• 29 Gen

    RIMETTI I NOSTRI DEBITI


    di p. Attilio Franco Fabris

    “Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso… I miei peccati sono sette volte sette… Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi”. Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno “sbaglio” non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

    Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di “peccato” però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.

    Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un “tabù” ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.

    Perché nell’uomo esiste questo “senso della colpa”? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

    Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

    Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male… perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

    Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

    Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

    Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).

    In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle…

    Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.

    Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

    Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il  giusto equilibrio infranto con la divinità.

    In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).

    Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’”offesa” arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

    Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il “saggio” Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

    Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).

    La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

    – il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

    – la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

    – il “ritorno” nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

    Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

    Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

    Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).


    PERDONA I NOSTRI DEBITI

    Abbiamo accennato al fatto della varietà di vocaboli con cui è designato il peccato nella sacra scrittura. A questi esistenti, negli ultimi secoli prima della nascita di Cristo, se ne aggiunse un altro: il peccato come debito nei confronti di Dio.

    Come la maggior parte degli altri termini esso non appartiene alla sfera religiosa ma è desunto dal linguaggio profano e precisamente da quello che regola i rapporti economici.

    L’idea di Dio che sottostà a questo vocabolo è quella, forse un po’ irritante, di un Dio sovrano che deve essere servito con timore e precisione. E’ un legislatore e un giudice  dinanzi al quale l’uomo deve cercare di vivere in uno stretto rapporto di giustizia.

    Ma dobbiamo sinceramente riconoscere che questo nella realtà è impossibile.

    L’uomo sperimenta di essere perennemente e terribilmente in arretrato con i pagamenti!

    Scribi e farisei si ritenevano piamente a posto in quanto conoscitori di tutte le sottigliezze della legge: addirittura qualcuno arrivava a sentirsi in credito di fronte a Dio come il fariseo della parabola (cfr. Lc 11,42).

    Ovvio che il giudizio finale in quest’ottica non sarà altro che una resa dei conti come simboleggia l’arcangelo Michele con la bilancia in mano. Per il giudaismo solo nel caso che i due piatti fossero stati perfettamente pari si sarebbe potuto attendersi un atto di misericordia da parte di Dio che avrebbe fatto prevalere il piatto delle opere buone.

    Dicevano i rabbini: “L’uomo si consideri per metà giusto e per metà debitore. Se osserva un comandamento è bene per lui perché ha fatto piegare la bilancia dalla parte del merito”.

    Forse con meraviglia scopriamo che l’immagine del debito è presente nei vangeli, mentre è pressoché assente negli altri scritti del  nuovo testamento:

    Un creditore aveva due debitori, l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… (Lc 7,41ss)

    A un re si presentò un debitore che gli doveva diecimila talenti… (Mt 18,23ss)

    Un uomo mandò i suoi servi a ritirare i frutti della sua vigna… (Mc 12,1-9)

    Un uomo ricco aveva un amministratore, questi fu accusato di sperperare i suoi beni… (Lc 16,1-8)

    Un uomo partendo per un lungo viaggio consegnò i suoi beni ai suoi servi… (Mt 25,14-30).

    Ma il termine debito applicato al peccato compare solo nella preghiera del Padre Nostro nella versione di Matteo. Luca scrivendo a non ebrei userà invece il termine più chiaro di “peccati”, riprendendo tuttavia il termine debitori nella seconda parte: Rimetti a noi i nostri peccati, anche noi infatti li rimettiamo ad ogni nostro debitore.

    Perché l’uso di questa immagine proprio nella preghiera del Signor rivolta… al Padre, verso il quale ci ritroveremmo debitori? Debitori perché?

    Non certo di qualcosa perché tutto è suo dono, e un dono non rende debitori.

    La richiesta del Padre nostro sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente la concezione biblica del peccato che non è solo un errore umano ma ancor più è rottura del rapporto con Dio, della sua alleanza con noi. Ricordiamoci che in una visione biblica il peccato non può mai essere definito in modo appropriato come “colpa”, come “trasgressione alla legge”, ma solo come “debito”, “inadempienza” della nostra risposta al patto di amore.

    I nostri tradimenti assumono realmente il valore di debito: si tratta di un debito di amore verso il Padre.

    Riti cultuali possono cancellare questo debito?

    I profeti ammoniscono circa l’impossibilità di questo ricorso ai riti di raggiungere lo scopo: è necessario che cambi il cuore! E si tratta di cosa ancor più difficile!

    Ecco allora il profeta Ezechiele annunciare per i tempi messianici il dono dello Spirito che “purificherà il popolo da tutte le sue iniquità” , e darà “un cuore nuovo” (36,25-36),.

    Gesù, il Messia di Nazareth, viene così presentato come colui che “libererà il popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21), e “porterà al popolo la salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77).

    Egli è colui che è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10). Il suo atteggiamento verso i peccatori suscita scandalo e scalpore, accuse e persecuzione.

    Giunge a pronunciare parole di perdono in modo completamente gratuito: Ti sono perdonati i tuoi peccati (Mc 2,5).

    I suoi gesti pongono fine ad una religione d’angoscia che impone all’uomo la conquista di una sua impossibile giustizia.

    La remissione dei peccati è ora concessa dal Padre come puro dono della sua benevolenza.

    Per Gesù l’unico atteggiamento che rende “giusti” è quello del pubblicano in fondo al tempio che prega: O Dio, abbi pietà di me peccatore (Lc 18,13). Il perdono è un dono gratuito della misericordia  del Padre e non è condizionato dalle prestazioni che l’uomo crede di accaparrassi dinanzi a lui.

    Gesù insegna nella parabola del Padre misericordioso che il peccato non è una macchia da lavare, è una rottura del rapporto di amore col Padre. Nella situazione di peccato il figlio vive lontano dal Padre e dalla dignità di se stesso.

    La remissione del peccato non inizia con gli atti di pentimento dell’uomo, ma con il perdono incondizionato di Dio “che corre incontro con le braccia aperte”. Egli ama l’uomo sempre, sia che sia buono sia che sia cattivo (cf Mt 5,45).

    Ed è proprio l’esperienza di questo amore che trasforma il peccatore, il suo cuore, e gli dà la consapevolezza della sua situazione, gli infonde il pentimento e il desiderio di conversione.

    Allora la richiesta del Padre nostro non vuole ottenere un perdono che c’è già. Il suo effetto è di creare in noi le condizioni necessarie affinché il dono di misericordia del Padre possa trovare in noi la giusta disposizione.

    E perché questo si concretizzi è indispensabile che in noi rinasca una vera consapevolezza della realtà e della gravità del peccato.

    “Perdonaci i nostri debiti” è chiedere a Dio di aiutarci a riempire tutta la distanza che ci separa da lui , di cui abbiamo preso coscienza e di cui i nostri peccati passati non sono che un segno.

    Ci viene rivelata la realtà consolante di un Padre che non abbandona il figlio fuggito: egli continuamente ricolma i vuoti e le fratture. Rimette i “debiti”. Se vuole che il figlio gli chieda perdona è perché prenda coscienza della posta in gioco.


    KERIGMA DEL PERDONO

    Ci presentiamo al Padre come “debitori”. E’ atteggiamento di verità e umiltà. Ciascuno di noi lo è. Origene scrive: “Nessun uomo passa un’ora del giorno o della notte senza contrarre un debito”. Il peccato è in me e sento che solo l’amore che promana dal Padre per il Figlio nello Spirito mi può guarire da questo germe di morte.

    Il Kerigma apostolico è il lieto annuncio di questo perdono che Dio ha offerto al mondo per mezzo della croce del Figlio.

    Ma in che senso Dio perdona?

    Ci possono essere diverse visioni del perdono offertoci. Fa finta di non vederle, o… si “dimentica”,

    La rivelazione non dice questo. Dio prende sul serio il peccato, in tutta la sua gravita e drammaticità. Esso è autodistruzione dell’uomo e allontanamento da Dio: conduce alla morte. La salvezza, la grazia offertaci, ha perciò un prezzo altissimo: la vita preziosa del Figlio.

    Dio perdona nel senso che converte il peccatore, gli cambia il cuore. Lo rinnova dal di dentro con la grazia dello Spirito. Non gli offre solo una “copertura giuridica”, è una “ricreazione” dell’uomo stesso ad immagine di Cristo (cf la veste bianca del figlio prodigo Lc 15,20; il perdono all’adultera: Gv 8,11).

    Siamo stati riconciliati con il Padre per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10). Nel Figlio “abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7).

    Quest’esperienza dell’essere perdonati è fondamentale: “Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell’inferno” (O. Clèment).

    Siamo debitori perché in fin dei conti dovremmo prendere coscienza che noi riceviamo costantemente noi stessi dalle mani di Dio Padre.

    PERDONARE I DEBITORI

    Che significa “perdonare i debitori”?

    Non si tratta soltanto di perdonare le offese che ci sono state arrecate, ma anche che rinunciamo a qualunque rivalsa nei confronti di chi ci ha rifiutato ciò che ci spettava di diritto, ovvero che siamo disposti a rimetterci.

    Discorso assurdo per l”uomo carnale”, direbbe s. Paolo, che non intende le cose spirituali, la logica del Regno e della Croce. Non dimentichiamo il contesto in cui nel vangelo di Matteo Gesù insegna il Padre nostro: il discorso programmatico e rivoluzionario delle Beatitudini. Solo a coloro che lo accolgono senza rimanerne scandalizzati è dato di comprendere che l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito (1Cor 13,5).

    Un atteggiamento certamente difficile e costoso se già sant’Agostino lamentava che durante la liturgia alcuni si battevano rumorosamente il petto nella prima parte dell’invocazione per poi… tacere nella seconda!

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso… Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto alla sua grazia”.

    Il nostro cuore vacilla di fronte a questa esigenza che appare a volte realmente insormontabile. Aggiunge a questo proposito il catechismo: “E’ impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce “dalla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all’Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci “a vicenda “come” Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32)”.

    Gesù insiste sul dovere del discepolo a ricercare continuamente settanta volte sette, la ri-conciliazione con il fratello. Se i rabbini dicevano che nessun motivo era valido per interrompere la preghiera, Gesù dirà invece che il ricordo di una riconciliazione da ricercare deve interrompere perfino l’offerta più sacra all’altare.

    Perdonare i debiti significa saper incontrare con occhi nuovi il fratello “debitore” vedendo in lui non un nemico ma un fratello da aiutare, a cui rinnovare la nostra fiducia. E’ uno sguardo nuovo rivolto non al passato dell’offesa arrecataci, ma al futuro di una pace da costruire.

    Il perdono non è mai un dato di fatto acquisito una volta per tutte e a forza di volontà. Si tratta di un cammino da percorrere insieme al crocifisso. “Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione” (CCC 2843).

    Un’altra sottolineatura. Non chiediamo a Dio rimetti i miei debiti ma i nostri debiti. La richiesta è da parte non del singolo ma della comunità.

    Comunità dei discepoli del crocifisso che si dona reciprocamente la pace e la riconciliazione che essa riceve da Dio e che si impegna a diffondere nel mondo.

    Ci accorgiamo di quanto spessore e verità dovrebbe essere costituito lo scambio della pace fatto durante la liturgia!

    Posted by attilio @ 11:29

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