempo di tanti predicatori. Ha il coraggio di modalità diverse dettatagli dallo Spirito del Signore: non oppone a questa nuova possibilità ragionamenti fatti di convenienze, comodità, certezze consolidate.

    Da parte nostra troppo spesso dobbiamo riconoscere, come ripetono gli ultimi documenti della CEI, come la nostra pastorale, in un mondo che cambia in questa nostra cultura ormai multietnica,  stenti a decollare in vista di una autentica nuova evangelizzazione, essa è ancora troppo preoccupata della “conservazione dell’esistente”: ancora troppo temiamo di percorrere strade nuove e deserte, e perciò ci accontentiamo del poco di sicuro che ancora ci sembra di possedere ma che vediamo lentamente sgretolarsi tra le mani.  “Teniamo duro” nonostante tutto, con sforzi immani cerchiamo di conservare,  di resistere, ma fino a quando e con quali frutti?  Ci condanniamo a perpetuare stili, modalità, tempi e luoghi di annuncio che ormai hanno fatto il loro tempo e non parlano più all’uomo d’oggi. La vita religiosa con la sua prerogativa di stile profetico, sembra anch’essa annaspare confusa e incerta in quale direzione incamminarsi. Lo Spirito e la Chiesa oggi ci domandano altro.

    La pastorale di evangelizzazione, in questa nostra società multietnica, è tutta da inventare, da sperimentare. Questo significa avventurarsi nel nuovo, nell’incerto, ed è per questo che forse si ha paura di rischiare. Meglio impegnarsi nel ripercorrere avanti e indietro le solite strade anche se poi il ritornello “così non si può andare avanti” continua un po’ dappertutto a risuonare.

    Intraprendere come Filippo strade nuove significa accogliere l’invito a quella “conversione pastorale” a cui più volte richiama il documento dei vescovi italiani “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (cfr n. 46).

    Dalla parte dell’uditore la riflessione approda ad altre considerazioni. La figura dell’anonimo eunuco etiope rappresenta emblematicamente tutti coloro che sono in un atteggiamento di autentica ricerca. A qualsiasi popolo, cultura o religione appartengano gli uomini ricercano un senso, una risposta a quegli interrogativi che sono di tutti e di tutti i tempi. Dobbiamo divenire attenti nell’ascoltare la domanda che più o meno esplicita colui che ci sta accanto ci rivolge. Ma può capitare che la nostra ottusità ci renda sordi e ciechi, i nostri preconcetti ci facciano assumere atteggiamenti precostituiti e negativi che impediscono ogni aggancio. Dobbiamo imparare a prestare attenzione, ascolto, accoglienza facendoci discreti compagni di viaggio. La Parola è una spinta a superare quelle barriere che spesso comodamente vorremmo frapporre, per rassicurarci, fra i cosiddetti “vicini” e “lontani”: ma chi può realmente giudicare la vicinanza o meno del cuore che autenticamente ricerca Dio? I nostri criteri sono così ristretti, siamo talvolta ciechi nel non riconoscere il bene e la verità dove meno ce lo aspetteremmo.

    La Parola che gratuitamente abbiamo udita e accolta ci chiama a farci  attenti ad ogni persona, in qualsiasi situazione essa si trovi: a tutti la Parola gratuitamente deve essere ridonata.

    Comprendiamo allora la necessità per la chiesa, per le nostre comunità, di una continua conversione per eludere il rischio di una colpevole chiusura alla grazia dell’evangelo destinato ad ogni uomo. La Chiesa è fatta per evangelizzare!

    E quando la Chiesa evangelizza riscopre nella Parola annunciata la gioia della Buona Notizia e del suo esserne strumento: a tutti deve essere rivolto l’annuncio del nostro essere stati raggiunti da una grazia inestimabile: quella di sentirci amati e accolti da Dio come fratelli, tutti allo stesso modo, e nessuno è escluso da questo sovrabbondante dono. Un incontro di tal sorta non può che trasformarci tutti in nuovi evangelizzatori, in portatori della Buona Notizia facendoci compagni di altri uomini e donne che  a nostra volta incontreremo sul nostro cammino.

    Oratio

    Sulle strade delle nostre città che gli uomini e le donne percorrono spesso oppressi da una solitudine senza risposte siamo da te, o Signore, invitati ad incamminarci, senza calcoli, né progetti ma fiduciosi unicamente nella forza della Parola che ci hai consegnato. Che essa sia annunciata al mondo intero. Tu ci vuoi sulle strade di questo mondo incontrando uomini e donne d’ogni razza, lingua, cultura e religione, e ci mandi senza due tuniche, né bisaccia, né denaro, ma ricchi solo della Buona Notizia che ci hai affidato.

    Rendici capaci di farci compagni di viaggio dei nostri fratelli. Non freddi saccenti con risposte arroganti sempre pronte e stereotipe, ma umili servitori della tua Parola. Fa’ che diveniamo capaci di accoglienza, di ascolto, di dialogo fraterno e sincero. Solo così, insieme, ci apriremo alle sorprese del tuo Spirito capace di allargare il cuore di ciascuno alla grazia dell’evangelo.

    Vinci, o Signore,  le nostre comodità, le nostre paure e resistenze, i nostri tentativi di ripiegarci nella sicurezza delle nostre sacrestie e nel percorrere strade ormai imparate a memoria, incapaci di suscitare in noi meraviglia ed entusiasmo.  Donaci, Signore, il coraggio di lanciarci sulle strade impreviste, e talvolta scomode, sulle quali tu ci vuoi.

    Nella forza della tua Parola nascerà, con colui che incontreremo, condivisione e comunione: le barriere saranno vinte, i pregiudizi abbattuti. E il mondo diventerà casa di fratelli da incontrare col sorriso e un abbraccio di pace.

  • 04 Giu

    Trinità

     

    Santa Trinità ricevimi

     

    Padre santo,

    ricedimi nella tua tenerissima paternità,

    affinché, dopo aver percorso lo stadio nel quale,

    per il tuo amore, ho cominciato a correre,

    io ti riceva come premio della mia corsa

    in eterna eredità.

    Amabilissimo Gesù,

    ricedimi nella tua dolcissima fraternità.

    Porta con me il peso del giorno e del calore.

    Sii la mia consolazione in tutte le mie fatiche,

    il mio compagno e la mia guida
    in tutto il corso del mio viaggio.

    Spirito santo, Dio amore,

    ricedimi nella tua misericordiosa carità.

    Sii il maestro e l’istitutore
    di tutta quanta la mia vita
    e il tenero amico dell’anima mia.
    Amen.

     

    Santa Geltrude di Helfta, monaca cistercense  (1256-1302)

  • 24 Apr

    Alcuni accenni di arte altomedievale/longobarda

     

    Con il termine Altomedioevo si indica il periodo storico compreso fra il VII secolo e la metà dell’XI secolo d.C. Inizialmente il territorio dell’Italia è diviso tra Longobardi e Bizantini, in continua lotta fra loro. Con l’intervento di Carlo, re dei Franchi, il dominio longobardo viene abbattuto. Egli riunisce sotto di sé il territorio francese, l’Italia settentrionale e parte dell’Italia centrale. La civiltà romana del tardo impero diventa il modello da imitare: nell’arte si recuperano le forme espressive del mondo classico e cristiano: questo periodo, infatti, viene comunemente definito «rinascita carolingia». In questa complessa realtà l’arte, ovviamente, non può manifestare caratteri unitari. Pur nel generale disordine e nella profonda crisi economica, rimangono vive ed operanti le tradizioni artistiche locali, che vengono arricchite, soprattutto nell’Italia del Nord, dagli influssi dell’arte longobarda, carolingia ed ottoniana. La parola «barbaro» significa letteralmente «straniero» ma, per estensione, è entrata nel linguaggio corrente come sinonimo di «incolto, rozzo, ignorante, di civiltà inferiore». Certamente la cultura barbarica appare, rispetto a quella del tardo impero e bizantina, ancora a livello primitivo; tuttavia le opere d’arte a noi pervenute, pur nella loro semplicità e ripetitività di temi, sono certamente il risultato di un lavoro accurato, dovuto ad artigiani specializzati. La cultura barbarica è una cultura rurale e per il barbaro l’arte è soprattutto decorazione ed ornamento. Acquistano una notevole importanza i centri culturali religiosi. L’artigianato, nel convento, è regolato da norme e organizzato in fasi e tempi di lavoro: la vita operosa diviene un valore positivo ed una forma di preghiera. L’arte non serve più a produrre oggetti che, per quanto ricchi ed elaborati, sono rivolti essenzialmente alla vita quotidiana; essa è finalizzata nuovamente alla costruzione di opere destinate alla collettività e realizzate per la gloria di Dio. Molte di queste opere non recano la firma del loro autore e ciò ha fatto ritenere che fossero il risultato di un’attività collettiva spontanea, non sottoposta alla guida di un «direttore dei lavori». In realtà, però, qualcuno che si curasse di suddividere i compiti dei singoli e controllasse l?interno svolgimento del lavoro doveva necessariamente esistere. E’ vero invece che, in questo periodo, è considerato fondamentale svolgere bene un mestiere e non tanto esprimersi in modo personale. All’artigiano si richiede soprattutto di dimostrare la sua abilità tecnica, mentre non si valuta importante la sua originalità espressiva: quindi firmare l’opera non ha, per l’autore, alcun significato. Alto medioevo: architettura Le testimonianze dell’arte medioevale si riferiscono essenzialmente a costruzioni ed opere di carattere religioso. A Roma, ed in tutta l?Italia Centrale, gli edifici della tarda romanità (templi, terme, basiliche) vengono consacrati al culto cristiano e vengono decorati in modo da assumere l’aspetto di chiese vere e proprie; marmi romani (capitelli, architravi, fusti di colonne, ecc.) vengono largamente impiegati nelle chiese. Caratteristica dell’architettura di questi secoli è, appunto, il reimpiego di elementi di spoglio dagli antichi edifici di epoca romana. Anche gli ordini monastici (soprattutto Benedettini) fondano, ampliano e restaurano opere di carattere religioso. Alcune di esse sono simili, come a Borzone, alle costruzioni ravennate; altre sono più semplici, con pianta rettangolare. Hanno muri spessi e finestre molto strette; all’interni, le colonne sono talvolta sostituite da pilastri. Nel territorio sorgono insediamenti isolati, di suo sia civile (rocche, castelli) sia religioso (abbazie). Essi sorgono in posizione strategica, tale da garantire il controllo a vista del territorio circostante. Con il passare del tempo, attorno a questi insediamenti si sviluppa un borgo, realizzato dapprima con costruzioni in legno, che diviene successivamente un agglomerato di case in pietra e mattoni. Nelle abbazie, i monaci svolgono un’intensa attività culturale e di sviluppo agricolo.

  • 16 Apr

    Dov’è il tuo Dio?

     

    Lectio del Salmo 88

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

     Chiediamo allo Spirito di aprirci all’ascolto della Parola e della vita. Quest’ultima porta in sé tante domande, dubbi e incertezze: è necessario che la fede, che scaturisce dall’ascolto della Parola, sostenga il nostro cammino fatto spesso di timidi e barcollanti passi. Infatti prima o poi la prova fisica, morale o spirituale, investe il cuore ingaggiandovi una cruda battaglia. Battaglia del dolore che segna lo scaturire impetuoso di un grido che contiene una domanda rivolta a Dio stesso: “Se ci sei… perché?”. Tante certezze iniziano allora a vacillare, vengono meno le risposte scontate, le sicurezze crollano, i dubbi acquistano consistenza e pesantezza. In questi momenti si ha bisogno di qualcuno che ci prenda per mano; abbiamo bisogno di un volto, di una parola che infonda una rinnovata speranza, a volte umanamente impossibile.
    Invochiamo lo Spirito perché faccia toccare la vicinanza del Padre nella nostra vita e in quella di tanti fratelli e sorelle segnati in questo momento dalla prova e dal dubbio.
    “Vieni, Signore, passi il tuo soffio come la brezza primaverile
    che fa fiorire la vita e schiude l’amore,
    o come l’uragano che scatena una forza sconosciuta
    e solleva energie addormentate.
    Passi il tuo soffio nel nostro sguardo
    per portarlo verso orizzonti più lontani e più vasti.
    Passi il tuo soffio sui nostri volti rattristati
    per farvi riapparire il sorriso,
    sulle nostre mani stanche
    per rianimarle e rimetterle gioiosamente all’opera.
    Passi il tuo soffio fin dall’aurora
    per portare con sé tutta la nostra giornata in uno slancio generoso.
    Passi il tuo soffio all’avvicinarsi della notte
    per conservarci nella tua luce e nel tuo fervore”. (P. Maior)

     

    Lectio

    Abbiamo scelto per la nostra Lectio un brano arduo non tanto per difficoltà esegetiche o testuali ma per il suo contenuto esperienziale: si tratta del salmo 88. Tra tutte le lamentazioni – che appartengono ad un genere letterario tipico del libro dei Salmi – il nostro testo appare con una sua peculiarità: è infatti, fra tutti i salmi di lamentazione, il più cupo e il più drammatico.
    L’impressione che se ne ricava è di un testo che contiene il grido disperato di un uomo che si sente sprofondare nel nulla della morte, “un vero e proprio ultimo urlo lanciato a Dio dalla parte degli inferi” lo definisce l’esegeta Gianfranco Ravasi.
    Possiamo suddividere il salmo in quattro parti al fine di rendere più agevole il nostro commento:
    – l’ introduzione: vv. 2-3
    – l’esposizione da parte del salmista della sua situazione: vv. 4-11
    – gli appelli rivolti a Dio: vv. 11-13
    – la ripresa dell’esposizione del caso: vv. 14-19
    Il salmo si introduce con una invocazione rivolta al “Signore Dio della mia salvezza” (v. 2): questo richiamo ad un Dio di salvezza è l’unico barlume di speranza in tutto il rimanente testo, nulla più. A questa flebile persuasione si aggancia tutta la preghiera implorante che segue.
    Si tratta di una preghiera incessante, insistente, martellante che risuona “giorno e notte” e che esprime sia la grande necessità in cui si trova l’orante sia l’attesa spasmodica che al termine Dio si decida ad ascoltare.
    Dopo l’introduzione ecco il salmista esporre a Dio la sua drammatica situazione (vv 4-10):  essa viene riassunta nell’espressione “sono colmo di sventure” (v. 4). Si tratta di una “sazietà” di dolore oltre il quale non è più possibile andare. E’ l’implorazione di colui che grida dicendo: “Non ne posso più!” in quanto si sente già nell’anticamera del regno della morte, sull'”orlo della tomba“, in un cammino “in discesa” (lett.) inevitabilmente diretto verso le viscere della terra, nel  regno del nulla che è lo Scheol.
    Per l’uomo dell’A.T. il tempo della salvezza è solo il presente contenuto nel ristretto spazio della vita terrena. Per colui che passa nel regno dei morti cessa ogni possibilità di sperimentare la salvezza, e questo per la semplice convinzione che Dio somma vita, non può avere nulla a che fare con la morte. Nello Scheol c’è sì una sorta di sopravvivenza, ma come ombra di se stessi, senza possibilità di comunione con Dio. Nel luogo dell'”Abaddòn” (v. 12; cfr Ap 9,11), ovvero della distruzione, non si potrà più celebrare la misericordia di Dio.  La conclusione è perciò drammatica. Le risonanze del salmista sono amare e sull’orlo della disperazione: “Sto per essere tagliato fuori… sto per essere dimenticato e abbandonato da Dio, mentre la vita mi sfugge tra le mani senza che io possa far nulla per trattenerla”.
    Autore di tutto questo dramma è, scandalosamente, Dio stesso. Infatti per la teologia ebraica veterotestamentaria tutto si riconduce a Dio sia nel bene che nel male. Quando la sventura, la sofferenza, la malattia coglie una persona, tale situazione viene letta nella categoria del “castigo”. Dio è “sdegnato” (v. 8)  per qualche colpa commessa. E questo castigo che coglie l’uomo suscita in lui solo spavento e terrore. L’immagine dei “flutti”  che sommergono è significativa: sono le onde del furore divino che inghiottono il nostro malcapitato senza che egli sia consapevole della ragione di tutto questo.
    Si potrebbe benissimo porre queste parole sulle labbra del paziente Giobbe, il quale accusando Dio di tutto il male che incombe su di lui dice quasi imprecando:su di me rinnovi i tuoi attacchi, contro di me aumenti la tua ira e truppe sempre fresche mi assalgono” (10,17); e ancora:  “Il mio spirito vien meno, i miei giorni si spengono; non c’è per me che la tomba !(17,1; cfr Lam 3,30).
    Questa parte contenente la descrizione della situazione termina in modo ancor più amaro e cupo: non solo Dio ha abbandonato il suo fedele, ma ha fatto sì che anche amici e parenti lo abbiano rifiutato, relegato in una solitudine senza consolazione. Tutti si sono distanziati da lui già in preda alla sventura. Siamo ancora molto vicini all’esperienza dolorosa di Giobbe che dice: “I miei fratelli si sono allontanati da me, persino gli amici mi si sono fatti stranieri. Scomparsi sono vicini e conoscenti, mi hanno dimenticato gli ospiti di casa; da estraneo mi trattano le mie ancelle, un forestiero sono ai loro occhi.(19,13-15).
    Non rimane che continuare a stendere al cielo le palme vuote delle mani nel gesto di una implorazione di chi a Dio non può dare nulla ma solo ricevere tutto. Sull’ “orlo della fossa” non rimane che rivolgersi nella supplica a questo Dio in preda all'”ira” e che sembra compiacersi di “terrorizzare” l’uomo che, solo e abbandonato da tutti, si trova in bilico tra la vita e la morte.
    La terza parte del salmo (vv.11-13) è costituita da una serie di domande poste  direttamente a Dio: sono domande in certo qual modo retoriche nel senso che sono rivolte a Dio affinché egli si persuada a mutare la triste condizione del salmista. L’idea di fondo è che, se negli inferi nessuno loda il Creatore, è cosa saggia che egli lasci continuare a vivere la sua creatura che così potrà ancora lodarlo. La preghiera del re Ezechia contiene il medesimo concetto: “Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà” (Is 38,18).
    Infine con i vv. 14-19 giungiamo all’ultima parte del nostro testo. Negli altri salmi è generalmente pervasa di fiducia, anzi, talvolta vi troviamo già il ringraziamento nella certezza che sicuramente si sarà esauditi. Non è così nel nostro: il salmista ritorna tristemente al suo caso, alla disperazione che lo attanaglia e dalla quale non riesce a distanziarsi. Anzi rincara la dose di amarezza con la forte e scioccante espressione “Sono moribondo fin dall’infanzia” (v. 16). Più che un semplice accenno ad una malattia cronica probabilmente si tratta di una chiarezza interiore su quella che è la condizione intrinsecamente mortale e fugace dell’uomo: “Ricorda quant’è breve la mia vita: perché quasi un nulla hai creato l’uomo?” (Sal 89,48).
    La conclusione risulta perciò in tragica e stonata tonalità “minore”: il salmo termina con un sapore di amaro e di vuoto. Dio sembra così lontano e assente dalla sofferenza del salmista che si sente “respinto” (v. 15) e riconosce come sconsolata la sua condizione. L’ultima espressione è ancor più cupa: nessuna luce appare all’orizzonte, compagne del dolore dell’uomo rimangono solo le “tenebre” della solitudine e del non senso della sua sofferenza. 

    Collactio

     C’è da stupirsi che il grido disperato contenuto nel salmo 88 non si traduca in aperta rivolta, in una sofferta accusa e ribellione contro la “crudeltà” con cui Dio sembra accanirsi inspiegabilmente contro quest’uomo.
    Questo salmo è una preghiera audace: noi siamo forse troppo abituati nella nostra preghiera ad un linguaggio impregnato di espressioni di troppo… amore e fiducia, gioia e speranza spesso dal sapore un po’ dolciastro. Sono espressioni che talvolta sono molto lontane dal nostro reale sentire. Qui non è così: le espressioni sono vere e forti, rasentano l’invettiva contro Dio: scandalizzano le “pie” orecchie degli amici di Giobbe che, pessimi teologi, vogliono in ogni caso difendere Dio.
    Le pesanti parole del salmo non temono di porsi come dura accusa al silenzio scandaloso di Dio dinanzi alla sofferenza dell’uomo. “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4): è questa un’antica domanda alla quale, con l’intelligenza fredda delle risposte stereotipate del catechismo, sappiamo dare immediatamente risposta: Dio è dappertutto, in ogni luogo, in cielo e in terra. Non vi è luogo in cui lui non sia presente. Eppure nel profondo della coscienza questa domanda, in un momento o l’altro della vita, si insinua inaspettata nella nostra coscienza non per invitare a ritrovare una certezza di fede ma per smantellarla e calarla nel vortice del dubbio. Dov’è Dio quando la sofferenza inutile dell’innocente grida un’ingiustizia che mette in discussione se non la sua esistenza almeno la sua bontà? Dov’è Dio quando la disperazione attanaglia il cuore e sembra di essere sperduti nel vuoto, senza fondamento, in balia di un nulla assurdo e senza volto? Dov’è Dio quando tutto in noi e attorno a noi acquista un sapore amaro di cenere, preannuncio di una morte certa dinanzi alla quale anche il credente vacilla? In questo stesso istante nel cuore di migliaia di persone nelle corsie degli ospedali, nelle case di cura, nelle carceri, ai capezzali di ammalati e moribondi oppure tra le mura di un anonimo appartamento di un qualsiasi condominio di una metropoli, questa domanda si impone alla coscienza come un terribile grido che sale verso un cielo che sembra di piombo attendendo risposta: “Dov’è il tuo Dio?” (Sal 41,4). Al grido implorante del salmo 88 nessuno può sfuggire perché prima o poi tutti in esso ci ritroveremo associati.
    Abbiamo tuttavia uno straordinario compagno e testimone: nella sua passione lo stesso Gesù (non per nulla la liturgia ci fa pregare questo salmo ogni venerdì e al sabato santo) vive fino in tutta la tragicità di questa invocazione di cui parla la lettera agli ebrei: “Con forti grida e lacrime supplicò chi poteva salvarlo dalla morte” (Ebr 5,7). E’ l’estremo urlo che vuole squarciare il silenzio di Dio dall’alto della croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46).
    Ed è l’esperienza fatta da tanti testimoni che hanno camminato lungo le ardue e spesso oscure vie della fede. Tra tutti scegliamo un testo di Teresa di Lisieux: “La mia anima fu invasa dalle più fitte tenebre e il pensiero del cielo così dolce per me, diventò motivo di lotta e di tormenti… Vorrei poter esprimere ciò che sento, ma ahimè! Credo sia impossibile. Bisogna aver percorso quella nera galleria per capirne l’oscurità… E quando voglio far riposare il mio cuore stanco per le tenebre che lo circondano, il mio tormento raddoppia; mi sembra che le tenebre, con voce di peccatori, mi dicano ridendo di me: Tu sogni la luce, credi di poter uscire un giorno dalle brume che ti circondano! Cammina, cammina e rallegrati per la morte che ti darà non già quello che speri, ma una notte più fonda ancora, la notte del nulla” (Storia di un’anima).
    È consolante ritrovare tra le pagine della sacra Scrittura un testo come il salmo 88 capace di rispecchiare la fatica del nostro credere e coraggioso nel gridare la situazione fragile e mortale dell’uomo che invoca una presenza capace di dare senso alla vita e alla morte. La Scrittura non esita a far propria questa angoscia che abita il fondo del cuore umano.
    Il salmo 88, non rischiarato dalla piena rivelazione, testimonia solo una fragile speranza che si blocca ai cancelli del regno dello Scheol ritraendosi inorridita affermando perentoria: lì Dio non può essere, lì si sarà abbandonati da tutti.
    Ma al credente in Cristo è data una speranza capace di trafiggere queste tenebre e di infrangere questi cancelli, di penetrare in quel buio con una certezza. Il cristiano possiede la grazia di intravedere una luce che per assurdo fuoriesce proprio dalla tomba da cui il salmista si ritrae inorridito. Scriveva il gesuita padre Theilard de Chardin che parlando di “vertiginosa voragine” evoca quasi la “fossa” e l'”Abaddòn” del salmista: “Più l’avvenire mi si apre dinanzi come una vertiginosa voragine, o un oscuro passaggio, e più avventurandomi in esso sulla tua parola, posso aver fiducia di perdermi o d’inabissarmi in te” (Ambiente divino).
    Come può infatti il Dio dell’alleanza, i cui doni sono irrevocabili, venir meno alla promessa della vita donata all’uomo sua creatura? 

    Oratio

     Nella notte del dubbio della fede, quando il grido di invocazione ad un Dio che sembra assente, si fa udire nel profondo del cuore, il Signore stesso ci si fa vicino.
    Ci viene accanto con la povera umanità del Crocifisso, non risolvendo magicamente i nostri problemi, ma con le mani e i piedi piagati, con il costato trafitto, per dirci di non spaventarci. “Non temere” suggerisce al cuore di ciascuno di noi:  “Non aver paura quando la vita ti chiede di entrare nelle tenebre e nella solitudine del Calvario, non temere di gridare giorno e notte affinché Dio così apparentemente assente ascolti la tua preghiera”.
    Anche Gesù sulla croce “emise un alto grido” (Mt 27,50) di invocazione al Padre, in tutto simile al grido del nostro salmista e dei mille crocifissi della storia. Ma quelle ferite del Calvario, a differenza delle nostre, non suppurano in disperazione ma irradiano speranza e luce; raccontano una fedeltà di un amore che non viene mai meno contro ogni evidenza che testimonierebbe il contrario. Quelle ferite possiedono la forza di suscitare in noi il coraggio di guardare oltre, di non sprofondare in una sorta di implosione nel nostro dolore. Quelle piaghe forti della loro debolezza ci rimettono in cammino alla scoperta del vero volto di Dio così vicino perché diverso dalle nostre povere attese.
    O Signore, donaci la grazia, di tener fissi gli occhi sulla tua croce nel momento in cui tutto sembra precipitare nel nulla. Che la croce divenga àncora gettata in mezzo al mare in tempesta, scoglio e faro indistruttibile in mezzo a quei flutti di morte di un mare tenebroso e in tempesta che vorrebbe spezzare in noi la speranza della tua presenza.

  • 14 Apr
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    Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?

    Lectio di Lc 12,54-59

     

     di p. Attilio Franco Fabris

      

    Hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono” (Mt 13,15): sono le amare parole di Gesù nei confronti di una generazione incapace di scorgere in lui la novità di Dio che porta a compimento le promesse di Abramo.
    Possiamo anche noi avere occhi e non vedere, orecchie e non udire i fatti e le parole con cui Dio continuamente si avvicina a noi e ci parla nelle cose più semplici di ogni giorno, come nei fatti più grandi della storia. Sempre Dio entra nella nostra storia, quella dell’umanità come in quella di ciascuno di noi. Ma noi come i discepoli di Emmaus, chiusi nelle nostre certezze e tristezze, rischiamo di non accorgerci della sua presenza.
    Chiediamo anzitutto allo Spirito di aprire “gli occhi del nostro cuore”, di strapparci – lui che è guarigione – quelle scure “cataratte” che persistono in noi impedendoci di vedere i segni di speranza e di vita che lui stesso dissemina lungo la storia. È lui che, al di là dell’avvicendarsi delle vicende umane, tesse la vera trama nascosta del cammino dell’umanità. È lui la vera forza ed energia che tutto muove spingendo la storia, come il vento le vele della nave, verso il Regno.
    Sapremo scorgere la dolcezza e la forza della sua azione? Avremo occhi per riconoscerla ed esultare? Avremo cuore, mente, volontà capaci di porsi costantemente in ascolto di “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7)? Sapremo scorgere gli inviti discreti che egli sussurra alla Sposa affinché si prepari all’incontro con lo Sposo (Ap 22,17)? Non ci scandalizzeremo dinanzi alla sua voce potente e forte che risuona sulla bocca dei suoi scomodi profeti?
    “Spirito santo, fammi vedere tutto ciò che desideri farmi vedere, per rendermi partecipe di tutta la luce che abita in Te. Fammi vedere ciò che da solo non riesco a vedere. Fammi vedere ciò che non vorrei vedere, per timore dell’esigenza della luce, per viltà di fronte allo sforzo e al rinnegamento. Fammi vedere ciò che vorrei vedere: la via da seguire e le decisioni difficili da prendersi. Fammi vedere ciò che mi illudo di sapere e che invece non conosco. Fammi vedere ciò che dovrei vedere e che i mie pregiudizi mi impediscono di scoprire:la verità delle mie debolezze e delle mie colpe. Fammi vedere ciò che tu vedi: la bellezza del mio destino al servizio di Dio e dei fratelli, la grandezza dell’universo e l’immensità di Dio”.

    Lectio

    Il nostro brano si colloca in un capitolo che ha come tema il giudizio finale di Dio sulla storia. Il tempo scorre inesorabile e per l’uomo è questione di vita o di morte (ovvero di salvezza!) decidersi o meno per Dio. Tutto il capitolo si caratterizza perciò su una tonalità di “urgenza” da parte dell’uomo nei confronti del tempo che scorre e nel quale è chiamato a decidersi prima che sia troppo tardi.
    In questo tempo che è dato Dio stende la mano all’uomo per facilitargli l’accoglienza del dono della salvezza: offre dei “segni” di cui il primo e fondamentale è Cristo stesso: Mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona” (Lc 11,29).
    Se dunque in un primo tempo Gesù sembra rifiutare categoricamente ai farisei la richiesta di offrire ulteriori “segni”, nel nostro brano egli ci ammonisce sul fatto che numerosi segni sono concessi agli occhi di coloro che sanno vedere. A quali “segni” si riferisce Gesù?  Non certamente a segni portentosi e straordinari come quelli richiesti, per metterlo alla prova, da “una generazione malvagia“. Gesù invita invece a scorgere i “segni” costituiti dal suo insegnamento e della sue parole per riconoscervi l’appressarsi del Regno di Dio e  per il quale ora è necessario deliberarsi.
    “Diceva ancora alle folle” (v.54): l’insegnamento è prolungato nel tempo (il verbo è all’imperfetto il che sta a dire l’importanza del messaggio) ed è rivolto a “tutti“, perché a tutti è donata la salvezza e perciò a tutti incombe il dovere di saper leggere il tempo presente (v.56) come il tempo decisivo in cui discernere “ciò che è giusto“(v.57) fare.
    L’insegnamento di Gesù si compone di due immagini paraboliche (vv. 54-59).Gesù si serve dapprima dell’immagine di fenomeni meteorologici che tutti sono in grado di interpretare: una nube che proviene da ovest, ossia dal mar Mediterraneo, indica l’approssimarsi delle piogge, mentre un vento dal sud, ovvero dal deserto dell’Arabia, è sicuramente indice di un’ondata di caldo (vv 54-55). Il messaggio è chiaro: dai “segni” meteorologici chiunque sa prevedere il tempo che farà e dunque prepararsi ad agire di conseguenza. Gesù certamente non se la prende con la scienza della previsione del tempo ma pone bene in evidenza la distanza che esiste tra questa capacità di discernere le cose più semplici e quotidiane e l’incapacità di riconoscere i segni di “questo tempo” ovvero il tempo della sua presenza e del suo annuncio carico di significato perché decisivo per la salvezza. “Questo tempo” ha i suoi segni di riconoscimento ma “questa generazione malvagia” non si prende la briga di interpretarli, non è in grado di farlo, o meglio preferisce non volerli riconoscere.
    L’appellativo di “ipocriti” (v. 56) viene perciò da Gesù applicato a tutti: nessuno escluso! L’ipocrisia è l’equivalente della cecità spirituale: si ha la possibilità di discernere il tempo decisivo della salvezza (kairos) ma non lo si vuole interpretare: si vuole continuare la solita vita! Si sanno “discernere-giudicare” i fattori meteorologici: ma dinanzi all’importanza decisiva del tempo si preferisce non voler vedere.  . L’accusa di ipocrisia è una chiara denuncia: i segni ci sono e sono chiarissimi per chi è disponibile a coglierli (cfr Lc 7,22; 11,20). Il fatto di non riconoscerli non è dato, per Gesù, dalla semplice ignoranza, ma da una coscienza colpevole perché consapevole di tale scelta. Scelta drammatica in quanto con tale atteggiamento l’uomo si preclude l’accoglienza del “kairos”, del tempo favorevole, nel quale è offerta la possibilità di cogliere i segni di Dio e, di conseguenza, convertirsi.
    Anche nei confronti di Giovanni il Battista, in carcere, Gesù invierà l’ammonimento a riconoscere tali “segni” (il suo problema era attenderne altri secondo le sue aspettative!). Anche per Giovanni vi era dunque la fatica di accogliere i “segni” di Gesù così diversi dalle sue attese: “Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella. E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me!) (Lc 7,22s).
    Occorre dunque una disponibilità ed una apertura del cuore per accogliere i “segni” che Cristo (e la Chiesa che ne continua l’opera) dissemina lungo l’arco della storia: non sono immediatamente evidenti, sono piccoli quanto “un granello di senape“, sono scandalosi come lo è una croce piantata sul Calvario. Ma è urgente non lasciarseli sfuggire e con essi il dono della salvezza. Nell’insistere su tale atteggiamento Gesù si affida alla capacità di giudizio dell’ascoltatore stesso: non dovrebbe essere la prima preoccupazione di ciascuno salvare la propria vita? Dunque ciascuno dovrebbe giungere a comprendete-discernere “il giusto”: “E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (v.58).
    A questo primo insegnamento segue una parabola che ha come scopo il rafforzare ulteriormente il messaggio dell’urgenza nell’accogliere la grazia offerta “qui e ora”. Il dilazionarla potrebbe portare a conseguenze drammatiche (vv 58-59).
    L’esempio portato è un litigio tra due persone. Il diverbio sta per essere trascinato in tribunale col rischio del carcere. La prassi giudiziaria descritta (autorità-giudice-ufficiale di servizio) descrive con precisione l’usanza giuridica greco romana. A queste due persone cosa suggerisce il buon senso? Conviene loro mettersi d’accordo prima che sia troppo tardi! Ovvero occorre agire con prontezza. Meglio sistemare prima le cose.
    La parabola si conclude con una pesante minaccia (v. 59): se non si troverà un accordo l’accusato non uscirà dal carcere finché non avrà restituito fino all’ultimo “lepton” (la più piccola moneta di rame). L’esempio ha come obiettivo quello di far comprendere l’importanza del kairos, del tempo presente: “la scure è già posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco(Lc 3,9). Fuori parabola: l’uomo è chiamato a prendere “ora” la decisione fondamentale nei confronti di Dio prima di presentarsi in giudizio davanti a lui.
    L’indifferenza e l’ostilità, nei confronti di Gesù, rischiano di trasformare il lieto annuncio del Regno in motivo di giudizio: i “segni” sono dati, ora bisogna decidersi per Dio, per riconciliarsi con lui. 

     Collactio

     Per continuare l’opera di Cristo è dovere permanente della Chiesa scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce dell’evangelo“: così si esprimeva con una terminologia relativamente nuova, che avrebbe poi trovato ampio spazio di approfondimento teologico, il documento conciliare Gaudium et Spes (n. 11) che a più riprese riprenderà il tema della necessità (non facoltatività!) della lettura dei “segni dei tempi“, già ampiamente affrontata d’altronde nel magistero di Paolo VI (Cfr Enc. “Ecclesiam suam”).
    Da dove scaturisce il “dovere permanente” da parte della comunità cristiana di intraprendere questo costante sforzo di lettura dei “segni dei tempi“? Dal semplice e fondamentale fatto che la fede biblica è anzitutto non un assenso a verità astratte e astoriche ma assenso ad eventi storici ben precisi e puntuali nei quali Dio si è fatto presente e ha agito, e si fa presente e continuamente agisce, nella storia al fine di offrire salvezza all’uomo. Dio è entrato definitivamente nella nostra storia partendo da Abramo per giungere a Cristo e continuare la sua opera attraverso la Chiesa. Perciò nell’orizzonte della fede biblica la salvezza si presenta sempre come un “fatto” che,  presentandosi sotto l’aspetto di “segno” (il che garantisce la libertà umana nell’accoglierlo o meno), va accolto e letto alla luce della fede. Cosicché la verità non deve essere più ricercata al di fuori dello spazio e del tempo, in una dimensione ideale più legata alla filosofia che alla fede, ma va riconosciuta negli eventi storici costituiti da parole, persone, accadimenti che non sono per il credente un ostacolo alla conoscenza della verità stessa ma luogo della sua rivelazione. In tal senso tutta la storia è divenuta il “luogo teologico” in cui è dato all’uomo di aprirsi a quei “segni” attraverso i quali Dio lo vuole incontrare.
    Afferma ancora un testo conciliare della Gaudium et Spes: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle esigenze e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio” (n. 11).
    Questo “discernere gli avvenimenti” non è automatico né tanto meno spontaneo: esso è reso possibile solo all’interno di un orizzonte di comprensione e di esperienza legato alla fede, perché solo attraverso tale sguardo è dato di riconoscere l’azione dello Spirito di Dio nella storia.
    Ma occorre riconoscere la fatica che incontriamo a fare tutto ciò: essa deriva da una fede scarsa e molto debole. Si possiede un grande discernimento nelle cose materiali e ci si affanna spesso per operarlo, ma non si possiede la stessa sollecitudine e preoccupazione per quanto riguarda le cose spirituali, per quelle eterne che decidono il nostro ultimo destino. Non si ha cura di voler riconoscere i “segni” attraverso i quali Dio ci parla: “Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”
    L’uomo carnale direbbe Paolo non comprende ciò che è proprio dello Spirito; è “sapiente” nelle cose transitorie e fugaci ma stolto in quelle che riguardano il suo destino ultimo: “L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1Cor 2,14s).
    L’ “uomo carnale” vive un rifiuto, con una conseguente incapacità di aprire gli occhi sul significato più profondo e sul senso ultimo delle cose e degli avvenimenti. Si tratta di un rifiuto che può nascere da diversi atteggiamenti. È possibile infatti che il “segno” venga rifiutato in nome di uno “status quo” che non desidera e non aspira ad altro: la preoccupazione sottostante è che le cose rimangano le stesse perché il cambiamento fa paura. Vi può essere un rifiuto del “segno” motivato da una negazione del presente: le cose – per costui – non potranno mai cambiare, anzi si andrà di male in peggio! Non vi è in questo caso la minima apertura alla possibilità che il “segno” stia a significare un germe di possibile cambiamento.
    Solo l’uomo “spirituale”  è abilitato alla lettura dei “segni dei tempi”. Egli possiede il dono di guardare la realtà con occhi diversi perché capaci di una visione che va “oltre”: sa scorgere nei “segni” di cui è cosparsa la storia di un qualcosa che non è ancora pienamente presente, ma che già si offre e si sviluppa nell’umiltà e nel nascondimento “del germoglio in terra arida” (cfr Is 61). L'”uomo spirituale giudica ogni cosa” ovvero è in grado di relativizzare il presente, senza idolatrarlo né condannarlo, vivendo la certa speranza che la storia, pur nelle sue contraddizioni, è incamminata verso il Regno perché iscritta in un disegno che è divino e non umano. Per tale motivo solo lui possiede la capacità di una “lettura profetica” del reale.
    Ma quali sono i criteri con cui accostarsi alla storia al fine di cogliere i “segni” della presenza e dell’agire di Dio? Ci viene in aiuto un fondamentale testo tratto ancora dalla costituzione dogmatica “Gaudium et Spes” dove si dice che “è dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, affinché la verità rivelata possa essere sempre più profondamente intesa, meglio capita e presentata in una maniera più adatta” (n. 44). È un testo notevole in quanto ci offre chiaramente i criteri, o meglio un itinerario di discernimento dei “segni dei tempi”: “ascoltare attentamente, capire e interpretare…saper  giudicare“.
    Anzitutto ci viene chiesto di saper “ascoltare attentamente“. Ciò significa accogliere i fatti in se stessi, nelle loro manifestazioni, cause, dimensioni, conseguenze, mettendo in atto tutti quegli strumenti umani adatti a leggerli il più oggettivamente possibile (quali ad esempio la sociologia, la psicologia, le scienze…).. Il fine è saper guardare le cose così come esse sono e non come vorremmo fossero con la conseguenza di distorcerle: “Quando vedete una nuvola salire da ponente”. La distorsione dei fatti succede quando prevarica l’ideologia (non solo politica ma anche religiosa) che pretende di piegare la realtà al fine di farla rientrare nei propri ristretti schemi mentali. L’ascolto attento esige umiltà, empatia, l’eliminazione di qualsiasi “pre-giudizio”.
    Un secondo passo sarà di “capire ed interpretare“. Non ci è chiesto di giudicare immediatamente le cose, ma di sforzarci il più possibile di “comprenderle” ovvero di saperle leggere in profondità (è il dono dell’intelletto – intus-legere – da chiedere allo Spirito!) nelle loro radici più profonde e nelle loro conseguenze: “subito dite: Viene la pioggia”.  Mancasse questa comprensione ed interpretazione (che non equivale ad approvazione) non sarebbe possibile una lettura del fatto come “segno”. Perché la realtà rivesta la valenza di “segno” è fondamentale che essa ci tocchi in profondità, che ci lasciamo interrogare da essa, che ci trovi aperti ad essa. Non può far questo il pessimista né tanto meno il diffidente o colui che crede di aver la verità in tasca. 
    Solo in un terzo momento si potrà giungere ad un “discernimento” (krìnein: separare in due; in riferimento alla farina separata dalla semola per mezzo dello staccio) ovvero ad un “giudizio“, elaborato non secondo i nostri schemi di valutazione ma attraverso la luce della Parola di Dio. Occorre tener presente che i fatti ci si presentano sempre in forma ambigua (ovvero possono essere letti da tanti punti di vista), ma il credente sa che la Parola è il setaccio indispensabile per “vagliare” ciò che è buono da ciò che non lo è. 
    Si tratta di un “discernimento-giudizio” compiuto alla luce della Parola ascoltata e letta all’interno della comunità ecclesiale sorretta dal magistero e dal carisma profetico: è nella comunità che Dio parla al fine di indicarle il cammino da seguire.  Disponibilità, vigilanza, prontezza da parte di tutti sono di doni da chiedere affinché tutto questo possa attuarsi continuamente, senza stancarsi.
    È un lavoro urgente che non è possibile dilazionare: il “segno” ci è dato “qui e ora”, e se non viene riconosciuto e accolto esso scorre via, dono di grazia inutilizzato, di cui dovremo “render conto fino all’ultimo spicciolo“, “Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!“(2Cor 6,2). 

    Oratio

     La nostra esistenza, Signore, è segnata dalla continua necessità di operare scelte e giungere a tante decisioni piccole e grandi. A volte è semplice, altre invece estremamente difficile: non sappiamo vedere ciò che è meglio per noi e per gli altri. L’incertezza si attanaglia, ci blocca. Abbiamo paura di sbagliare.
    Ma tu ci hai donato la tua Parola. Ti ringraziamo per il dono della sua luce che illumina i nostri passi e rischiara le nostre menti appesantite. Infatti quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore? I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni, perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri. A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo? Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall’alto?” (Sap 9,13-17)
    Fa’ che sappiamo con umiltà metterci alla scuola dell’ascolto perché solo in virtù della Parola tu ci indicherai la strada da intraprendere fiduciosi nella tua promessa: sapremo “rintracciare le cose del cielo“, scopriremo “ciò che è giusto” per noi!
    Allora avremo occhi per vedere e orecchie per ascoltare, gli innumerevoli segni di cui cospargi il nostro cammino: fatti, parole, incontri, volti, gioie e sofferenze. Tutto diverrà, nella fede rischiarata dalla Parola, segno capace di indirizzarci a te e alla verità di noi stessi, non rinserrandoci nelle nostre sicurezze e nei nostri poveri pregiudizi. Vedremo i tuoi segni, tanto piccoli e semplici come granelli di senape, con occhi limpidi capaci di stupore, come quelli dei bambini. Perché solo a questi è dato di scorgere la bellezza del mistero: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11,25).

  • 14 Apr
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    Leva o Cristo il tuo stendardo

     

    E’ Pasqua, Pasqua del Signore!
    O tu, che sei veramente tutto in tutti!
    Di ogni creatura gioia, onore, cibo, delizia!
    Per mezzo tuo sono state messe in fuga
    le tenebre della morte, la vita è data a tutti,
    le porte del cielo si sono spalancate,
    Dio si è fatto uomo e l’uomo è elevato
    a somiglianza di Dio.
    O Pasqua divina, luce del nuovo splendore!
    Non si spegneranno più le lampade
    Delle nostre anime.
    Divino e spirituale,
    brilla in tutti il fuoco della grazia,
    alimentato dalla resurrezione di Cristo.
    Leva, o Cristo, il tuo stendardo sopra di noi
    e concedici di cantare con Mosè
    il cantico della vittoria,
    poiché tua è la gloria e la potenza in eterno! 

     

    Ippolito di Roma (+ 235), Traditio Apostolica

     

     

     

    «Voglio cantare in onore del Signore:

    perché ha mirabilmente trionfato,

    ha gettato in mare cavallo e cavaliere.

     Mia forza e mio canto è il Signore,

    egli mi ha salvato.

    Esodo 15,1-2

    «Voglio cantare in onore del Signore:

    perché ha mirabilmente trionfato,

    ha gettato in mare cavallo e cavaliere.

     Mia forza e mio canto è il Signore,

    egli mi ha salvato.

    Esodo 15,1-2

     

  • 10 Apr
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    Io credo nel Vivente

     

    Io credo in Dio.

    Io credo che la nostra storia è abitata,

    sostenuta, fecondata dal Signore vivente.

    Io credo, nel frastuono del mondo,

    di udire il colpo che Egli batte alla porta,

    di scoprire il passo silenzioso di Colui che viene.

    Per questo, prego al capezzale dei malati

    e degli agonizzanti;

    grido con tutti gli oppressi del mondo,

    cerco con tutti gli appassionati,

    lotto con tutti coloro che lottano.

    Perché viene Colui che stravolge i destini
    e apre le strade,

    che disarma tutte le rassegnazioni
    e suscita nuove responsabilità,

    il cui progetto fa impallidire ogni programma.

    Attendo il Vivente
    la cui resurrezione si chiama speranza.

     

     

     

    Dalla Chiesa Riformata

     

     

     

     

     

     

     

     

    È presente come il primo giorno.

    È presente fra noi come il giorno della sua morte.

    È presente eternamente fra noi come il primo giorno,

    eternamente, tutti i giorni.

    È presente fra noi.

    In tutti i giorni della sua eternità.

     

     

  • 09 Apr
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    E’ Pasqua!

     

    È Pasqua, Pasqua del Signore.

    O Tu, che solo sei veramente tutto in tutti!

    Di ogni creatura gioia, onore, cibo, delizia,

    per mezzo tuo sono state fugate
    le tenebre della morte, la vita data a tutti,

    le porte dei cieli spalancate.

    Dio si è fatto uomo e l’uomo
    elevato a somiglianza di Dio.

    O Pasqua divina! O Pasqua,

    luce del nuovo splendore.

    Non si spegneranno più

    le lampade delle nostre anime.

    Divino e spirituale brilla in tutti
    il fuoco della grazia,

    nel corpo e nell’anima,

    alimentato dalla Risurrezione di Cristo.

    Ti preghiamo, o Cristo, Dio Signore,

    Re eterno degli spiriti:

    stendi le tue mani protettrici sulla tua santa Chiesa
    e sul tuo popolo santo;

    difendilo, custodiscilo, conservalo.

    Leva lo stendardo sopra di noi
    e concedici di cantare con Mosè
    il cantico della vittoria,

    perché tua è la gloria e la potenza
    in eterno. Amen

    Sant’Ippolito di Roma, III sec.

     

    Questo è il giorno che ha fatto il Signore: Alleluia!

    Rallegriamoci e in esso esultiamo: alleluia!

    Questo è il giorno che ha fatto il Signore: Alleluia!

    Rallegriamoci e in esso esultiamo: alleluia

     

  • 08 Apr

    Veglia pasquale 1966

     

    V’è una Notte in cui vegliando al tuo sepolcro,

    più che mai siamo Chiesa,

    è la notte in cui lottano in noi

    disperazione e speranza:

    questa lotta si sovrappone sempre
    a tutte le lotte della storia
    interamente impregnandole

    (perdono il loro senso?
    o solamente allora l’acquisiscono?).

    Questa notte il rito della terra
    si ricongiunge al suo inizio,

    mille anni come un’unica Notte:

    Notte di veglia al tuo sepolcro.

     

    Karol Wojtyla, Pietra di luce

     

      

    Mors et vita duello

    conflixere mirando,

    dux vitae mortuus

    regnat vivus.

     

     

    Sequenza pasquale, Vicitmae pascali laudes

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