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28 Gen
di p. Attilio Franco Fabris
Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.
Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?
Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc)).
Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.
Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.
– come egli intende realizzarlo?
Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.
Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.
La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28).
Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30)
Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv 19,30).
Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).
Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).
Nel Pater si chiede che essa sia portata sulla terra.
sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.
Se non riesci a “osservare i comandamenti” non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c’è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E’ inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi. Non devi cercare nemmeno annazitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama (O. Clèment).
Questa preghiera e questa attesa acuiscono in noi la fame e sete di giustizia caratteristiche di ogni vero discepolo.
In Cristo, mediante i sacramenti dell’iniziazione, il Padre compie in noi la sua volontà. E in questa volontà ciascuno di noi entra da soggetto, da protagonista; vi sono chiamate in causa la nostra libertà, intelligenza, creatività. Nella volontà di Dio non vi è nulla di preconfezionato. Il Padre ci ha fatto dono di esistenze aperte, da costruire con lui.
Non si tratta di rassegnazione ma di collaborazione. Scrive Teilhard de C. (Ambiente divino): Il trovare e il compiere la volontà di dio non è un fatto immediato né consiste in un atteggiamento passivo… Non raggiungerò la volontà di Dio in ogni istante se non all’estremo limite delle mie forze, nel punto in cui la mia attività tesa verso il meglio-essere si trova continuamente controbilanciata dalle forze avverse che cercano di fermarmi o di farmi cadere. Se non faccio tutto il possibile per avanzare o per resistere non mi trovo al punto giusto, non subisco Dio quanto potrei e quanto egli desidera. Se invece il mio sforzo è coraggioso, perseverante, io raggiungo Dio attraverso il male, al di là del male; io mistringo a lui.
Ancora una volta prendiamo atto di come la preghiera del cristiano sia diversa da quella del pagano: questi tenta di ottenere con la preghiera che la divinità si pieghi al suo volere, in fin dei conti se ne vuole accapparrare la potenza. Il cristiano invece, come Gesù, chiede di conoscere ed attuare il volere del Padre. Gli chiediamo luce per conoscerla, forza per adempierla. E una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nsotro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudini per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi (Agostino, Confessioni, 9.20).
Senza conversione e impegno per il prossimo nenache una delle richieste può essere pronunziata correttamente” (B. Stendaert).
1. “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”. Queste parole esprimono il progetto per cui Gesù vive. Cosa ti suggeriscono? Perché è fondamentale per Gesù – e per te di conseguenza – fare della volontà del Padre il proprio “cibo”?
2. “Sono disceso non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato”. Come di poni di fronte alla volontà di Dio? Ti è facile scoprirla? Ne hai paura o desideri viverla pienamente? Perché?
3. Leggi e medita Gv 6,37-40 e Ef 1,3-14: che cosa si intende per volontà di Dio? Come la applichi alla tua vita?
4. Gesù nel Getsemani prega: “Padre se possibile passi da me questo calice… ma non la mia ma la tua volontà sia fatta”. A volte è difficile compiere la volontà del Padre. Ti è accaduto in passato? Forse stai vivendo ora questo momento: come ti stai ponendo di fronte ad essa? Cosa ti risulta più difficile da accogliere? Perché? Nella difficoltà fai riferimento come Gesù alla preghiera onde trarne forza e speranza?
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27 Gen
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
di p. Attilio Franco Fabris
DUE INTERPRETAZIONI
Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.
Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.
Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.
Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?
Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc).
Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.
Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.
Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola “volontà” – in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz – ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano “comandare – imporre – ordinare”, ma “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”.
Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.
La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.
Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.
QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?
Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater – sia fatta la tua volontà
– essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.
Anzitutto ci domandiamo:
– in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?
– come egli intende realizzarlo?
Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.
Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:
Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.
Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è “servo”, è “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6). Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.
La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28)
GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE
Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa “volontà” del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.
Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:
Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).
Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)
Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30).
Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv 19,30).
Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati … secondo la volontà di Dio” (Gal 1,4). “E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo” (Eb 10,10).
LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO
Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).
Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).
Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.
La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.
Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.
Tale preghiera trasforma il nostro cuore.
In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.
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26 Gen
VENGA IL TUO REGNO
di p. Attilio Franco Fabris
Il Battista impernia la sua predicazione sulla conversione in vista dell’avvento del Regno:
“Il Regno dei cieli è vicino”: Mt 3,2
Gesù riprende questo tema, anzi annuncerà che ormai il regno è giunto:
“Il tempo è compiuto, il Regno die cieli è vicino”: Mt 1,15
“Il regno di Dio è in mezzo a voi”: Lc 17,21.
Leggendo i vangeli ci accorgiamo di come il Regno di Dio è il centro della sua predicazione di Gesù di Nazaret (122 volte di cui 90 in bocca a Gesù).
Così anche i discepoli sono mandati a predicare il Regno:
Mt 10,7
At 28,31
Ma che cos’è il Regno dei Cieli, o per usare un’altra espressione il “regno di Dio”? I testi non lo dicono. E’ evidente che per gli interlocutori non occorresse spiegarlo talmente era chiaro!
NELL’ANTICO TESTAMENTO
Nelle teogonie dei popoli antichi il mondo nasceva da una lotta tra Dio e il Caos. La regalità di dio veniva dunque stabilita al momento della creazione.
Essa veniva ciclicamente celebrata affinché potesse perpetuarsi. Il mondo infatti era costantemente minacciato dal Caos (ecco allora le celebrazioni rituali del giorno e della notte, dell’inverno e primavera, della morte e della vita… )
Un ruolo fondamentale era dato dalla figura del re: toccava a lui, in quanto rappresentatnte-figlio-luogotenente di dio, assicurare l’ordine da cui scaturiva prosperità, pace, giustizia per i poveri e gli oppressi (cf Is 1,23; Sl 72,7.16).
Ad esempio quando il re babilonese Assurdanipal (669-630 ac) assurge al trono, esso viene celebrato con queste parole:
Governo prospero
anni di equità
Piogge abbondanti,
fiumi in piena…
i vecchi saltano
i fanciulli cantano.
Le fanciulle esultano di gioia,
le donne concepiscono…
Quelli che da anni giacevano ammalati rivivono,
gli affamati sono saziati,
i magri diventano grassi,
gli ignudi sono coperti di abiti.
Israele coltiva la speranza del regno di Dio, ma a differenza di altri popoli non lo proietta come un ritorno ciclico al passato, non è un ritorno alla mitica età dell’oro, esso invece appartiene al futuro dell’alleanza, alle promesse stesse di Dio fatte a Abramo, Isacco e Giacobbe.
Questa convinzione di fede nasce anche dall’esperienza derivante dalla delusione a cui Israele soggiace passando da un re all’altro. La monarchia è screditata inesorabilmente. Nasce l’attesa che re e pastore d’Israele sia JHWH stesso (cf Gr 22,1-4; Ez 34). Alla fin fine ci si rende conto che il regno verrà solo se JHWH stesso “pascolerà” il suo popolo.
Nonostante tutte le prove e persecuzioni Israele non mancherà mai di questa speranza (tuttora). Ne fanno testo tante preghiere salmiche in cui si celebra il trionfo di JHWH e l’instaurarsi del suo Regno:
“Il Signore è re, tremino i popoli…
Re potente che ami la giustizia” (Sl 99,1.4)
“Acclamate come vostro re il Signore…
Egli viene a giudicare la terra,
giudicherà il mondo con giustizia
e i popoli con rettitudine” (Sl 98,6.9).
Equivalente sarà l’immagine della venuta finale del Signore, del giorno di JHWH, in cui egli farà definitivamente giustizia e porterà salvezza (cf Is,35,4; Gl 2,1; Gl 3,1-5; Sof 1,14).
Altra immagine equivalente sarà la riunificazione di tutti i popoli sotto l’unica signoria di Dio, ed essa avverrà sul monte santo di Sion (Alla fine dei gioni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti… Is 66,19-21; Mic 4,1-7). [1]
NEL NUOVO TESTAMENTO
Nel II sec. A.C. si attesta una forte attesa del regno di Dio testimoniata dalla fioritura della letteratura apocalittica, tutta permeata dalla speranza della sua vicinanza.
Un avvento, ci dicono, che non sarà privo di drammaticità. Daniele 7 descrive la progressiva distruzione ed annientamento dei grandi imperi terreni. Non avverrà il passaggio dunque senza dolore: calamità, guerra, morti e pestilenze. Come se il mondo ripiombasse nel caos primigenio in attesa di una nuova creazione. Sono i dolori del parto, preludono alla nascita di una nuova vita.[2]
Gesù annuncia il regno, ovvero intende affermare che è giunta l’ora del suo avvento; le speranze stanno per essere realizzate.
Ma di che Regno parla di Gesù? Come lo intende?
Non si identifica con l’interpretazione politica e nazionalistica, ma d’altro lato non da adito ad una interpretazione puramente spirituale ed interiore che fa riferimento solo alla coscienza del singolo.
La sua parola pur non facendo politica risulta sovversiva nei confronti di tutte le strutture di peccato, mentre egli rifiuta di schierarsi dalla parte di chi lo vorrebbe attirare su di un campo politico (cf Gv 6,14s).
Gesù pone dei gesti concreti, visibili, dei segni direbbe Giovanni, che annunciano un ordine nuovo:
Lc 7,22 in rif. a Is 61,1-2
Tra tutte le immagini usate da Gesù per parlare del Regno, una gli è particolarmente cara: è la gioia del banchetto al quale tutti sono invitati iniziando proprio dagli ultimi, malati e peccatori (cf Lc 14,21).
Gesù userà anche le immagini del grano e la zizzania (Mt 13,24), del granello di senape ( Mt 13,31), del lievito (mt 13,33), del tesoro nascosto e la perla preziosa (Mt 13,44), della rete ricolma di pesci (mt 13,47).
Gesù talvolta afferma la presenza in atto del regno, altre volte lo annuncia prossimo. E’ importante questa sottolineatura che suggerisce il già e il non ancora del regno come inteso da Gesù nell’invocazione del Pater.
Con l’incarnazione infatti il Regno è già entrato in questo mondo, ma come un “granello di senape” (cf Mt 13,31s). E’ piccolo, insignificante, nascosto, ma possiede già in sé tutte le sue potenzialità future, è destinato a svilupparsi incredibilmente fino al suo compimento alla fine dei tempi.
Questo Regno in germe deve ora ancora lottare contro le forze di morte presenti nel mondo, che saranno definitivamente sconfitte alla fine quando la zizzania sarà raccolta e bruciata.
Quando il regno sarà completato? Dice Paolo: quando Cristo “consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto a nulla ogni potenza nemica… e aver posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte… e Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,24-28).
Dunque il regno è presente già sin d’ora, ma la sua piena manifestazione è nel futuro.
La Chiesa non è il Regno di Dio già attuato, essa è comunità di credenti chiamata a porre i segni del Regno lungo la storia, vocazione ad essere sacramento del regno in questo mondo (cf Mc 16,15-18).
VENGA IL TUO REGNO
Il discepolo di Gesù è invitato dalla preghiera del Pater ad invocare l’avvento del Regno.
Ed è questa una preghiera che ha sempre accompagnato la comunità cristiana che accanto all’invocazione del Pater, pregava dicendo: Marana thà. “E’ il grido dello Spirito e della Sposa: Vieni Signore Gesù” (CCC 2817). Venga il tuo Regno!
Queste invocazioni sottolineano il fatto che la venuta del regno è gratuita, è puro dono, indipendente dalla volontà dell’uomo. Esso si può ricevere, ereditare (cf Mc 10,17), accogliere (Mc 10,15); attendere (Lc 2,25).
Da parte nostra ci sarà dunque solo un’attesa passiva? Si tratta di stare a braccia conserte come in stazione attendendo il treno?
Pregando le parole “Venga il tuo Regno” siamo portati a chiedere di entrare nella volontà di Dio, nell’ottica del suo Regno, imparando a scorgere din d’ora, nella nostra storia, i suoi germi di presenza.
La preghiera, se è autentica, costringe ad aprire il nostro cuore all’accoglienza di questi germi del regno e a porre a nostra volta dei segni concreti della sua presenza. Se il regno è pace, giustizia, amore, verità e vita questo significa che cercherò sin d’ora di incastonare in questa storia così sbilenca, contraddittoria, segnata dal male e dalla morte gesti nuovi di giustizia, di verità, di vita, di amore. Sono questi doni che ci rimandano all’azione presente dello Spirito nella Chiesa e nel mondo. Non per nulla antiche traduzioni dicevano in luogo di “venga il tuo regno” le parole “Il tuo santo spirito venga su di noi e ci purifichi”. Lo Spirito è sempre più immediato inizio del regno che viene nella storia. (Massimo il Confessore -IV sec. – leggeva la sequenza Padre-Nome-regno come un movimento trinitario).
Si domanda una presenza maggiore della ricchezza di Cristo tra gli uomini, nella loro vita, nelle loro strutture, nel mondo in cui essi abitano (U.Vanni)
UN RE CROCIFISSO
La struttura delle fiabe rappresenta una drammatizzazione della vita, con le sue prove, le sue lotte, i suoi conflitti. Il fine è sempre lieto: “Vissero tutti felici e contenti”. I cattivi sono inesorabilmente castigati. Il bene trionfa sempre: è solo questione di tempo e di pazienza. I ruoli sono sempre ben definiti: i cattivi sono proprio cattivi, e i buoni unicamente buoni.
Per i bambini le fiabe sono importanti: svolgono il ruolo di iniziazione al mistero della vita e della morte.
Ma gli anni passano, i bambini non sono più tali, la fiaba della vita si sfalda a volte lentamente ma inesorabilmente. Ci si rende conto che non esistono bacchette magiche o talismani che risolvono i problemi. La vita si presenta carica di contraddittorietà: i ruoli sono sempre meno definiti, il bene spesso sembra non trionfare mai, tutto sembra avvolto da un velo che prennauncia un’inesorabile morte senza speranza.
La regalità di Cristo sulla croce si staglia sulla storia in tutta questa contraddittorietà e assurdità. Non vi è un lieto fine nella sua vita terrena: l’innocente è stato ucciso, in quel giorno “fu sparso sangue innocente” (Dan). Sono i “buoni”, gli osservanti della Torah che hanno ucciso Gesù. E la sua morte non è quella dell’eroe: nella sua umanità Gesù sente tutto il dramma, lo quarcio nella sua carne, del passo, della pasqua, che si appresta ad affrontare (“e il suo sudore cominciò a cadere a terra come gocce di sangue”).
Nel Vangelo di Giovanni troviamo una sezione dedicata al regno, ed essa è destinata alla Chiesa affinché non cada in nessun equivoco riguardo ad esso..
Siamo infatti proprio nel racconto della Passione. Dinanzi a Pilato Gesù non nasconde la sua regalità: “Io sono re”, ma afferma nel medesimo tempo l’essenziale diversità della sua regalità da quelle di questo mondo “Il mio regno non è di questo mondo” (cf Gv 18,36).
Egli sarà un re coronato di spine e rivestito del mantello regale di porpora. Inchiodato sulla croce come su un trono, e presentato al mondo intero (le tre lingue) come il “re dei giudei” (19,20).
Ed è qui che il vangelo proclama al mondo la regalità del Signore Gesù che dona la vita liberamente e per amore: “li amò sino alla fine” (13,1).
Dove sta la gloria, la “santificazione del Nome di Dio nella passione e morte del Figlio?
Gesù muore per il Regno che ha annunciato e che non vede. Come Abramo che morì con la promessa di Dio di una terra e di una numerosa discendenza: ma muore possedendo solo una tomba, e un figlio.
E’ sicuramente un re che si muove su di una linea opposto ai re di questo mondo (cf la lavanda dei piedi: Gv 13,18-36).
Egli ha posto i germi del regno nella storia, ha posto anzitutto se stesso. Come Risorto egli continua la sua presenza in mezzo a noi e attraverso noi. I segni del regno dunque ci sono, ma sta a noi il saperli riconoscere. Spetta ancora a noi collaborare affinché essi siano posti lungo i solchi della storia, nella certa speranza che al di là di ogni pretesa immediata di riuscita e realizzazione.
Cero questi segni rimarranno poveri, deboli, spesso perseguitati. Ma qui risulta fondamentale la fede nella fedeltà del Padre che non verrà meno alla promessa di cieli e terra nuova.
Così la Chiesa e il cristiano imparano ad attendere fiduciosi la venuta del regno del Padre.
Non lo vogliamo però identificare subito e solo con il “paradiso”, perché allora si domnaderebbe come san Paolo di essere subito sciolti dai legacci di questo mondo. Anche se “in effetti si tratta principalmente della venuta finale del regno di Dio come il ritorno di Cristo” (CCC 2818).
Il regno è già qui, è dentro la storia. Ed è questa la “lieta notizia”: è giunto a voi il regno di Dio (Lc 11,20).
E’ necessario avere occhi di fede e di sapienza per riconoscerlo in mezzo alla zizzania; occorre disponibilità per apreire il cuore alla sua venuta già sin d’ora pregustandone il suo sapore.
Sapienza per imparare ad accoglierne con fiducia i ritmi, i tempi, le modalità così spesso diversi dai nostri (cf Mt 13,47-50 il grano e la zizzania).
Nessuno lo possiede o lo possederà in pienezza. Nessuno può dire “eccolo qui o eccolo là”. Esso è un tesoro nascosto (cf Mt 13,44), rivelato ai piccoli (“Ti benedico o Padre….”).
Per ora il regno è lievito, è sale, è luce (cf Mt 13,33; 5,13-14).
L’umile e fiduciosa attesa del dono ci aiuta ad evitare ogni forma di fanatismo che porterebbe ad identificare in modo ottuso e meschino noi stessi, i nostri progetti e realizzazioni con il Regno stesso di Dio, rischio che la Chiesa in certe epoca ha più di una volta vissuto.
“Che il regno non sia di questo mondo ci libera così dalle utopie totalitarie (da cui la cristianità non si è sempre preservata). Ma che esso affiori già nella pace, nella bellezza, nella tenerezza della liturgia e della contemplazione, ci libera dalle delusioni e dalle amarezze che ci rendono cinici e crudeli” (O. Clement, Anacronache).
SCHEDA DI LAVORO
1. Il regno di Dio è come un granellino di senape… è come un seme che un uomo getta nella terra…
Possiedo questa fede nella presenza operante del regno?
Riesco a vederne i segni di presenza e di crescita in me e attorno a me? Provo ad elencarne alcuni.
2. Il regno è come il lievito….
C’è in me questo lievito? Esso fermenta il mio modo di vivere?
Se questo non avviene: perché, quali ne sono i motivi? Cosa potrei fare?
Mi sento attirato e impregnato da altri titpi di lievito?
3. Il Signore è re in eterno, per sempre…
La signoria di Dio nella mia vita: la riconosco? Come si concretizza la mia sottomissione ad essa?
Senti che la tua vita è affidata a lui in tutta sicurezza?
4. Annunzierò le tue meraviglie o Signore…
Il regno è testimoniato dalla tua vita. Esso si manifesta tramite le tue azioni, il saper porre cioè germi del regno lungo i solchi della tua storia che è quella di tutta l’umanità.
So collocare questi semi del regno?
Se si in che modo?
Se no: perché? Cosa potrei fare affinché questo si concretizzi?
[1]Prendiamo nota che la forte critica che l’ebraismo rivolge al cristianesimo sta proprio in questo. Come potete dire che è giunto il Messia quanto le profezie legate alla sua venuta prevedono l’instaurarsi definitivo del Regno di Dio? (Cf Is 11,6-9; 2,4; Ez 36,25-35) Nulla è cambiato nel mondo. Permangono violenze, ingiustizie, soprusi, malattie morte. Cosa rispondereste?
[2]Interessante notare come si presenteranno due correnti di riflessione teologica all’interno del giudaismo. Una prima penserà che il regno consista in una restaurazione della dinastia davidica. Anche all’interno del NT alcuni discepoli si presentano con quest’attesa (cf Mc 10,37). Una seconda, più spiritualista, penserà il regno di Dio come un ordine radicalmente nuovo, non solo annientamento dei nemici di Israele ma addirittura dello stesso male.
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25 Gen
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME
di p. Attilio Franco Fabris
Più che trattarsi di domande le prime tre richieste del Padre Nostro esprimono degli auspici, dei desideri, delle attese:
– sia santificato il tuo nome
– venga il tuo regno
– sia fatta la tua volontà
A questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta così: E’ proprio dell’amore pensare innazi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non “ci” nominiamo ma siamo presi dal “desiderio ardente” dall”ansia” stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo (2803).
Il primo di questi desideri è dunque che il santo Nome di Dio sia santificato.
Si tratta per noi di una espressione strana per noi (è sempre stata per lo più intesa come il rispettare il nome di Dio non bestemmiandolo), ma comunissima nel giudaismo.
Troviamo ad esempio nella preghiera quotidiana dello Qaddish:
Sia glorificato e santificato
il tuo grande Nome
nel mondo che egli ha creato
secondo la sua volontàE nella terza delle Diciotto Benedizioni leggiamo:
Tu sei santo e il tuo nome è santo.
Noi santificheremo il tuo nome nel mondo,
come è santificato nell’alto dei cieli.
NELL’ANTICO TESTAMENTO
Per la cultura semitica il nome non era una semplice designazione convenzionale, esso era intimamente legato alla persona, si identifica con essa.
Dare un nome nuovo significava ad esempio affidare a quella persona una nuova missione, un nuovo modo di essere, implicava un profondo cambiamento e un potere su di lui (cfr il romanzo di Gary Jennings, L’Azteco, in cui il protagonista Mixtli lo scrivano dovrà cambiare nel suo cammino diversi nomi a seconda con i potenti con cui si troverà a che fare).
Ricevere un nome da qualcuno significava riconoscere di essere dipendenti da Lui (cf Gn 17,5; 1,3-10; 2,20: Non ti chiamerai più Abram ma Abraham perché padre di molti popoli io ti costituirò)).
Di conseguenza conoscere il nome significava possedere il segreto intimo della persona, avere un potere su di lui, da qui il suo valore magico.
Israele conosceva il nome santo di Dio che gli era stato rivelato (cf Es 3,14-15; 6,2-3), ma doveva impegnarsi a non ingiuriarlo mai nè impiegare per maledizioni (cf Lv 24,11-15), nè per giuramenti o altro (cf Lv 19,12; Es 20,7).
Nel post esilio il rispetto del Nome giunse a tal punto che solo il Sommo Sacerdote lo poteva pronunciare e una sola volta all’anno, nel Santo dei Santi nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). La qual cosa fece sì che si perdesse l’ esatta pronuncia del sacro Tetragramma JHWH.
Incontrandolo nella lettura della Scrittura doveva essere sempre sostituito da un titolo similare (es Adonai) aggiungendo la formula “Benedetto sia il suo Santo Nome”.
Ad un primo livello dunque capiamo che santificare il nome di Dio significa rispettarlo, onorarlo, mai profanarlo, non usarlo in modo magico al fine cioè di voler piegare Dio al proprio servizio (cf Lv 18,21; 20,3).
Il verbo “santificare” equivale a separare, distinguere.
Dio è il “Tre volte Santo” (cf Is 6,1-5), ovvero Colui che è totalemente “Altro” dall’uomo, distinto e separato da lui.
Santificare il nome di Dio ad un secondo livello significa dunque riconoscere che egli è Unico, ineguagliabile, ineffabile nel suo mistero. Ed era in questo senso che il giudaismo interpretava il termine ehad-Uno nello Shemà Israel.
Israele santificava il nome di Dio professando e magnificando la sua azione nella storia, narrando le opere da lui compiute, manifestando lo stupore per il suo agire e rivelarsi. Ed è questo un terzo livello:
“Anche lo starniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito” (1Re 8,41-43).
Quindi il nome di Dio è glorificato-santificato quando si annunziano le sue opere. Israele è chiamato ad essere un inno vivente alla santità-unicità di Dio, popolo nel quale JHWH manifesta la sua gloria:
“Vedendo ciò che ho fatto in mezzo a loro,
santificheranno il mio nome,
santificheranno il Santo di Giacobbe,
tremeranno di fronte al Dio di Israele” (Is 29,23).
E’ tutta la storia di Israele che santifica il nome del Signore, e Israele ben conosce questa sua missione. Compito dei padri sarà di narrare ai figlio le grandi opere di JHWH iniziandoli alla santificazione del nome:
“Grande è il Signore e degno di ogni lode,
la sua grandezza non si può misurare.
Una generazione narra all’altra le sue opere,
annunzia le sue meraviglie.
Diffondono il ricordo della sua bontà immensa” (Sl 145,3-7).
Ma vi è uncora un quarto livello. Occorre partire dalla considerazione che anche la santificazione del nome fatta nella liturgia splendida del Tempio e nei riti non è sufficiente, e i profeti lo ricorderanno insistentemente; è indispensabile che tutto questo sia accompagnato da una vita “santa” ovvero conforme ai dettami della Torah:
“Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 22,31)
“Osservate i miei comandi, non profanate il mio nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli isrraeliti. Io sono il Signore che vi santifico”
L’ingiustizia, il sopruso, l’idolatria sono profanazioni del nome santissimo di Dio:
“Hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; calpestano come polvere della terra la testa dei poveri… e così hanno profanato il mio santo nome” (Am 2,6-7).
Arriviamo ad un testo fondamentale per entrare in una ancor più profonda comprensione dell’espressione “santificare il nome di Dio”. Si tratta di Ez 36,20-38:
“Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati. Annunzia alla casa d’Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi.
Il profeta sta scrivendo al popolo esiliato, ridotto in schiavitù. Tale situazione è letta come conseguenza dell’infedeltà alla Legge. I pagani, un tempo meravigliati per il successo di Israele, ora lo deridono e con esso un Dio che si è dimostrato non più dalla loro parte.
Ma ecco che JHWH non sopporta che il suo Nome a motivo di Israele sia disonorato. Egli dunque prenderà sicuramente posizione al fine di difendere il suo nome. In che modo? Ricostruendo il suo popolo, riportandolo nella terra promessa, soprattutto dando un cuore nuovo ad Israele affinché non si allontani più da lui, santificando così il suo Nome santo davanti a tutti i popoli.
Nel parlare di ciò che Dio compie, la spiritualità giudaica usava la forma passiva (passivo teologico onde evitare il Nome di Dio): “sarete giudicati”, “vi sarà dato…” equivale a “Dio vi giudicherà”, “Dio vi darà”…
“Sia santificato il tuo nome” lo traduciamo con “O Dio santifica il tuo nome”.
Gesù dirà ad esempio: “Padre glorifica il tuo nome” (Gv 12,28).
Non siamo noi anzitutto a glorificare Dio, non ne ha bisogno!
Il suo nome è glorificato nella sua opera di salvezza gratuita nei confronti dell’uomo: il cieco, il paralitico, il peccatore che sperimentano la salvezza se ne tornano “lodando e glorificando Dio”.
Nel Pater noi chiediamo di poter sperimentare al più presto la sua opera di salvezza in noi, nella Chiesa, nel mondo intero.
Una preghiera già esaudita dalla fedeltà di Dio anche se non ancora realizzata in modo definitivo, ma di cui possiamo già sin d’ora “assaggiare” gli anticipi. E di cui a volte, in momenti difficili, ci augurereremmo di vedere già realizzata pienamente.
Speranza e desiderio ardente presente già nell’antico giudaismo: “Glorificato e santificato sia il suo grande nome nel mondo… E ciò avvenga ai nostri giorni, nel tempo di vita della casa di Israele, in fretta e in tempo prossimo”.
A questo punto sorge una domanda: se è Dio che deve santificare il suo santo nome a che serve la nostra preghiera?
La nostra supplica non cambia il cuore di Dio che rimane sempre fedele al suo patto, ma il nostro. Siamo noi che dobbiamo renderci disponibili ad accogliere la sua opera di salvezza. Che il suo nome sia santificato perciò nella nostra vita.
IL NOME: MISTERO DELLA PERSONA
In mezzo ad una massa di volti sconosciuti dà gioia il sentirsi chiamare improvvisamente per nome da una voce amica.
Il mio nome risuona come un riconoscimento di me stesso come persona, esso è quella realtà che mi distingue dagli altri e che mi permette di entrare in relazione con l’altro.
Senza un nome io non esisto. Quando incontriamo un bambino gli chiediamo infatti per prima cosa: Come ti chiami?
Il nome è dunque non soltanto quella realtà che mi definisce ma altresì quella realtà che mi pone in relazione con qualcun altro: quando sono chiamato io esisto, io sono interpellato.
Anche Dio ha rivelato al suo popolo il suo nome: JHWH (cf Es 3,14). Non è dunque un’astrazione, un principio anonimo di esistenza.
Ma mentre rivelava il suo nome vi si nascondeva. JHWH significa infatti: “Io sarò”. E’ come se avesse detto: Da ciò che farò capirete chi sono.
La rivelazione del suo nome lungi dal compiere la rivelazione diventa un invito pressante alla ricerca, perché Dio non si lascia afferrare: JHWH è Dio ineffabile, indicibili, indescrivibile.
Gesù, che è l’esegesi del Padre (cf Gv 1), ci ha manifestato un altro nome di Dio: il suo essere Padre, il suo essere amore. Con la sua incarnazione, passione e morte ci ha detto chi è Dio.
E’ in Gesù che il Nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: rivelato da ciò che egli è, dalla sua parola, dal suo sacrificio (CCC 2812).
Il nuovo nome è dunque Amore (“Dio è Amore”). Per santificare il Nome noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Nella sua sofferenza e morte (O. Clèment).
INVOCARE IL NOME DEL SIGNORE
Dio ci conosce nome per nome. Di fronte a lui non siamo una massa.
Un nome con il quale Dio ci interpella, intesse un dialogo, una relazione sponsale, paterna, amicale. Quando chiama qualcuno lo fa sempre con il suo nome.
Invocare il nome santo di Dio è rispondere a questa chiamata, e questa invocazione può assumere tantissime sfaccettature:
– un chiamare in causa Dio di fronte al dramma della sopfferenza umana: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).
– un atto di abbandono e resa nelle sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46)
– un grido di aiuto: “Padre passi da me se possibile questo calice”.
Invocare il nome non è pretesa di piegare Dio: è lui il Signore, l’onnipotente, il creatore che chiama le stelle per nome (Is 40,26).
SANTIFICARE IL NOME
E’ Gesù colui che più di ogni altro ha santificato il Nome di Dio.
Nell’Eucaristia memoriale vivo della sua morte e risurrezione, preghiera somma della Chiesa, noi santifichiamo il Nome di Dio. Nella liturgia della parola narriamo le sue meraviglie per noi santificando il suo Nome. La memoria di Dio nella vita ci porta a compiere opere tali da santificare il suo nome. I nostri gesti di amore, di dono, di sacrificio sono occasione di lode al Padre da parte degli uomini (cf Mt 5,16), la nostra vita di fronte agli altri assume il compito di specchio di Dio:
“I serafini, lodando Dio, dicono: Santo, Santo, Santo; appunto le parole “sia santificato il tuo nome” significano che il suo nome sia glorificato. E’ come se dicessimo a Dio: Concedici di vivere in modo così puro e perfetto che tutti, vedendo noi, ti glorifichino. La perfezione del cristiano sta proprio in questo, nell’essere così irremprensibile in tutte le sue azioni, che chiunque lo vede, per esse rende lode a Dio” (s. Giovanni Cris., Om. In Matteo, 19)
In fin dei conti non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. “Il nome santifica ed è santificato in un medesimo processo” (B. Standaert).
Diceva Nieztche: Mostrami che tu sei redento e io crederò al tuo Redentore.
L’INIZIAZIONE CRISTIANA
Il battesimo: è l’evento di salvezza posto all’inizio della nostra vita in cui il nostro nome è messo in relazione al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito. La Trinità ristabilisce in noi la sua dimora di gloria-santità.
Nella confermazione Dio ci chiama ancora per nome per affidarci un compito, una missione dentro la comunità cristiana. La nostra vocazione come missione-testimonianza della santità di Dio
Nell’Eucaristia, solenne invocazione del Nome, la Trinità rinnova l’alleanza con noi. Ci si riconosce Uno dinanzi all’altro. Essa è memoriale delle grandi opere compiute da Dio in cui egli è santificato.
La catechesi e la predicazione assumeranno ancora la tonalità del racconto come ambito in cui Dio rivela il suo nome e in cui viene santificato.
NEL NOME DI GESU’
Ogni preghiera liturgica è rivolta al Padre nel nome di Gesù nello Spirito Santo. Avviene così una duplice rivelazione:
– la via che Dio ha percorso per arrivare a noi
– la via che dobbiamo percorrere per andare a lui.
E’ Cristo la via per giungere al Padre (cf Gv 14,6 Mostraci la via…).
La nostra preghiera è dunque valida, efficace, se fatta nel suo nome:
Gv 14,13-16; 15,16; 16,23-26
Ed è lo Spirito di Gesù a suscitare in noi la preghiera: il grido di Abbà (cf Rm 8,15-27).
La nostra preghiera raramente si rivolge al Padre (forse sintomo dell’abbandono della tradizione biblica e liturgica). Ci sembra non conveniente “scomodare” il Padre, non si ha familiarità con lui. Anche Cristo spesso è rispedito in cielo, lontano da noi… non ci resta che Maria!
Ma la tradizione biblica ci mostra un Padre tenero e “materno”, di cui Gesù è il volto umano. Nel suo Spirito ci rivolgiamo al Padre in tutta fiducia (Ebr 4,14).
Se esasperiamo il ruolo dei santi rischiamo di adombrare questo volto paterno di Dio, ricadendo in una sorta di mitologia diversificata secondo tante “competenze”.
NELL’EDUCAZIONE
– Il nome di Dio va sempre abbinato a realtà positive. Non va usato come deterrente o come ricatto. – Ci si abitui a rivolgersi al Padre nella lode e nel rendimento di grazie per i suoi doni.
– Alla luce del suo Nome vengAno letti a grandi fatti della vita.
– Si purifichi continuamente la conoscenza di Dio. Vi è troppa ignoranza in questo campo d essa genera spesso solo puerilità, magismo, paure
SCHEDA DI LAVORO
1. Alla luce di Ez. 36,20-38 è JHWH che santifica il suo nome in mezzo alle nazioni nonostante il peccato di Israele occasione di denigrazione del suo Nome.
Dio è fedele nonostante il nostro male.
Questo ravviva la nostra fiducia nella sua misericordia. E’ presente nel tuo cammino spirituale, oppure dinanzi al male ci scoraggiamo, o addirittura vi si persevera senza prendere coscienza che esso diviene occasione di non santificazione del nome?
2. Il nome di Dio è santificato quando si annunziano le sue opere.
Prova a ripercorrere la tua storia, scoprivi alcune opere di Dio.
Quali sono?
Sono diventate occasione per santificare il suo Nome?
3. Chiedere che il Nome sia santificato significa rendersi disponibile il nostro cuore all’opera che Dio vuole compiere in noi a beneficio della Chiesa e del mondo.
Senti in te questo desiderio e disponibilità?
Cosa fare da parte nostra per rendersi concretamente disponibili?
Quali ostacoli secondo te vengono a frapporsi?
Cosa fare per cercare di abbatterli?
4. Prova a stendere per iscritto un tuo commento e una preghiera che accompagni questa prima invocazione del Padre Nostro.
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25 Gen
CHE SEI NEI CIELI
di p. Attilio Franco Fabris
L’espressione “che sei nei cieli” non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.
Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.
Quale il significato di questa espressione?
Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inacessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, linfinito.
Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida, costituito da acque trattenute da un’immenso velo costellato di stelle. Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve (cf Gb 37,9; 38,22). Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne (“Io tengo salde le sue colonne”).
Al di sopra di tutto il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12).
Dio comunicava con la terra tramite gli angeli; essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12); in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane essi si serviranno di ali.
L’espressione “che sei nei cieli” sta ad indicare dunque la totale trascendenza di Dio, ma non la sua lontananza! Evitando anche la banalizzazione e la proiezione di false immagini di Dio.
Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre essa vuole anzitutto eliminare ogni possibile confusione tra i “padri terreni” e il “Padre” da cui proviene ogni paternità.
Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre”, può generare in noi un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inacessibile.
Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio; la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.
E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende infinitamente.
Il peccato ci ha allontanato “dai cieli”, sono essi la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).
La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo. E’ un cielo ormai aperto: “si spalancarono i cieli” durante il battesimo di Gesù, e da allora non sono più richiusi all’uomo. In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati. Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6).
La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione: I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (5,8).
LA PREGHIERA CRISTIANA
Guardando tre gesti con cui accompagnamo la nostra preghiera cogliamo alcuni elementi della nostra fede, ovvero della nostra relazione con Dio.
Anzitutto vediamo che i cristiani pregano il Pater stando in piedi
I mussulmani invece pregano stesi a terra rivelando la loro sottomissione a Dio. Pregando coì essi sottolineano la sua assoluta trascendenza e lontananza.
Noi preghiamo il Padre nostro stando in piedi. E’ la posizione di Colui che è risorto, è il nostro identificarci con Cristo.
Nel battesimo siamo infatti passati da morte a vita. Gesù ci ha fatto dono del suo stesso Spirito. Cristo risorto così vive in noi (cf Gal 2,20).
Non ci sentiamo poi schiacciati dalla trascendenza di Dio, siamo costituiti nella libertà e nella filiolanza nei suoi confronti.
Preghiamo volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo. Luogo della trascendenza di Dio.
Vogliamo vedere le cose con gli occhi di Cristo sempre rivolti al Padre (cf Canone Romano): infatti è in Lui che sta la verità di noi stessi, della realtà che ci circonda e della storia che attraversiamo.
Così diciamo che egli è Padre che è nei cieli, vicino ma nello stesso tempo avvolto nel suo mistero.
Scrive sant’Ambrogio: “ O uomo tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono… Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre… che ti ha redento per mezzo del Figlio e di: Padre nostro!… Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perhé ha generato lui solo, noi invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio” (De Sacram. 5,19).
Si prega con le braccia allargate.
Ed è questo il gesto spontaneo con cui il bambino corre incontro al papà o alla mamma.
E’ pure il gesto indicante una disponibilità incondizionata, come quella di Gesù sulla croce: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà”(Ebr 10,5-7)
E’ gesto di invocazione e di intercessione non solo per noi ma per il mondo intero.
Non chiediamo con questo gesto che la volontà del Padre si pieghi alla nostra: al contrario è segno di apertura, disponibilità alla sua volontà; è la consegna di noi stessi.
SCHEDA DI LAVORO
1. Ciascuno di noi lungo la sua storia, attraverso l’educazione e l’ambiente, viene a configurarsi un’immagine di Dio con dei tratti positivi e negativi. Si tratta di un’immagine il più delle volte “inconscia” ma che proprio per questo rischia di arrestare o di facilitare l’incontro con Dio.
Non bisogna avere paura di queste immagini, determinante invece è prenderne coscienza. Senza scandalizzarsi se ci accorgiamo che esse sono forse ben lontane dal volto del Padre rivelatoci da Gesù.
Prova a guardare il tuo mondo interiore, soprattutto quello dei sentimenti, l’idea di Dio da quali sentimenti è accompagnata, quali idee ed immagini suscita?
Sotto quali tratti è vicina all’immagine del Padre di Gesù?
Per quali ne è invece lontana?
2. Quale esperienze ricordi come fondamentali nella tua esperienza di Dio?
3. Quale immagine di Dio e di uomo emerge dalla preghiera di Gesù presentata in Mc 14,36-37? Prova a richiamare altri testi in cui Gesù rivela il volto di Dio come Padre.
4. Quale gesto spontaneamente saresti portato a fare recitando il Padre nostro?
5. Gesù insegnando il Padre nostro ci invita ad uscire dal nostro individualismo e da una concezione gretta di Dio. Dio è Padre di tutti, e in una famiglia uno ha a cuore i bisogni dell’altro.
Prendo in considerazione la mia preghiera e quella della mia famiglia-comunità.
Essa possiede la caratteristiche di essere costantemente aperta a tutta la Chiesa e al mondo intero?
Ti sforzi di superare la tentazione di una preghiera ripiegata solo su te stesso e le tue necessità?
6. Dio è vicino e nello stesso tempo costantemente trascendente. Sempre da ricercare e scoprire. Il suo mistero è insondabile.
Per me Dio Padre è vicino o lontano? La sua trascendenza mi allontana da lui, oppure diviene spinta alla ricerca umile e fiduciosa della preghiera?
7. I “cieli” in cui ha dimora il Padre sono oggetto del tuo desiderio. Il tuo cuore è rivolto là dove sta assiso Cristo Gesù alla destra del Padre?
8. Prega lentamente il Pater immedesimandoti in Gesù.
Esprimi questa tua conformazione a lui con dei gesti:
– le braccia allargate che ti ricordano l’offerta della sua vita sulla croce e la sua disponibilità
– in piedi facendo memoria della sua risurrezione dai morti.
– gli occhi rivolti al cielo dove è la dimora del Padre.
– il cuore aperto a tutto il mondo presentato al Padre nell’intercessione.
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24 Gen
PADRE NOSTRO
di p. Attilio Franco Fabris
L’aggettivo “nostro” nel Pater è riferito ovviamente a Dio (“di noi”), non sta ad indicare certamente possesso.
Siamo noi il suo popolo ed egli è il nostro Dio. Si tratta di un’appartetenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’alleanza:
Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).
Ancora: nostro indica la comunità, la Chiesa , la famiglia di Dio nella quale siamo stati generati alla fede mediante il nostro battesimo.
E quando preghiamo l’Orazione del Signore, anche nel silenzio e solitudine della nostra stanza, sempre noi ci dobbiamo sentire inseriti nella grande pregheira della Chiesa: in questo senso non esiste per me cristiano una preghiera mia.
Così il Padre nostro ci fa uscire dal nostro individualismo. E per essere pregato in verità “le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati”(ccc 2792).
E’ la preghiera che deve abbattere ogni frontiera e ostacolo che si frappone agli altri.
E nella Preghiera del Signore ci presentiamo portando tutti coloro per i quali il Figlio ha offerto se stesso: l’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo (CCC 2792).
Pregando così il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiese che tutti siano una cosa sola.
Il Pater, lo possiamo affermare, è la preghiera che ci fa passare dal Tu al Noi.
Constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu:
– il tuo nome
– il tuo regno
– la tua volontà.
Nella seconda parte predomina il noi:
– da a noi il nostro pane quotidiano
– rimetti a noi i nostri debiti
– non indurre noi in tentazione
– libera noi dal male.
Dal Tu del Padre passiamo ad noi scoprendo in tal modo l’altissima nostra dignità. Siamo figli, siamo un unico corpo per il battesimo e l’eucaristia, siamo un’unica famiglia, siamo fratelli e sorelle in Cristo con un legame più forte che quello del sangue (Mt 23,8).
In famiglia pregare insieme il Pater significa riconoscere gli uni di fronte agli altri, in una comune professione di fede, la comune paternità di Dio da cui procede ogni altra paternità. Questo riconoscimento comune è garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole.
In una comunità cristiana (religiosa) significa riconoscere che si è famiglia che trova il suo punto di riferimento non in se stessa, ma nel Padre da cui trae la propria origine e la sua ragione d’essere.
Ci si riconosce così figli di un unico padre e fratelli non tanto per un legame fisico di sangue, ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre”.
Comunità che si percepisce Corpo di Cristo in cammino verso l’esperienza della comunione.
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23 Gen
Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.
Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra “quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza”. Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. “Noi abbiamo bisogno di voi – egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VIIbid., 314). In quella circostanza, Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: “E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte” ( assunse l’ impegno di “ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica “rinascita” dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.
Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.
Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel “faccia a faccia”, in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: “A voi tutti – egli proclamò solennemente – la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!” (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Ibid.).
Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.
Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.
Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere” (n. 3). E più avanti aggiunge: “In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (n. 10). E nella conclusione afferma: “La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente” (n. 16).
Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.
Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”. Osserva poi: “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione”. E conclude: “Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare”. La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”. Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”. Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte” (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”, sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel “grande codice” che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.
Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.
Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: “Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza” (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!
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23 Gen
L’artista, immagine di Dio Creatore
1. Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.
Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.
In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).
Qual è la differenza tra « creatore » ed « artefice? » Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla — ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino — e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l’uomo e la donna « a sua immagine » (cfr Gn 1,27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr Gn 1,28). Fu l’ultimo giorno della creazione (cfr Gn 1,28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell’evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l’universo. Al termine creò l’uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.
Dio ha, dunque, chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella « creazione artistica » l’uomo si rivela più che mai « immagine di Dio », e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda « materia » della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano: « L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione ».(1)
Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo « dono », tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione.
La speciale vocazione dell’artista
2. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l’espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro.
E importante cogliere la distinzione, ma anche la connessione, tra questi due versanti dell’attività umana. La distinzione è evidente. Una cosa, infatti, è la disposizione grazie alla quale l’essere umano è l’autore dei propri atti ed è responsabile del loro valore morale, altra cosa è la disposizione per cui egli è artista, sa agire cioè secondo le esigenze dell’arte, accogliendone con fedeltà gli specifici dettami.(2) Per questo l’artista è capace di produrre oggetti, ma ciò, di per sé, non dice ancora nulla delle sue disposizioni morali. Qui, infatti, non si tratta di plasmare se stesso, di formare la propria personalità, ma soltanto di mettere a frutto capacità operative, dando forma estetica alle idee concepite con la mente.
Ma se la distinzione è fondamentale, non meno importante è la connessione tra queste due disposizioni, la morale e l’artistica. Esse si condizionano reciprocamente in modo profondo. Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell’umanità. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura.
La vocazione artistica a servizio della bellezza
3. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».(3)
Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte. Esso si è già affacciato, quando ho sottolineato lo sguardo compiaciuto di Dio di fronte alla creazione. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella.(4) Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: « kalokagathía« , ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: « La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello ».(5)
E vivendo ed operando che l’uomo stabilisce il proprio rapporto con l’essere, con la verità e con il bene. L’artista vive una peculiare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del « talento artistico ». E, certo, anche questo è un talento da far fruttare, nella logica della parabola evangelica dei talenti (cfr Mt 25,14-30).
Tocchiamo qui un punto essenziale. Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica — di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore… — avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità.
L’artista ed il bene comune
4. La società, in effetti, ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, di professionisti, di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri, che garantiscano la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è « l’arte educativa ». Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.
La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una « spiritualità » del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».
L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato
5. La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di « un’immagine scolpita o di metallo fuso » (Dt 27,15), perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: « Io sono colui che sono » (Es 3,14). Nel mistero dell’Incarnazione, tuttavia, il Figlio di Dio in persona si è reso visibile: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna » (Gal 4,4). Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, il quale è diventato così « il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso ».(6)
Questa fondamentale manifestazione del « Dio-Mistero » si pose come incoraggiamento e sfida per i cristiani, anche sul piano della creazione artistica. Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo.
La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di « immenso vocabolario » (P. Claudel) e di « atlante iconografico » (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione. A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario ed artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del « Verbo fatto carne ».
Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una concreta mediazione catechetica.(7) Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un riflesso del mistero insondabile che avvolge ed abita il mondo.
Tra Vangelo ed arte un’alleanza feconda
6. In effetti, ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose. Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito.
Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta come sopraffatto al punto da non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite ed a far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio « non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo », così che « non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana » (At 17,24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre « al di là » delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!
Di altra natura è la conoscenza di fede: essa suppone un incontro personale con Dio in Gesù Cristo. Anche questa conoscenza, tuttavia, può trarre giovamento dall’intuizione artistica. Modello eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico. Non meno significativa è, a questo proposito, la lauda estatica, che san Francesco d’Assisi ripete due volte nella chartula redatta dopo aver ricevuto sul monte della Verna le stimmate di Cristo: « Tu sei bellezza… Tu sei bellezza! ».(8) San Bonaventura commenta: « Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto ».(9)
Un approccio non dissimile si riscontra nella spiritualità orientale, ove Cristo è qualificato come « il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali ».(10) Macario il Grande commenta così la bellezza trasfigurante e liberatrice del Risorto: « L’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo… è tutta occhio, tutta luce, tutta volto ».(11)
Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.
I primordi
7. L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e al tempo stesso ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte di ispirazione cristiana cominciò così in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un « codice simbolico », attraverso cui riconoscersi e identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. Chi non ricorda quei simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica? Il pesce, i pani, il pastore, evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.
Quando ai cristiani, con l’editto di Costantino, fu concesso di esprimersi in piena libertà, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo venivano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. Come non ricordare almeno l’antica Basilica di San Pietro e quella di San Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino? O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano?
Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Il loro programma poetico valorizzava forme ereditate dai classici, ma attingeva alla pura linfa del Vangelo, come efficacemente sentenziava il santo poeta nolano: « La nostra unica arte è la fede e Cristo è il nostro canto ».(12) Gregorio Magno, per parte sua, qualche tempo più tardi poneva con la compilazione dell’Antiphonarium la premessa per lo sviluppo organico di quella musica sacra così originale che da lui ha preso nome. Con le sue ispirate modulazioni il Canto gregoriano diverrà nei secoli la tipica espressione melodica della fede della Chiesa durante la celebrazione liturgica dei sacri Misteri. Il « bello » si coniugava così col « vero », perché anche attraverso le vie dell’arte gli animi fossero rapiti dal sensibile all’eterno.
In questo cammino non mancarono momenti difficili. Proprio sul tema della rappresentazione del mistero cristiano l’antichità conobbe un’aspra controversia passata alla storia col nome di « lotta iconoclasta ». Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi si appellarono per dirimere la controversia fu il mistero dell’Incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta.(13)
Il Medioevo
8. I secoli che seguirono furono testimoni di un grande sviluppo dell’arte cristiana. In Oriente continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce. Scrive in proposito Pavel Florenskij: « L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste ».(14)
In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il patrimonio artistico che s’è venuto accumulando nel corso dei secoli annovera una vastissima fioritura di opere sacre altamente ispirate, che lasciano anche l’osservatore di oggi colmo di ammirazione. Restano in primo piano le grandi costruzioni del culto, in cui la funzionalità si sposa sempre all’estro, e quest’ultimo si lascia ispirare dal senso del bello e dall’intuizione del mistero. Ne nascono gli stili ben noti alla storia dell’arte. La forza e la semplicità del romanico, espressa nelle cattedrali o nei complessi abbaziali, si va gradatamente sviluppando negli slanci e negli splendori del gotico. Dentro queste forme, non c’è solo il genio di un artista, ma l’animo di un popolo. Nei giochi delle luci e delle ombre, nelle forme ora massicce ora slanciate, intervengono certo considerazioni di tecnica strutturale, ma anche tensioni proprie dell’esperienza di Dio, mistero « tremendo » e « fascinoso ». Come sintetizzare in pochi cenni, e per le diverse espressioni dell’arte, la potenza creativa dei lunghi secoli del medioevo cristiano? Un’intera cultura, pur nei limiti sempre presenti dell’umano, si era impregnata di Vangelo, e dove il pensiero teologico realizzava la Summa di S. Tommaso, l’arte delle chiese piegava la materia all’adorazione del mistero, mentre un mirabile poeta come Dante Alighieri poteva comporre « il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra »,(15) come egli stesso qualifica la Divina Commedia.
Umanesimo e Rinascimento
9. La felice temperie culturale, da cui germoglia la straordinaria fioritura artistica dell’Umanesimo e del Rinascimento, ha riflessi significativi anche sul modo in cui gli artisti di questo periodo si rapportano al tema religioso. Naturalmente le ispirazioni sono variegate quanto lo sono i loro stili, o almeno quelli dei più grandi tra essi. Ma non è nelle mie intenzioni richiamare cose che voi, artisti, ben conoscete. Vorrei piuttosto, scrivendovi da questo Palazzo Apostolico, che è anche uno scrigno di capolavori forse unico al mondo, farmi voce dei sommi artisti che qui hanno riversato le ricchezze del loro genio, intriso spesso di grande profondità spirituale. Da qui parla Michelangelo, che nella Cappella Sistina ha come raccolto, dalla Creazione al Giudizio Universale, il dramma e il mistero del mondo, dando volto a Dio Padre, a Cristo giudice, all’uomo nel suo faticoso cammino dalle origini al traguardo della storia. Da qui parla il genio delicato e profondo di Raffaello, additando nella varietà dei suoi dipinti, e specie nella « Disputa » della Stanza della Segnatura, il mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo, e proietta luce sulle domande e le attese dell’intelligenza umana. Da qui, dalla maestosa Basilica dedicata al Principe degli Apostoli, dal colonnato che da essa si diparte come due braccia aperte ad accogliere l’umanità, parlano ancora un Bramante, un Bernini, un Borromini, un Maderno, per non citare che i maggiori, dando plasticamente il senso del mistero che fa della Chiesa una comunità universale, ospitale, madre e compagna di viaggio per ogni uomo alla ricerca di Dio.
L’arte sacra ha trovato, in questo complesso straordinario, un’espressione di eccezionale potenza, raggiungendo livelli di imperituro valore insieme estetico e religioso. Ciò che sempre di più la caratterizza, sotto l’impulso dell’Umanesimo e del Rinascimento, e poi delle successive tendenze della cultura e della scienza, è un interesse crescente per l’uomo, il mondo, la realtà della storia. Questa attenzione, di per sé, non è affatto un pericolo per la fede cristiana, centrata sul mistero dell’Incarnazione, e dunque sulla valorizzazione dell’uomo da parte di Dio. Proprio i sommi artisti su menzionati ce lo dimostrano. Basterebbe pensare al modo con cui Michelangelo esprime, nelle sue pitture e sculture, la bellezza del corpo umano.(16)
Del resto, anche nel nuovo clima degli ultimi secoli, in cui parte della società sembra divenusta indifferente alla fede, l’arte religiosa non ha interrotto il suo cammino. La constatazione si amplia, se dal versante delle arti figurative, passiamo a considerare il grande sviluppo che, proprio nello stesso arco di tempo, ha avuto la musica sacra, composta per le esigenze liturgiche, o anche solo legata a temi religiosi. A parte i tanti artisti che si sono dedicati principalmente ad essa — come non ricordare almeno un Pier Luigi da Palestrina, un Orlando di Lasso, un Tomás Luis de Victoria? — è noto che molti grandi compositori — da Handel a Bach, da Mozart a Schubert, da Beethoven a Berlioz, da Liszt a Verdi — ci hanno dato opere di grandissima ispirazione anche in questo campo.
Verso un rinnovato dialogo
10. E vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi.
Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.
Si comprende, dunque, perché al dialogo con l’arte la Chiesa tenga in modo speciale e desideri che nella nostra età si realizzi una nuova alleanza con gli artisti, come auspicava il mio venerato predecessore Paolo VI nel vibrante discorso rivolto agli artisti durante lo speciale incontro nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964.(17) Da tale collaborazione la Chiesa si augura una rinnovata « epifania » di bellezza per il nostro tempo e adeguate risposte alle esigenze proprie della comunità cristiana.
Nello spirito del Concilio Vaticano II
11. Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di un rinnovato rapporto fra la Chiesa e la cultura, con immediati riflessi anche per il mondo dell’arte. E un rapporto che si propone nel segno dell’amicizia, dell’apertura e del dialogo. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari hanno sottolineato la « grande importanza » della letteratura e delle arti nella vita dell’uomo: « Esse si sforzano, infatti, di conoscere l’indole propria dell’uomo, i suoi problemi e la sua esperienza, nello sforzo di conoscere e perfezionare se stesso e il mondo; si preoccupano di scoprire la sua situazione nella storia e nell’universo, di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità, e di prospettare una migliore condizione dell’uomo ».(18)
Su questa base, a conclusione del Concilio, i Padri hanno rivolto agli artisti un saluto e un appello: « Questo mondo — hanno detto — nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione ».(19) Appunto in questo spirito di profonda stima per la bellezza, la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium aveva ricordato la storica amicizia della Chiesa per l’arte, e parlando più specificamente dell’arte sacra, « vertice » dell’arte religiosa, non aveva esitato a considerare « nobile ministero » quello degli artisti quando le loro opere sono capaci di riflettere, in qualche modo, l’infinita bellezza di Dio, e indirizzare a lui le menti degli uomini.(20) Anche grazie al loro contributo « la conoscenza di Dio viene meglio manifestata e la predicazione evangelica si rende più trasparente all’intelligenza degli uomini ».(21) Alla luce di ciò, non sorprende l’affermazione del P. Marie Dominique Chenu, secondo cui lo stesso storico della teologia farebbe opera incompleta, se non riservasse la dovuta attenzione alle realizzazioni artistiche, sia letterarie che plastiche, che costituiscono, a loro modo, « non soltanto delle illustrazioni estetiche, ma dei veri “luoghi” teologici ».(22)
La Chiesa ha bisogno dell’arte
12. Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero.
La Chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo, operando con le infinite possibilità delle immagini e delle loro valenze simboliche. Cristo stesso ha utilizzato ampiamente le immagini nella sua predicazione, in piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’Incarnazione, icona del Dio invisibile.
La Chiesa ha bisogno, altresì, dei musicisti. Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio.
La Chiesa ha bisogno di architetti, perché ha bisogno di spazi per riunire il popolo cristiano e per celebrare i misteri della salvezza. Dopo le terribili distruzioni dell’ultima guerra mondiale e l’espansione delle metropoli, una nuova generazione di architetti si è cimentata con le istanze del culto cristiano, confermando la capacità di ispirazione che il tema religioso possiede anche rispetto ai criteri architettonici del nostro tempo. Non di rado, infatti, si sono costruiti templi che sono, insieme, luoghi di preghiera ed autentiche opere d’arte.
L’arte ha bisogno della Chiesa?
13. La Chiesa, dunque, ha bisogno dell’arte. Si può dire anche che l’arte abbia bisogno della Chiesa? La domanda può apparire provocatoria. In realtà, se intesa nel giusto senso, ha una sua motivazione legittima e profonda. L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione? Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive?
Di fatto, il soggetto religioso è fra i più trattati dagli artisti di ogni epoca. La Chiesa ha fatto sempre appello alle loro capacità creative per interpretare il messaggio evangelico e la sua concreta applicazione nella vita della comunità cristiana. Questa collaborazione è stata fonte di reciproco arricchimento spirituale. In definitiva ne ha tratto vantaggio la comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine, della sua verità. E emerso anche il peculiare legame esistente tra l’arte e la rivelazione cristiana. Ciò non vuol dire che il genio umano non abbia trovato suggestioni stimolanti anche in altri contesti religiosi. Basti ricordare l’arte antica, specialmente quella greca e romana, e quella ancora fiorente delle antichissime civiltà dell’Oriente. Resta vero, tuttavia, che il cristianesimo, in virtù del dogma centrale dell’incarnazione del Verbo di Dio, offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione. Quale impoverimento sarebbe per l’arte l’abbandono del filone inesauribile del Vangelo!
Appello agli artisti
14. Con questa Lettera mi rivolgo a voi, artisti del mondo intero, per confermarvi la mia stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa. Il mio è un invito a riscoprire la profondità della dimensione spirituale e religiosa che ha caratterizzato in ogni tempo l’arte nelle sue più nobili forme espressive. E in questa prospettiva che io faccio appello a voi, artisti della parola scritta e orale, del teatro e della musica, delle arti plastiche e delle più moderne tecnologie di comunicazione. Faccio appello specialmente a voi, artisti cristiani: a ciascuno vorrei ricordare che l’alleanza stretta da sempre tra Vangelo ed arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l’invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo.
Ogni essere umano, in un certo senso, è sconosciuto a se stesso. Gesù Cristo non soltanto rivela Dio, ma « svela pienamente l’uomo all’uomo ».(23) In Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo. Tutti i credenti sono chiamati a rendere questa testimonianza; ma tocca a voi, uomini e donne che avete dedicato all’arte la vostra vita, dire con la ricchezza della vostra genialità che in Cristo il mondo è redento: è redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione, di cui san Paolo ha scritto che « attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8,19). Essa aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche mediante l’arte e nell’arte. E questo il vostro compito. A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi — anche quella di oggi — aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino.
Spirito creatore ed ispirazione artistica
15. Nella Chiesa risuona spesso l’invocazione allo Spirito Santo: Veni, Creator Spiritus … — « Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato ».(24)
Lo Spirito Santo, « il Soffio » (ruah), è Colui a cui fa cenno già il Libro della Genesi: « La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (1,2). Quanta affinità esiste tra le parole « soffio — spirazione » e « ispirazione »! Lo Spirito è il misterioso artista dell’universo. Nella prospettiva del terzo millennio, vorrei augurare a tutti gli artisti di poter ricevere in abbondanza il dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d’arte.
Cari artisti, voi ben lo sapete, molti sono gli stimoli, interiori ed esteriori, che possono ispirare il vostro talento. Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel « soffio » con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione. Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di « momenti di grazia », perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende.
La « Bellezza » che salva
16. Sulla soglia ormai del terzo millennio, auguro a tutti voi, artisti carissimi, di essere raggiunti da queste ispirazioni creative con intensità particolare. La bellezza che trasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore! Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, di fronte alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore.
Da qui, dallo stupore, potrà scaturire quell’entusiasmo di cui parla Norwid nella poesia a cui mi riferivo all’inizio. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che « la bellezza salverà il mondo ».(25)
La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: « Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! ».(26)
I vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell’Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia.
Vi orienti ed ispiri il mistero del Cristo risorto, della cui contemplazione gioisce in questi giorni la Chiesa.
Vi accompagni la Vergine Santa, la « tutta bella » che innumerevoli artisti hanno effigiato e il sommo Dante contempla negli splendori del Paradiso come « bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi ».(27)
« Emerge dal caos il mondo dello spirito »! Dalle parole che Adam Mickiewicz scriveva in un momento di grande travaglio per la patria polacca(28) traggo un auspicio per voi: la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.
Con i miei auguri più cordiali!
Dal Vaticano, 4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione.
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23 Gen
OSIAMO DIRE: PADRE
di p. Attilio Franco Fabris
NELL’ANTICO TESTAMENTO
Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ad esempio Zeus era denominato “padre degli dei e degli uomini”; e nel secondo millennio a.C. troviamo un’invocazione sumerica al Dio Sin: “O Padre, misericordioso e clemente, che hai nelle tue mani la vita del mondo intero, o Padre generatore degli dei e degli uomini…”.
Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive era chiamato “Padre”. Non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica.
E’ una constatazione che può far sorgere meraviglia quando prendiamo atto sfogliando l’Antico Testamento, che l’appellativo Padre riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto).
Israele infatti ha imparato a chiamare JHWH “Padre” molto tardi. Perché? Occorre pensare che nelle mitologie pagane dei popoli confinanti con Israele, la paternità di Dio era intesa in senso fisico-materiale. E questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio.
L’uso del termine “padre” poteva suggerire ad Israele, facendole infiltrare, concezioni pagane ripudiate sin dall’inizio (Gs 24,23).
Quando Israele inizierà a chiamare Dio “Padre”, e lo dovrà fare per non tralasciare la ricchissima simbologia che l’attributo conteneva, non lo farà come nei popoli pagani i quali con le loro mitologie designavano Dio come progenitore “padre del mondo”.
La scrittura userà la simbolica del padre in un primo tempo per sottolineare il dovere dell’obbedienza del figlio-Israele al proprio padre (“Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” Dt 14,1), oppure per fondare e consolidare una prospettiva universalistica delle fede ebraica (“Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio?”Ml 2,10).
E’ interessante ad esempio notare che la grande e tardiva religione monoteistica mussulmana tra i novantanove nomi dati a Dio non contiene quello di “padre”.
Troppo forte è per i mussulmani la concezione della assoluta trascendenza di Allah per potergli applicare una simbolica che fa troppo riferimento all’esperienza umana.
AL TEMPO DI GESU’
I rabbini al tempo di Gesù insegnavano: “Come il nostro padre è misericordioso nei cieli, così anche voi dovete essere misericordiosi sulla terra”.
Nelle “Diciotto Benedizioni”, preghiera che certamente Gesù recitava quotidianamente, leggiamo: “O Padre nostro, facci tornare alla tua legge” (V ben.); “O Padre nostro perdonaci perché abbiamo peccato” (VI ben.)
Nella preghiera dello Shemà troviamo: “O Padre nostro, tu hai pietà di noi… Padre nostro, padre di misericordia, il misericordioso, abbi pietà di noi”
Così nel Qaddish: “Che le preghiere e le suppliche di Israele siano accolte dal loro Padre che è nei cieli. Amen!”
La setta essenica che aveva trovato rifugio sulle sponde del Mar Morto nella sua preghiera recitava: “Mio padre non mi conosce e, in confronto a te, mia madre mi ha abbandonato. Eppure tu sei padre di tutti i tuoi fedeli e ti compiaci di essi come una madre amorosa nel suo piccolo, e come un padre premuroso tu stringi al petto tutte le tue creature”.
Raccontavano i rabbini commentando Es 14,19 (“L’angelo del Signore che andava innanzi al campo di Israele si mosse e andò dietro a loro”) “Un uomo camminava per la via insieme al suo bambino. Il bambino lo precedeva, ma ad un certo punto giunsero i briganti a rapire il fanciullo. Il padre allora lo tolse davanti a sé e se lo pose dietro. Ma un lupo apparve in quella direzione ed egli tolse il fanciullo di dietro e di nuovo se lo pose dinanzi. E vennero poi i briganti dinanzi e lupi di dietro, sì che egli dovette sollevare il bambino e portarselo in braccio. Il bambino cominciò a soffrire per l’ardore del sole. Il padre lo coprì con la sua veste. Il bambino ebbe fame: il padre lo nutrì; ebbe sete e il padre gli diede da bere. Così fece Dio con Israele quando fu liberato dall’Egitto” (Mech 30a)
Riportiamo ancora una parabola tratta dall’insegnamento rabbinico contemporaneo a Cristo: “Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?” (Dt R. 2,24).
Ma anche in questo caso chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà-Papà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro papà.
Dicevano i rabbini: “Quando un bambino inizia ad assaporare il frumento, impara a dire Abbà e Immà”. Un termine dunque che fa riferimento all’intimità familiare,ai rapporti affettuosi e confidenziali che il bambino ha col proprio papà e mamma. Ed è il termine abitualmente usato da Gesù nel descrivere il suo rapporto con Dio, con il Padre.
Eppure Gesù lo usa abitualmente: tutte le sue preghiere iniziano con questa invocazione. Il che sta ad indicare un tipo di rapporto con Dio fatto di assoluta confidenza e fiducia, un rapporto profondamente filiale.
In Gesù possiamo ardire (Nella liturgia questo è espresso con le formule introduttive: “osiamo dire”, “Rendici degni di”…) rivolgerci a Dio chiamandolo a nostra volta Abbà. Paolo dirà: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15
E’ questa la parresia del cristiano: la semplicità schietta, la fiducia filiale, la gioiosa sicurezza, l’umile audacia, la certezza di essere amati (cfr CCC 2777).
TRE OSSERVAZIONI
1. Se per gli israeliti Dio è anzitutto l’Altissimo, il Giudice e il Legislatore, in Gesù ritroviamo l’immagine di un Padre Buono che ha cura dei suoi figli.
A lui ci si rivolge con la semplicità del bambino (Mt 5,15)
Egli ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31)
Conta i capelli del nostro capo, e conosce ogni nostra necessità (Lc 12,6).
Di lui non si deve e non si può avere paura. ).
2. Il rapporto che Gesù ha con il proprio Padre appare peculiare a lui solo. Gesù non prega mai con i discepoli dicendo “Padre nostro”. Vi è sempre in lui una chiara distinzione (“Padre mio e Padre vostro” Gv 20,27).
E’ possibile essere figli di Dio solo in lui, accogliendo il dono del suo Spirito: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).
3. Il Padre nostro può essere recitato da tutti? La paternità di cui parla Gesù è riservata a coloro che hanno ricevuto il suo Spirito. E’ una figliolanza che deriva dal dono gratuito della vita stessa di Dio.
Per cui a buon diritto esso può essere pregato in verità e consapevolezza solo da coloro che nella fede hanno accolto Gesù, la sua Parola e il dono del suo Spirito.
IL PATER OGGI
Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre.
Questa figura è stata sentita come presenza bloccante e frenante della spontaneità della vita. Si è presentato come un avversario-padrone da combattere in quanto rappresenta tutti i condizionamenti e le alinazione.
Si è rivendicato, in una società improntatata su un’ideologia radicale, il diritto di ognuno di costruire se stesso senza nessun “padre”. Ciascuno è autonomo, indipendente, creatore di se stesso.
L’uomo si è ritrovato solo, sperduto. Incapace di darsi risposte. Ma questo invece di spingerlo al ritorno alla casa del padre lo ha spesso spinto in un parrossistico tentativo di spegnere la sua angoscia in direzione del raggiugimento di piccoli orizzonti individuali, piccole altre case che però non riscaldano mai a sufficineza il cuore.
Il padre diventa una realtà insignificante, un ornamento di cui si può fare benissimo a meno.
La religione del Padre è stata rifiutata o quel che è peggio lascia ora completamente indifferenti.
Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi 49 Racconti una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontò / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te.
Sono parole estremamente drammatiche, ma quanto mai rappresentative di un ‘epoca.
Lo spauracchio di Dio, o il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane, l’adulto non ha bisogno di un Padre, può rischiare in proprio la vita.
Tuttalpiù è meglio far riferimento a uno spirito universale, ad un cosmo divinizzato, ecc… in cui non mi sento minacciato nella mia libertà (cf New Age)
Qui si impone un’importante riflessione. Che Padre è quello rivelatoci da Gesù? Possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate e perseguitate dalla nostra cultura? Non è che forse si è rifiutata un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi coscienti o incoscienti ha avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica?
Quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto nell’ambito delle relazioni familiari hanno e stanno influenzando nel loro rapporto con Dio Padre per cui egli diviene il giudice, il castigatore, colui che pretende sempre, il controllore….?
A questo proposito lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica fa un commento illuminante: Prima di fare nostro questo slancio iniziale della Preghiera del Signore, non è superfluo purificare umilmente il nostro cuore da certe false immagini di “questo mondo”. L’umiltà ci fa conoscere che “nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” cioè “ai piccoli” (Mt 11,25-27).
La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio. Dio nostro Padre, trascende le categorie del mondo creato. Trasporre su di lui, o contro di lui, le nostre idee in questo campo equivarrebbe a fabbricare idoli da adorare o da abbattere. Pregare il Padre è entrare nel suo mistero, quale egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato” (2779)
Gesù ci rivela al contrario un Padre che è garante e fonte di liberazione; pensiamo solo alla rilettura che Gesù fa della Legge! E’ un Padre che ci proietta ad un futuro da costruire con lui nella solidarietà con i nostri fratelli; pensiamo alla parabola del Padre misericordioso.
Non è certo l’Abbà di Gesù un padre-padrone geloso dell’autonomia dei figli.
Questa visione negativa di Dio si incuneò nell’esperienza umana al momento della tentazione di Adamo ed Eva quando il serpento insinuò il sospetto di un Dio geloso delle sue prerogative divine.
Giovanni Paolo II scrive nella sua enciclica Dominus et Vivificantem 38: Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio.
Terminiamo con un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che hasperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre.
Un giorno, racconta Celina sorella di Teresa, entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi)
San Pietro Crisologo nei suoi Sermoni scrive: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (Ser. 71).
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19 Gen
Padre nostro che sei nei cieli
Da J. Ratzinger, Gesù di Nazaret
Il Padre nostro nell’evangelista Matteo
Il Discorso della montagna delinea un quadro completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero riassumere nell’ affermazione: solo a partire da Dio si può comprendere l’uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua vita diventa giusta.
Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso.
Se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l’ascoltare Dio. Per questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.
In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un’esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L’amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell’unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini.
Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.
L’altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un’intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto.
La cosa più importante al di là di tali situazioni momentanee – è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell’ amore del prossimo.
Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale.
Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell’ appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l’incontro con Dio dell’intera Chiesa, come in essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita.
Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» – il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) – troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi.
E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui.
In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell’ Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De domo or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci precede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.
Il Padre nostro nell’evangelista Luca
Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto – sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare… “» (11,1).
Il contesto è dunque l’incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L’insieme dell’operare di Gesù scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all’incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s).
È quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell’ Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a immagine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr. FiI2,5).
Per l’interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come meglio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche tener presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre.
Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell’ esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un’interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.
I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens – con il proprio spirito – andare incontro alla vox – alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a ciascuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.
Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all’ origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.
Prima di addentrarci nell’interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un’invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale – l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell’amore.
Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell’ amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l’uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell’essere uomini. Alla fine scendiamo sino all’ultima minaccia per l’uomo, dietro cui si apposta il Maligno – può affiorare in noi l’immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l’inizio: «Padre nostro»sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva. Padre Hans- Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro sempre con l’ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: “nostro Padre”». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell’ esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il regno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: “nostro Padre”» (p. 65s).
Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.
Padre
Iniziamo con l’invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (p. 10).
L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri.
Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre» propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni...» (Mt 5,44s). «L’amore sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» – a partire da questo criterio.
Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Le 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c’è bisogno» (cfr. Le 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.
Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’ amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s). «Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.
Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzi tutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15, secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di tutti […] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.
Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico «immagine di Dio»(cfr. 2 Cor4,4; Col 1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo «a sua immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell’Uomo che è il canone dell’umanità. Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio.
Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come «figlio» e «figlia».
«Tutte le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola «Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli» non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.
Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa «grembo materno», ma poi diventa il termine per il con-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio. Nell’ Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche i sentimenti di Dio, così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’ esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.
Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’ emanazione dal grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti. Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’ amore materno, «madre» non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto.
Nostro
Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi» dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio». Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale.
Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.
Che sei nei cieli
A partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l’ulteriore aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «lo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9).
La paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall’ eternità; perché è Lui che ci dona l’autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino.
La paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.
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