• 05 Feb

    IL PADRE NOSTRO NELLA PASSIONE


    Ripercorrendo le pagine dei vangeli e ricercando l’ambito cristologico in cui viene a meglio collocarsi la preghiera e l’interpretazione del Padre Nostro, ci si accorge che questo acquista particolare rilievo nei racconti della Passione.

    Un rilievo talmente evidente, sia nelle perole stesse che nei contenuti,  che addirittura alcuni esegeti suppongono che la stesura della preghiera del Signore sia da collocarsi proprio a partire dai capitoli evangelici dedicati alla Passione.

    Certamente la Passione rappresenta una chiave interpretativa quanto mai autentica per la retta comprensione delle singole richieste contenute nella Preghiera del Padre nostro.

    Possiamo perciò tentare di ripercorrere le sue singole richieste alla luce della Passione.


    1. Padre nostro che sei nei cieli

    Gesù all’inizio della sua Passione si pone in sofferta preghiera nell’orto del Getsemani. La sua orazione inizia con quella parola con cui iniziava ogni sua preghiera: Padre- Abbà!

    (cfr. Mt 26,39; Mc 14,36; Lc 22,42; Gv 12,27). E’ la parola rivelatrice dell’intima, fiduciosa e filiale relazione che Gesù viveva nei confronti di Dio.

    Egli entra nella sua Passione accompagnato dalla certezza che accanto a lui, sofferente con lui, vi è il Padre che da sempre lo ama.

    Una dato significativo è il fatto che la parola “Padre” compare nella prima frase pronunciata da Gesù a dodici anni nel tempio di Gerusalemme (“Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Lc 2,49), e nell’ultima invocazione di Gesù affisso sulla croce (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito” Lc 23,46). Tutta l’esistenza di Gesù si pone in riferimento continuo verso Colui che lo ha mandato.

    2. Sia santificato il tuo nome

    Durante la Passione raccontata nel vangelo di Giovanni, Gesù invoca: “Padre glorifica il tuo figlio” (17,1).

    Vi è una relazione molto stretta tra glorificare Dio e santificare il suo Nome, in quanto il Nome indica la persona stessa, si identifica con essa. Glorificare e santificare possono essere intesi come sinonimi.

    Gesù glorifica-santifica il Padre compiendo la missione cui è stato chiamato. E la sua missione trova compimento e pienezza di rivelazione nel mistero pasquale.

    E’ dunque soprattutto in questo evento che il Padre può glorificare-santificare davanti al mondo il suo Nome attraverso il Figlio suo.


    3. Venga il tuo regno

    E’ nella vittoria pasquale che il Padre instaura già nella nostra storia il suo Regno. Le forze del male (il peccato, la morte, Satana) sono già sconfitti sulla croce.

    Per san Giovanni il mondo, nel moneto della Passione, risulta giudicato nel suo peccato che è rifiuto della rivelazione e il “principe di questo mondo” viene estromesso: “Ora c’è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori” (12,31; cfr. 16,11).

    E Gesù  può così aprire le porte del Regno del Padre al ladro pentito crocifisso con lui (Lc 23,42).

    Il Regno del Padre che Gesù instaura mediante il mistero pasquale passa attraverso lo scandalo della debolezza, dell’impotenza, del suo farsi ultimo e servo di tutti. E’ un regno dai parametri umani di potenza e dominio.

    4. Sia fatta la tua volontà

    Sempre nella preghiera nell’orto del Getsemani Gesù chiede: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Però non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

    E’ questo il nucleo della preghiera di Gesù come è il nucleo centrale del Padre nostro.

    Gesù si offre come strumento docile nelle mani del Padre. E’ il fare la sua volontà che diviene il sacrificio unico perfetto e gradito a Dio: “Perciò, entrando nel mondo dice: Non hai voluto sacrificio, né oblazione, ma tu mi hai preparato un corpo. Non hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. Allora io dissi: ecco vengo, nel rotolo del libro è stato scritto di me, o Dio, per fare la tua volontà” (Ebr 10,5-7).

    5. Dacci oggi il nostro quotidiano

    Il senso dell’aggettivo “quotidiano” è duplice: è il pane “sostanziale” o il “pane di domani”. Potremmo interpretare la richiesta come: dacci il pane del regno che deve venire.

    Spesso nei vangeli il regno è paragonato ad un grande banchetto (cfr. Mt 22,1ss; Lc 16,16).

    Questo pane del regno ci rimanda all’ultima cena, preludio e anticipazione della Passione.

    Gesù dona alla sua comunità l’Eucaristia come pegno del regno dei cieli che si instaura con la sua morte e risurrezione.

    6. Rimetti a noi i nostri debiti,come noi li rimettiamo ai nostri debitori.

    Due diretti riferimenti alla “remissione dei peccati” li troviamo nei contesti della consacrazione del calice durante l’ultima cena (cfr. Mt 26,28), e nella preghiera di Gesù sulla croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

    Già i profeti avevano annunciato e descritto la nuova alleanza come piena espiazione di tutti i peccati.

    E’ per il sangue di Cristo, agnello pasquale immolato, che il nostro peccato è espiato e perdonato (cfr. Ebr 10,12-18).


    7. E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male

    All’inizio della sua Passione Gesù mette in guardia i discepoli contro la tentazione dello scandalo della fede in lui causata dalla sua Passione e Morte (cfr. Mt 26,31).

    Ancora la scena del Getsemani ci viene presentata come un “entrare nella tentazione” per Gesù stesso e i suoi discepoli (cfr. Mt 26,41; Mc 14,38; Lc 22,40).

    Da questa tentazione solo l’assidua e impetrante preghiera può salvare: “Vegliate e pregate affinché non entriate in tentazione. Sì, lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41).

  • 04 Feb

    FARE A MENO DEL PADRE ?

    di p. Attilio Franco Fabris


    Appare ormai scontato la difficoltà di parlare di Dio “Padre”, e questo rientra nella difficoltà della predicabilità della relazione paterna.

    Ci troviamo in una cultura che ha rivendicato in modo radicale il diritto della soggettività.

    La modernità ponendo l’assolutezza del soggetto, ha colto nella figura paterna l’ostacolo fondamentale, sotto l’aspetto relazionale, socio-politico, religioso.

    La figura del padre riecheggia limitazione, coercizione, antagonismo.

    Si è parlato della “morte del padre”.

    Il dato antropologico da parte sua ci mette di fronte al fatto inequivocabile dell’indole “culturata”, sociale, storica di tutte le relazioni parentali, maternità e paternità incluse.

    A questo non sfugge neppure l’ambito culturale patriarcale della sacra scrittura con il quale è ineluttabile un serio confronto con lo sforzo attuale di culturazione della fede.

    A Dio nell’antico testamento sono attribuite valenze tipicamente maschili come signore, re, sposo, giudice. Circa dodici volte viene definito come Padre non tanto nel segno dell’autorità quanto piuttosto nel “farsi carico”, “prendersi cura”.

    Si tratta di una paternità materna, in tutta coerenza affidata anche ad audaci immagini femminili come quella della madre.

    Ad esempio in Osea 11:…(leggere)

    Qui non troviamo esplicito il termine di madre, ma ritorna questo prendersi cura, il “nutrire”: Dio si rivela esattamente il contrario di un padre-padrone. La sua paternità è viscerale, misercordiosa, compassionevole.

    In Is. 49,15 l’immagine è ancor più esplicita: Si dimentica una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai

    Ancora in Is 66,13: Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò.

    Un elemento di rilievo è offerto dall’uso del termine rehem, che indica il grembo materno. Lo ritroviamo in Os. 11,8 e Is 49,15.

    Ancora troviamo l’espressione collegata di rehamim col significato di compassione. Misericordia.

    Quindi il riferirsi a Dio come misericordia, compassione, tenerezza, custodia ha come entroterra l’esperienza del grembo femminile con la sua capacità di accogliere, generare alla vita e nutrire.

    Nel nuovo Testamento sembra prevalere Dio come Padre a partire dal darsi a conoscere di Gesù come Figlio, ma scendendo più in profondità anche qui si rivela una paternità materna di Dio.

    Basti pensare alla parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32).

    Il Padre di Gesù sembra ancor eludere i parametri di una cultura tipicamente patriarcale.

    I tratti del volto del Padre di Gesù sono fatti di tenerezza, compassione, misericordia, amore, perdono, accoglienza.

    Tuttavia la declinazione al femminile di Dio come “madre” lascia intatto l’androcentrismo della cultura antica ed odierna.

    Vi è l’ipotesi radicale, che soppresso il “padre”, subentri la madre. Avremmo una teologia della femminilizzazione di Dio, un ribaltamento dei ruoli che però si rivelerebbe ancora insufficiente.

    Cosa cambierebbero la “dea”, la chiesa delle donne, una società nella quale le donne avessero leadership e autorità?

    Quale il vantaggio di tale organizzazione su quella andropocentrica?

    L’altra ipotesi è quella che domanda alla paternità di fare un passo indietro (R. Stella) per riacquistare cittadinanza. Si tratterebbe di una castrazione in cui sia il figlio che il piacere sarebbero riconsegnati al mistero di qualcosa che viene offerto gratuitamente all’uomo come opportunità e come tale accolta gratuitamente. (che bisogno c’è del padre quando è possibile generare la vita senza di lui?).

    Qui rientrano i fantasmi della fine del patriarcato e del delirio di onnipotenza dato dall’ingegneria genetica.

    Emancipati gli uomini e le donne dalle vie sin qui obbligate dei processi riproduttivi, maternità e paternità rischiano i divenire simboli contestati della mascolinità e femminilità.

    Tutto questo teniamo presente non può non avere ricadute sul pensare Dio come Padre.

    Tutta la difficoltà e spesso l’equivoco sta certamente nell’aver formulato in termini riduttivamente androcentrici la manifestazione economica di Dio.

    Sono stati meccanismi proiettivi dettati dalla nostra condizione umana legata ad una storia culturata, e dal mistero ineffabile di Dio.

    Siamo ben lontani dal saper esprimere in modo adeguato la paternità autentica di Dio!

  • 03 Feb

    RITORNARE AL PADRE

    sintesi della lettera pastorale del card. C.M. Martini

    1. I CAMMINI DELL’INQUIETUDINE PERSONALE: MI ALZERO’ E ANDRO’ DA MIO PADRE (Lc 15,18)

    Vi sono tanti modi per rifiutare il Padre e il cammino di ritorno a lui.

    Il più comune,anche se meno appariscente perché nascosto nelle nostre profondità è il rifiuto della morte.

    Un pensiero che viene allontanato anche se è la realtà più certa della nostra esistenza. Essa incombe sulla nostra vita, incombe nella forma di domanda: che ne sarà di me dopo la morte? Se bisogna morire che senso ha vivere? Dove vanno le mie fatiche, le mie speranze, le mie gioie, i miei dolori?

    La morte: essa si presenta come “una sentinella che fa guardia al mistero. E’ come la roccia dura che ci impedisce di affondare nella superficialità”.

    Essa costringe a chi si interroga a cercare una meta per la quale valga la spesa vivere.

    Non meraviglia che l’uomo quando si pone dinanzi a questi interrogativi, e spesso se li pone solo in momenti drammatici della propria vita, si senta in un certo senso sul fondo della vita stessa. Si accorge che in quel punto la vita stessa chiede una risposta. Un po’ la situazione del figlio prodigo che si ritrova a toccare il fondo, ma che proprio grazia a questa situazione è capace di far memoria della casa del padre abbandonato. L’esperienza della miseria gli consente di guardare in faccia la via della morte che sta percorrendo e di ribellarsi ad essa.

    Nella solitudine delle domande ultime si aprono solo due strade: l’angoscia e la disperazione del nulla o il presentimento, la nostalgia di un Altro che “possa accoglierci e farci sentire amati, al di là di tutto e nonostante tutto”.

    Il Padre rappresenta l’immagine di qualcuno a cui ci si possa affidare senza riserve, una roccia alla quale ancorare saldamente la nostra vita.

    Perché allora tanti rifiutano questo riferimento ad un Padre che darebbe sicurezza e ragione alla nostra vita?

    La psicologia ricorda come la figura del genitore rappresenta pure l’avversario da combattere, da cui emanciparsi, per rivendicare la libertà alla propria vita e alle proprie scelte. La sua “uccisione” rappresenta l’affermazione di noi stessi e del nostro destino, per fare in fin dei conti ciò che ci piace fare. Una cattiva esperienza compito nel seno della famiglia in questo senso rischia di oscurare l’immagine paterna di Dio, così pure si potrebbe dire di ogni altra forma di rapporto che risponde ad una dinamica di “paternità”.

    Lo scrittore Franz Kafka nella sua Lettera al padre (1919) scrive: “La sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in granm parte dalla tua influenza… Io potevo gustare quanto tu ci davi solo a prezzo di vergogna, fatica, debolezza e senso di colpa. Insomma potevo esserti riconoscente come lo è un mendicante, non con i fatti. Il primo risukltato visibile di questa educazione fu quello di farmi rifuggire tutto quanto, sia pur alla lontana, mi ricordasse di te”.

    Ma quando parliamo di ritorno alla casa del Padre cosa intendiamo? No di certo una regressione e dipendenza infantile, uno scaricare la propria responsabilità. Il Padre di gesù Cristo ci chiama alla libertà vera, corresponsabile, creatrice con lui. Questo padre non è un’aspèirazione, un sosprio interiore: è una persona che ci è stata rivelata, a cui possiamo appoggiarci come a roccia che non crolla, come ad un cuore che sappiamo palpitare d’amore per noi.

    2.I CAMMINI INQUIETI DI UN’EPOCA: IL SECOLARISMO E LA SOCIETA’ SENZA PADRI

    Questo rifiuto del padre si è operato in modo concomitante anche a livello culturale caratterizzato da un progressivo secolarismo.

    L’illuminismo ha introdotto il concetto di età di ragione, un mondo ormai adulto, padrone di sé e del proprio destino ormai governabile dalle sicure leggi della scienza.

    Quest’ambizione lentamente è andata sgretolandosi. Essa aha dato origine alle grandi ideologie in cui erano presenti subodli sotituti del padre a cui ancorare la sicurezza della vita e del futuro: il capo carismatico, il ruolo del partito, la scienza e il progresso…

    La morte di Dio era considerata condizione essenziale per il futuro felice dell’umanità.

    Ma questa ideologia ha prodotto in mezzo ad innegabili conquiste soprattutto frutti di morte: lo dimostrano i genocidi, i campi di concentramento, la solitudine, la massificazione, la distruzione della natura, la sperequazione economica fra i popoli…

    La società senza Padre non ha riunito l’umanità, l’ha al contrario frantumata in miriadi di solitudini.

    L’uomo di oggi è indifferente, incapace di passione per la verità e di grandi speranze. Si è chiuso in un corto orizzonte legato al proprio interesse o a quello del gruppo. La frammentazione ha preso il posto dei grandi sistemi totalitari.

    La fine della società senza padri non ha dunque equivalso ad un ritorno alla casa del padre come forse alcuni speravano. Anzi: si è fatto largo l’atteggiamento del relativismo come abbandono delle certezze ideologiche, l’indifferenza ai valori, una vita spesa alla ricnorsa frenetica dell’effimero.

    In questo contesto la situazione di allonmtanamento dal padre si è ulteriormente aggravata: “il padre non è più figura di un avversario da combattere o di un despota da cui liberarsi, ma è figura priva di ogni interesse o attrattiva. Ignorare il padre è in fondo più tragico che combatterlo per emanciparsi da lui.

    Crollarono le grandi ideologie facendo nascere un pensiero debole che riconosce il fallimento di quelle vecchie pretese. Il pensiero debole non nega Dio, in quanto non sente il bisogno di farlo. Esso svuota di significato e di attrattiva il trascendente. Al massimo si può convivere con lui come uno delle tante cose o “ornamenti”. Esso non segna per nulla l’esistenza.

    In fin dei conti il figlio maggiore viveva sì nella casa del Padre, ma di fatto lo ignorava.

    Guardando a questa realtà saremmo tentati di applicarla agli altri, a quelli di fuori.

    Si tratta invece di prendere atto che questi rigurgiti esistono anche in noi. Li sperimentiamo anche in noi stessi, non sentiremo i lontani come fuori di noi, ma li riterremo compagni di cammino, in questa nostra storia.

    Lo Spirito di gesù continua a gridare in noi, in ciascuno: Abbà! Padre!.

    Si tratta di far sì che impariamo ed aiutiamo gli altri ad imparare a riconoscere in noi questo grido.

    3. LA VITA COME PELLEGRINAGGIO VERSO IL PADRE

    Da quanto accennato comprendiamo come all’uomo in fin dei conti non si aprano che due possibili vie.

    Da un lato, l’uomo chiuso in se stesso in una proteica pretesa d’essere padrone di sé e del proprio destino, intento a conseguire i corti rizzonti dei propri progetti: il risultato è solitudine, scontentezza, non senso.

    Dall’altro un uomo che si pone in ricerca di un orizzonte più grande che gli è dato come promessa da un Altro, un Padre che ci corre incontro e ci chiama.

    Per il credente vi è dunque l’invito a porsi come un pellgrino in cammino, un ritorno alla casa del Padre nella certezza che non si vive per la morte ma per la vita, che il nostro porto è legato ad un Padre che dona la vita. E’ un Padre che ci  costringe a ripartire continuamente, che ci pone in cammino insieme ai nostri fratelli, non lascia che ci ripieghiamo sulle nostre tristezze e solitudini.


  • 02 Feb

    CONOSCERE IL PADRE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Gesù è mediatore della conoscenza del Padre:

    Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare (Mt 11,27).

    Ma che cosa significa conoscere il Padre?

    Per la natura umana comune e condivisa da tutti noi possediamo una base di conoscenza reciproca che ci permette una comunicazione di esperienze, ma nello stesso tempo ciascuno è unico ed irrepetibile il che fa sì che ciascuno sia portato ad uscire da sé, per andare incontro all’altro.

    Talvolta poi una terza persona ci pone in contatto con qualcosa di diverso, ovvero mi introduce in una sua conoscenza, mi aiuta ad esempio a stringere nuovi legami. Questa persona appare allora come mediatore.

    Partendo da queste considerazioni ci domandiamo allora: ma è possibile a noi creature umane conoscere Dio come persona? Noi non abbiamo la sua natura, tra lui e noi è posta una distanza abissale. Come possiamo dire di conoscere il Padre?

    Una conoscenza di Dio “naturale” mi porta tuttalpiù a prendere coscienza di una entità superiore e metafisica. E’ una conoscenza filosofica, dottrinale. E’ un po’ come il “Dio ignoto” da cui Paolo ad Atene prenderà lo spunto per annunciare Cristo e il Padre (cfr At 17,23).

    L’unica possibilità che rimane è dunque una rivelazione. La Scrittura ci dice che l’uomo è immagine di Dio, fatto a sua somiglianza.

    Questo allora mi fa capire che tutto ciò che è autenticamente umano mi può portare a Dio, condurre a lui, ad una certa conoscenza di lui.

    Ma questa stessa rivelazione non si limita a questo, perché sappiamo che la natura umana non è più così trasparente da portarci imemdiatamente all’immagine di Dio.

    Dio stesso compie un passo qualitativamente diverso, prende l’iniziativa di farsi conoscere incarnandosi, facendosi prossimo all’uomo stesso.

    San Giovanni nel suo vangelo presenterà Gesù come rivelatore, “esegesi” del Padre.

    Nella “preghiera sacerdotale” Gesù dice:

    Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo.

    Ancora è lo stesso Gesù che dopo la sua morte e risurrezione fà dono alla sua comunità del suo Spirito. Nell’uomo è infusa questa presenza divinizzante che ci rende capaci di sintonizzarci e di conoscere il Padre all’interno di una relazione di amore e di allleanza.

    Chiedere nella preghiera inistentemente di possedere tale conoscenza è vitale per noi: è possedere la vita eterna.


    CONOSCERE GESU’  E’ CONOSCERE IL PADRE

    Gv 7,29: Eppure io non vengo da me e chi mi ha mandato è veritiero. Voi non lo conoscete; io però lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato.

    Nell’accostare la persona di gesù non dobbiamo fermarci al Gesù storico nell’uillusione così di poterlo già conoscere. La vita terrena di gesù è certo ricchissima in questo senso ma è insuffciente.

    Conoscere gesù implica accostarsi al suo mistero di Figlio eternamente generato da Padre, di inviato dal Padre, di rivelatore del Padre.

    AI Giudei gesù ripeterà che essi non conoscono il Padre perché non riconoscono il Figlio.

    Chi conosce il Padre è solo gesù, perché Dio nessuno l’ha mai visto (Gv 1),  e lui è venuto in questo mondo per comunicarci questa conoscenza.

    Quindi conoscere superficialmente Gesù significa conoscere superficialemnte il Padre. Rispose gesù: Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio. (Gv 8,19).

    Ne scaturisce il dato di fatto fondamentale che per il discepolo è essenziale la familairità col Vangelo al fine di poter conteplare il mistero del Padre: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

    Allora potremmo interrogarci se quando invochiamo “Dio nostro”, “Dio mio”, lo invochiamo e riconosciamo realmente come il Padre di Gesù e Padre nostro. Oppure se in noi esiste ancora una spaccatura tra Gesù e un Dio ancora generico e misconosciuto.

    La vera adorazione da tributare al Signore Gesù è quella di ricoscerlo come inviato del Padre, come immagine perfetta del Dio invisibile.

    IO E IL PADRE SIAMO UNA COSA SOLA

    Un testo importante appartiene al “discorso di addio” pronunciato da gesù nell’ultima cena. Gesù risponde agli interventi di Tommaso e di Filippo:

    Non sia turbato il vostro cuore.

    Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.

    Nella casa del Padre nio vi sono molti posti; se no, ve l’avrei detto.

    Io vado a prepararvi un posto.

    Quando sarò anadato e vi avrò preparato un posto,

    ritornerò e vi prenderò con me,

    perché siate anche voi dove sono io.

    Già conoscete la via per anadre dove sono vado?

    Gli disse Tommaso: Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?

    Gli disse Gesù: Io sono la via, la verità e la vita:

    nessuno vine al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,1-6)

    Gesù si presenta come via che conduce al Padre, il che supera di molto la nube e il fuoco che guidavano il popolo ebreo nel deserto.

    Gesù è la vita che egli eternamente riceve dal Padre, da lui possseduta in pienezza e a noi comunicata.

    Gesù è verità non solo perché porta agli uomini un insegnamento vero, ma perché lui stesso è piena verità del Padre.

    Viene poi l’intervento di Filippo:

    SE conoscete me,  conoscerete anche il Padre.

    Fin da ora lo conoscete e lo avete veduto.

    Gli dice Filippo:

    Signore mostraci il Padre e ci basta.

    Gesù gli risponde:

    Da tanto tempo sono con voi

    e tu non mi hai conosciuto, Filippo?

    Chi ha visto me ha visto il Padre.

    Come puoi dire: Mostraci il Padre?

    Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me.

    Le parole che io vi dico, non le dico da me;

    ma il Padre che è in me compie le sue opere” (Gv 14,7-10).

    Contemplando attraverso il Vangelo la vita di Gesù, noi percepiamo come in filigrana la presenza e l’azione del Padre.

    Nell’antico testamente Dio parla nel tuono e nel fulmine,è avvolto da nubi oscure: non si può vedere il volto di Dio. Quando Mosè rivolegrà a JHWH la preghiera: “Mostrami la tua gloria”. Il Signore gli risponde: Non potrai vedere il mio volto, perché nessuno uomo può vedermi e restare vivo (Es 33,18-20).

    Nell’ultima cena Filippo ripete la preghiera audace di Mosè, e qui riceve una risposta affermativa: in Gesù Maestro e Signore egli può contemplare il volto del Padre.

    Ci domandiamo: noi che quotidianamente leggiamo e meditiamo le pagine del Vangelo, accopagnando gesù nel suo cammino possiamo dire di conoscerlo veramente? Riusciamo a avedere in lui il volto del Padre.

    Certo non vediamo il volto terreno di Gesù, tuttavia la stessa esperienza degli apostoli è possibile tramite gli occhi della fede.

    Tanta esperienza mistica lungo i secoli testimonia in modo impressionante questa possibilità.

    Ricordiamo che questo è possibile poiché esiste un’unità inscindibile perfetta eterna tra il Figlio e il Padre, con lo Spirito sono una “cosa sola” (Gv 10,30).

    E questa unità tramite il Figlio si apre per accoglierci.

    IL RUOLO DELLO SPIRITO

    Nella rivelazione del Padre anche lo Spirito ha un suo ruolo: Io pregherò il Padre che vi manderà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre… ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome egli v’insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,15ss).

    Lo Spirito sarà mandato anche dal Padre per riguardo al Figlio, o quando gli uomini lo chiederanno invocando il Figlio. Abbiamo qui un forte riferimento trinitario.

    Il Figlio manda lo Spirito da parte del Padre; il compito dello Spirito è di rendere testimonianza al Figlio. Lo Spirito accuserà il mondo di peccato e ristabilirà la giustizia e sarà pronunciata la sentenza di condanna del “principe di questo mondo”.

    E anche i discepoli, mossi dallo Spirito, sono inviati a rendere testimonianza a Gesù in quanto inviato dal Padre. Tutta la missione apostolica sta sotto il segno dello Spirito.

    Questo è lo Spirito che Gesù continua a mandare sulla Chiesa e sul mondo

  • 01 Feb

    PADRE ONNIPOTENTE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Per te chi è Dio?

    Sicuramente a questa domanda possono presentarsi molte risposte, forse, più facilmente, molti silenzi ed interrogativi.

    Se da un lato il pensiero di Dio attira, affascina, da un altro esso suscita un’infinità di atteggiamenti emozionali e talvolta contraddittori. Ne è prova una certa rinascita del sentimento religioso ai nostri giorni.

    Al di fuori della rivelazione biblica ed evangelica gli uomini hanno tentato diversi approcci al mistero del Dio Trascendente dandogli diversi volti e nomi. Ne sono prova la varietà di religioni che hanno visto il loro nascere lungo i secoli in tutte le parti del mondo.

    Paolo nell’Areopago di Atene vedendo la varietà dei templi e degli altari  esistenti sull’Acropoli i atene non perde l’occasione per annunciare il vangelo:

    Cittadini di Atene, vedo che siete in tutto molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un altare con l’iscizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio (At 17,22-23).

    Paolo non disprezza questa ricerca “a tentoni” da parte dell’uomo naturale; è un inizio, un preannuncio, una disponibilità a ricevere il dono della rivelazione. Certo egli afferma che, a causa del peccato, questa ricerca è destinata a girare a vuoto ed ad imboccare molte vie errate.

    Per passare dal Dio Ignoto al Dio unico e vero occorre che egli si riveli, mostri il suo volto irraggiungibile. E noi crediamo che Gesù abbia rivelato pienamente questo volto.

    Credo in Dio Padre onnipotente

    Al concetto di Dio onnipotente l’uomo naturale era giunto, ma dandole tonalità che facevano riferimento al suo concetto di potenza: quindi caratterizzata da un potere indiscriminato, imprevedibile, capace di incutere rispetto e paura… una onnipotenza, in fin dei conti, poco simpatica.

    Ma nel simbolo apostolico noi affermiamo che Dio è Padre onnipotente!

    La parola Padre frapposta a Dio e ad Onnipotente  ci abbaglia e ci sconcerta, perché queste due parole (Dio e Onnipotente) alla luce della paternità cambiano totalmente prospettiva.

    HA RIVELATO IL SUO NOME

    La rivelazione del nome di Padre è stata progressiva, e si è manifestata lungo la storia attraverso gli interventi di salvezza che JHWH ha compiuto per il suo popolo.

    Si tratta di ben quaranta secoli!

    Abramo ode una voce: Vattene da l tuo paese, dalla tua patria… verso il paese che io t’indicherò (Gn 12,1).

    E’ la voce di El: il Dio onnipotente, misterioso ed invisibile, eppur vicinissimo ad Abramo, tale da accompagnarlo nel suo cammino: proprio come un padre farebbe con suo figlioletto.

    Una  seconda tappa sarà la rivelazione del nome fatta a Mosè.

    JHWH lo chiama dal roveto ardente: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe… Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti… Sono sceso a liberarlo… Ora va’!

    Ma Mosè chiede esplicitamente il nome a Dio: Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loto: il dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?

    Ed è così che Dio rivela il suo nome: Io sono colui-che-sono… Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi… Questi è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione (cfr. Es 3).

    Si tratta di un evento straordinario, perché Dio rivelando il suo nome lascia che l’uomo entri in una relazione intima con lui, gli attribuisce un potere su di lui, come se gli dicesse: “Mi chiamo così e così, ormai sai come mi chiamo, puoi dunque chiamarmi, non hai che da chiamarmi, ora sai il mio nome”.

    Dare un nome implica qualcosa che va al di là di una semplice definizione. Dare un nome significa esercitare un dominio. Il nome implica sempre un rapporto, l’altro non è più uno sconosciuto tra tanti altri.

    Se Dio dice il suo nome e chiama per nome è per porsi in dialogo, dandosi in un rapporto di amicizia e di alleanza. Da questo momento Dio non è più uno sconosciuto misterioso.

    Il nome rivelato a Mosè non è una definizione ontologica. Si tratta di un nome proprio, di un nome che rivela la sua presenza (Io-sono-qui), è un nome che indica fedeltà.

    Passano secoli e appare un Rabbi nella Galilea. Egli proclama di se stesso: Se non credete che Io-Sono, morirete nei vostri peccati… Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io-Sono (Gv 8,24.28).

    Gesù si presenta come nuovo roveto ardente che rivela non più solo il nome ma anche il volto di Dio: Dio incarnato Dio con noi. Al termine della sua missione Gesù in pienezza potrà dire: Padre, ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini (Gv 17,6).

    Al culmine della rivelazione, il Signore Gesù si presenta come il rivelatore del nome/volto vero e vivo di Dio. Sentiamo Giovanni esclamare con giubilo nel prologo: Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.


    IL PADRE GUARDATO CON SOSPETTO

    Ma le affermazioni congiunte di “Dio” e “Padre” sollevano tante questioni.

    Sembra infatti assurdo assommare la divinità onnipotente con la paternità divina. L’onnipotenza sembra escludere la paternità. A meno che non ci si rifaccia ad una simbolica di padre-padrone.

    Ancora più la difficoltà aumenta pensando che la simbolica del padre oggi non è così scontata. Ai contemporanei suona quanto meno ambigua se non irritante.

    Purtroppo o per fortuna il linguaggio non indica sempre realtà univoche, spesso risulta addirittura mistificante. Alcuni filosofi hanno così denunciato il linguaggio religioso come il più soggetto a questo rischio.

    Per questi filosofi affermare “Dio Padre” equivale ad affermare solo un fantasma a servizio di una data stratificazione sociale (Marx), oppure a fomentare un risentimento camuffato da parte dei deboli (Nietzcshe), o ancora è frutto di un inconscio che si vorrebbe imbrigliare perché pericoloso (Freud)., infine potrebbe rappresentare solo un insieme di simboli sociali convenzionali (Althusser).

    Le parole nascondono dunque solo dei tranelli?

    Pensiamo di no, esse sono indicatrici, rivelatrici di una realtà da esse solo indicata. L’uso che la rivelazione fa del linguaggio umano è legittimo, poiché è la sola possibilità di parlare di Dio almeno per analogia.

    Per le nuove generazioni la parola Padre appare una provocazione bell’e buona. Sazie  di paternalismo si sono ripiegate su una forma di “parricidio”: ovvero su un rifiuto di ogni “paternità” al fine di rivendicare la propria autonomia, libertà, indipendenza.

    Il padre è morto, dunque… Dio Padre è morto.

    Ma ciascuno di noi si porta dentro, voglia o non voglia, nel profondo, questo archetipo, che stando alla psicologia del profondo è tra i fondamentali della psiche umana.

    Ne è prova il fatto che ciascuno sente la propria esperienza di figlio come fondamentale nel proprio cammino vitale. Mi ha colpito la vicenda raccontata in TV di un uomo ormai anziano che ha speso tutta la sua vita, le sue energie, nella disperata ricerca della propria madre in quanto abbandonato da piccolo e adottato. A ben sedici anni abbandonò improvvisamente la propria famiglia adottiva per mettersi alla ricerca della propria origine, a più di sessanta non desisteva ancora da questa ricerca che diceva essere l’”unico scopo della sua vita”.

    Ma una cosa importante è constatare che Dio quando si rivela come padre, non si richiama alla nostra esperienza di figli; non dice: Ricordatevi di vostro padre e di vostra madre: io sono come loro. Rimanda al contrario all’esperienza adulta dell’essere padre o madre nei confronti dei figli (cfr. Is 49,15; Os 11,1-4; Lc 11,11-13).

    La simbologia del padre applicata a Dio rimanda dunque non all’esperienza di figli, ma a quella dei genitori amorosi, alla loro tenerezza. Balzac in un suo romanzo dice: “Io ho veramente compreso ciò che poteva significare essere Dio, solo quando sono diventato padre”.

    L’essere padre o madre significa sentirsi immagine di Dio Padre.

    E a Dio compete l’originaria paternità di  ogni cosa creata, sulla quale si struttura ogni paternità e maternità. Nessuno è padre quanto Dio: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello dei cieli” (Mt 23,9).

    PADRE DI TUTTI E DI CIASCUNO

    Tutta la scrittura ci parla di un Dio che si rivela paterno nei confronti del suo popolo.

    Lungo la storia del popolo di Israele JHWH non si perde in chiacchiere e dichiarazioni, cosa tipica dei “paternalisti”. Egli è l’”Io-Sono-qui” che si manifesta attraverso avvenimenti concreti della storia,  ed è per questo che solo successivamente è colto da Israele come Dio che agisce ed è presente:

    Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e che ti ha costituito?… Hai dimenticato il Dio che ti ha creato!” (Dt 32,6.18).

    Io sono il Signore tuo Dio che ti tengo per la mano destra e ti dico: Non temere, io ti vengo in aiuto. Non temere, vermiciattolo di Giacobbe, larva di Israele, io vengo in tuo aiuto – oracolo del Signore – tuo redentore è il Santo di Israele” (Is 41,12-14).

    Pur nella sua storia tormentata e costellata di tradimenti, Israele sa di poter contare sempre sulla fedeltà-amore-paternità del suo Dio:

    Dove sono il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non sforzarti all’insensibilità, perché tu sei il nostro padre… Tu Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (Is 63,15-16).

    E Dio sempre si lascerà muovere a compassione, come una tenera madre verso il suo piccolo:

    Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza. Oracolo del Signore” (Gr 31,20).

    Questa paternità di Dio che inizialmente è rivolta esclusivamente alla dimensione di Israele come popolo, nella rivelazione cristiana viene ad assumere pure il connotato di una relazione anche personale intima di ciascuno con Dio.

    Così si è sono portati a scoprire che il Padre che è nei cieli,  conosce ciascuno per nome, siamo suoi figli, contiamo per lui:

    Poi disse ai suoi discepoli: Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: Non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto voi valete più degli uccelli” (Lc 12,22-24; cfr. Mt 10,29-31).

    Il figlio è preservato dall’ansia e dall’affanno per le cose:

    Di tutte queste cose si preoccupano i pagani. Il Padre vostro celeste sa infatti che ne avete bisogno… Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,32-34).

    Questa rivelazione della paternità di Dio prima verso il popolo, poi per ciascuno porta il credente ad estendere la consapevolezza della paternità di Dio a tutti, nessuno è escluso perché Dio tratta tutti come figli, ama tutti dello stesso amore e con lo stesso cuore di Padre:

    Per questo Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del vostro Padre celeste che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti… Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt5,44-47).

    Egli è Padre di tutti i popoli, di tutti gli uomini; è Padre di ogni uomo, qualunque sia la sua razza, la sua religione, e il  suo… peccato. E’ questa la rivelazione del vangelo.


    PADRE ONNIPOTENTE

    Ora come conciliare la paternità premurosa di Dio per ciascuno e la sua maestosa onnipotenza di fronte alla quale ci sentiamo quasi annientati e lontani?

    Questa onnipotenza dicevamo spaventa un po’!

    Nella Scrittura essa è espressa in immagini temibili: “Dio delle moltitudini”, “Dio delle potenze”, Dio delle schiere”…Egli è il Dio “Sabaoth” sovrano di tutto e di tutti.

    Potenza assoluta-amore assoluto sono inconciliabili? Distanza assoluta-prossimità assoluta, l’essere assoluto e l’essere fattosi limitato e legato all’uomo sono irrimediabilmente concetti escludentesi a vicenda?

    Questa inconciliabilità trova uno sbocco sconcertante solo nella seconda parte del Credo: Credo in Gesù Cristo, suo figlio unigenito…

    L’incarnazione ha rivelato contemporaneamente il volto della paternità di Dio e la sua onnipotenza: un Dio che vagisce in una stalla, agonizzante su una croce…

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1Gv 4,8-10).

    Siamo così costretti a rivedere radicalmente tutte le nostre immagini di potenza e di sovranità.

    La potenza di Dio è l’esattamente contrario della potenza intesa umanamente. La potenza suprema di Dio è il poter completamnente rinunciare alla potenza: è onnipotenza di amore.

    Scrive F. Varillon: Quando usciamo dalla sfera propria dell’amore e, lavorando di fantasia introduciamo in Dio elementi estranei all’amore, quando pensiamo che l’amore è qualcosa in Dio o un aspetto di Dio e non Dio stesso, allora ci costruiamo un idolo. Siffatta idolatria alligna nel cuore dei cristiani sotto la parvenza della fede, quando appunto la fede non è abbastanza forte e pura per criticare i concetti e le immagini che si moltiplicano alla sua ombra.

    Gli attributi di Dio per quanto belli e numerosi non costituiscono la natura di Dio. Questa è amore, nient’altro. I nostri attributi ne esprimo sono delle qualità.

    Un esempio. Tu hai una casa al mare: è nuova, bianca, grande, luminosa… Quello che possiedi al mare non è il biancore, la grandezza, la luminosità. Tu hai una casa e nient’altro ed essa è bianca, grande, luminosa. Questi sono solo attributi della casa. Ora l’amore non è attributo di Dio, ma tutti gli attributi di Dio sono gli attributi dell’amore.

    Quanto allora dobbiamo purificare le nostre immagini di Dio!

    L’amore di Dio Padre per noi, per me, è antecedente, gratuito, senza ragione, senza condizioni.

    I genitori amano il figlio che deve arrivare prima ancora di vederne il volto, di saperne il sesso, il carattere, il colore dei capelli e degli occhi… (e quanto purtroppo sperimentiamo come il nostro amore umano rischia sempre di porre condizioni e ragioni!).

    L’amore del Padre dei cieli non presuppone nulla da parte mia, non ho nessun valore da presentargli prima, non aspetta che io lo ami o che io sia amabile.

    Scrive ancora Varillon: L’amante dice all’amata: “Tu sei la mia gioia”, il che significa: “Senza di te sono povero di gioia, infelice”. Oppure: “Tu sei tutto per me”, il che significa: “Senza di te non ho nulla, sono niente”. Amare vuol dire esistere mediante l’altro e per l’altro… Colui che ama di più, pertanto, è anche il più povero. L’infinitamente amante-Dio è infinitamente povero. Mendicante d’amore?!

    Anche l’amore dei fidanzati, degli sposi, non è mai completamente gratuito, perché è reciprocità.

    La gratuità totale ed eterna dell’amore è l’onnipotenza di Dio, del suo amore di Padre. Povertà, spinta all’infinito, dei genitori di un figlio ingrato che non cessano di amare…

    Quest’amore gratuito corre il rischio del rifiuto, della dimenticanza, del tradimento. D’altronde un’onnipotenza che piegasse l’uomo al proprio volere non esiste, negherebbe all’uomo il dono della libertà di figlio (cfr. la parabola : “Un uomo aveva due figli” Lc 15).

    Dio corre il rischio della libertà dell’uomo. Sartre diceva: Se l’uomo è libero Dio non esiste.

    Il Dio “Onnipotente” alla maniera umana non esiste.

    Esiste un Padre onnipotente, onnipotente nel suo amore.


    SCHEDA DI LAVORO

    1.                 Dio Padre Onnipotente: questa espressione che sentimenti suscita in te. Prova ad elencarli e a darne una motivazione.

    2.                 La rivelazione biblica ha conosciuto una diversità di nomi da dare a JHWH. L’islamismo conosce 99 nomi da attribuire a Dio: non inserisce quello di padre. Tu che nome sceglieresti per definire Dio? Perché?

    3.                 La paternità di Dio abbraccia tutti senza distinzioni. Cosa significa questo? Cosa comporta concretamente nel vissuto della tua fede?

    4.                 L’onnipotenza di Dio, e onnipotenza del farsi debole. Bimbo che vagisce e crocifisso sul Calvario. Questo cambia di molto la prospettiva con cui intendere la sua onnipotenza. Questo fatto cosa viene a togliere, a modificare, a migliorare nel tuo rapporto con lui? Nella tua vita cristiana cosa significa?

    5.                 Cerca di comporre una tua breve preghiera in cui cerchi di dire a Dio i tuoi sentimenti di fronte alla sua rivelazione di Onnipotente e Padre.

  • 31 Gen

    MA LIBERACI DAL MALE


    di p. Attilio Franco Fabris

    Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono (Gn 1,31).

    Nonostante questa affermazione posta nella prima pagina della Scrittura Gesù ci fa invocare, per l’affrettarsi del Regno, al Padre la liberazione dal male: Liberaci dal male!

    E’ nell’esperienza comune dell’uomo di ogni tempo una suddivisione della realtà in cose buone e cattive.

    To’b – agathos è tutto ciò che è buono e bello, ciò che sentiamo piacevole.

    Al contrario ra’ – poneròs – kakòs è ciò che è portatore di sofferenza, dolore, e soprattutto morte.

    UNA DIVERSITA’ DI RISPOSTE ALLO STESSO PROBLEMA

    Di fronte al problema del male che ogni giorno, attraverso l’esperienza personale e i mass-media , l’uomo si trova ad affrontare egli avverte un certo imbarazzo: se da un lato ne è affascinato per la prospettiva dell’indipendenza, dell’autonomia, del potere dall’altro se ne sente la minaccia e il sapore di morte.

    Di fronte a tale ambivalenza è diverso il modo di posizionarsi di fronte al problema del male.

    Una prima possibilità è che l’uomo mettendo a tacere la propria coscienza, richiamo nostalgico della propria dignità e della casa del padre, faccia volutamente la scelta del male come percorso di realizzazione di sé. Un cammino che noi crediamo condurre al nulla, alla disperazione e “dannazione”.

    Da un altro lato l’uomo può sentirsi schiacciato, impotente di fronte ad un male esterno ed interno che lo coinvolge e spesso travolge; da qui una passiva rassegnazione, un incrociare le braccia misconoscendo le proprie responsabilità.

    Da un altro lato l’uomo può aggredire colui o coloro che ritiene responsabili del male: può essere l’altro che mi sta di fronte, oppure un gruppo, un popolo; e questa è una strada che ha risposto al male con altro male.

    Oppure vi può essere un altro responsabile: Dio. Il male è un difetto della sua creazione. Nel IV sec.  A.c. Epicuro affermava: O Dio vuole sopprimere il male e non può e allora è impotente… Oppure non vuole e non può, e allora è un “niente”… Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio… O infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?

    UNA LETTURA DIVERSA

    La risposta della Rivelazione biblica è diversa; essa ci parla di un ”mistero dell’iniquità” e in quanto tale ci rimanda ad una spiegazione che va al di là dei nostri ragionamenti e deduzioni.

    La Scrittura ci presenta la realtà tragica dell’uomo: creato nella libertà per il bene e in un mondo buono egli ha scelto una strada diversa: fin dall’origine ha scelto il male.

    Ha cercato il bene nelle creature al di fuori della volontà di Dio, ha preteso di ergersi a dio lui stesso, nel diritto e capacità di decidere autonomamente del bene e del male. E’ questa in fin dei conti l’essenza del peccato.

    La conseguenza, subito sperimentata già dai progenitori, è stata un frutto di sofferenza e di morte (cfr. Gn 3,16-19). Una conseguenza scaturita dal fatto che liberamente staccatosi dalla fonte della vita l’uomo si è ritrovato immediatamente solo e diviso.

    Questa scelta ha fatto sì che il male potesse entrare, come in una breccia ormai insanabile, nel mondo e qui proliferare. L’umanità diviene talmente cattiva da “far pentire” Dio d’averla creata (Gn 6,5). L’uomo non ha più saputo arginare il male.

    L’uomo sperimenta duramente che ormai “il mondo intero è in potere del maligno” (1Gv 5,19).

    Per ogni singolo uomo, per tutta l’umanità, si spalanca la voragine dell’esperienza della lacerazione, di una  schiavitù dalla quale non ci si riesce ad affrancare..

    Il poeta Ovidio, contemporaneo di s. Paolo, scriveva: “Vedo il bene e lo approvo, ma seguo poi le cose peggiori” (Metamorfosi, 7), e ancora il filosofo Seneca che in una sua lettera dice: “Perché mai, caro Lucillo, mentre tendiamo a una meta siamo tirati in una direzione opposta e spinti là donde vorremmo fuggire? Qual è mai la forza che è in continuo contrasto col nostro animo e non ci lascia voler niente con fermezza?… Nessuno da solo è abbastanza forte per liberarsene: è necessario che qualcuno gli dia una mano, che qualcuno lo tragga fuori” (Ep. 52).


    UNA DRAMMATICA SITUAZIONE

    C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7,18).

    E’ una frase lapidaria tratta dall’epistolario di Paolo; essa non riguarda solo l’esperienza dell’apostolo ma quella di tutti noi.

    Si tratta di una situazione di cui prendiamo coscienza innumerevoli volte lungo l’arco, non dico della vita, ma di una sola giornata.

    Questa lacerazione insanabile, questa drammatica impotenza invoca liberazione e guarigione: Chi mi libererà?

    Paolo arriva perciò ad affermare che ormai nell’uomo vi è una legge contraria a quella dello Spirito. L’apostolo la definisce la “legge della carne”. Si tratta di un dinamismo sfrenato di amor proprio, di desideri, di concupiscenze. A questo l’uomo è attratto e asservito.

    Si giunge ad una concezione profonda della realtà del peccato. Esso non consiste solo in qualche violazione o trasgressione della Legge, è qualcosa di ben più grave. E’ realtà che incatena come una ragnatela tutti e tuttoNon c’è un giusto, neanche uno!” (Rm 3,10); “Non c’è sulla terra un giusto che faccia solo il bene e non pecchi” (Qo 7,20). (anche il creato)

    La Legge non fa altro che portare l’uomo a prendere consapevolezza di questa malizia e lontananza da Dio e dell’impossibilità da se stessi di liberarsi da tale tragica situazione. In un certo senso essa acutizza l’angoscia di un’umanità incapace di “scegliere e di fare” il bene: Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,23).


    UN GRIDO CHE INVOCA LIBERAZIONE

    Ecco allora il grido di Paolo: “Oh me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24).

    Infatti “la resistenza della natura è cosa sconcertante. Sappiamo tutti che la peccaminosità, cioè la ricerca selavaggia, animale della propria soddisfazione e affermazione, è per eccellenza ciò che ci rende infelici. La peccaminosità è quindi alla coscienza dell’uomo una cosa intollerabile, un entrare in un inferno; per questo essa provoca la ricerca sfrontata di anestetici psichici, di divertimenti e compensazioni. “ (A. Ledrus)

    Questa liberazione invocata ha trovato finalmente risposta nella misericordia di Dio: “Siano rese grazie a Dio mediante Gesù Cristo Signore nostro” (Rm 7,25); “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15,57).

    Non si tratta di una liberazione raggiunta mediante la padronanza di sé in una ricerca di autocontrollo come dicevano gli stoici, non propone la via della morte come soluzione di un dramma insolubile (come per Platone), non rimanda solo ad un futuro escatologico in cui finalmente l’uomo sarà liberato (come nel giudaismo).

    Questa liberazione si è già verificata, è già stata introdotta nella storia, una “nuova creazione” è già in atto.

    All’uomo è stato dato un “cuore nuovo” capace di rispondere alle esigenze della nuova alleanza. Tale liberazione trova in Cristo Gesù morto e risorto la sua rivelazione ed attuazione. Il credente innestato in Cristo mediante la fede e i sacramenti partecipa già della sua liberazione e della sua vittoria.

    Il Battesimo è il nostro essere rigenerati alla vita nuova di figli non più schiavi del male.

    La Confermazione è la forza dello Spirito che ci rende capaci della lotta contro il potere di Satana.

    L’Eucaristia è il nostro essere innestati in Cristo vincitore della morte e del peccato, ovvero di ogni male. Il suo corpo e sangue ne sono segno e pegno.

    Nel sangue di Gesù si è manifestata la grazia del Padre che ha sottratto l’uomo alla signoria schiavizzante del Male.

    Vorrei accennare pure al sacramento della Penitenza come luogo privilegiato in cui il credente sperimenta la vittoria di Cristo sul suo male e sul suo peccato, luogo di misericordia e di festa in cui è dato al credente di credere nella forza della misericordia del Padre più grande di ogni male.

    Niente ormai può nuovamente incatenare il credente, strapparlo “all’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù Signore nostro” (Rm 8,39): è in lui la radice della nostra libertà. “Non c’è più dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Infatti la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2).

    LA LIBERAZIONE COME DONO

    La liberazione dal male non è dunque frutto dei nostri sforzi, essa è un dono posto in noi, un dono da chiedere incessantemente affinché la vittoria di Cristo sia rinnovata continuamente in noi: “Liberaci dal male”.

    Tale liberazione è frutto di grazia immeritata: “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Questo non toglie che essa non domandi una nostra collaborazione all’opera della grazia: “la domanda a Dio di liberazione dal male diviene sincera quando noi stessi ci impegniamo nella mortificazione e nella positiva abnegazione delle soddifazioni con cui nutriamo la nostra esistenza, e nella rottura di quei condizionamenti interiori ed esteriori che, alla luce della parola di dio, riconosciamo come peccaminosi: forze di palese o mascherata schiavitù” (A. Ledrus) .

    Il male da cui chiediamo di essere liberati è anzitutto dentro di noi. Chiedere di essere liberati dal male significa chiedere di essere liberati da tutto ciò che in noi si frappone all’opera di liberazione che il Padre per Cristo ha per noi predisposto. Lutero diceva: Qui credit in Christum evacuatur a seipso – Chi crede in Cristo deve svuotarsi di se stesso.

    Significherà ancora coraggio di coinvolgersi in una lotta contro il male non solo presente dentro ciascuno di noi ma anche fuori di noi: quel male che si rivela in strutture di ingiustizia, di sopraffazione, di violenza… quante volte il grido della Chiesa si è alzato contro il male presente nel mondo, un grido coraggioso che ha comportato spesso il sangue di tanti martiri.

    Chiedere una liberazione dal male per che cosa? Per qual fine? Non si tratta solo di eliminare qualcosa, una macchia o una sporcizia; è qualcosa di molto di più! Domandiamo una presenza che garantisca la liberazione ottenuta e sia essa stessa la novità ottenuta: è Gesù questa novità.

    Ormai l’uomo, trasformato dalla grazia, può “fare il bene” (cfr. Gal 6,9s); può “fare opere buone” (cfr. Mt 5,16).

    In forza delle promesse battesimali il cristiano ha rotto definitivamente con l’opzione di Adamo.

    Ma attenzione! Essere liberati dal male non significa non sentire più l’impulso del male, la sua attrattiva, la possibilità di compierlo.

    Non perché si sperimenta questo significa che la nostra adesione a Cristo sia inutile.

    Il credente invece si pone alla luce di Cristo, sapendo che in lui il peccato è già stato sconfitto da Cristo. Siamo ormai irrevocabilmente votati alla sua signoria.

    E’ una richiesta possibile anche al credente che sperimenta in sé la fragilità e la disposizione di innumerevoli cadute. Egli può ripetere le parole della Preghiera del Signore in tutta verità, nella certezza che Dio gli rimane sempre propizio, che il suo essere  peccatore è oggetto delle premure della grazia. E’ certo che il Padre “non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva”.


    LIBERACI DAL MALIGNO

    L’ultima domanda del Padre nostro la ritroviamo anche nella preghiera stessa di Gesù per i suoi discepoli: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno (Gv 17,15).

    Ci vogliamo inserire in questa preghiera che si fa solidale con tutta l’umanità bisognosa di liberazione.

    Il termine poneròs con cui si definisce il “male” è equivoco: grammaticalmente può essere inteso sia al genere neutro come a quello maschile.

    Il “mistero di iniquità” nella rivelazione non viene inteso solo come una semplice assenza di bene; esso è una forza, un’entità personale, che asservisce l’uomo e corrompe il mondo.

    Il catechismo della Chiesa Cattolica afferma: Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il “diavolo” (“dia-bolos” colui che “si getta di traverso”) è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta da Cristo. (n. 2851).

    Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, essa gli si oppone. Ha iniziato una guerra incessante che durerà quanto la storia. Si avventa “contro la Donna”, ma non la può ghermire. “Allora si infuria contro la Donna” e se ne va “a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12,17). E’ per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano: Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20): la sua venuta infatti ci libererà dal maligno” (CCC 253).

    Teniamo tuttavia ben ferma la certezza che se il demonio regna nel mondo lo fa solo per mezzo della malizia umana. Nella misura in cui la malizia viene ammessa e prevale nel nostro cuore si cade sotto l’influenza dominatrice di Satana: Il Male non è infatti tanto forte da potersi opporre alla potenza del signore, ma ha potuto nascere in virtù della disobbedienza ai comandamenti (Gregorio di Nissa, Il fine cristiano).

    L’entrare nel regno include una violenza, una volontà risoluta nel voler collaborare con la grazia al fine di vincere tali tendenze-passioni (Mt 11,12: Dal tempo di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti vogliono impadronirsene). E’ questo il grande capitolo che la teologia spirituale riserva all’ascesi, indispensabile componente di ogni cammino che voglia dirsi autenticamente spirituale.

    “Le nostre affezioni disordinate, i nostri favoreggiamenti allo spirito laico e borghese, i compromessi con ogni forma di potere sono le catene delle quali il maligno tiene uno degli estremi per ritardarci, farci indietreggiare, vacillare e cadere sul cammino della salvezza. Rotti questi legami, Satana non ha più potere su di noi” (A. Ledrus).

    Paolo inviterà i cristiani di Efeso: Rivestite l’armatura di Dio onde poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra lotta non è con avversari di sangue e carne ma contro i principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male” (Ef 6,11-12).

    Da qui il dovere di una vigilanza incessante: Siate sobri, vigilate, il vostro nemico il diavolo, come leone ruggente si aggira, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede (1Pt).

    In questo combattimento contro il male è necessario rinsaldare la virtù della speranza, che vinca ogni nostro scoraggiamento quando sperimentiamo la nostra debolezza e sconfitta. Occorre sempre ravvivare la speranza nella vittoria di Cristo a cui già partecipiamo in virtù della fede e del battesimo.

    E’ Cristo vincitore che alla sua comunità e ad ogni discepolo ripete ancora oggi: Ecco che io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e ogni potenza del nemico, e niente vi nuocerà (Lc 10,19).

    Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato De Sacramentis: Il signore che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a dio, non teme il diavolo: “Se infatti Dio è con noi chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)” (5,30).

    Siamo discesi con quest’ultima domanda nel profondo della nostra povertà, l’abisso del male in cui rischiamo di rimanere avvinghiati. Il Padre nostro ci ha fatto ripercorrere tutti i grandi temi della fede, ora si conclude qui, con una invocazione al Padre affinché doni ai suoi figli la pace, la vita, la gioia, l’allontanamento da tutto ciò che si può frapporre tra noi e Lui.

    In quest’ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l’umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell’attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell’umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha “potere sopra la Morte e sopra gli Inferi” (Ap 1,18), “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) (CCC 2854).

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Come ti poni di fronte al problema del male presente in te e intorno a te. Che tipo di risposta cerchi di darvi? (nessuna risposta, rassegnazione, colpevolizzazione di altri, o di Dio, scoraggiamento…).

    2.In quale misura ti senti responsabile del male?

    3.Il male presente in te e nel mondo fa scaturire l’ansia della liberazione? Fa nascere l’invocazione: Liberaci dal male? In quale misura vivi la certezza che la forza di Dio è la tua forza, che in Cristo sei già vincitore del peccato e della morte? Cosa scaturisce da questa certezza? Oppure te ne senti schiacciato?

    4.La presenza e l’agire di Satana nel mondo è un dato di fede. San Pietro ci mette in guardia: Siate sobri e vigilate, il vostro nemico il diavolo si aggira! Cerchi di arginare la sua azione tramite una giusta ascesi?

    5.In quale misura ti lasci coinvolgere nella lotta contro le varie forme di male presenti nel mondo? Cosa potresti fare di più o meglio?

  • 30 Gen

    NON CI INDURRE IN TENTAZIONE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Una conclusione questa della preghiera del Signore che apparve subito alquanto strana se paragonata a tutte le preghiere giudaiche. Esse non terminano mai, per così dire, al negativo, ma sempre con una benedizione o una richiesta di pace. Nel Padre Nostro, quasi si discendesse una china sempre più profonda, al termine ritroviamo il richiamo alla tentazione e al maligno!

    Un disagio dimostrato già in alcuni manoscritti del N.T. e apostolici. La Didaché, un documento importantissimo databile alla stessa epoca degli ultimi scritti canonici, testimonia l’aggiunta di alcune comunità di una solenne esaltazione della regalità di Dio: Poiché tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli (8,3).

    UN DIO CHE CI TENTA?

    Come se non bastasse questo la stessa richiesta di “non indurci in tentazione” risulta poco chiara. Immeditamente viene da domandarsi: come mai Dio metterebbe alla prova l’uomo?

    Diamo uno sguardo ai testi biblici e notiamo un fatto sconcertante: vi è detto che sono i giusti ad essere provati, mai gli empi. La tentazione è un “privilegio”, un appannaggio solo dei “giusti” e dei pii, di cui Giobbe è il primo rappresentante.

    Figlio , preparati alla tentazione. Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché Dio prova gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore (Sir 2,1.4-5).

    Ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe (Gdt 9,25-26).

    Dio può tentare con la prova sofferta ma anche col benessere:

    Quando ti sarai saziato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento ed il tuo oro e abbondare ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dmenticare il Signore tuo Dio (Dt 8,12-14).

    A questo punto ci domndiamo: se allora le tentazioni sono utili alla crescita della fede dei giusti e dei “pii”, perché domandare a Dio di “non indurci in tentazione”?

    A questo punto occorre farci una domanda: qual’è la tentazione e il male dal quale chiediamo di essere liberati? Sono forse le contrarietà, le difficoltà della vita, le malattie, le disgrazie, la vecchiaia? E ancora: Perché chiedere di essere liberati dal male se lui lo può fare in un attimo?

    Dio è presentato talvolta nelle vesti del “tentatore”.

    Un esempio classico è il confronto con 2Sam 24,1 nel quale si dice che è Dio ad incitare Davide al censimento. In  1Cr 21,1 si interprterà lo stesso gesto come proveniente dallo spirito cattivo avversario di Dio.

    Con questo si vuole affermare una verità di fondo: che nulla sfugge al progetto di Dio e che anche le azioni malvage sono da lui utilizzate al fine di compiere i suoi disegni (es Iil Signore indurì il cuore del faraone” Es 4,21, ovvero “Dio permise che il cuore del faraone si indurisse”).

    Sono molti i testi in cui Dio è presentato come colui che “mette alla prova” (cf Gn 22,1-19; Es 15,25; 16,4; Dt 8,2; Gd 2,22…). In questi testi si dice che Dio “mette alla prova”, ma non per provocare al male.  Si vuole affermare che Dio vuol far crescere nella fedeltà il suo popolo e i suoi eletti attraverso tutti gli avvenimenti in cui si trovavano coinvolti. Pur trattandosi di fatti provocati da fattori umani, la Scrittura li presenta come “tentazioni” di Dio in quanto situazioni che imponevano scelte decisive e sofferte in suo favore o contro di Lui.

    E’ DIO O IL DIAVOLO?

    Nel VI sec. Israele viene a contatto con le culture e religioni persiane.

    Si fa strada la concezione che il male esistente nel mondo sia causato dall’avversario di Dio: Satana. Una figura che aiuterà a purificare notevolmente il linguaggio teologico della Bibbia.

    Si comprende che situazioni di male, di peccato non possono essere imputate a Dio ma al suo avversario: è questi che diviene allora il “tentatore” per eccellenza (cf Sp 2,24; Gb 1-2;…)

    Rimane sì una tentazione che costantemente viene attribuita a Dio: quella derivante dalla sofferenza, dalle disgrazie, dalle contrarietà della vita:

    Figlio, se cominci a servire il Signore, preparati alla prova (Sir 2,1)

    Dopo essere stati castigati un poco saranno largamente premiati, poiché Dio li ha provati come oro nel crogiulo e li ha trovati degni di sé (Sap 3,5).

    Per questo si giungerà addirittura a chiedere la prova come occasione di crescita di fede:

    Saggiami, Signore, e mettimi alla prova, esamina col fuoco le mie reni (Sal 26,2).

    Una preghiera rischiosa e da farsi con molto discernimento.

    Esiste un racconto ebraico molto esplicativo al riguardo di rabbi Jehuda: “Un giorno Davide si lamentò con Dio dicendo: “Signore del mondo, perché si dice: Dio di Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe e non Dio di Davide?”. Il Signore rispose: “Perché essi sono stati messi  alla prova e tu no”. Allora Davide gli disse: “Signore, metti alla prova anche me, tentami, come dice il salmo”. Dio acconsentì alla preghiera, gli fece incontrare Bersabea moglie di Uria e…”.

    Nel Nuovo Testamento l’immagine di un Dio che “tenta” l’uomo è completamente abbandonata:

    Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio! Perché Dio non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce” (Gc 1,13-14).

    Così la tentazione è attribuita alle seduzioni dello spirito del male (cf 1Pt 5,5-9; 1Cor 7,5; Lc 8,13).

    Certo rimane saempre la convinzione che la prova svolge un ruolo importante nel cammino di purificazione della fede:

    Considerate motivo di perfetta letizia il fatto di essere sottoposti a ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la costanza… Beato l’uomo che sopporta la prova, perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita” ( Gc 1,2-3.12).

    Esultate pur essendo afflitti da svariate prove… Non stupitevi della persecuzione che si è accesa in mezzo a voi per provarvi, quasi che vi succedesse qualcosa di strano. Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi (1Pt 1,6; 4,12-13).

    Teniamo però presente che anche in questo caso le “tentazioni” non sono attrbuite a Dio. E’ la fede in lui  che aiuta ad affrontarle e superarle.

    COS’E’ LA TENTAZIONE?

    Il termine “tentazione” nell’accezzione comune richiama immeditamente una provocazione al male, al peccato. Da qui la difficoltà a capire come Dio possa “indurre” al male.

    Ma un’analisi dei testi biblici fa risaltare chiaramente che esistono diversi tipi di tentazione.

    C’è quella che ha come scopo quello di farci cadere, e Dio non ne può essere l’autore.

    Vi è una seconda tentazione il più delle volte tesa dall’uomo a Dio che si presenta come una volontà negativa di verifica: “Se… allora….”. Dio non si sottomette mai ad essa.

    C’ un’altra tentazione che non presenta caratteristiche di occasione di male e scelta del bene. E’ quella che si offre all’uomo come un’opportunità di crescita, di purificazione, di miglioramento. Questa tentazione contiene sì implicitamente il rischio della caduta nel male o nell’errore ma è pure passaggio obbligato per una crescita. Questa tentazione, nel Nuovo Testamento, non è presentata come proveniente da Dio. Dio ne insegna invece la via d’uscita, dona la forza per affrontarla e superarla (cf 1Cor 10,13).

    La medesima situazione che da parte di Satana è sfruttata come “tentazione”, cioè insidia per trascinarci all’infedeltà, rappresenta una “purificazione” da parte di Dio per consolidare la stessa nostra fedeltà.

    Facciamo poi attenzione che la lingua ebraica non distingue tra volontà causativa e volontà permissiva. Quando la Scrittura dice che Dio “tenta”, ciò equivale a “permette la tentazione”. E quindi anche l’espressione del Pater traducendola va intesa correttamente così: Non permettere che siamo indotti in tentazione.

    Nel Pater non chiediamo solo di non cadere, ma addirittura di “neppure entrare” nella tentazione di abbandonare la sequela di Gesù. “Una richiesta questa che implora lo Spirito di discernimento e di fortezza” (CCC 2846).

    Un’antica preghiera ebraica contemporanea a Gesù diceva: Non indurmi al potere del peccato, né alla forza della colpa, né alla violenza della tentazione, né al disprezzo. Fa’ in modo che io sia guidato dall’istinto buono e che l’istinto cattivo non mi domini (Ber.b. 60b).

    LA GRANDE TENTAZIONE

    Ancora una volta vediamo come il Padre Nostro ci riaggancia alla preghiera di Gesù nel Gethsemani. Significativamente l’ambito in cui il Pater viene a collocarsi in modo perfetto, ci dicono gli esegeti, sembra essere proprio il racconto della dolorosa passione del Signore.

    Se Gesù ci fa chiedere di “non essere indotti in tentazione” questo è perché lui stesso ha provato la violenza della tentazione: Sa compatire le nostre infermità perché è stato tentato in tutto come noi (Ebr 4,15)

    Nel Padre nostro non chiediamo al Padre che prepari per noi un cammino diverso, più comodo e meno rischioso di quello del Figlio suo Gesù. Imploriamo da lui invece di non essere lasciati a soccombere tristemente e mortalmente alla tentazione.

    Quale tentazione in modo particolare? Non certo dalla nostre piccole colpe o difetti quotidiani anzitutto! La grande tentazione è quella delle defezione, dell’abbandono della sequela di Cristo, della sua sapienza al fine di abbracciare quella del mondo. Non scorderemo che ogni cristiano sarà inevitabilemnte tentato dalle tentazioni che furono già di Gesù nel deserto e nell’orto degli Ulivi.

    E’ questa la “prova”, la “tentazione” per antonomasia. Tutte le altre tentazioni in fin dei conti sono relative a questa: quella di tracciare un nostro cammino, lontano da quello corrispondente alla volontà del Padre. In fin dei conti è un voler uscire dalla sequela crucis.

    Scrive O. Clèment: La grande tentazione sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall’interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore”

    La nostra scelta di Cristo non è fatta una volta per tutte, deve essere rinnovata e attualizzata in ogni momento e circostanza della vita.

    Il tempo dell’attesa del ritorno del Signore nella gloria è doloroso tempo di prova per la comunità dei discepoli.

    “Allora vi consegueranno ai supplizi e vi uccieeranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda” (Mt 24,9-10)

    Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,3-4)

    Gesù disse loro: Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse” (Mc 14,27)

    L’esistenza della comunità cristiana è e sarà continuamente minacciata dal male fuori e dentro di lei; guai se il Padre non intervenisse col dono dello Spirito di fortezza. “Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6,11); “Il Signore sastrappare dalla prova gli uomini pii” (2Pt 2,9) (nb qui si parla di una prova non tanto di prova particolari); “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma insieme alla tentazione vi darà anche il modo di uscirne bene, con la possibilità di sostenerla” (1Cor 10,13).

    Gli eletti sono i discepoli che sono stati “provati” dalla tentazione, sono passati “attraverso la grande tribolazione”, e che “hanno perseverato sino alla fine” (Mc 13,13).

    Così la tentazione è paragonata al vaglio: “Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliavi come il grano” (Lc 22,31).

    Vediamo che questa richiesta della preghiera del Signore si aggancia direttamente al desiderio dell’attuarsi definitivo del Regno: “La nostra domanda s’inserisce interamente nell’aspirazione di desiderio per la venuta del regno, che fa di essa una preghiera piena di fiducia nella vittoria” (H. Schurmann).

    L’ARMA DEL CRISTIANO

    Quale l’arma affidata da Gesù al discepolo contro l’insidia di questa tentazione? E’ la preghiera: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mc 14,38). Si chiede di neppure entrare e non solo di non cadere nella tentazione!

    La preghiera incessante manifesta la nostra fiducia nella fedeltà incrollabile del Padre che non lascia il proprio figlio soccombere alla prova(“Ti basta la mia grazia” si sente dire Paolo 2Cor 12,7-9). La tentazione diviene pericolo quando si tralascia la preghiera. La prova sarà “troppo forte” soltanto se, venendo meno la preghiera, non otteniamo quell’aiuto  che Dio ha predisposto ottenessimo tramite essa.

    “La tentazione c’è: il cristiano deve sapere che c’è e pregare di non cadere in una situazione fatale per la sua vocazione di figlio di Dio. Il discepolo di Gesù, il povero sempre minacciato da colui che è “forte”, deve domandare a Dio ogni giorno, dome domanda il pane, la forza per non essere travolto nella prova, la forza per restare fedele alla sua vocazione di figlio di Dio; la domanda per sé e per gli altri, che possono essere tentati come lui” (M. Ledrus).

    Afferma il Catechismo: Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. E’ per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul tentatore fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza” (n. 2849).

    La nostra vigilanza è in vista della “lotta contro un nemico insidioso, non “contro carne e sangue, ma contro i principati e le potestà, contro le insidie del diavolo” (Ef 6,11-12), il quale non mira ad altro che a renderci disattenti, a tenerci addormentati per farci perdere la speranza e farci cadere nei gorghi di morte. Chi può lusingarsi di non esserne avviluppato” (M. Ledrus)


    SCHEDA DI LAVORO

    *        Come reagisci dinanzi alla tentazione? Ricorri alla preghiera?

    *        La tentazione trova il suo terreno di crescita nella nostra debolezza, nel nostro orgoglio, e nel voler fare a notro modo rivendicando una “nostra” libertà.

    Come vivi la tua libertà? Come la concepisci?

    Come sperimenti la lotta in te tra la “l’uomo carnale e lo spirituale”, tra il “vecchio e nuovo Adamo”?

    *        Riesci a leggere la prova, la tentazione, come occasione di crescita umana e spirituale? Ne vedi gli aspetti positivi?

    *        Beato chi persevererà sino alla fine. Così è stato per Gesù, gli apostoli e tutti i santi. Possiedi questa fede? La nutri con la preghiera, la meditazione della Parola, la carità attiva?

    *        Sai essere vicino con la preghiera e la carità a chi attraversa la prova, la tentazione? Sei portato a giudicarlo, a condannarlo? Trovi difficile accoglierlo nella sua debolezza?

    *        Leggi e medita Mc 14,32-42. Cosa ti suggerisce per il tuo cammino di fede? Cosa ti senti chiamato a cambiare nella tua vita?

    • Alla fine scrivi una preghiera di commento a questa penultima richiesta del Padre Nostro.

  • 29 Gen

    RIMETTI I NOSTRI DEBITI


    di p. Attilio Franco Fabris

    “Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso… I miei peccati sono sette volte sette… Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi”. Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno “sbaglio” non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

    Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di “peccato” però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.

    Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un “tabù” ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.

    Perché nell’uomo esiste questo “senso della colpa”? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

    Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

    Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male… perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

    Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

    Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

    Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).

    In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle…

    Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.

    Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

    Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il  giusto equilibrio infranto con la divinità.

    In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).

    Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’”offesa” arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

    Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il “saggio” Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

    Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).

    La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

    – il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

    – la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

    – il “ritorno” nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

    Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

    Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

    Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).


    PERDONA I NOSTRI DEBITI

    Abbiamo accennato al fatto della varietà di vocaboli con cui è designato il peccato nella sacra scrittura. A questi esistenti, negli ultimi secoli prima della nascita di Cristo, se ne aggiunse un altro: il peccato come debito nei confronti di Dio.

    Come la maggior parte degli altri termini esso non appartiene alla sfera religiosa ma è desunto dal linguaggio profano e precisamente da quello che regola i rapporti economici.

    L’idea di Dio che sottostà a questo vocabolo è quella, forse un po’ irritante, di un Dio sovrano che deve essere servito con timore e precisione. E’ un legislatore e un giudice  dinanzi al quale l’uomo deve cercare di vivere in uno stretto rapporto di giustizia.

    Ma dobbiamo sinceramente riconoscere che questo nella realtà è impossibile.

    L’uomo sperimenta di essere perennemente e terribilmente in arretrato con i pagamenti!

    Scribi e farisei si ritenevano piamente a posto in quanto conoscitori di tutte le sottigliezze della legge: addirittura qualcuno arrivava a sentirsi in credito di fronte a Dio come il fariseo della parabola (cfr. Lc 11,42).

    Ovvio che il giudizio finale in quest’ottica non sarà altro che una resa dei conti come simboleggia l’arcangelo Michele con la bilancia in mano. Per il giudaismo solo nel caso che i due piatti fossero stati perfettamente pari si sarebbe potuto attendersi un atto di misericordia da parte di Dio che avrebbe fatto prevalere il piatto delle opere buone.

    Dicevano i rabbini: “L’uomo si consideri per metà giusto e per metà debitore. Se osserva un comandamento è bene per lui perché ha fatto piegare la bilancia dalla parte del merito”.

    Forse con meraviglia scopriamo che l’immagine del debito è presente nei vangeli, mentre è pressoché assente negli altri scritti del  nuovo testamento:

    Un creditore aveva due debitori, l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… (Lc 7,41ss)

    A un re si presentò un debitore che gli doveva diecimila talenti… (Mt 18,23ss)

    Un uomo mandò i suoi servi a ritirare i frutti della sua vigna… (Mc 12,1-9)

    Un uomo ricco aveva un amministratore, questi fu accusato di sperperare i suoi beni… (Lc 16,1-8)

    Un uomo partendo per un lungo viaggio consegnò i suoi beni ai suoi servi… (Mt 25,14-30).

    Ma il termine debito applicato al peccato compare solo nella preghiera del Padre Nostro nella versione di Matteo. Luca scrivendo a non ebrei userà invece il termine più chiaro di “peccati”, riprendendo tuttavia il termine debitori nella seconda parte: Rimetti a noi i nostri peccati, anche noi infatti li rimettiamo ad ogni nostro debitore.

    Perché l’uso di questa immagine proprio nella preghiera del Signor rivolta… al Padre, verso il quale ci ritroveremmo debitori? Debitori perché?

    Non certo di qualcosa perché tutto è suo dono, e un dono non rende debitori.

    La richiesta del Padre nostro sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente la concezione biblica del peccato che non è solo un errore umano ma ancor più è rottura del rapporto con Dio, della sua alleanza con noi. Ricordiamoci che in una visione biblica il peccato non può mai essere definito in modo appropriato come “colpa”, come “trasgressione alla legge”, ma solo come “debito”, “inadempienza” della nostra risposta al patto di amore.

    I nostri tradimenti assumono realmente il valore di debito: si tratta di un debito di amore verso il Padre.

    Riti cultuali possono cancellare questo debito?

    I profeti ammoniscono circa l’impossibilità di questo ricorso ai riti di raggiungere lo scopo: è necessario che cambi il cuore! E si tratta di cosa ancor più difficile!

    Ecco allora il profeta Ezechiele annunciare per i tempi messianici il dono dello Spirito che “purificherà il popolo da tutte le sue iniquità” , e darà “un cuore nuovo” (36,25-36),.

    Gesù, il Messia di Nazareth, viene così presentato come colui che “libererà il popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21), e “porterà al popolo la salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77).

    Egli è colui che è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10). Il suo atteggiamento verso i peccatori suscita scandalo e scalpore, accuse e persecuzione.

    Giunge a pronunciare parole di perdono in modo completamente gratuito: Ti sono perdonati i tuoi peccati (Mc 2,5).

    I suoi gesti pongono fine ad una religione d’angoscia che impone all’uomo la conquista di una sua impossibile giustizia.

    La remissione dei peccati è ora concessa dal Padre come puro dono della sua benevolenza.

    Per Gesù l’unico atteggiamento che rende “giusti” è quello del pubblicano in fondo al tempio che prega: O Dio, abbi pietà di me peccatore (Lc 18,13). Il perdono è un dono gratuito della misericordia  del Padre e non è condizionato dalle prestazioni che l’uomo crede di accaparrassi dinanzi a lui.

    Gesù insegna nella parabola del Padre misericordioso che il peccato non è una macchia da lavare, è una rottura del rapporto di amore col Padre. Nella situazione di peccato il figlio vive lontano dal Padre e dalla dignità di se stesso.

    La remissione del peccato non inizia con gli atti di pentimento dell’uomo, ma con il perdono incondizionato di Dio “che corre incontro con le braccia aperte”. Egli ama l’uomo sempre, sia che sia buono sia che sia cattivo (cf Mt 5,45).

    Ed è proprio l’esperienza di questo amore che trasforma il peccatore, il suo cuore, e gli dà la consapevolezza della sua situazione, gli infonde il pentimento e il desiderio di conversione.

    Allora la richiesta del Padre nostro non vuole ottenere un perdono che c’è già. Il suo effetto è di creare in noi le condizioni necessarie affinché il dono di misericordia del Padre possa trovare in noi la giusta disposizione.

    E perché questo si concretizzi è indispensabile che in noi rinasca una vera consapevolezza della realtà e della gravità del peccato.

    “Perdonaci i nostri debiti” è chiedere a Dio di aiutarci a riempire tutta la distanza che ci separa da lui , di cui abbiamo preso coscienza e di cui i nostri peccati passati non sono che un segno.

    Ci viene rivelata la realtà consolante di un Padre che non abbandona il figlio fuggito: egli continuamente ricolma i vuoti e le fratture. Rimette i “debiti”. Se vuole che il figlio gli chieda perdona è perché prenda coscienza della posta in gioco.


    KERIGMA DEL PERDONO

    Ci presentiamo al Padre come “debitori”. E’ atteggiamento di verità e umiltà. Ciascuno di noi lo è. Origene scrive: “Nessun uomo passa un’ora del giorno o della notte senza contrarre un debito”. Il peccato è in me e sento che solo l’amore che promana dal Padre per il Figlio nello Spirito mi può guarire da questo germe di morte.

    Il Kerigma apostolico è il lieto annuncio di questo perdono che Dio ha offerto al mondo per mezzo della croce del Figlio.

    Ma in che senso Dio perdona?

    Ci possono essere diverse visioni del perdono offertoci. Fa finta di non vederle, o… si “dimentica”,

    La rivelazione non dice questo. Dio prende sul serio il peccato, in tutta la sua gravita e drammaticità. Esso è autodistruzione dell’uomo e allontanamento da Dio: conduce alla morte. La salvezza, la grazia offertaci, ha perciò un prezzo altissimo: la vita preziosa del Figlio.

    Dio perdona nel senso che converte il peccatore, gli cambia il cuore. Lo rinnova dal di dentro con la grazia dello Spirito. Non gli offre solo una “copertura giuridica”, è una “ricreazione” dell’uomo stesso ad immagine di Cristo (cf la veste bianca del figlio prodigo Lc 15,20; il perdono all’adultera: Gv 8,11).

    Siamo stati riconciliati con il Padre per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10). Nel Figlio “abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7).

    Quest’esperienza dell’essere perdonati è fondamentale: “Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell’inferno” (O. Clèment).

    Siamo debitori perché in fin dei conti dovremmo prendere coscienza che noi riceviamo costantemente noi stessi dalle mani di Dio Padre.

    PERDONARE I DEBITORI

    Che significa “perdonare i debitori”?

    Non si tratta soltanto di perdonare le offese che ci sono state arrecate, ma anche che rinunciamo a qualunque rivalsa nei confronti di chi ci ha rifiutato ciò che ci spettava di diritto, ovvero che siamo disposti a rimetterci.

    Discorso assurdo per l”uomo carnale”, direbbe s. Paolo, che non intende le cose spirituali, la logica del Regno e della Croce. Non dimentichiamo il contesto in cui nel vangelo di Matteo Gesù insegna il Padre nostro: il discorso programmatico e rivoluzionario delle Beatitudini. Solo a coloro che lo accolgono senza rimanerne scandalizzati è dato di comprendere che l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito (1Cor 13,5).

    Un atteggiamento certamente difficile e costoso se già sant’Agostino lamentava che durante la liturgia alcuni si battevano rumorosamente il petto nella prima parte dell’invocazione per poi… tacere nella seconda!

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso… Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto alla sua grazia”.

    Il nostro cuore vacilla di fronte a questa esigenza che appare a volte realmente insormontabile. Aggiunge a questo proposito il catechismo: “E’ impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce “dalla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all’Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci “a vicenda “come” Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32)”.

    Gesù insiste sul dovere del discepolo a ricercare continuamente settanta volte sette, la ri-conciliazione con il fratello. Se i rabbini dicevano che nessun motivo era valido per interrompere la preghiera, Gesù dirà invece che il ricordo di una riconciliazione da ricercare deve interrompere perfino l’offerta più sacra all’altare.

    Perdonare i debiti significa saper incontrare con occhi nuovi il fratello “debitore” vedendo in lui non un nemico ma un fratello da aiutare, a cui rinnovare la nostra fiducia. E’ uno sguardo nuovo rivolto non al passato dell’offesa arrecataci, ma al futuro di una pace da costruire.

    Il perdono non è mai un dato di fatto acquisito una volta per tutte e a forza di volontà. Si tratta di un cammino da percorrere insieme al crocifisso. “Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione” (CCC 2843).

    Un’altra sottolineatura. Non chiediamo a Dio rimetti i miei debiti ma i nostri debiti. La richiesta è da parte non del singolo ma della comunità.

    Comunità dei discepoli del crocifisso che si dona reciprocamente la pace e la riconciliazione che essa riceve da Dio e che si impegna a diffondere nel mondo.

    Ci accorgiamo di quanto spessore e verità dovrebbe essere costituito lo scambio della pace fatto durante la liturgia!

  • 28 Gen

    PROFESSIONE DI FEDE di PAOLO VI

    Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (Cfr. Dz.-Sch. 3002), Creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale.


    Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (Cfr. Ex. 3, 14); ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni (Cfr. 1 Io. 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» (Cfr. 1 Tim. 6, 16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata.

    Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura (Cfr. Dz-Sch. 804). Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.


    Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità»


    Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona Cfr. Ibid.).
    Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risolto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

    E il suo Regno non avrà fine.


    Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell’intimo dell’anima, rende l’uomo capace di rispondere all’invito di Gesù: «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48).


    Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (Cfr. Dz.-Sch. 251-252) e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (Cfr. Lumen gentium, 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (Cfr. Dz.-Sch. 2803) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (Cfr. Lumen gentium, 53).
    Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (Cfr. Lumen gentium, 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l’Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (Cfr. Dz.-Sch. 3903) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 53, 56, 61, 63; cfr. Pauli VI, Alloc. in conclusione III Sessionis Concilii Vat. II: A.A.S. 56, 1964, p. 1016; Exhort. Apost. Signum Magnum, Introd.), continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (Cfr. Lumen gentium, 62; Pauli VI, Exhort. Apost. Signum Magnum, p. 1, n. 1).


    Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno» (Dz-Sch. 1513).


    Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).


    Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall’acqua c dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo (Cfr. Dz-Sch. 1514).


    Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l’opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (Cfr. Lumen gentium, 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (Cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
    Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell’Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (Cfr. Dz-Sch. 3011). Noi crediamo nell’infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli (Cfr. Dz.-Sch. 3074), e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (Cfr. Lumen gentium, 25).
    Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (Cfr. Lumen gentium, 23; cfr. Orientalium Ecclesiarum, 2, 3, 5, 6).


    Riconoscendo poi, al di fuori dell’organismo della Chiesa di Cristo, l’esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all’unità cattolica (Cfr. Lumen gentium, 8), e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l’amore per tale unità (Cfr. Lumen gentium, 15), Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l’unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.


    Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (Cfr. Lumen gentium, 16).


    Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell’Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (Cfr. Dz.-Sch. 1651).
    Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (Cfr. Dz-Sch. 1642, 1651-1654; Pauli VI, Litt. Enc. Mysterium Fidei), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo Mistico (Cfr. S. Th. III, 73, 3).
    L’unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.


    Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno.


    Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
    Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è (Cfr. 1 Io. 3, 2; Dz.-Sch. 1000) e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (Cfr. Lumen gentium, 49).

    Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete (Cfr. Luc. 10, 9-10; Io. 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
    Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen.

  • 28 Gen

    DACCI OGGI IL NOSTRO PANE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nella prima parte del Pater avevamo tre desideri, tre auspici da rivolgere al Padre che è nei cieli.

    Nella seconda parte sono contenute invece tre domande che riguardano direttamente noi: gli chiediamo il pane, il perdono dei nostri peccati, la vittoria sulle tentazioni.

    Questa struttura ripete quella di tante preghiere ebraiche.

    Ad esempio nelle Diciotto Benedizioni le prime tre erano benedizioni rivolte a Dio, nelle dodici successive erano presentati a Dio i bisogni materiali e spirituali; infine le ultime tre erano caratterizzate dal ringraziamento.

    La ragione di questo schema lo possiamo dedurre da un commento rabbinico:

    “Le prime tre invocazioni fanno pensare a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato”.

    Ma per il cristiano non si tratta di ricercare una sorta di captatio benevolentiae da parte della divinità. Per lui Dio è un Padre di fronte al quale non ci si prostra come schiavi, ma verso il quale egli nutre una fiducia e spontaneità filiale.

    Se prima ci si interessa della santificazione del suo nome, della venuta del suo regno e dell’adempimento della sua volontà è perché solo dopo aver contemplato il suo progetto si è in grado di vedere con occhi nuovi i nostri problemi di ogni giorno, la nostra vita con tutte le sue necessità e contraddizioni.

    Veniamo ora alla prima richiesta.

    Ci domandiamo anzitutto la ragione del perché la  prima domanda è in riferimento al pane.

    Il fatto stesso che si domandi il pane può apparire umiliante ed ingiusto all’uomo. Non è infatti un dovere e un onore per l’uomo guadagnarsi il suo pane senza stendere la mano? Non è con il suo lavoro che egli porta a casa il pane per i suoi? Perché chiederlo a Dio? Non è un ridursi a fare i mendicanti? Dio stesso non ha imposto forse ad Adamo di guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte?

    Ma allora come interpretare la domanda?

    Potremmo anzitutto partire prendendo atto dell’ingiustizia esistente che porta con sé la fame nel mondo. Un quarto dell’umanità ne soffre drammaticamente… e sono i deboli che ne pagano le conseguenze amaramente e drammaticamente. Poniamo sulle loro labbra la preghiera del Padre nostro! Essa acquista subito uno spessore concreto che forse per noi, abituati all’abbondanza, non ha. Ad essi manca il pane quotidiano!

    Riporto un testo significativo di un anonimo brasiliano che racconta il dramma di coloro che non hanno di che vivere, neppure il necessario:

    Molto presto, come ogni mattina

    bambini disputano con i cani

    attorno ad una latta di spazzatura.

    E dividono con i cani

    il pane ammuffito della spazzatura.

    In un mondo cane, senza cuore,

    ecco la forma che Dio ha trovato

    per esaudire la preghiera

    dei piccoli affamati:

    Dacci oggi il nostro pane quotidiano!

    In quel giorno,

    in quella settimana,

    il pane della nostra tavola

    non era lo stesso.

    Era pane amaro,

    peino delle bestemmie dei poveri

    che per Dio sono suppliche.

    E’ tornato ad essere dolce e buono,

    quando fu condiviso

    con quegli affamati.

    Bambini e cani.

    E’ una dura realtà di fronte alla quale le parole del Magnificat suonano come una beffa: Ha ricolmato di beni gli affamati e i ricchi ha rimandato a mani vuote.

    Dio che ha cura degli uccelli del cielo e veste i gigli del campo come può lasciare morire di fame migliaia di bambini?

    La fede di molti viene messa a dura prova da queste domande.

    Attenzione! Non possiamo permetterci di ignorarle, spostandoci subito e comodamente, commentando la preghiera del Signore, su di un piano puramente spirituale!

    IL PANE NOSTRO DACCI OGNI GIORNO

    E’ un dovere del padre di famiglia procurare il pane ai figli; e in questa richiesta possiamo scoprirvi l’invito a guardare a Dio nel suo volto di Padre provvidente.

    Ritorniamo alla preghiera delle Diciotto Benedizioni. In essa  non manca la richiesta di benedire il lavoro dei campi e i frutti della terra:

    “Per noi, per il bene, Signore nostro Dio benedici questa annata e tutti i suoi raccolti. Ricolmaci dei tuoi beni, benedici questa annata e rendila simile alle migliori annate del passato. Benedetto sei tu, Signore, che benedici i raccolti.”

    In italiano diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Ma nel testo greco la disposizione delle parole è diversa, dice: il pane nostro, quello di ogni giorno, dà a noi oggi. L’accento non è quindi sul dacci ma sul pane.

    Potremmo dilungarci sulla simbologia profonda ed estesa che il pane ha assunto nella nostra cultura occidentale.

    Nel pane posto in mezzo alla tavola intorno a cui è radunata tutta la famiglia è riassunta la vita di tutti: la fatica, la gioia, la condivisione.

    Al tempo di Gesù, ma non solo, il pane era cosa sacra. Non poteva essere buttato nell’immondizia, non lo si tagliava con il coltello (usanza mantenuta nella cultura monastica) ma lo si spezzava perché solo le mani dell’uomo erano degne di toccarlo. Il pane è sacro perché contiene il lavoro dell’uomo e la benedizione di Dio.

    Capiamo allora che, in fin dei conti, con la parola pane si vuole rappresentare tutto ciò che è necessario alla vita. Esso rappresenta, riassume, tutti i doni di Dio e la collaborazione dell’uomo: Servirete il Signore ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua (Es 23,25).

    E’ significativo che chi prega non dica “Dammi il mio pane quotidiano”, ma il nostro pane.

    Anche in questo caso la sua preghiera deve essere costantemente impregnata dal comandamento nuovo del Signore.

    NOSTRO O DI DIO?

    Ma come possiamo dire “nostro” se il pane lo chiediamo a Dio?

    Abbiamo un riferimento illuminante nel libro del Levitico: “Se seguirete le mie leggi… mangerete il “vostro” pane a sazietà e abiterete tranquilli nel vostro paese” (26,5).

    Della manna non si dice mai che è “nostra”: Tu Signore non hai rifiutato la “tua” manna”(Ne 9,20).

    Il pane è invece contemporaneamente dono di Dio e frutto del sudore della fatica e del sacrificio dell’uomo, per questo parla del “vostro” pane e gli uomini possono giustamente dire “nostro”.

    qual è allora il pane “nostro” benedetto da Dio?

    Quello prodotto “insieme” ai fratelli, quello ottenuto dalla terra che Dio ha destinato a tutti e non solo a qualcuno, quello che non contiene le lacrime del povero sfruttato.

    Non può pregare in modo sincero ed autentico chi pensa unicamente al proprio pane, chi accumula cioè beni per sé, per soddisfare i propri capricci, dimenticandosi del povero che manca di “pane”.

    Non può chiedere a Dio il “nostro” pane chi non lavora per pigrizia, chi vive alle spalle degli altri.

    Scriveva con parole di fuoco Basilio di Cesarea vescovo del IV sec.: “Se ciascuno si tenesse solo ciò che gli serve per le normali necessità e lasciasse il superfluo agli indigenti, ricchezza e povertà scomparirebbero… All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo baule. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti” (Non lasciare che il tuo denaro dorma, 6).

    QUELLO DI OGNI GIORNO

    Vi è nella richiesta al Padre del pane una notevole difficoltà interpretativa che ha fatto e fa discutere schiere di esegeti e teologi.

    Troviamo infatti un aggettivo molto strano: epioùsion che traduciamo con quotidiano.

    Ora, questo aggettivo non si ritrova non solo in nessun altro testo della sacra scrittura ma anche  in quelli profani (tranne una sola volta in un resoconto di rifornimenti di viveri ad un distaccamento militare). Non è facile perciò stabilirne l’esatto significato.

    Esso può essere inteso come “necessario alla vita”, oppure come “il pane per questo giorno”, oppure “il pane per il giorno che viene”.

    I biblisti tendono a privilegiare l’ultima interpretazione: Dacci il pane per il giorno che viene. Ma stabilito questo che cosa esattamente significa?

    Generalmente si fa ricorso al parallelo biblico della manna nel deserto. La comunità degli israeliti mormorava per la mancanza di cibo. Allora il Signore disse a Mosé: “Io sto per far piovere per voi pane dal cielo; il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di ogni giorno, perché io lo metta alla prova per vedere se cammina secondo la mia legge o no” (Es 16,4).

    In cosa consisteva la prova? Probabilmente nel fatto che al mattino il popolo usciva a raccogliere il cibo necessario “per il giorno che veniva”, non lo si poteva accaparrare in vista degli altri giorni, pena la putrefazione del prodotto conseguenza della sfiducia in Dio.

    Quindi il giorno che viene è l’oggi.

    Se immaginiamo il Pater recitato al mattino significa: Dacci oggi il nostro pane per questa giornata.

    Evidentemente chi prega  con queste parole intende rifiutare la logica  mondana dell’accumulo dei beni per sé, soprattutto quando i fratelli soffrono per la fame.

    Con questa richiesta chiediamo che il cuore viene liberato dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani. (Cfr. Mt 6,19-21; Lc 12,20ss).

    Rabbi Eliezer di Modiim, contemporaneo di Gesù, insegnava: “Chi ha da mangiare per oggi, e dice: Che cosa mangerò domani? È un uomo di poca fede.”

    Non si tratta perciò di una fuga dal lavoro, di un pretesto di disimpegno e pigrizia, né di fatalismo. E’ anzitutto un richiamo forte a ciò che è essenziale alla vita: aiutami padre a liberarmi dalla schiavitù dei beni e dammi la forza di condividerli con i poveri.

    Il discepolo è chiamato a sentirsi libero, ad accontentarsi del necessario, ad aprire gli occhi sulle necessità dei fratelli. (Andando non portate con voi né bisaccia, né due tuniche, né denaro, né bastone...).

    Per capire bene questa domanda non bisogna dimenticare che il Pater viene insegnato da Gesù nel contesto, paradossale per il mondo, delle Beatitudini.

    Chi accetta di seguire Cristo entra a far parte di una comunità che si propone  al mondo come società alternativa a quelle rette dalle leggi della competizione, della ricerca egoistica del proprio interesse, dell’accumulo dei beni.

    Può pregare così chi ha rinunciato a riporre tutta la sua fiducia nel denaro, nel potere, nei beni di questo mondo e ha scelto la povertà perché sa che Cristo l’ha scelta come via privilegiata per aprirsi ai valori del regno.

    Solo chi fa propria la logica del servizio e del dono di sé diviene “figlio del regno che viene” e può pronunciare in modo autentico la preghiera del Signore.

    Il discepolo non deve mai chiedere il superfluo.

    Nel libro dei Proverbi leggiamo:

    Signore, io ti domando due cose,

    non negarmele prima che io muoia:

    non darmi né povertà né ricchezza;

    ma fammi avere il cibo necessario,

    perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

    e dica: Che m’interessa del Signore!

    Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

    profanando così il nome del mio Dio (30,7-9).

    Si tratta cioè di saper gioire del necessario che la provvidenza non fa mancare.

    ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

    Un’altra considerazione che è possibile fare è il fatto che il domandare il cibo rimanda  al nostro essere creature, legate alla terra; in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati, incompiuti, dipendenti, mortali. Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata, che non vuole fare i conti con la storia e con la realtà concreta in cui siamo immersi. Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro (Sulla preghiera del Signore, IV): “Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa frase esprime un altro insegnamento morale: ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci che la vita umana è effimera: a ciascuno appartiene soltanto il presente, la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero, non sappiamo infatti che cosa porterà il domani. Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?

    Ci rendiamo coscienti di questo quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti. Quel cibo che sta davanti a noi è “nostro” ma è prima ancora “grazia”. Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto. Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto, un nostro “possesso” esclusivo.

    La richiesta rivela così la mia verità di un essere dipendente da Dio che è Padre, che ha cura dei  suoi figli nella sua provvidenza che è amorevole. Stendo le mani alle sue mani di padre per ricevere da lui il necessario per la vita (cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato  della comunione sulla mano).

    Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia. Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni, in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.

    Ancora: la richiesta del Pater mi insegna a mai disgiungere la preghiera dal lavoro. Chi lavora e non prega non è nella verità: si illude di essere lui protagonista della propria vita.

    Chi prega e non lavora non è nella verità: non mette in atto quelle capacità di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

    Terremo sempre presente la sapiente massima attribuita a Ignazio di Loyola: “Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi”.

    UN PANE DI VITA ETERNA

    Il pane è sempre realtà da condividere, da spezzare.

    Non per nulla è il segno-sacramento scelto da Gesù per l’Eucaristia, memoriale vivo della sua vita donata e spezzata sulla croce. Cristo si moltiplica quando viene spezzato. Tutti se ne nutrono e non si esaurisce mai.

    E’ il Padre che prepara una mensa per tutti e per tutti spezza il pane che è il dono del Figlio dato “per noi”.

    Scrive s. Pietro Crisologo in un suo sermone: “Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo Cristo. Egli stesso è il pane che, seminato nella vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella Chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste” (Sermoni, 71).

    La  Provvidenza del Padre qui è al massimo livello: quel pane porta con sé vita eterna.

    Ed è questa l’apice della riflessione sulla richiesta del pane fatta al Padre.

    Diviene domanda  di un pane che non perisce, di un pane per una vita nuova, perché “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

    Il Catechismo della Chiesa cattolica fa propria questa accentuazione: “Presa alla lettera  – la parola epiousios-sovrasostanziale – indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo “farmaco di immortalità” senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine legato al precedente è evidente il senso celeste “Questo giorno” è quello del Signore, quello del banchetto del regno, anticipato nell’Eucaristia che è già pregustazione del regno che viene” (2837).

    Cristo parola del Padre è questo pane. Non per nulla  nella prima comunità l’eucaristia era denominata lo spezzare insieme il pane. (Cf Gv 6,34; Mt 4,4; Mc 8,14).

    Eucaristia e carità sono indivisibili: “La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un’altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il “sacramento del fratello” è inseparabile da quello dell’altare, diceva san Giovanni Crisostomo” (O. Clèment)

    SCHEDA DI LAVORO

    1.      “Dacci il nostro pane quotidiano”: come è intesa da me questa domanda della Preghiera del Signore? Quanta consapevolezza vi è in me della povertà di chi magari mi passa accanto? Come mi pongo dinanzi ad essa e a quella di tante popolazioni del mondo?

    2.      Senti in te il desiderio e l’imperativo della condivisione come aspetto essenziale all’esperienza di vita cristiana? Come si concretizza nella tua vita? Come ne è ostacolata?

    3.      Leggi e medita Mt 6,19-21.25-34: che cosa significa per il cristiano credere nella provvidenza del Padre che è nei cieli? Qual è l’atteggiamento fifliale che eviti sia il disimpegno sia l’affanno?

    4.      Gesù dice: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Potresti rileggere il discorso di gesù a Cafarnao in Gv 6).  Cosa ti dice questa frase? Che posto ha nel tuo cammino spirituale la Parola e l’Eucaristia? Rappresentano realmente per te l’indispensabile “pane del pellegrino”?

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