• 01 Apr

    «BEATA TE CHE HAI CREDUTO ALLA PAROLA »

    Maria, la piena di fede


    La lettura della lettera vivente che è Maria aiuta a scoprire anche qual è lo « stile » di Dio.  Ella è l’esempio vivente del modo di agire di Dio nella storia della salvezza. «Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che sconcerti tanto la mente umana, quanto la semplicità delle opere divine che si vedono in azione, paragonata alla magnificenza degli effetti che in esse si ottengono… Meschina incredulità umana, che nega a Dio le sue proprietà, che sono semplicità e potenza!» Egli alludeva alla grandiosità degli effetti del battesimo e alla semplicità dei mezzi e dei segni esterni, che si riducono a un poco di acqua e ad alcune parole. Al contrario – notava egli – di ciò che avviene nelle imprese umane e idolatriche, dove più grande è il risultato che si vuole ottenere e l’impressione che si vuole fare, più deve essere grande l’apparato, la messa in scena e la spesa.

    Cosi è stato di Maria e della venuta nel mondo del Salvatore: Maria è l’esempio di questa sproporzione divina tra ciò che si vede all’estemo e ciò che avviene dentro.  Che cos’era Maria all’esterno, nel suo villaggio?  Niente di appariscente.  Probabilmente, per i suoi parenti e compaesani, ella era semplicemente «la Maria», una fanciulla modesta, tanto a modo ma niente di eccezionale.  Bisogna ricordarsi a ogni istante di questa verità per non correre il rischio di volatizzare la figura di Maria, proiettandola – come hanno fatto spesso l’iconografia e la pietà popolari – in una dimensione eterea e disincarnata, proprio lei che è la madre del Verbo incarnato!  Bisogna tenere sempre presenti, parlando di lei, le due caratteristiche dello stile di Dio che sono, abbiamo visto, semplicità e magnificenza.  In Maria, la magnificenza della grazia e della vocazione, convive con la più assoluta semplicità e concretezza.

    « Eccomi, sono la serva dei Signore… »

    Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, «piena di Spirito Santo», esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc 1, 45).  L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si era compiuto nel segreto di Nazaret e che solo nel dialogo con un’ínterlocutrice poteva essere manifestato e assumere un carattere oggettivo e pubblico.

    La cosa grande che è avvenuta a Nazaret, dopo il saluto dell’angelo, è che Maria «ha creduto» ed è diventata cosi «Madre del Signore».  Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38).  Con queste poche e semplici parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo.  Questa parola di Maria rappresenta « il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio, poiché essa esprime, nella maniera più elevata, la passiva disponibilità unita all’attiva prontezza, il vuoto più profondo che si accompagna alla più grande pienezza». Con questa sua risposta – scrive Origene – è come se Maria dicesse a Dio: « Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto ». Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo, per scrivere.  Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto ciò che vuole.

    Anche Maria pose una domanda all’angelo: Come è possibile?  Non conosco uomo (Lc 1, 34), ma con uno spirito ben diverso da Zaccaria.  Ella non chiede una spiegazione per capire, ma per sapere come eseguire la volontà di Dio.  Chiede come dovrà comportarsi, che cosa dovrà fare, visto che ancora non conosce uomo.  In tal modo ci mostra che, in certi casi, non è lecito voler capire a tutti i costi la volontà di Dio, o il perché di certe situazioni apparentemente assurde, ma che è lecito invece chiedere a Dio la luce e l’aiuto per compiere tale volontà.

    Il « fiat » di Maria resta dunque pieno e incondizionato.  Viene spontaneo mettere a confronto questo « fiat » pronunziato da Maria, con il « fiat » che risuona in altri momenti cruciali della storia della salvezza: con il « fiat » di Dio, all’inizio della creazione, e il « fiat » di Gesù nella redenzione.  Tutti e tre esprimono un atto di volontà, una decisione.  Il primo, cioè « Fiat lux! » è il « sì» divino di un Dio: divino nella natura, divino nella persona che lo pronuncia; il secondo, il « fiat » di Gesù nel Getsemani, è l’atto umano di un Dio: umano perché pronunciato secondo la volontà umana, divino perché tale volontà appartiene alla persona del Verbo; il « fiat » di Maria è il « sì » umano di una creatura umana.  In esso tutto prende valore dalla grazia.  Prima del «Sì» decisivo di Cristo, tutto quello che c’è di consenso umano all’opera della redenzione è espresso da questo « fiat » di Maria. «In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio» (K.  Rahner).  In lei è come se Dio interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. E’ questo il senso profondo del parallelismo: Eva-Maria, caro ai Padri e a tutta la tradizione. « Eva, quand’era ancora vergine, accolse la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte.  Maria, invece, la Vergine, accogliendo con fede e gioia il lieto annuncio recato dall’angelo Gabriele, rispose: Si faccia di me secondo la tua parola» «Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede».

    Dalle parole di Elisabetta: «Beata colei che ha creduto», si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma molto più come maternità spirituale, fondata sulla fede.  Su ciò si basa sant’Agostino quando scrive: « La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide piena), concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola».  Alla pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al « gratia plena », il «fide plena ».

    Sola con Dio

    A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato.  Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia!  Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di essere?  Ma questo è un modo di ragionare assai umano e canale.

    La vera fede non è mai un privilegio o un onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento.  Anzitutto, Dio non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro.  Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio.  A Geremia preannuncía: Ti muoveranno guerra (Ger 1, 19) e di Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16).  Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente?  Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati.  Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.

    Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine.  A chi può spiegare ciò che è avvenuto in lei?  Chi la crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è «opera dello Spirito Santo»?  Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.  Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s).

    Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò ‘ il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio realel Carlo Carretto, nel suo libretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria.  Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane.  Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria.  Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: «E stata sgozzata».  Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine.  Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazaret, agli ammiccamentí, capi la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede.

    Se credere è «inoltrarsi per quella strada dove tutti i cartelli indicatori dicono: «Indietro, indietro! »; se è come « venirsi a trovare in mare aperto, là dove ci sono settanta stadi di profondità sotto di te»; se credere è «compiere un atto tale che per esso uno si viene a trovare completamente gettato in braccio all’Assoluto » (sono tutte irnmagini del filosofo Kierkegaard), allora non c’è dubbio che Maria è stata la credente per eccellenza, di cui non ci potrà essere mai l’eguale.  Ella si è venuta a trovare davvero gettata completamente in braccio all’Assoluto.  Ella è l’unica ad aver creduto « in situazione di contemporaneità », cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia.  Ha creduto in totale solitudine.  Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.

    Maria, d’altra parte, ha creduto subito, all’istante; non ha esitato, non ha sospeso il giudizio.  Al contrario, ha impegnato subito tutta se stessa.  Ha creduto che avrebbe concepito un figlio per opera dello Spirito Santo.  Non ha detto tra sé: «Bene, ora stiamo a vedere cosa succederà; il tempo dirà se questa strana promessa è vera e se viene da Dio»; non ha detto tra sé: «Se son rose fioriranno… ». Questo è ciò che ogni persona avrebbe detto, se avesse dato ascolto al buon senso e alla ragione.  Maria no; Maria credette.  Ché se non avesse creduto, il Verbo non si sarebbe fatto carne in lei ed ella, di lì a poco, non sarebbe stata al terzo mese, né Elisabetta avrebbe salutato in lei «la Madre del Signore».

    Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn 15, 6). Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu accreditato come giustizia.

    San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo «sì» con gioia.  Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con «fiat» o con « si faccia», nell’originale, è all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio.  Come se dicesse: «Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole».  Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.

    Ma Maria non disse «fiat» che è parola latina; non disse neppure « génoito » che è parola greca.  Che cosa disse allora?  Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più da vicino a questa espressione?  Cosa diceva un ebreo quando voleva dire « così sia »? Diceva «amen! » Se è lecito cercare di risalire, con pia riflessione, all’’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola « amen ». Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio.  Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge « fiat, fiat » (nella versione dei Settanta: génoito, génoito), l’originale ebraico, conosciuto da Maria, porta: Amen, amen! Con I’« amen » si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante.  La sua traduzione esatta quando è risposta alla parola di Dio, è questa: «Così è e così sia!».  Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette.

    In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: « Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te … » (cf Mt 11, 26).  Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro « amen » pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor 1, 20).  Come il « fiat » di Maria precorre quello di Gesù nel Getsemani, così il suo « amen » precorre quello del Figlio.  Anche Maria è un « amen » personificato a Dio.

    Un sì nuziale

    La bellezza dell’atto di fede di Maria sta nel fatto che esso è il « si » nuziale della sposa allo sposo, pronunciato in totale libertà.  Maria è il segno e la primizia di quelle nozze tra Dio e il suo popolo, che i profeti avevano preannunciato dicendo: E avverrà in quel giorno… A lei si applicano perciò le parole del profeta: Ti farò mia sposa per sempreTi fidanzerò con me nella fedeltà (Os 2, 21 s).  La fede è l’anello nuziale di queste nozze e ad essa corrisponde, da parte di Dio, la fedeltà.

    Il « sì» di Maria non è un atto solo umano, ma anche divino, perché suscitato, nelle profondità dell’anirna di Maria, dallo Spirito Santo stesso.  Di Gesù è scritto che «con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (cf Eb 9, 14).  Anche Maria offrì se stessa a Dio nello Spirito Santo, cioè mossa da lui.  Lo Spirito Santo che le è promesso dafl’angelo, con le parole: Lo Spirito Santo scenderà su di te…. non le è promesso solo per concepire Cristo nel suo corpo, ma anche per concepirlo, per  fede, nel suo cuore.  Se ella è stata « ricolmata di grazia», lo è stata anzitutto per questo: per poter accogliere con fede il messaggio che stava per ricevere.  Se senza lo Spirito Santo non possiamo neppure dire: Gesù è il Signore! (cf 1 Cor 12, 3), che pensare di questo « fiat » di Maria dal quale dipendeva, in un certo senso, il farsi uomo del Verbo e l’esistenza stessa del Signore?  Così si compiono sempre le grandi obbedienze, a partire da quella di Cristo: Dio infonde, mediante lo Spirito Santo, nel cuore della creatura, la carità, e la carità spinge la creatura a fare ciò che Dio vuole.  La carità diventa legge, la legge dello Spirito, Dio non impone la sua volontà, ma dona la carità. È stato detto a ragione che l’amore « a nullo amato amar perdona» (Dante Ahghieri), cioè non permette, a chi è amato, di non riamare a sua volta.  Questo spiega l’arrendersi di Maria; ella si sente amata da Dio ed è questo amore che la spinge a darsi a Dio con tutto il suo essere.  Un’esperienza simile troviamo nella vita di santa Teresa del Bambin Gesù, nel momento di offrirsi a Dio per sempre: « Fu – scrive – un bacio d’amore: mi sentivo amata e dicevo: Ti amo, mi do a te per sempre».

    Eppure il « fiat » di Maria fu un atto libero, anzi il primo atto di vera libertà che ci sia stato nella storia del mondo, poiché vera libertà non è quella di fare o non fare il bene, ma quella di fare liberamente il bene; libertà di obbedire liberamente, non libertà di obbedire o non obbedire a Dio. «Non ci fu forse una libera volontà in Cristo e non fu essa tanto più libera quanto meno poteva servire al peccato?».

    Mossa da Spirito Santo, parlò Maria e disse « si» a Dio.  Per questo, anche il suo «si» è un atto divino e umano insieme; umano per natura, divino per grazia. La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libero anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà.

    È questa la vera grandezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cristo stesso.  Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo.  La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Ehsabetta la proclama invece beata perché ha creduto (pisteúsasa). La donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: Beati piuttosto – risponde – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano.  Gesù aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la vera grandezza di sua Madre.  Chi è infatti che «custodiva» le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che «custodiva tutte le parole nel suo cuore»? (cf Lc 2, 19.51).

    Non dovremmo però concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna.  Ci sfuggirebbe così l’essenziale.  Le opere di Dio seguono una logica molto diversa da quella che noi siamo soliti immaginare.  Non si impiantano stabilmente in un soggetto libero e sottoposto al divenire e alla fede, in modo meccanico, una volta per sempre, con una promessa iniziale, dopo la quale tutto diventa semplice e chiaro.  Quello che era chiaro in un istante all’inizio, perché lo Spirito lo rendeva tale, può non esserlo più in seguito; la fede può essere messa alla prova dal dubbio; non dal dubbio su Dio, ma su di sé: «Avrò capito bene?  Non avrò frainteso?  E se mi fossi ingannata?  E se non fosse stato Dio a parlare? ». La misteriosità dell’agire di Dio resta tale e prima di rassegnarci a vivere nel mistero, quanta agonia bisogna passare!

    Quante volte, in seguito afl’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia!  Quante volte dovette essere Giuseppe – proprio lui! – a rassicurarla e tranquillizzarla, dicendole che non aveva peccato, che non c’era colpa in lei, che era innocente e non si era ingannata; a ripeterle, insomma, quello che lui stesso aveva appreso dall’angelo in sogno: « Non temere… quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20).

    Il Concilio Vaticano Il ci ha fatto un grande dono, affermando che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha «progredito» nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa.  Camminare nella fede, per Maria, come vediamo, in piccolo, in certe anime che Dio chiama per vie speciali, comporta questo martirio della coscienza di non avere altra difesa contro l’evidenza, che la parola di Dio una volta ascoltata dentro e in seguito risuscitata solo dall’esterno, tramite intermediari umani.  Giuseppe svolse con Maria, in certi momenti, un ruolo simile a quello che deve svolgere, in questi casi, il direttore di coscienza, o semplicemente un buon papà spirituale, che è quello di custodire e ripetere, a ogni crisi, la certezza donatagli un tempo da Dio, credendo e sperando, anche lui, contro ogni evidenza.

    Se Gesù fu tentato, sarebbe veramente strano che Maria che gli è stata così vicina in tutto – non lo sia stata.  La fede, dice san Pietro, si prova nel crogiolo (cf 1 Pt 1 7) e l’Apocalisse dice che « il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire » e che «si avventò contro la donna che aveva partorito» (cf Ap 12, 4.13). E’ vero che qui la donna che viene assalita dal drago direttamente indica la Chiesa.  Ma come potrebbe Maria dirsi ancora « figura della Chiesa», se non avesse sperimentato in alcun modo, lei per prima, questo aspetto così rilevante nella vita della Chiesa che è la lotta e la tentazione da parte del Maligno?  Anche Maria, come Cristo, è stata «provata in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15).  Escluso solo il peccato!

    II

    Nella scia di Maria

    Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa.  Essa comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo « fiat ». In tutte le altre cose nella preghiera, nella sofferenza, nell’umiltà, nella stessa carità la punta o l’inizio non può essere che Gesù Cristo, che è la primizia e il capo da cui tutto il corpo si sviluppa.  Quando si risale il grande fiume della preghiera che scorre nella Chiesa, chi troviamo, giunti alle sue sorgenti?  Troviamo Gesù che prega, Gesù che affida ai discepoli la sua preghiera con il «Padre nostro ». Non così quando si risale l’altro grande fiume che è la fede.  Prima ancora della fede degli apostoli, ci fu la fede di Maria.

    Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa significa seguire davvero la sua scia.  Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere cosi: «Maria, vel Ecdesia, vel anima», Maria, ossia la Chiesa, ossia l’anima.  Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni anima credente.  Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima.  Come abbiamo fatto anche per la grazia, mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche.  In questo modo, la vita della Madonna non serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la nostra comprensione profonda della Parola di Dio e dei problemi della Chiesa e questo deve fare accettare con gioia anche la difficoltà che si può incontrare in questa prima applicazione.

    Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede.  Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio capace di ascoltare, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla.  Come la pioggia non può far germogliare nulla finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. E’ per la fede che noi siamo « sensibili » alla grazia.  La fede è la base di tutto; è la prima e la più «buona » delle opere da compiere.  Opera di Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29).  La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità.  Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore.  Per questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.

    Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati afl’uomo i due piedi per camminare o le due ali per volare.  Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà.  Guai se uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza!  Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere con noi il merito e la gloria.  San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene da voi ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s).  Anche in Maria, abbiamo visto, l’atto di fede fu suscitato dalla grazia dello Spirito Santo.

    L’accento è sul fatto di credere, più che sulle cose credute.  Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria.  Ella crede al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza.  Ella si inserisce umanamente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come Abramo era stato il primo credente dell’antica alleanza.  Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basata sulle Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo.  Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici: Signore, Potente, Santo, Salvatore.  Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso, che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele.  Anche esternamente, Maria si adegua a questa fede.  Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.

    Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento.  Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno ínnumerevoli specie e sottospecie di fede. I fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. « Fede – scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio»; è una «ferma fiducia».   In alcune correnti del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza.  L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più importante e quasi esclusiva.

    Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema della retta fede o dell’ortodossia.  Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati « Sulla fede» (De fide) non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici.  In seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è accentuata nella Chiesa cattolica.  Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa.  San Paolo diceva che « con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede» (cf Rm 1 0, 1 0): la «professione» della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul «credere con il cuore».

    Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, «l’intero» che è tanto più ricco e più bello di ogni singola parte.  Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza.  È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura.  Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o sull’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.

    Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio.  Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rapporto con l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di « credente ».

    Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente.  La fede dommatíca della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio irnmensamente più grande di quello della mia povera esperienza.  Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere.

    La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo; Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.

    C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: «lo credo in Dio Padre Onnipotente… ». Il mio piccolo «io», unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.

    Crediamo anche noi!

    Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria.  Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria «piena di fede, partorì credendo quel che aveva concepito credendo», trae da questo un’applicazione pratica dicendo: «Maria credette e in lei quel che credette si avverò.  Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi».

    Crediamo anche noi!  La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono in Dio.

    Noi siamo l’edificio di Dio, il tempio di Dio.  L’impresa della nostra santificazione è come la « costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2, 5); noi veniamo «edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito » (Ef 2, 22). Ma chi costruirebbe un edificio su un terreno, se questo terreno non gli è stato prima liberamente ceduto e se non gli appartiene?  Sappiamo che un palazzo costruito, in queste condizioni, diventa automaticamente del proprietario del terreno, non di chi l’ha costruito.  Dio non può costruire in noi il suo tempio, non ci può costruire come edificio santo, se prima noi non gli abbiamo liberamente ceduto la proprietà del «terreno» e questo avviene quando diamo a Dio la nostra libertà, con un atto di fede e di consenso, con un «sì» pieno e totale.

    Il terreno infatti è proprio la nostra libertà, un terreno che dovrà essere prima aperto, rivoltato, scavato… Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un «si faccia, fiat », come quello di Maria.  Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento.

    La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta senza toglierle la sua libertà.

    Che si deve dunque fare?  E semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con le parole stesse di Maria: « Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola! ». Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!

    Ho ricordato all’inizío i tre grandi « fiat » che si incontrano nella storia della salvezza: quello di Dio nella Creazione, quello di Maria nell’lncarnazione e quello di Gesù nel Mistero pasquale. C’è un quarto « fiat » nella storia della salvezza che sarà pronunciato ogni giorno, fino alla fine del mondo, ed è il « fiat » della Chiesa e dei credenti che, nel «Padre nostro», dicono a Dio: « Fiat voluntas tua: sia fatta la tua volontà! ». Dicendo questo « fiat », noi ci uniamo, seguendo Maria, al grande « fiat » di Cristo che nel Getsemani disse al Padre le stesse parole: «Si faccia la tua volontà » (cf Lc 22, 42).

    Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo « fiat » all’ottativo, con desiderio e gioia.  Quante volte noi ripetiamo quelle parole in uno stato d’anirno di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a denti stretti: « Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! ». Maria ci insegna a dirlo diversamente.  Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse, di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi «progetti di pace e non di afflizione» (cf Ger 29, 1 1), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: « Si compia presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! ».

    Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità.  Dire « si », «amen », a Dio non umilia la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta.  Del resto, qual è l’alternativa a questo « amen » detto a Dio?  Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto primario, ha dimostrato chiaramente che dire « amen » bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato.  L’alternativa filosofica alla fede è il fatalismo.  Il più noto filosofo di questo secolo, dopo aver messo in luce, in una fase del suo pensiero, che l’unica possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile che resta all’uomo è la morte e che la sua stessa esistenza altro non è che un « vivere-per-la-morte», assegna all’uomo, come unico mezzo per rendere autentica la propria esistenza, quello di accettare il suo destino.  La libertà dell’uomo consiste qui nel fare di necessità virtù: nello scegliere e nell’accettare come propria, la situazione di fatto in cui si è gettati e nel rimanerle fedeli.  Il destino dell’uomo è fissato dalla storia e dalla comunità cui egli appartiene e non potrà essere che quello di ripetere ciò che è già stato.  L’uomo raggiunge la sua completezza nell’amore del fato (amor fati), accettando, e anzi amando ciò che è accaduto e che inevitabilmente accadrà.  Questo è un ritorno a quella specie di «mistica del consenso» a cui era giunto, con Cleante, la religiosità pagana prima di Cristo; con essa ci si abbandona, senza riserve, al fato e alla necessità di tutte le cose.  Questa non è la voce di un filosofo isolato; tutto il pensiero esistenzialista ateo, o comunque che si colloca fuori della prospettiva cristiana come per esempio quello di Jaspers e di Sartre – approda a questo ideale terribile dell’amore del fato.  La libertà che si voleva salvaguardare è diventata pura accettazione della necessità.  Si è realizzata in pieno la parola di Gesù: «Chi vuol salvare ‘ la propria vita la perderà» (cf Mc 8, 35); chi vuol salvare la propria libertà, la perderà.

    L’uomo, dicevo, non può vivere e realizzarsi senza dire « amen » « sì » a qualcuno e a qualcosa.  Ma come è diverso e opprimente questo « amen » pagano, rispetto all’«amen » cristiano, detto a uno che ti ha creato, che non è fredda e cieca necessità, ma amore.  Come è diverso l’abbandono al fato, dall’abbandono al Padre espresso in questa preghiera di Ch. de Foucauld: «Padre mio mi abbandono a te.  Fa’ di me ciò che ti piace.  Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.  Sono pronto a tutto, accetto tutto, perché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature.  Non desidero altro, mio Dio.  Rimetto la mia anima nelle tue mani.  Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo.  Ed è per me un’esigenza d’amore il donarrni e il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché tu sei il Padre Mio».

    “ Il mio giusto vivrà di fede »

    Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. «E mio giusto – dice Dio – vivrà di fede» (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di fede.  Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede.  Egli inciderà nelle anime nella misura della sua fede.  Il compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede.  Egli sarà veramente uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.

    Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se «ci crede»: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra.  Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel capitolo precedente, un uomo «vuoto».  Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subito la differenza.  Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede.  La fede è contagiosa.  Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.

    La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza della sua fede.  A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente.  Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza riuscirvi.  Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in disparte e gli chiesero: Perché noi non Abbiamo potuto scacci . arlo?  E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mt 17, 19-20).  Ogni volta che, dinanzi a un insuccesso pastorale o a un’anima che si allontanava da me senza essere riuscito ad aiutarla, ho sentito affiorare in me quella domanda degli apostoli: « Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? », ho sentito rispondermi anch’io nell’intimo:«Per la tua poca fede! ». E ho taciuto.

    Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria.  Entriamo in questa scia.  Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi.  Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidefis: Vergine credente, prega per noi!

  • 31 Mar

    LA PREGHIERA AL PADRE:  ABBÀ, PADRE!
    (Efesini 1,3-6)

    di p. Lyonnet


    Per penetrare più a fondo nella concezione paolina della preghiera ne esamineremo una, che forse è tra le più caratteristiche di quante se ne incontrano nelle lettere dell’Apostolo: quella che dà inizio alla lettera agli Efesini e si estende per undici versetti (Ef. 1,3-14). San Paolo ha riunito in essa i temi essenziali della rivelazione cristiana, e, poiché sembra che si sia ispirato a una delle preghiere giudaiche che gli erano più familiari, questo passo offre oltre tutto il vantaggio di permetterci un confronto quanto mai istruttivo fra questa rivelazione e quella che più le si avvicina perché l’annuncia e la prefigura, quella cioè dell’A.T. Ci soffermeremo per ora solo sui primi quattro versetti di questa «benedizione» che apre la lettera agli Efesini, cercando di precisare in quale senso Dio vi è chiamato Padre:

    Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo,
    che ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali nei cieli, nel Cristo.
    In lui egli ci ha scelti fin dalla creazione del mondo
    per essere santi e immacolati alla sua presenza, nell’amore,
    predestinandoci ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo
    secondo il beneplacito della sua volontà,
    in lode della gloria della sua grazia di cui ci ha gratificati nell’Amato.

    Non solo la forma letteraria, ma i temi evocati nel corso di questa preghiera e perfino certe formule tipiche richiamano stranamente la seconda ‘benedizione’ che mattina e sera nella liturgia del tempio precedeva la recita ufficiale della professione di fede dell’israelita: «Ascolta, Israele! il Signore, tuo Dio, è unico: amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore…».

    Come l’inno di ringraziamento paolino, questa preghiera è interamente consacrata a celebrare l’amore per il suo popolo di Colui che è Dio e Padre. Tra tutte le preghiere del rituale giudaico essa è quella in cui il termine ‘amore’ ricorre più frequente, la sola che inizia e finisce con esso. Eccone l’inizio e la fine:
    Con un amore eterno ci hai amati, o Signore, nostro Dio; con una pietà estrema e sovrabbondante hai avuto pietà di noi, o Padre nostro, nostro Re… Ci hai eletti tra tutti i popoli… affinché ti lodassimo e proclamassimo che tu sei unico nell’ amore.
    Benedetto sii tu, Signore che hai eletto il tuo popolo d’Israele nell’amore!

    Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Lo sguardo dell’Apostolo si ferma prima di tutto sulla persona del Padre, anche se la lettera è tutta intesa a esaltare il primato di Cristo. Al Padre vien rivolta direttamente la lode, così come da lui procedono tutti i benefici che si appresta ad elencare;

    egli ci ha eletti nell’amore (v. 4),

    ci ha predestinati ad essere suoi figli (v. 4),

    ci ha elargito la sua grazia (vv. 6,7,8),

    ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà salvifica (v. 9)

    e ha realizzato in Gesù Cristo il disegno prestabilito (v. 10).

    Da lui tutto proviene e a lui tutto deve ritornare, poiché tutto è «per la lode della sua gloria», secondo la formula che Paolo ripete a tre riprese (VV.5,12,14), come per scandire una ad una le strofe di questo canto di riconoscenza. È vero che il Cristo vien nominato ad ogni versetto, ma non a lui è rivolta direttamente la preghiera: egli è mediatore. Certo il Nuovo Testamento non ignora la preghiera a Cristo (per es. Atti 7,59). Ma ciò che propriamente distingue il cristiano dall’israelita, non è il fatto che egli invoca Cristo in luogo di Jahvé, ma piuttosto che invoca Jahvé «nel nome di Gesù» (1), cioè, come pare, in unione con lui (2), così che la sua preghiera diventa la stessa che Gesù rivolge al Padre, come quando la liturgia prega: per Dominum nostrum Iesum Christum (3).

    San Paolo poi non si contenta, come la preghiera giudaica, di dare a Dio il titolo di Padre, ma volutamente precisa: «Padre di nostro Signore Gesù Cristo». Tutto procede da Dio in quanto è Padre non del popolo d’Israele, ma del suo unico Figlio: in lui ci ha eletti nell’amore, per lui ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi, favore incomparabile che ci ha accordato «nell’Amato», colui che la lettera ai Colossesi (1,13) chiamava «il Figlio del suo amore». L’amore di Dio sorgente della nostra filiazione non è solo l’amore – per quanto grande fosse – con cui secondo l’Antico Testamento Dio amava Israele, suo «figlio primogenito» (Es. 4,22), ma è l’amore stesso con cui il Padre ama il suo Figlio unico.

    Nessuno mai aveva potuto sospettar ciò; l’israelita sapeva di essere amato da Dio come da un padre (4), anzi più che da una madre (5); ma aveva sempre una gran cura di evitare ogni possibile confusione tra questa paternità fondata su una elezione del tutto gratuita e la paternità più o meno «naturalista» che i pagani attribuivano di fatto ai loro dei, a Zeus o Giove (cioè «Iupiter», ossia Zeus-padre). Perciò, a differenza di costoro, l’Antico Testamento non ha mai una preghiera in cui il fedele si rivolga a Dio chiamandolo «Padre»: lo invoca col titolo di Dio, Signore, Salvatore, Redentore, con quello di Padre mai (6). L’invocazione è vero, appare in epoca più recente, per esempio nella liturgia giudaica, cioè quando il pericolo di confusione era scomparso; ma la preoccupazione di salvaguardare il carattere assolutamente unico della paternità divina non vien meno. Un ragazzo ebreo era solito rivolgersi a suo padre col titolo di abbà cioè «padre» o, forse meglio, «papà»; ma rivolgendosi a Dio un ebreo dirà generalmente abinu, «padre nostro», e per lo più aggiungerà qualche altro titolo, come «nostro re», «nostro signore», oppure una qualifica come «che sei nei cieli». Studi recenti hanno mostrato che l’ebreo non diceva mai abbà in riferimento a Dio.

    Apriamo ora il vangelo, ed eccoci davanti a una scena del tutto diversa. Non solo Cristo invoca suo Padre col titolo abbà, ma praticamente non ne conosce un altro. Per lo più gli evangelisti hanno la traduzione greca pater, ma San Marco ha tenuto a riprodurre l’originale aramaico abbà (Mc. 14,36) (7) che certamente va messo ovunque il testo greco porta pater, oppure o paterPadre, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno (Lc. 23,34). Se egli grida: Mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt.27,46; Mc. 15,34), non è perché Dio non gli appare più come un «padre», ma perché si propone di citare alla lettera l’inizio del Salmo 22, che del resto «termina in un’azione di grazie per la liberazione attesa» (Bibbia di Gerusalemme). E poco appresso, quando si accontenterà di ispirarsi a un’espressione biblica presa da un altro salmo senza voler fare una vera e propria citazione, là dove il salmista aveva detto «Signore» sulla sua bocca verrà spontaneo abbà: «Padre, nelle tue mani io rimetto il mio spirito» (9). (Padre, o: il Padre), segnatamente in San Giovanni (8) e nella preghiera di Cristo in croce riferita da San Luca:

    Potrebbe anzi darsi che il Cristo abbia iniziato a rivelare ai suoi discepoli il mistero della sua filiazione divina appunto servendosi di questa invocazione così caratteristica. Comunque, la prima volta che i vangeli riferiscono una preghiera di Cristo, a due riprese ricorre sulle sue labbra il termine «Padre» cioè abbà : Io ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto questo ai sapienti e agli scaltri e l’ hai rivelato ai semplici. Sì, Padre, perché questo è stato il tuo beneplacito! (Mt. 11,25-26; Lc. 10,21). Ma soprattutto la solenne dichiarazione che segue immediatamente sembra proprio destinata nel pensiero di Gesù a spiegare e quasi a giustificare agli occhi degli ascoltatori un’invocazione così inaudita da parte di un giudeo, che si rivolge non più al padre terreno, ma a Dio stesso: Tutto mi è stato dato dal Padre mio e nessuno conosce il Figlio se non il Padre, così come nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui il quale il Figlio vuol rivelarlo (Mt. 11,27; Lc.10,22).

    Ma ciò che più sorprende non è che Cristo nella sua preghiera si rivolga a Dio chiamandolo abbà – come se fosse la cosa più naturale – ma che questa invocazione sia diventata la preghiera anche del più umile cristiano. Infatti S. Paolo è esplicito: La prova che siete figli, scrive ai Galati, è che Dio ha mandato nei vostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, Padre (Gal. 4,6). E ai Romani: Avete ricevuto uno Spirito di figli adottivi che ci fa gridare: Abbà, Padre (Rom. 8,15). Si capisce che San Marco, abbia tenuto a riprodurre il termine aramaico abbà, e che per pronunciare un’invocazione siffatta sia necessario aver prima ricevuto lo Spirito del Figlio. Ma questo ci fa capire quanta differenza distingua la nostra fìliazione da quella conosciuta nell’Antico Testamento: questa si basava sull’elezione, la nostra non si concepisce che in funzione e in dipendenza dalla fìliazione «naturale» del Figlio unico. Dio ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo in quanto è Padre di nostro Signore Gesù Cristo (10).

    È però vero che Cristo, secondo San Matteo, ha insegnato ai discepoli a pregare dicendo non come lui abbà, ma come i Giudei: «Padre nostro» cioè abinu, e ad aggiungere anche, come essi facevano, «che sei nei cieli» (Mt. 6,9). Se la preghiera abbà esigeva una giustificazione sulle sue labbra, come avrebbe potuto dir loro di primo acchito: «quando pregate, dite come me: abbà»? Il compito di «condurli verso la verità tutta intera» (Giov. 16,13) era riservato allo Spirito. San Paolo ci insegna che lo Spirito Santo ha messo sulle labbra e nei cuori dei discepoli il termine abbà, «Padre». E San Luca, sostituendo al «Padre nostro che sei nei cieli» di San Matteo il semplice «Padre», che sicuramente rende abbà, intendeva probabilmente precisare il senso che i cristiani istruiti dallo Spirito davano alla formula ricevuta da Cristo e insegnarci a caricare l’espressione giudaica di tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempivano il cuore di un fanciullo quando si rivolgeva a suo padre dicendogli «papà» (11), o più ancora tutta la confidenza, la tenerezza e l’amore che riempiva il cuore di Cristo quando si rivolgeva a Dio dicendogli abbà, «Padre».

    Nessuna meraviglia che la liturgia, introducendo la solenne recita del Pater nella messa latina, parli di audacia: «osiamo dire» (audemus dicere). Singolare audacia è infatti ardire di assumere nei riguardi di Dio proprio lo stesso atteggiamento espresso da quel termine abbà, che poteva prendere il Figlio unico e prediletto nei riguardi del Padre suo. Ma è un’audacia legittima. Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signor Gesù Cristo che ci ha predestinati ad essere per lui figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo!

    [1]. Si paragoni la formula di Ef. 5,9 (preghiere indirizzate al Signore») e quelle del passo parallelo di Col. 3,16 (preghiere indirizzate «a Dio nel nome di nostro Signore Gesù Cristo»).
    [2].
    Cfr. Giov. 14,13 e la nota della Bibbia di Gerusalemme.
    [3].
    Cfr. J. GUILLET, L’action de graces du Fils, nel periodo «Christus» n. 16 (1957) pp. 438-453 e Le Christ prie en moi: ibid. n. 19 (1958), pp. 150-165; oppure Jésus Christ hier et aujourd’bui (collana «Christus» n. n), cap. 9 e 16.
    [4].
    Così Deut. 32,6; Is. 63,16; 64.7; Ger. 31,20.
    [6].
    La sola vera eccezione è Sap. 14,3: «è la tua provvidenza, o Padre, che lo guida».
    [5]. Così Is.49,14-16; cfr. 66,3; Sal. 27,10.
    [7].
    La lingua aramaica era la lingua usuale dei Giudei di Palestina al tempo di Gesù, e la lingua di Gesù stesso.
    [8].
    Così Giov. 11,41; 12,27-28; e la preghiera sacerdotale del cap. 17 (VV.I,5,1I,21,24,25).
    [9].
    Lc. 23,46, che cita Sal. 31,6.
    [10].
    Ef. 1,3-4. Cfr. 2 Cor. 1,3.
    [11].
    Confronta la parola di santa Teresa del Bambin Gesù a sua sorella, il 5 giugno 1897: «Se un mattino mi trovaste morta, non datevi pena; papà, il buon Dio, sarebbe semplicemente venuto a cercarmi» (Novissima verba, p. 28).

  • 31 Mar

    Amerai Dio con tutto il tuo cuore

    L’affettività nell’esperienza spirituale

    L’amore è un dinamismo umano che non si può in alcun modo forzare; nessuno può amare per costrizione né esterna né tantomemo interna. Eppure, sembra contraddittorio, l’amore è il primo comandamento. Il cammino spirituale non può reggersi sul volontarismo o sull’idealismo: è necessario che vi sia coinvolto anche il cuore. E’ questo che dà energia ed entusiasmo e mette le ali ai piedi.

    Amerai il Signore Dio tuo

    Se la Parola ci chiede questo accettiamo una verità su noi stessi: la nostra vocazione, la nostra realizzazione più vera è amare. E’ condizione per fare esperienza vera di Dio: è lui che può essere amato totalmente.

    Chi davvero ama ha sempre davanti agli occhi il viso della persona amata, e l’abbraccia interamente con infinito diletto; egli dal desiderio non trova requie nemmeno nel sonno, ma si intrattiene anche allora col suo amore. Così si avvera nei corpi e negli spiriti… Se il viso di una persona amata ci cambia interamente e ci rende tutti allegri e luminosi sgombrando ogni tristezza; che cosa non farà il viso del Signore, quando nascostamente viene a far visita in un’anima purificata e monda?… Quando il cuore esulta, il volto fiorisce” (Giovanni Climaco, Sc. Par., 30,2)

    Però non ogni affetto ci fa crescere nella nostra capacità di amare, lo stesso amore per Dio spesso non è totalmente autentico. Questo ci pone in una situazione particolare: quello di essere apprendisti, dobbiamo imparare ad amare il Signore, superando l’illusione sentimentale.

    Tu mi hai sedotto Signore e io mi sono lasciato sedurre

    Primo passo: imparo la libertà di lasciarmi amare.

    Dio certamente ci ama, ma non tutti si sentono amati da lui. Come fare? E’ importante non aver paura dell’amore. Non è raro trovare persone che hanno paura, per diversi motivi, di lasciarsi coinvolgere in un’esperienza  affettiva: si mantengono allora distaccati, freddi… Queste barriere, se non sono guarite, possono intralciare il mio rapporto con Dio. Dobbiamo capire che la maturità non sta solo nella capacità di sapersi fare dono, ma consiste anche nel lasciarsi coinvolgere in relazioni intense, in una parola nel lasciarsi amare.

    Nello stesso tempo se vogliamo lasciarci amare occorre essere liberi dalla preoccupazione di essere amati. Ciò equivarrebbe a coltivare un bisogno egoistico sempre più esigente. Passerò dunque dalla ricerca di essere amato alla scelta di amare in modo adulto e il più possibile disinteressato. Questo cuore libero rende disponibili ad accorgersi del fatto di essere amati. Dio ci ama, e ci rende amanti, ci spinge ad amare a modo suo. Amando scopriamo quanto Dio ci ama. Abbiamo amato un fratello ci troviamo amati dal Padre: quando amo lì Dio è presente (Ubi caritas et amor ibi Deus est).

    Si impara ad amare Dio quando mi libero dalla pretesa di decidere io di amarlo e scopro che invece è Lui a prendere sempre l’iniziativa. “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi…Noi amiamo perché Lui ci ha amati per primo” (1Gv 4,10.19). Il nostro desiderio di amarlo è la risposta (cf Geremia, Israele, Paolo, gli apostoli…)

    Certo Dio non seduce alla maniera umana: non incanta né illude. Invece mette alla prova, domanda rinunce, propone una croce…E’ un innamorato che domanda tutto: un Dio geloso. Amati e attratti da Dio ci comprende che per Lui si può lasciare tutto il resto. Non per disprezzo o nausea, ma perché degno di essere amato sopra ogni altra cosa.

    Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima

    Questo amore domanda la totalità della mia risposta.

    La natura umana non può esprimere la sovrabbondanza dell’amore divino. Perciò come suo simbolo si prende ciò che c’è di più violento nelle passioni che agiscono in noi, voglio dire la passione d’amore, affinché impariamo così che chi fissa lo sguardo sulla bellezza della natura divina, deve esserne tanto innamorato quanto lo è il corpo di ciò che è ad esso affine, tramutando la passione in libera gioia, di modo che la nostra anima arda “eroticamente” in noi della sola fiamma dello Spirito” (Gregorio Niss., Omelia sul Cantico, 1)

    Cosa comporta questo?

    Una relazione centrale

    L’innamorato di Dio pone questa relazione al centro della sua vita. Da questa tutto parte e tutto ad essa fa riferimento. L’innamorato trova in questo la sua propria unificazione: niente lo può separare dall’amore di Dio (cf Rm 8,38). Questa unificazione comporta un certo sforzo dell’uomo: nessuno che voglia porre Dio al centro della vita è dispensato dalla fatica quotidiana di una certa disciplina spirituale (cf l’ascesi)

    Una relazione unica

    Posso amare tante persone, ma posso innamrorarmi di una sola. Unicità della relazione significa familiarità e intimità con Dio. Questa relazione avrà bisogno dei suoi spazi di solitudine: come esigenza per coltivarla profondamente.

    Da questo spazio di intimità può irradiare di conseguenza una consapevolezza della presenza di Dio lungo tutto l’arco del tempo: per cui anche il nostro essere indaffarati in mille cose non fa disperdere il nostro cuore.

    E’ indispensabile divenire capaci di solitudine.

    Una relazione fedele

    Il Dio fedele che irrompe nella mia storia non mi può provocare una risposta “ad tempus”. Se prende tutto, esige pure la totalità del mio tempo. C’è relazione tra la perpetuità e la profondità. Il nostro amore non può essere un imprestarsi a Dio ma un consegnarsi totalmente. L’adulto è colui che è capace di relazioni stabili.

    Quando si resta nell’amore di Dio, la mia fedeltà non è solo questione di resistere alle tentazioni o di evitare i pericoli (magari continuando a desiderare il frutto proibito). Fedeltà nell’amore significa crescita in questo amore.  Vi è crescita quando nella relazione con Dio vi sono coinvolti tutti i miei dinamismi: la mente coglie la verità, la volontà la sceglie, il cuore l’ama. Dio come credibile-esigente-attraente.

    Non basta il “colpo di fulmine” per innamorarsi di Dio. Si tratta di un cammino lungo, spesso né facile né spontaneo, fatto di coraggio nel liberarsi dei propri idoli e dei propri timori, di volontà di scegliere Dio sempre e in ogni situazione, di disponibilità a sacrificagli ciò che abbiamo di più caro. E non significa che sia un amore sperimentato sempre come entusiasmo e possesso definitivo.

    E’ un amore soggetto a tanti alti e bassi, all’incertezza, al buio, alla debolezza, a volte al rimpianto di altri vecchi amori. Come comportarci in queste situazioni?

    Si tratta di essere molto sinceri con se stessi: riconoscere la propria fragilità non per deprimersi, ma per scoprire a noi stessi ciò che ci impedisce di lasciarci amare da Dio.

    A volte si tratterà di avanzare nella speranza, nel desiderio, nella nostalgia di un amore che abbiamo appena intravisto senza possederlo ancora, nel dolore di avere preferito tante volte altri amori. Innammorarsi è anche questo.

  • 30 Mar

    Dalla notte della schiavitù al mattino della liberazione

    Es 14

    di p. Attilio Franco Fabris


    In Esodo 14 ci troviamo di fronte ad un testo che, nel suo insieme e nella sua redazione finale è tutto un documento di fede. Ciò che interessa all’autore biblico non è tanto riportare esattamente come si siano svolti “storicamente” i fatti, ma il raccontare il significato esistenziale che Israele ha attribuito a questi fatti. Si tratta di una dimensione “storica” diversa, ma molto più profonda di una ricerca dei “nudi fatti”. Perciò il testo biblico per essere letto e compreso in tutta verità deve essere accolto come documento di fede, come un testo che riporta degli eventi che sono stati capiti alla luce del Signore da persone coscienti del fatto che tutta la storia umana si volge davanti a lui e in essa Egli va disegnando la sua storia di salvezza.

    L’evento raccontato da esodo 14 contiene un significato che si inscrive nella vicenda del popolo santo di Dio, di Gesù di Nazaret, della Chiesa, di ciascuno di noi. E’ una tappa della storia della salvezza che pur godendo della sua autonomia storica, diviene per tutti modello paradigmatico.

    Esodo 14 racconta quella che è una tappa fondamentale della storia della salvezza, una tappa che dovrà restare impressa nella memoria e nel cuore e del quale il popolo dovrà celebrarne il memoriale ogni anno nella festa della Pasqua perché quello che Israele capisce di se stesso e della sua identità e soprattutto di Dio si compie proprio nel Mare di Suf. Momento così decisivo che quando Dio si rivolgerà al popolo in seguito, lo presenterà sempre come propria carta da visita: “Voi avete visto ciò che ho fatto all’Egitto… come vi ho condotti a mano alzata e braccio teso” Es 19,4; “Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, da una casa di schiavitù” (Es 20,2 inizio del decalogo); “Tu risponderai a tuo figlio: Noi eravamo schiavi del faraone in Egitto e IHWH ci ha fatto uscire dall’Egitto con mano potente” (Dt 6,21);  “Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero, ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore Dio dei nostri padri, ed egli ascoltò la nostra voce, vide la nostra miseria e la nostra oppressione e ci fece uscire dall’Egitto con mano forte, con braccio teso, con terrore grande, con segni e prodigi” (Dt 26,7-8).

    Un altro aspetto di cui tenere conto nella Lectio del nostro brano è il suo contesto. Un testo staccato dal suo contesto rischia di risultare incomprensibile, sicuramente risulta molto più povero di contenuto e messaggio. Il capitolo 14 di esodo risolve quella tensione che era iniziata sempre più acuendosi dal primo capitolo del libro.

    Il capitolo primo si conclude con la decisione del faraone di far uccidere tutti i figli maschi degli ebrei (v. 22).

    Nel capitolo 14-15 assistiamo al ribaltamento della situazione: il pianto si trasforma in canto di gioia, mentre l’Egitto piange la morte dei suoi primogeniti (Es 12,29-30). Israele è salvo sull’opposta riva del mare e vede i suoi nemici affogati (Es 14,30-31).

    I capitoli intermedi (7-12) descrivono i tentativi di liberazione da parte di Israele per la mediazione di Mosè e Aronne con le dieci piaghe inferte agli egiziani. Quando Dio interviene per operare la sua salvezza, il “mondo-Egitto” oppone una resistenza indicibile, perché non vuole essere salvato. C’è un combattimento, una lotta da intraprendere contro queste forze negative che si annidano nel cuore umano. Il nemico è anzitutto dentro di noi, l’uomo vecchio che ostacola l’opera di Dio. Questo male in noi si annida, si camuffa, agisce nel nascondimento facendoci costruire ad esempio un Dio a nostra misura ed immagine, che combatte il volto del vero Dio. Si deve lottare lungamente contro il peccato annidato nei punti oscuri del nostro cuore, perché si riveli il vero volto del Signore in noi e vengano abbattuti tutti i falsi dei costruiti dalle nostre mani.

    Tutta la scena di Es 14 si colloca in una precisa dimensione spazio temporale. Israele è accampato presso il mare. Lo spazio della vicenda è contrassegnato dal mare e dall’asciutto. Il testo poi è costruito perché tutta la vicenda si svolga nell’arco di una nottata, comprese la sera precedente e la mattina seguente.

    E’ sera quando gli egiziani raggiungono Israele in riva al mare, e il popolo grida di terrore.

    E’ notte quando il mare viene attraversato.

    Ed è mattina quando Mosè e tutto Israele contemplano ciò che Dio ha operato per loro ed esplodono nel canto di gioia (Es 15).

    Il mare, la notte, il giorno sono tutte realtà cariche di valore simbolico. Perciò occorre farne una lettura che tenga conto del valore emblematico e paradigmatico dell’evento che viene narrato.

    E’ possibile suddividere il capitolo in tre grandi atti, tre atti del grande dramma che si svolge nel Mare di Suf.

    L’angoscia di trovarsi senza vie di uscita: vv. 1-14

    Es 14,2 «Di’ ai figli d’Israele di ritornare e di accamparsi di fronte a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, di fronte a Baal-Zefon: vi accamperete davanti a quel luogo, ai bordi del mare.

    La parola “mare-acque” è ripetuta con insistenza in tutto il capitolo. Il mare è simbolo del male, di forze minacciose che richiamano potenze infernali, è simbolo dunque di morte. In Gn 1,2 prima della creazione esisteva un abisso tenebroso di acque, un caos primordiale, informe, senza vita. Sarebbe interessante un richiamo alla vicenda di Giona inghiottito dal pesce che lo trascina nelle profondità tenebrose del mare. In questa situazione di angoscia e di morte egli prega: Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde su di me sono passati… Le acque mi hanno sommerso sino alla gola, l’abisso mi ha avvolto… Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita”: Il tema è molto ricorrente sia nell’AT come nel NT: Perciò ti circondano i lacci e sei turbato da un repentino spavento, oppure un’oscurità non ti fa vedere, e una piena d’acqua ti sommerge. (Gb 22,10-11): Estraimi dal fango, che io non sprofondi, che sia strappato da quelli che mi odiano, e dagli abissi delle acque. Non mi sommerga la corrente delle acque, non m’inghiottisca il pantano e la voragine non chiuda su di me la sua bocca. (Sal 69,15-16); “Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena.(Mc 4,37): Sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare a mare il carico; (At 27,18). Il mare dunque è uno dei protagonisti del dramma, è nemico dell’antico e del nuovo Israele.

    Il v. 9 ci presenta gli israeliti accampati “presso il mare”.

    Il faraone li sta inseguendo “a mano alzata” (v. 8): spavaldo e arrogante, certo della sua vittoria e forte del suo esercito: Il faraone allora attaccò il cocchio e prese con sé i suoi soldati. Prese poi seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi (vv. 6-7)

    Israele è senza vie d’uscita: il mare davanti, il faraone e il suo esercito dietro, il deserto ai lati: Quando il faraone fu vicino, gli israeliti alzarono gli occhi: ecco, gli egiziani muovevano il campo dietro loro! Allora gli israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore (v. 10).  Quindi urla di paura, di terrore all’indirizzo non tanto di Mosè quanto di Dio stesso. L’angoscia lo attanaglia: Israele circondato dal pericolo, dimentica Dio, implicitamente accusandolo di non averlo realmente liberato, ma di averlo fatto uscire dalla schiavitù solo per farlo morire nel deserto.

    Così il salvatore può assumere nell’immaginario dettato dall’angoscia la fisionomia distorta di un aguzzino, mentre il nemico può apparire improvvisamente come l’unica ancora di salvezza. La paura getta nella menzogna, da cui si è assolutamente incapaci di uscire da soli:            Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portato a morire nel deserto? Che hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: Lasciaci stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto    che morire nel deserto? (vv. 11-12). Appare evidente nel testo l’antitesi Egitto/deserto: un’alternativa di fronte alla quale Israele si sente posto. E la vita da schiavi sembra migliore della morte nel deserto. L’Egitto, terra di schiavitù, diviene oggetto di nostalgia. Il deserto appare alternativa che trascina nella morte. Per due volte le parole deserto-morire sono congiunte.

    A questo punto la parola di Mosè è decisiva per ricondurre la coscienza del popolo alla verità: Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli egiziani che oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi state fermi e in silenzio (v. 14). Mosè domanda fiducia e capacità di attesa, e questo in una situazione altamente drammatica di cui ne va di mezzo la vita.(“Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede”. Mc 4,39-40)

    Si tratta di aprirsi alla “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18 “Abramo credette, al di là di ogni speranza”). Una capacità di “vedere” l’Altro mentre istintivamente saremmo portati a ripiegarci su noi stessi e le nostre paure.

    Ma occorre fare attenzione: le parole di Mosè, non significano che, nelle situazioni terrificanti della nostra vita, Dio viene a metterci una mano sulla spalla per consolarci, dicendoci: “Coraggio, adesso vengo io, ti prendo e sarai salvo!”. Dio ci salva facendoci passare attraverso la morte! (E diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» Mc 14,36)

    Così si chiude il primo atto: con l’angoscia e il terrore che percorre il popolo e con l’invito di Mosè ad aprirsi alla fiducia in Dio.

    Se dovessimo poi domandarci il senso di quest’angoscia potremmo rispondere che esso  diviene in qualche modo indispensabile affinché Israele  sperimenti fino in fondo la sua debolezza e precarietà, la sua radicale incapacità a salvarsi con le proprie mani.

    Tutto questo Dio lo opera perché non intende salvarci senza di noi. La promessa contenuta in Es. 14,4 non viene mantenuta da Dio automaticamente, perché la sua salvezza non si opera quasi mai come per un atto magico, bensì suppone e include l’adesione della mia libertà. Io, con la percezione del mio bisogno di essere salvato e con la convinzione della mia totale incapacità a operare la salvezza con le mie mani, so che devo lasciarmi salvare dall’unico Salvatore. Il Signore non opera miracoli senza di noi. Forse anche per questo, prima di questo evento prodigioso di salvezza, che trova espressione piena in Es 15, tutta una lunga serie di fatti ha dovuto precedere: la chiamata di Mosè e di Aronne, la loro mediazione, le dieci piaghe… Un lungo cammino perché il popolo, che ha iniziato così a sperimentare che il Signore salva davvero dal momento che l’ha già fatto uscire dall’Egitto, capisca che, anche quando è preso nella morsa del terrore più cupo e ha davanti a Sé solo la morte, in realtà, prima di tutto, si trova pur sempre di fronte al Signore, il quale ancora lo salverà attraverso la via dell’impossibile.

    Attraversare il mare…di notte:  vv. 15-25

    Il secondo atto comincia con un nuovo ordine dato da Dio a Mosè perché Israele riprenda il cammino. Israele si trova così ad affrontare una paura ancor più angosciosa: passare il mare con tutto quello che significa: Il Signore disse a Mosè: «Perché gridi verso di me? Di’ ai figli d’Israele di partire. Tu alza il tuo bastone e stendi la tua mano sopra il mare e si separi, e i figli d’Israele passino in mezzo al mare all’asciutto. (vv.15-16)

    Il passaggio avviene di notte e in silenzio. Dio fa percepire la sua presenza in una colonna di nube. Il Signore c’è, ma è nascosto dalla nube. Il v. 20 letteralmente andrebbe tradotto: Ci fu la nube e l’oscurità; ed essa rischiarò la notte. Una notte stranamente rischiarata dalla nube. Simbolo di sofferenza, terrore e morte, la notte è illuminata da “un’altra notte” la quale è però quella della nube, che nasconde la presenza di JHWH. Quindi la notte, pur tenebrosa, piena di forze oscure e mortali può diventare il luogo della presenza salvifica di JHWH per chi ha occhi per riconoscerla: Allora ho detto: «Almeno le tenebre mi potrebbero coprire, la notte mi potrebbe racchiudere». Ebbene, non sono oscure per te le tenebre, e la notte risplende come il giorno, come le tenebre così è la luce (Sal 139,11-12). A un certo punto la nube passa alla retroguardia, sì da illuminare gli israeliti e da oscurare gli egiziani. Per gli uni luce, per i nemici notte: è la luce della fede che solo il credente riesce a scorgere!

    Ormai Israele, che ci vede, non può più tornare indietro e non sono più possibili ripiegamenti nostalgici; il passato di schiavitù è finito per sempre. Dio non permette che il suo popolo ritorni indietro; egli ha frapposto la sua Shekhinah tra Israele e l’Egitto. Dio diviene scudo e schermo tra il nemico ed Israele: Anche se camminassi in una valle oscura, non temerei alcun male, poiché tu sei con me; il tuo bastone e il tuo vincastro sono essi la mia difesa. Una mensa tu prepari davanti a me di fronte ai miei avversari, hai unto con olio il mio capo e la mia coppa è traboccante (Sal 23,4-5).

    Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra (vv. 21-22). Israele avanza in mezzo al mare che sembra inghiottire da un momento all’altro ogni cosa. Eppure quella strada così pericolosa è via di salvezza: tutto è nelle sue mani e tutto serve per salvare. Solo JHWH può servirsi del vento-ruach-Spirito per rendere il mare terra asciutta, la morte vita. Ma si deve avere il coraggio di entrare nel mare, nell’acqua, nella morte, rischiando tutto e fidandosi completamente di lui: Pietro gli disse: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. (Mt 14,28-29)

    Il canto della liberazione: vv. 26-31

    Il terzo atto del dramma contiene l’ultimo comando di Dio: Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri”. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare (vv. 26-27). Il Signore combatte e distrugge il nemico di Israele. Cosa significa questo combattimento? Se un combattimento c’è stato, questo non è stato combattuto né da Dio, né da Israele, ma i nemici dell’uno, e quindi anche dell’altro, si sono affrontati distruggendosi tra di loro. Le acque vengono qui quasi personificate e diventano un soggetto che prende l’iniziativa di travolgere gli egiziani: Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno (v. 28).

    Gli egiziani si dirigevano contro il mare: sono andati essi stessi a buttarglisi tra le braccia per farsi travolgere. In una lettura dell’Antico Testamento risulta sempre che i nemici di Israele sono i nemici di Dio e viceversa. Poiché Israele è il popolo di Dio, il sacramento della strategia della salvezza escogitata da Dio per tutti i popoli, l’appartenenza a JHWH lo costituisce nella sua identità profonda. Coloro che attentano alla vita dell’eletto, implicitamente od esplicitamente attentano al disegno salvifico di Dio, non vogliono lasciarsi salvare da lui.

    Il male che emerge dal confronto col Signore è smascherato, esso si rivela nella sua inconsistenza, ancor più alla fine è potente solo per distruggere se stesso. I nemici di Dio si autodistruggono o si distruggono tra loro a motivo dell’inevitabile autoannientamento a cui il male è destinato: Il valore quindi è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati (1Pt 2,7-8). Così il mare, nemico di Israele e di Dio simbolo di arroganza e di morte, annienta l’altro nemico del Signore e d’Israele, cioè l’Egitto: Invece gli israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro una muraglia e destra e a sinistra (v.29).

    La sconfitta definitiva del nemico è annunciata nell’Apocalisse: Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova. Infatti, il cielo e la terra di prima erano scomparsi; neppure il mare c’era più  (Ap 21,8).(cfr  Cfr. Gs 6: la caduta delle mura di Gerico Gdc 6-7: la battaglia di Gedeone contro i filistei 2Cr 20: la distruzione degli ammoniti e moabiti)

    Dio è creatore di tutti, ama tutte le sue creature e non si darà pace finché non avrà manifestato la sua salvezza anche agli egiziani (cfr. 14,4.18; 25b). Vi è un bellissimo midrash a comment di questo: “Gli angeli del servizio divino vollero allora dinanzi alla distruzione degli egiziani intonare un cantico di lode davanti al Santo, egli sia benedetto. Allora il Santo, egli sia benedetto, disse loro: L’opera delle mie mani annega nel mare, e voi vorreste intonare un cantico davanti a me?”.

    Israele ha attraversato il mare di notte, in silenzio. Si è trovato sulla riva opposta, è passato come in un sogno:                 Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare (Sal 126,1) (Oltrepassato il primo posto di guardia e il secondo, vennero alla porta di ferro che metteva in città. Essa si aprì da sola davanti a loro. Uscirono e si avviarono per una strada e improvvisamente l’angelo si dileguò da lui. Allora Pietro, rientrato in sé, disse: «Ora capisco davvero che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha liberato dalla mano di Erode e ha reso vana l’attesa del popolo dei Giudei» (At 12,10-11)

    La paura si è trasformata in timore e canto di lode: E il popolo temette il Signore e credette nel signore e nel suo servo Mosè (v 31). Timore reverenziale e umile di chi, trovandosi davanti alla maestà di Dio, confida in lui con tutto il suo cuore. La stessa radice che indica la “paura” è ora utilizzata per il “timore”.

    Infine sottolineiamo l’aspetto comunitario: è fondamentale. Il capitolo 14 è costruito in modo tale che si giunga al 15 risolvendo una solitudine: quella di Mosè. Il popolo appare distante, recalcitrante, subisce più che credere a quello che sta accadendo. Solo dopo che Dio avrà operato l’impossibile l’atteggiamento del popolo cambia radicalmente nei confronti di Dio e di Mosè: Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e nel suo servo Mosè (v. 31). Nessuno può accapparrarsi la salvezza per sé solo: il cuore del Signore non ha pace finché tutti i suoi figli non vivano in una comunione di gioia piena. La lode è gradita quando è elevata da tutti insieme.

    E’ una situazione ben diversa da quella descritta nel primo atto del dramma, dove il popolo era paralizzato dal pensiero di dover morire. Ora non è più preoccupato per la propria vita, perché ha visto che la vera vita è stare dalla parte del Signore. Ha capito, paradossalmente, che sono proprio la sofferenza e la morte quelle che ci fanno vivere, perché ci consegnano totalmente a lui, e a lui ci rendono più simili e vicini. E’ il modello della nostra conversione, in cui accogliamo il paradosso del passaggio di Dio attraverso la storia.

    La lettura con Cristo

    Questa vicenda del passaggio attraverso il mare è anticipazione di quello che avverrà nella passione e morte di Gesù (cfr Mt 14,25-33…). In questo “passaggio” anche Gesù si trova totalmente solo, in una sensazione di fallimento completo, una nudità totale. Il Padre gli chiede di continuare ad avere fiducia e di entrare nell’oscurità del mare della morte, discendendo negli abissi dello Scheol.

    Sull’altra sponda è il Padre stesso che lo attende, lo Spirito soffia potentemente perché le acque di morte si riaprano per lui alla vita risorta. E’ questa l’ultima pasqua del Signore, il suo passaggio, che ha vinto l’ultima e più vera paura dell’uomo: la morte: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo: contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza,  perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza. Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione. Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (At 2,22-36).

    Con Cristo, il cristiano anticipa questo passaggio nel battesimo, Una salvezza e un passaggio che si opera già in noi sacramentalmente mediante il dono del battesimo: Fummo dunque sepolti con lui per il battesimo per unirci alla sua morte, in modo che, come Cristo è risorto dai morti per la gloria del Padre, così anche noi abbiamo un comportamento di vita del tutto nuovo (Rm 6,4). Sapendo che il battesimo è prefigurazione di quella Pasqua definitiva che ci verrà chiesto di celebrare il giorno della nostra morte, quando con Cristo passeremo anche noi da questo mondo al Padre, per entrare nella terra dei viventi.

    L’analogia tra geografia e teologia è completata dal deserto egiziano e sinaitico. Tra lì Egitto e la terra-dono di Canaan c’è un deserto , un lungo cammino da percorrere. La parabola geografica della redenzione è completa: il passaggio dalla schiavitù alla grazia, dalla morte alla vita, non si compie in un sol giorno, ma si snoda in un succedersi di tappe. I quarantanni di peregrinazione, un numero simbolico che indica il tempo necessario per consumare un’esperienza spirituale compiuta.

  • 29 Mar

    La Pasqua di JHWH e di Israele

    Es 11-13

    di p. Attilio Franco Fabris

    I capp. 12-15 del libro dell’esodo custodiscono il cuore della memoria e della speranza della fede ebraica e di quella cristiana.

    Come leggere il violento intervento di Dio nei confronti del popolo egiziano quando nell’ultimo avvertimento assistiamo alla strage di tutti i suoi primogeniti? Occorre anzitutto andare al genere letterario sottinteso. Questo modo di raccontare le cose serve agli autori del testo biblico unicamente a sottolineare per contrapposizione, un’affermazione positiva, che rappresenta il vero scopo del racconto: l’esperienza straordinaria della salvezza. Le vicende esteriori non sono altro che un’illustrazione pubblica e macroscopica di ciò che avviene nella profondità della coscienza, là dove Israele acquista la consapevolezza fondamentale della propria appartenenza a Dio. La morte dei figli degli egiziani non deve servire ad altro che a commentare con un’illustrazione assai efficace il mistero dell’elezione di cui Israele è depositario.

    L’ultima “piaga” rappresenta l’ultimo drammatico atto per ottenere il crollo delle resistenze del faraone alla liberazione del popolo di Jhwh. Dopo di ciò gli israeliti non saranno solo autorizzati ad uscire dal paese, ne saranno addirittura scacciati con forza, non senza prima aver spogliato l’Egitto delle sue ricchezze.

    In ogni esperienza di salvezza corrisponde un inevitabile sentimento di distinzione rispetto al mondo e all’intera umanità: sappiate che il Signore fa distinzione tra Egitto e Israele (11,7).  L’intervento di Dio segna un “giudizio”: di salvezza per coloro che sono di Dio, di perdizione per coloro che sono contro Dio. Le piaghe d’Egitto sono inizio del giudizio di Dio sul mondo. Questo “giudizio” che raggiunge il suo vertice nella pasqua del “figlio unigenito” Cristo Gesù: Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. (Gv 12,31)

    Nell’esodo israele è denominato da JHWH come suo “figlio primogenito” di JHWH (4,22). In tale affermazione si può riassumere tutta la vicenda della liberazione dall’oppressione egiziana. D’ora in poi nulla più potrà sottrarre al popolo di Dio la ferma consapevolezza di essere il figlio privilegiato ed eletto, il “figlio primogenito”. Una contrapposizione già enunciata a Mosé: Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito (4,22).

    Ricordati!

    Nella notte di pasqua nasce il popolo di Israele. Avvenimento fondante la sua identità di cui dovrà fare perenne memoria per conservare la propria identità di popolo salvato e amato dal suo Dio. Le prescrizioni per la celebrazione pasquale non hanno altra finalità che quella di conservare il ricordo di quella notte di veglia: gli israeliti ne faranno “memoriale” (zikkaron” 12,14).  “Ricordati”, dice la prima parola, “zekor”, ovvero compi un rito memoriale che renda sempre attuale questo giorno, perché “oggi voi partite” (al presente).

    Celebrare il “memoria” non è solamente riportarsi al passato con la memoria e il sentimento, ma compiere un’azione che rende presente e attuale la realtà ricordata. Il memoriale si fonda sul passato ma nello stesso tempo lo trascende nell’oggi nella sua valenza salvifica; così che al credente è dato non solo di celebrare ma sperimentare la salvezza sempre operante di Dio. Celebrazione che di conseguenza proietta anche verso il futuro dell’intervento salvifico definitivo di Dio. Infatti la salvezza non è prodotta o condizionata dalla mia presenza al fatto storico, ma dalla grazia dell’azione di Dio che prodotta in quell’evento permane oggi e nel futuro.

    Celebrare la festa di pasqua dunque è uscire dall’Egitto.  Questo esodo-liberazione sarà ri-vissuto ogni anno nel memoriale della Pasqua: “Questo sarà per te come segno sulla tua mano e come un memoriale tra i tuoi occhi, perché la legge di Jhwh sia sulla tua bocca” (v.9). Il fatto della liberazione, l’esperienza di salvezza vissuta, dovrà sempre essere presente a ogni israelita che ne è beneficiario, come se l’avesse scolpito sulle mani e come se lo vedesse sempre davanti ai suoi occhi. Ugualmente avrà sempre sulla bocca, nello spirito e nel cuore, la “thora” che procede da quell’avvenimento fondamentale prolungandolo. Perciò quando i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E’ il sacrificio della pasqua del Signore, il quale è passato (ha saltato) le case degli israeliti in egitto quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case (12,26).

    La novità di questa prima celebrazione della pasqua è data dal fatto che viene celebrato un rito che è memoria di un evento salvifico che deve ancora attuarsi, Israele non è ancora uscito dall’Egitto. Prima  Il rito, la festa, si presenta come coscienza di ciò che sta per compiersi, come coscienza anticipata.  Si celebra una speranza. E’ questa una valenza fondamentale anche del memoriale eucaristico: anticipazione di quel ritorno glorioso del Signore, e del banchetto finale del regno, che la Chiesa attende con impazienza, come la sposa attende la sposa: Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. (1Cor 11,26). Prima viene celebrato il sacramento (12-13) e a esso fa seguito la realtà significata dalla storia (14-15).

    La festa annuncia che l’attesa è terminata: Dio sta per venire. Per questo la celebrazione è contrassegnata da una nota di urgenza (12,11). È a causa di questa urgenza che, in base alla ricostruzione teologica che guida la narrazione, gli israeliti mangiarono pani azzimi: non avevano potuto indugiare (12,39). Il tempo è ormai compiuto, il Signore viene, ed ogni nostra urgenza di libertà troverà finalmente lo sbocco a cui ci ha orientati la speranza di poter vedere “un cielo nuovo e una nuova terra” (Ap 21,1).

    La festa della Pasqua

    E’ la pasqua per Jhwh” (v. 11): la parola “pesah” ha una etimologia difficile. La pasqua ebraica deriva dalla fusione di due feste più antiche: una festa di pastori che consisteva nell’immolazione di un’agnello (pesach) a scopo apotropaico al fine di allontanare i pericoli che minacciavano il gregge e quindi la vita stessa dei pastori; e nel successivo banchetto notturno contrassegnato da danze (saltare: pasach). La seconda festa era invece una festa agricola in cui per sette giorni si mangiava pane azzimo. La prescrizione di mangiare pane non lievitato viene dalla concezione mediorientale a riguardo della purezza: è impuro e cattivo tutto ciò che è causa di corruzione, di disgregazione, ovvero di morte (cfr 1Cor 5,6-8) quindi ciò che è lievitato. Può forse aver aggancio anche nella concezione antica che nulla doveva sussistere dell’antica raccolta, e che occorre ricominciare tutto di nuovo, come rito augurale di prosperità e abbondanza.

    Israele ha radicalmente trasformato il significato di queste feste riconducendole ad un preciso evento storico: l’uscita dall’Egitto. Nasce così la Pasqua ebraica, che non è più festa di pastori o di agricoltori ma festa di un popolo che fa memoria della sua nascita e liberazione.

    La morte dei primogeniti

    Il racconto della decima piaga assume un particolare valenza teologica in forza della connessione con la prima celebrazione della festa di pasqua (12,1-28).

    La distinzione dei primogeniti è resa pubblica ed esplicita mediante il segno con cui ogni capofamiglia ebreo traccia con il sangue dell’Agnello sui due stipiti e sull’architrave della porta di casa (12,7.22). Il sangue è simbolo della vita: offerto esso risparmia dalla morte. Il NT parlerà del “sangue di Cristo” mediante il quale siamo stati riscattati, ovvero salvati:

    Cristo è il nuovo Agnello immolato dal cui sangue tutti saranno riscattati:

    secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza. (1Pt 1,2)

    Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. (1Pt 1,18-19)

    Il “riscatto” di questo genere è collegato alla storia della “decima piaga”: (13,1s.11-16).  Fare dono a Dio di tutto ciò che è “primo” è pratica religiosa antichissima e intensissima nel suo significato: è riconoscere che tutto proviene da Dio, che ogni vita è da lui e a lui deve ritornare. Per Israele questo acquista un ulteriore valore: ogni primogenitura “riscattata” acquista il valore di memoria della salvezza: “per ricordare che con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto”. (14,16).  Perciò: “santificami per me.. consacrami tutti i primogeniti”: cioè dammeli, riservali a me solo, perché “sia uomo che animale, tutto mi appartiene”. Ora questo come sommo sacrificio ciò sarebbe richiesto anche per gli uomini: bisogna salvaguardare i diritti di Dio! Il mezzo adottato per ottemperare a questa esigenza sarà l’istaurazione della legge del “riscatto”, effettuato secondo il rito di sostituzione (Cfr Es 34,19-20).

    Questo atto di riscatto è espresso con il verbo “padah”: che sta ad indicare il liberare con riscatto, da cui sciogliere, liberare, salvare. Jhwh ha manifestato la sua potenza e i suoi diritti con la morte dei primogeniti, uomini e bestie, degli egiziani; i primogeniti di Israele ne sono stati riscattati, non sono “passati a Jhwh” (v. 12). Questo privilegio deve essere compensato con un rito perenne di “riscatto”. Rito che simbolicamente ricorderà l’azione liberatrice di Dio  che si ripete generazione dopo generazione. Questo “riscattare” i primogeniti, le primizie, sarà memoriale perenne dell’azione salvifica di Dio: Maria e Giuseppe ottempereranno anch’essi a questa legge quando presenteranno al Tempio il figlio Gesù:Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore,  come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore” (Lc 2,22-24).

    Celebrare la Pasqua è essenziale: la liberazione dall’Egitto diviene prototipo anche per noi della liberazione da tutte le forme di male, da tutti gli asservimenti e schiavitù, da tutto ciò che si oppone alla vita, e dunque liberazione dal male e dalla sua massima manifestazione che è la morte. Pasqua, passaggio-salto di danza come è nel crocifisso bizantino, dalla schiavitù alla liberazione, dalla morte alla vita, pasqua del crocifisso risorto. Non per nulla Cristo  interpretò tutta la sua vita alla luce della pasqua del suo popolo (cfr Mc 14,1ss; Lc 22,14…), lasciando a sua volta ai suoi il memoriale della pasqua definitiva. Questa fu sicuramente la catechesi fondamentale che egli fece ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27).

    La liturgia cristiana nella grande veglia di Pasqua in cui le due pasque si illuminano a vicenda e si rimandano canta nell’Exultet: “Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case dei fedeli… Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro”.

  • 28 Mar

    Il libro degli “avvertimenti”
    Es 7-10

    di p. attilio franco fabris

    Il racconto delle piaghe ci presenta con insistenza la richiesta di JHWH al faraone: lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto (Es 5,1.3). Perché questa insistenza sul doversi recare nel deserto? (Cfr 8,21-23).

    La motivazione data da Mosè sembra apparentemente manifestare rispetto per la cultura e la religione egiziana, in realtà egli tocca un punto cruciale della polemica anti idolatrica. Per la bibbia l’Egitto, come Sodoma e Gomorra, è un paese simbolo spirituale del peccato e dell’idolatria, luogo di alienazione spirituale per il popolo di Dio (Gn 18,20-21….). Nella richiesta di Mosè si intravvede perciò una denuncia sferzante: quelli che voi egiziani adorate come dei, per noi figli di Israele, sono vittime da sacrificare all’unico Signore e Dio.

    Una geografia teologica

    Potremmo anche tentare di leggere la geografia egiziana in un’ottica teologica polemica. L’Egitto è il paese attraversato dal grande fiume Nilo, una presenza che dà sicurezza perché benefica: lì essa viene divinizzata. L’Egitto come Babele con il suo Eufrate simboleggia per l’uomo biblico l’autosufficienza arrogante del potere mondano che per questo è indotto ad auto divinizzarsi. Si dà dunque in diversi testi biblici una lettura negativa della geografia egiziana:Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti dò. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa,il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima;  che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire. Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze” (Dt 11.8-17). Invece il paese che il Signore promette è “un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo; paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine”. Si dà dunque una “geografia dell’immannenza” in Egitto e una “geografia della trascendenza” nella terra di Canaan¸ geografia dell’illusoria autosufficienza e geografia della grazia.

    Non su qualunque terra si può dunque rendere culto al Signore, ma solamente su quella alla quale egli Egli ha destinato il suo popolo (Naaman lo capirà perfettamente: cfr 2Re 5,8-19).  Da un paese come l’Egitto bisogna dunque “uscire”. La chiamata  che Dio rivolge al suo popolo è la stessa che egli aveva fatto ad Abramo: Vattene, parti, esci… dalla tua terra… verso una terra che io ti indicherò (Gn 12,1). Ci sono situazioni dalle quali, divenendo prossime di peccato, bisogna uscire, tagliando risolutamente il male alla radice (Mt 5,29-30).

    Il libro degli ammonimenti: la vittoria di JHWH sull’idolatria imperialistica

    La sezione dei capitoli 7-10 dell’Esodo è interamente dedicate alla narrazione delle dieci “piaghe” con cui JHWH colpisce l’Egitto a causa di Israele al fine di costringerlo alla liberazione del suo popolo. Diciamo subito che il termine “mofet” andrebbe tradotto meglio con “prodigi” o “segni” (il termine “magefa – da “nagaf – colpire non compare che in 9,14). Ciò significa che la narrazione biblica attribuisce alle cosiddette piaghe ben più che un  significato di flagelli punitive; esse assumono un valore simbolico – sono segni – che descrivono drammaticamente il rapporto conflittuale e decisivo che contrappone JHWH e il faraone il quale raccoglie in sé esemplarmente tutte le prerogative dell’opposizione demoniaca a Dio.

    La narrazione è scandita da una serie di monotoni commenti che sottolineano la “durezza di cuore” del faraone. In questo indurimento del cuore si manifesta tutta la radicale avversione degli uomini a Dio: qui si tratta in particolare di quell’avversione a Dio che passa attraverso la scoperta esaltante dell’efficacia della forza politica, scientifica e militare con la sua pretesa di sostituirsi a Dio. E’ un’opposizione che assume diversi volti lungo la storia e nella nostra stessa vita (il faraone che si oppone a Dio è anche dentro ciascuno di noi, Paolo lo chiamerebbe “il vecchio uomo”, il “vecchio Adamo”). Oggi la potremmo identificare con una sorta di relativismo, scientismo, culto di sé.

    La sconfitta del faraone e la follia della sua ostinata resistenza

    La narrazione biblica non vuol presentare altro protagonista che non sia Dio stesso: è lui che parla, ordina, prevede le difficoltà e le opposizioni, stabilisce quando e dove intervenire. La sua è una sovranità assoluta apparentemente ostacolata dall’indurimento del cuore dell’uomo. In verità tutto avviene secondo le intenzioni e le decisioni di Dio: tutto contribuisce a dimostrare che la signoria di JHWH è stabilmente vittoriosa.  Il racconto proclama con la sua insistenza la certezza che il potere faraonico di tutti i tempi è sconfitto dall’unica vera signoria di JHWH. E’ la stessa certezza con cui l’apocalisse canta la sconfitta finale e definitiva di Babilonia la grande prostituta, l’anti-gerusalemme:

    Un angelo gridò a gran voce:  È caduta, è caduta Babilonia la grande ed è diventata covo di demòni, carcere di ogni spirito immondo, carcere d’ogni uccello impuro e aborrito e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato». (18,2-3)

    Ma l’ascoltatore e chiamato ad assistere con stupore alla follia dell’ostinazione faraonica, alla sua folle rivalità, hybris la chiamerebbero i greci, di opporsi alla signoria di JHWH. Atteggiamento che porta in sé sempre il seme dell’autodistruzione. Come un ritornello prenderemo che di fronte ad ogni “segno” il cuore del faraone si ostinò…

    La coscienza del faraone ci appare ambigua e contraddittoria, tutta tesa semplicemente al calcolo politico della gestione e conservazione del potere, come farà Erode dinanzi all’annunzio della nascita del re dei giudei.  Talvolta egli sembra aprirsi al dialogo, a cercare un compromesso, addirittura sembra giungere a pentirsi…, in realtà l’indurimento del faraone rimane costante. Anzi lo stesso svolgersi delle situazioni sempre più drammatiche e catastrofiche non ha altro risultato che rendere sempre più inamovibile la sua rigidezza. E’ la controrisonanza alla fin fine solo autodistruttiva della rivalità che si mette qui in azione: del tipo mi spezzo ma non mi piego!

    Si tratta di posizioni che conosciamo bene anche per esperienza personale. Di fronte ai “segni” inequivocabili che Dio nella sua misericordia ci invia perché con umiltà possiamo leggerli a nostra salvezza rischiamo di opporre la nostra posizione e interpretazione, il nostro progetto. Si instaura una lotta dalla quale inevitabilmente usciremo sconfitti. Quanti “poteri” lungo la storia si sono scontrati con la chiesa di dio uscendone alla fine sconfitti ed autoannientati?

    La cortigianeria degli intellettuali e dei tecnocrati

    Accanto al faraone compaiono altri personaggi minori ma che orbitano attorno a lui. Si tratta di “sapienti, incantatori, maghi” che vengono convocati dal faraone affinché “con le loro magie” operino dei “segni” che possano contrapporsi a quelli di JHWH. Essi sono perfetti uomini di corte, dediti al culto del sovrano per il proprio tornaconto e perciò devoti osservanti delle regole che garantiscono il potere. Potremmo definirli come “gli intellettuali” al servizio del potere! Come veri intellettuali essi avrebbero tutti gli strumenti culturali necessari per comprendere e sbugiardare i limiti oggettivi del potere al cui culto si sono prestati, ma sono troppo…di corte. Preferiscono la loro fette di potere alla verità.

    Questi intellettuali sono anche dei “tecnici” capaci di operare vere e proprie “magie”: la magia è forza prestigiosa che caratterizza l’uso consapevole ed efficace della tecnica che esalta le capacità e l’autonomia dell’uomo facendole illudere di essere al pari di Dio e di potersi alla fine sostituire a lui. Come non stupirci dei progressi dell’ingegneria genetica con i suoi obiettivi di “creare” a suo piacimento e come la desidera la vita? Oppure la tecniche dell’informatica o della medicina? I maghi d’Egitto in un primo tempo riescono a operare le stesse cose (7,11) a competere in effetti con Dio: “Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anche i maghi dell’Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa. Gettarono ciascuno il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni” (Es 7,11-12).  La competenza “dei maghi” permette loro di elaborare prodotti artificiali, validamente concorrenziali sul perenne mercato dei surrogati di cui anche oggi il mondo è pieno e dinanzi a cui è facile rimanere… incantati.

    Tuttavia ad un certo punto essi si devono arrestano riconoscendo che è all’opera il dito di Dio:  I maghi fecero la stessa cosa con le loro magie, per produrre zanzare, ma non riuscirono e le zanzare infierivano sugli uomini e sulle bestie. Allora i maghi dissero al faraone: «È il dito di Dio!» (8,14-15). Essi devono desistere e riconoscere a malincuore la sconfitta. Ancora una volta l’impresa di Babele viene vanificata in se stessa.

    L’ ammonimento iniziale: 7,8-13

    Il “segno” iniziale è dato in uno scontro con i praticanti delle scienze occulte, i maghi (hartummim). La scena verte sulla funzione del “bastone” di Mosè (di Aronne: tradizione P). Questo bastone diviene un “tannim” che può indicare qualsiasi bestia selvaggia, ma indica in modo particolare il grande serpente di mare, figura archetipa delle antiche cosmologie (Is 27,1; Gen 1,21; Gb 7,12; Sal 148,7). Tannim forma con il Leviathan e il Rahab il trio dei mostri acquatici che abitano l’abisso simbolo del caos primigenio. Nel nostro testo esso simboleggia l’Egitto, serpente d’acqua, che sarà vinto da JHWH nel momento del passaggio del Mar Rosso. Vittoria preannunciata dal fatto che il bastone di Mosè divora quelli dei maghi. Questo prodigio iniziale riveste un forte significato profetico.

    Primo avvertimento: il Nilo rosso 7,14-25

    La scena dell’incontro-scontro tra Mosè e il faraone è emblematica: si rappresenta l’uomo di Dio solo, munito solo della forza della Parola affidatagli, di fronte ai poteri di questo mondo. Il secondo “ammonimento” è dato da Dio al faraone perché: Da questo fatto saprai che io sono il Signore (7,17). La forza del nome di Dio si esercita sul Nilo fiume-dio dell’Egitto da cui proviene tutta la vita del paese. Il Nilo diviene color rosso, il che raffigura il “sangue”: segno ammonitore del sangue dei figli degli ebrei gettati in esso per ucciderli, ma segno anche del sangue degli egiziani che sarà sparso a causa della resistenza alla parola di Dio. Ma i maghi riescono a riprodurre il prodigio: lo spargimento del sangue non è forse sempre possibile a tutti? La conclusione è che il faraone voltò le spalle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto (7,23).

    Ulteriori avvertimenti:  7,26-8,11

    Il terzo avvertimento è costituito da una proliferazione delle zanzare (8,12-15). A questo punto i maghi non riescono a “produrre” le zanzare. Essi devono riconoscere: “E’ il dito di Dio!” (v. 15). Sono eliminati dalla competizione con Lui. Il faraone resta perciò solo a combattere con Dio.

    Il quarto avvertimento è costituito da nubi di fastidiosi i moscerini o tafani (8,16-28). La novità è che ora Dio promette che tale flagello non toccherà il paese dove risiedono gli israeliti, il Goshen, e questo perché il faraone riconosca che io Jhwh sono nel paese” (v. 18). Questo testo è di fondamentale importanza teologica: vi si afferma una presenza e un’azione divina che travalica i limiti del santuario e del paese: Dio è ovunque sia il suo popolo, egli è “in ogni luogo” e ne sempre unico signore. Paradossalmente i moscerini sembrano riuscire a vincere il faraone il quale è costretto a dare l’autorizzazione a Mosè e agli ebrei di andare a “servire il Signore…” ma la condizione è di un permesso temporaneo di soli “tre giorni di cammino”. Permesso che immediatamente viene però revocato.

    Giunge perciò il quinto ammonimento: il bestiame viene colpito dalla peste (9,1-7). I segni si fanno sempre più drammatici in contrapposizione al crescente indurimento del cuore del faraone. La minaccia di morte inizia ad intravvedersi. Anche qui la mano di Jhwh mette da parte i suoi e colpisce i suoi nemici.

    Il sesto avvertimento (9.8-12) è dato dalla comparsa di ulcere sul corpo di persone e animali. Ricompaiono i maghi, ma ironicamente come vittime. Viene confessata la fede nella potenza di Jhwh: la sconfitta dei maghi diviene atto d’ossequio all’opera di Dio nei confronti di chi tenta stoltamente di “scimmiottarla”: I maghi non poterono stare alla presenza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone, il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva predetto a Mosè (Es 9,11-12)

    Il settimo ammonimento è rappresentato dall’invio distruttivo della grandine (9,13-25). Dal v. 14 al 21 predomina la riflessione teologica: Jhwh è il solo Dio, non ve ne è altri. Qui è’ significativo che Mosè dopo aver annunciato il flagello, indichi al faraone il mezzo per evitarlo. JHWH per bocca di Mosè avvisa ancora una volta con misericordia il faraone:  Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra; invece ti ho lasciato vivere, per dimostrarti la mia potenza e per manifestare il mio nome in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! (9,15-17).

    Qui troviamo una novità importante: alcuni egiziani obbediscono a Mosè perché “temono la parola di Jhwh”. Quindi la conversione del cuore almeno in qualcuno inizia a far breccia portando salvezza: Chi tra i ministri del faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. (9,20-21). Passaggio importante per il risvolto di apertura universale della fede in JHWH: si afferma che anche ai non ebrei, anzi agli stessi nemici, sia data la grazia di poter udire la parola per ottenere la salvezza (cfr Is 19,16-25; libro di Giona).

    A questo punto nel faraone sembra avvenire un ripensamento: ora egli è convinto di “peccato” e che il “giusto è Jhwh”. Gli risulta chiaro che il paese appartiene a Jhwh e non a lui? Sembrerebbe dall’andamento del testo che la coscienza del faraone evolva nella presa d’atto di questa consapevolezza: Allora il faraone mandò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli: Pregate il Signore: basta con i tuoni e la grandine! Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre» (9,28).

    Tuttavia l’indurimento del cuore ha ancora il sopravvento nonostante tutto: Il faraone vide che la pioggia era cessata, come anche la grandine e i tuoni, e allora continuò a peccare e si ostinò, insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò ed egli non lasciò partire gli Israeliti, come aveva predetto il Signore per mezzo di Mosè (9.34-35). Si rivela tragicamente ci come l’ostilità e la rivalità possano abitare la coscienza dell’uomo di fronte alla Parola tanto da non voler tener conto neppure dei fatti! Lo svolgersi delle situazioni invece di far cedere sembra non far altro che rendere impermeabile il cuore del re.

    Arriviamo di conseguenza all’ottavo avvertimento: le cavallette (10, 1-20). La piaga dell’invasione delle cavallette è presente anche in altri testi biblici come punizione in seguito all’infedeltà al Signore (cfr Na, 3,15-17; Gl 1-2 testo che rilegge il nostro brano). Un’invasione di cavallette significa distruzione dei raccolti e quindi carestia e morte. Ma il risultato presso il faraone è sempre il medesimo.

    Arriviamo al penultimo avvertimento: il dilagarsi sull’Egitto delle tenebre simbolo della morte e del caos (10,21-29). Il testo parla di un forte vento (khamsim) che portando sabbia oscura la luce del sole. Le “tenebre” nella scrittura indicano sempre il “Jom JHWH – il giorno terribile del Signore” (cfr Am 5,18-20; Gl 2,2…) in cui egli giunge come giudice della storia e dell’umanità:

    Guai a coloro che attendono il giorno del Signore!

    Che sarà per voi il giorno del Signore?

    Sarà tenebre e non luce.

    Come quando uno fugge davanti al leone

    e s’imbatte in un orso;

    entra in casa, appoggia la mano sul muro

    e un serpente lo morde.

    Non sarà forse tenebra e non luce

    il giorno del Signore,

    e oscurità senza splendore alcuno? (Am 5,18-20)

    Al v. 23 ancora una sottolineatura importante: ma “i figli di Israele avevano luce nelle loro dimore”. La luce è simbolo della presenza e dell’azione benefica del Signore, segno di salvezza. La Parola di Dio è simbolizzata dalla luce che illumina il cammino del credente (cfr Is, 60,1-3.19-20; Nm 6,25…). Ora mentre tutto all’intorno è tenebra, il popolo di Dio abita un paese di luce: non può essere altrimenti. Sarà la stessa colonna di luce che lo accompagnerà nel cammino verso la salvezza.

    Un duello cosmico per una nuova creazione

    Il fatto che le piaghe siano descritte come fenomeni naturali fa sì che esse ci rimandino anche  alla portata cosmica del conflitto che si sta svolgendo. L’abuso del potere stravolge anche il rapporto con il creato non solo con il proprio simile e con Dio: il creato è coinvolto nel peccato dell’uomo e di conseguenza ne geme e soffre. Tutto questo è sotto il nostro sguardo: quando l’uomo si autoerige ad unico padrone del mondo riduce la creazione a schiavitù stravolgendone il significato vero. La natura offesa e tormentata, deviata dal suo obiettivo, dagli abusi dell’istituzione imperialistica di turno alla fine si ribella in modo clamoroso e manifesta inequivocabilmente la propria appartenenza a JHWH.

    Il racconto delle piaghe mentre descrive questo stravolgimento assume nello stesso tempo l’andamento di una nuova creazione: si parla di acque e di tenebre che sono per l’appunto gli elementi che nel primo racconto della creazione definiscono la situazione del  caos originario (cfr Gn 1,2). In altre parole: l’ostinata opposizione a Dio da parte del faraone riconduce il mondo intero al caos originario. Tuttavia appare che il cosmo sia strettamente alleato con Dio e quindi coinvolto nella sua grande opera di liberazione, in una sorta di nuovo doloroso parto da cui deve nascere la nuova creatura, il nuovo figlio: il popolo libero di Israele (cfr Es 4,22).

    La paziente pedagogia di Dio

    Il libro della sapienza rilegge il racconto delle dieci piaghe come la storia esemplare della pazienza di dio, della sua pedagogia e giustizia nei confronti degli egiziani (Sap 10-15).

    Essa liberò un popolo santo e una stirpe senza macchia

    da una nazione di oppressori.

    Entrò nell’anima di un servo del Signore

    e si oppose con prodigi e con segni a terribili re.

    Diede ai santi la ricompensa delle loro pene,

    li guidò per una strada meravigliosa,

    divenne loro riparo di giorno

    e luce di stelle nella notte (Sap 10,15-17)

    Questa vicenda contiene una delle lezioni bibliche più solenni e complesse sulla provvidenziale strategia divina nella storia del mondo: si tratta di un’economia di salvezza per tutti mediata dal particolare popolo-figlio che Dio si è eletto. E’ della massima importanza che tutti, egiziani e israeliti, vedano e sappiano che lungi dall’amare tutti allo stesso modo, il Signore fa distinzione tra Israele e l’Egitto, fino al punto da combattere contro il faraone e i suoi eserciti.. Israele e non l’Egitto è il “figlio primogenito”. Ma d’altra parte Dio è anche il Dio degli egiziani! Egli ama talmente solo Israele che in lui ama tutte le altre nazioni (Rm 8,28-32; ….). Colui che obbedisce al Signore è visitato dalla sua benedizione, che lo raggiunge attraverso Israele, mentre per colui che disobbedisce, Israele diventa una “trappola”. Ciò è contenuto già nella promessa fatta ad Abramo: Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (Gn 12,2-3). La vicenda delle dieci piaghe, lungi dall’essere una “apertura alle ostilità” da parte di Dio contro l’Egitto è una specie di grande “missione popolare” presso il grande impero idolatra “per far giustizia di tutti gli dei dell’Egitto” (Es 12,12), e per far conoscere al faraone e a tutti gli egiziani il nome e la gloria di JHWH, che essi non conoscono, mentre egli è pure il loro Signore.

    Chiediamo al Signore di assumere nei confronti della storia una visione di fede capace di discernere la sua paziente pedagogia: la benedizione ci giunge attraverso Cristo, il figlio di Israele, ed è offerta a tutti i popoli indistintamente. A me saperla accogliere nell’obbedienza e nella lode.

    Benedetto sia Dio,

    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,

    che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale

    nei cieli, in Cristo (Ef 1,13)

  • 27 Mar

    LA PREGHIERA APOSTOLICA

    (Prima lettera ai Tessalonicesi 1,2-3)

    di Lyonnet


    Il lettore che dia una scorsa alle lettere di San Paolo rimane probabilmente sorpreso dal posto che vi occupa la preghiera, specialmente quell’aspetto particolare di essa che si potrebbe chiamare la preghiera apostolica: questa, essendo essenzialmente legata all’apostolato, non solo da esso trae la sua origine e trova in esso il suo alimento, ma lo prepara, lo accompagna, e persino lo supplisce (1).


    S. Paolo, per limitarci a un esempio, nei cinque capitoli della prima lettera indirizzata alla comunità di Tessalonica, ricorda questa preghiera non meno di cinque volte: Rendiamo grazie a Dio in ogni istante per voi tutti, quando vi ricordiamo nelle nostre preghiere. Ripensiamo senza posa, alla presenza del nostro Dio e Padre, all’attività della vostra fede, alla fatica della vostra carità, alla costanza della vostra speranza, che sono l’opera di nostro Signore Gesù Cristo (1,2-3).

    Ecco perché noi pure non cessiamo di render grazie a Dio, perché voi, una volta ricevuta la parola di Dio…, l’avete accolta non come una parola d’uomo, ma, quale essa è realmente, la parola di Dio (2,13).

    Come potremmo rendere a Dio grazie sufficienti riguardo a voi, per tutta la gioia di cui voi ci fate lieti davanti al nostro Dio? Notte e giorno gli domandiamo con estrema insistenza di rivedere il vostro volto e di poter completare ciò che ancora manca alla vostra fede (3,9-10).

    E alle preghiere di Paolo i fedeli devono aggiungere le proprie: Pregate senza posa. In ogni cosa state nell’azione di grazie… Pregate anche per noi (5, 17-25 ) (2).
    Preghiere di ringraziamento o di domanda; preghiere di Paolo o dei fedeli: tutte sono preghiere ‘apostoliche’; ogni volta ne viene specificato l’oggetto: si tratta sempre del regno di Dio che dev’essere incrementato
    .

    La preghiera di Paolo non solo è incessante, continua, come deve essere quella di ogni cristiano «notte e giorno» (1Tess. 2,9), – ma si rivolge a Dio con estrema insistenza: l’avverbio, intraducibile («supereccessivamente»), creato probabilmente dall’Apostolo, è usato un po’ più avanti nella stessa lettera (5, 13) per dire la stima in cui i cristiani devono tenere i loro superiori, e in Ef. 3,20 per qualificare la potenza di Dio, capace di esaudirci «infinitamente più di quanto noi possiamo domandare o concepire». È chiaro che qui Paolo vuol esprimere qualcosa dell’intensità della sua supplica.


    Già questo suggerisce che per lui la preghiera è una specie di lotta, di combattimento che l’uomo ingaggia con Dio. Certo è che in altri passi San Paolo non ha esitato ad usare tale termine. Alla fine della lettera ai Romani, riprendendo dopo lunghe esposizioni teologiche il tono confidenziale dell’amicizia, confessa ai fedeli di Roma l’inquietudine che lo tormenta. Li supplica che preghino secondo le sue intenzioni, affinché sfugga alle imboscate dei Giudei, e perché le elemosine raccolte con tanta cura tra le chiese dei gentili siano accettate di buon grado dalla chiesa-madre di Gerusalemme: «Ve lo domando, o fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e per la carità dello Spirito, lottate con me nelle preghiere che per me indirizzate a Dio» (Rom. 15,30).


    Nella lettera ai Colossesi lo stesso verbo caratterizza la preghiera di Epafra, il fondatore della chiesa di Colossi (Col. 1,17), per quelli che ha istruito: «Epafra, vostro compatriota, vi saluta: questo servitore del Cristo Gesù non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, affinché voi siate fermi, perfetti e decisi in tutti i voleri divini» (Col. 4,12). Anche all’inizio del capitolo secondo in un contesto simile ritorna la stessa immagine. Tutto effettivamente, e in special modo il passo parallelo di 4,12, fa capire che Paolo intende parlare dell’attività apostolica che egli, come Epafra, esercita per mezzo della preghiera e come preghiera. Prigioniero a Roma e lontano da Colossi, che è nell’Asia Minore, egli ha cura di informare i suoi destinatari che non cessa di essere attivamente il loro apostolo: «Poiché desidero che voi sappiate quale lotta io combatto per voi e per quelli di Laodicea – ai quali chiede che la sua lettera sia trasmessa (4, 16) e per tanti altri che non mi hanno mai visto con i loro occhi» (2, I). Paolo sicuramente concorre alla loro «edificazione nel Cristo» con tutta la sua vita di prigioniero e segnatamente con le sofferenze. che per essi sopporta «completando nella sua carne ciò che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1,24).

    Ma in tale attività apostolica del «prigioniero» la preghiera ha il suo posto, come l’aveva in quella di Epafra. Orbene, anche qui Paolo parla di una lotta che l’apostolo sostiene con Dio per la salvezza delle anime che gli sono affidate.
    Concezione ardita, ma perfettamente in accordo con l’insegnamento del vangelo, quale si ha, per esempio, nella parabola dell’amico importuno (Lc. 11, 5-8), la quale non dimentichiamolo, appare come un commento del Pater, cioè dell’insegnamento di Cristo sulla preghiera (3). E il Cristo non faceva altro che riprendere a sua volta la dottrina che la Bibbia si sforzava di inculcare fin dall’inizio. Si pensi alla preghiera di Abramo in favore di Sodoma e Gomorra, la prima che si incontri, come se dovesse servire da modello a tutte le altre (Cen. 18,17-39), oppure alla grande preghiera di Mosè (Es. 32, 11 – 14 e 30-32), quando, «prostrato davanti a Jahvé per quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane né bere acqua» (Deut. 9,18 e 25), intercede per il popolo di Israele. Cristo, novello Mosè, inaugurerà lui pure la sua carriera messianica, subito dopo il battesimo, con un soggiorno misterioso di quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, nel digiuno e – senza dubbio nella preghiera; soggiorno che S. Matteo chiaramente accosta alla solenne intercessione di Mosè sul Sinai nell’atto di concludere la prima alleanza (Mt.4,2).


    Né Cristo né San Paolo hanno esitato a insegnare che Dio vuol essere quasi importunato dalle nostre preghiere e lasciarsi strappare a viva forza, si direbbe, ciò che gli domandiamo. Così facendo essi si sono tenuti nello spirito della più pura tradizione biblica, che non rifugge dai paragoni più audaci. Si pensi che i Padri hanno visto nella lotta di Giacobbe coll’angelo di Jahvé raccontata nel Genesi (32,23-33) una immagine dell’efficacia della preghiera.


    Non bisogna però dimenticare che si tratta di espressioni paraboliche
    , di cui si deve precisare il significato. Col pretesto della fedeltà alla Scrittura si potrebbe lasciar capire che l’uomo con la preghiera si propone di piegar Dio a volere ciò che prima non voleva, come se la creatura potesse esercitare un’azione su Dio stesso, o come se Dio non fosse il padre pieno di amore, sempre disposto a dare ai suoi figli ciò che loro conviene (4), infinitamente più sollecito del loro vero bene che di nutrire gli uccelli del cielo o vestire i gigli del campo (5). Ciò equivarrebbe ad attentare a due prerogative del «Dio vivente», la trascendenza e l’amore, che la Bibbia presa nel suo insieme – poiché il Nuovo Testamento spiega l’Antico – sembra gelosa di salvaguardare più di ogni altra cosa.


    Se Paolo, fedele all’insegnamento di Cristo e della Bibbia, si compiace di designare la preghiera come una lotta che l’uomo sostiene con Dio, lo fa sicuramente per sottolineare la necessità
    . Orbene, è possibile fare ciò senza togliere nulla né alla trascendenza di Dio né al suo amore. Il problema non è solo di oggi, e già in passato eccellenti soluzioni furono proposte soprattutto da parte di Sant’ Agostino. Il suo insegnamento fu poi ripreso da San Tommaso in formule di particolare limpidezza; per esempio nel Compendio di Teologia rimasto incompiuto, in cui verso la fine spiega insieme «la necessità della preghiera e la differenza tra la preghiera che si rivolge a Dio e quella che si rivolge a un uomo»: Rivolta a un uomo la preghiera si presenta anzitutto per esprimere il desiderio di colui che prega e la sua indigenza e in secondo luogo per piegare il cuore di colui che si prega fino a farlo cedere. Quando invece si prega Dio…, non intendiamo manifestare i nostri bisogni o i nostri desideri a lui, che conosce tutto… Ancor meno intendiamo piegare con parole umane la volontà divina a volere ciò che prima non voleva… Ma, per ottenere qualcosa da Dio, la preghiera è necessaria all’uomo in ragione di colui stesso che prega per mezzo di essa egli si rende capace di ricevere (6). L’efficacia della preghiera e la sua necessità vanno cercate in un’azione che essa esercita non su Dio, ma su «colui stesso che prega». Dio è sempre disposto a colmarci dei suoi doni; ma noi non sempre siamo pronti ad accoglierli: la preghiera ce ne rende capaci.


    Perciò non si deve temere di essere importuni. Infine la sola cosa che possiamo domandare nelle nostre preghiere è il pieno compimento della volontà divina: «venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; ma, proprio perché essa si compia, non è indifferente che noi preghiamo, perché ciò costituisce la parte di collaborazione della nostra libertà, che Dio rispetta sempre in modo sovrano.
    Naturalmente ciò che San Tommaso afferma della preghiera che il cristiano indirizza a Dio per se stesso si applica a ciò che l’apostolo indirizza a Dio per le anime a lui affidate; Dio vuole servirsi di noi per l’espansione del suo regno e cioè, concretamente, per procurare la salvezza e la santificazione dei nostri fratelli, specialmente di quelli di cui ci ha fatti responsabili a un titolo particolare. Ora noi, così come siamo, non siamo strumenti adatti ad essere utilizzati da Dio: la preghiera – ogni preghiera, ma specialmente quella che indirizziamo a Dio per queste anime – permette a lui di servirsi di noi per comunicar loro i suoi doni secondo il piano della sua sapienza.


    È pur vero che la preghiera possiede ugualmente un’efficacia generale in virtù della comunione dei santi, ma ciò che abbiamo detto ci fa comprendere meglio, mi sembra, perché San Paolo attribuisce tale posto alla preghiera di intercessione – azione di grazia e di domanda, correlative l’una dell’altra – e perché nella sua fedeltà alla più pura tradizione biblica egli la concepisce volentieri come una lotta che l’Apostolo combatte con Dio in favore della missione stessa che gli ha assegnato. Quindi la preghiera, essendo effetto essa stessa della grazia di Dio, non esercita su di lui alcuna pressione, non mira affatto a cambiare la volontà di Dio, che non può essere se non una volontà d’amore, ma ha per fine di rendere lo strumento apostolico atto a compiere la parte di strumento di Dio e di permettere così a Dio di realizzare in noi e nell’umanità intera i suoi disegni d’amore. Una tale preghiera, lungi dall’entrare in conflitto con le «necessità dell’azione», trova piuttosto in questa la sua ragion d’essere: parte integrante quale essa è del nostro compito apostolico, se manchiamo ad essa manchiamo alla parte più importante del nostro dovere di apostoli.

    [1]. Nella rivista «Christus» n. 10 (1958), pp. 222-229, si troverà un’esposizione un po’ più ampia delle stesse idee.
    [2].
    Vedere anche, tra i molti altri esempi, 2 Tess. 1,3 e 11; 2,13; 3,12; oppure 2 Cor. 1,2-4 e 11; 2,14; 8,16; 9,15; 12,7-9; 13,7-9 e 14.
    [3].
    Lc.11,1-4. La stessa dottrina si trova anche nell’episodio della Cananea, Mc. 7,24-30; Mt.15,2I-28.
    [4].
    Lc. 11,11-13; Mt.7,9-11.
    [5].
    Lc. 12,22-31; Mt.6,25-34.
    [6].
    Compendium Theologiae II 2.

  • 27 Mar


    Primo intervento fallito

    Es 5,1-6,1

    di p. attilio franco fabris

    Visti i primi successi Mosè e Aronne forse immaginano che il loro compito possa risolversi velocemente. Il loro annunzio ai fratelli ebrei non ha forse suscitano entusiasmo? Vi è stata un’adesione immediata e inaspettata di fede, un’ondata di entusiasmo, una convergenza di progetti e di intenti attorno a Mosé. La missione sembra pienamente riuscita! Gli israeliti sembrano diventati, un po’ troppo in fretta a dir il vero un vero popolo consapevole della propria identità e pronti a rivendicarla dinanzi alle potenze di questo mondo.

    Quanti entusiasmi abbiamo sperimentato… euforie… successi. Tutto questo cosa suscitava in noi? Che ruolo vi aveva Dio?

    Ancora il fallimento

    Sull’onda dell’entusiasmo Mosè e Aronne vanno fiduciosi incontro al faraone per la loro richiesta. Il ministero di Mosè presso di lui inizierà sempre con una formula profetica: Così parla il Signore: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto (5,1). Questa formula sarà d’ora in poi una sorta di ritornello che percorrerà tutta la sezione riguardante le piaghe d’Egitto (7-11).  In questa richiesta Israele si affaccia alla storia con la prerogativa di essere “popolo di Dio”( il mio popolo!) chiamato a celebrare la “festa in onore di Jwhw” nel deserto.

    Ormai Mosè crede di aver svolto il suo compito: non è tutto chiaro? Ora spetta a Dio pensare al suo popolo: non gli resta dunque che tirarsi da parte e scomparire. In effetti sono anche gli israeliti stessi che impugnano direttamente la loro situazione presso il faraone: c’è dunque entusiasmo, frenesia nel portare a termine il sogno. Non temono di far propria la vocazione  di Mosè: Il Dio degli ebrei si è presentato a noi…. Si sentono già popolo di Dio e con una certa arroganza scimmiottano presso il faraone la richiesta di Mosè: (5,3). Pensano d’esser già arrivati prima di partire. Per questo popolo che sta per nascere ci sarà al contrario bisogno di una lunga lotta e maturazione interiore affinché si dia concretizzazione al progetto di Dio.

    Quante volte anche a noi capita di illuderci di risolvere le cose in poco tempo, di essere già arrivati, di lasciarci trascinare dall’entusiasmo, di arrogarci pretese immediate… Ci illudiamo che le vicende della vita debbano rispettare i nostri tempi le nostre attese e desideri. Facciamo fatica a fare i conti con una realtà più faticosa e complessa degli schemi che abbiamo in testa.

    Il risultato della prima delegazione presso il faraone si risolve in un disastro. Infatti la risposta del faraone è perentoria e negativa colma di disprezzo. All’arroganza degli israeliti il faraone risponde con la sua arroganza feroce ed interessata (5,5). Non è forse normale da parte di un governo far i conti con i visionari e utopisti del momento? Che dire di questa minoranza semita che pretende diritti e accampa iniziative proprie? Essi sono e devono restare una  manodopera indispensabile e a costo zero, e per di più vi è sempre il rischio di una  loro fuga e alleanza con i nemici dell’est. I calcoli politici ed ecomomici dettati dal “realismo” obbligano dunque il re a questa dura posizione.

    Gli israeliti si vedono ripiombati improvvisamente e duramente nella loro schiavitù resa ora ancor più dura come conseguenza alla loro pretesa: quando il sogno svanisce quanto è duro il ritorno alla cruda realtà. Anzi lo stesso lavoro da schiavi ora, come risultato della richiesta fatta, è reso ancor più duro e stremante: «Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevate prima. Si procureranno da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano prima, senza ridurlo. Perché sono fannulloni; per questo protestano: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al nostro Dio! Pesi dunque il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati; non diano retta a parole false!» (Es 5,7-9).

    Sta succedendo dunque esattamente il contrario di ciò che ci si aspettava. Tutte le iniziative non hanno fatto che aumentare la catena di mali. Come In certo qual modo Mosè è costretto a rivivere l’esperienza di quarantanni prima. Ma ora Mosè deve confrontarsi con una promessa fatta da un Altro. È mai possibile che i guai e le ingiustizie sembrino aumentare proporzionalmente all’intensità della speranza con cui si lavora per l’affermazione della libertà e della giustizia? Quante delusioni si presentano in tal senso nella vita?

    Che fare? Occorre tornare dal faraone dicono gli scribi degli ebrei e chiedere giustizia. Eccoli allora intenti a preparare un bel discorsetto per commuovere il regnante e fargli perdonare la loro “colpa”: in esso non temono di rinnegare già il loro essersi definiti “popolo di Dio”, essi si protesteranno al contrario “servi” del faraone dichiarandogli “fedeltà”:Allora gli scribi degli Israeliti vennero dal faraone a reclamare, dicendo: «Perché tratti così i tuoi servi?” (5,15).

    Nella paura è sempre facile porsi sotto le ali del potente di turno: ciò accadrà spesso nella storia di Israele, nel pretorio il popolo rivendicherà di “non aver altro re che Cesare”! E’ arduo nella prova restare servi fedeli del proprio vero padrone, non se ne possono servire due contemporaneamente.  Nell’onda del loro timore giungono ad affermare: “Se noi oggi siamo bastonati, questa è un’ingiustizia contro il tuo popolo” (5,16). In altre parole senza accorgersi dichiarano niente di meno di essere “popolo del faraone”. Altro che “popolo di Dio”…

    Il lamento degli ebrei e di Mosè

    E Mosè? Egli assiste a tutta questa faccenda che intercorre tra gli ebrei e il faraone. Lo scandalo di ciò che accade al suo popolo, come conseguenza del suo annuncio, raggiunge inevitabilmente anche lui.  E’ il dramma del profeta, del Servo del Signore:

    Per te ogni giorno siamo messi a morte,

    stimati come pecore da macello.

    Svègliati, perché dormi, Signore?

    Dèstati, non ci respingere per sempre. (Sal 43,23-24)

    Anzi: tutta la rabbia repressa del popolo dinanzi al faraone ora ricade tutta su Mosè e Aronne: dissero loro: «Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!» (5,21). Essi invocano lo stesso Dio che vuole la loro liberazione come giudice contro i suoi stessi “presunti” messaggeri.

    E questa stessa rabbia ritornerà più volte all’interno del popolo liberato nei quarantanni di cammino nel deserto. Ci è così sconosciuto questo sentimento nella nostra vita? Quante volte abbiamo scaricato la rabbia contro qualcuno, qualcosa, contro forse Dio stesso… a motivo delle nostre delusioni, sconfitte? Un’ira che cerca un colpevole ad ogni costo… ma l’ira acceca e non discerne il vero.

    Lo scandalo suscita lamenti e proteste di ogni genere, ma l’aspetto più scandaloso sta nel fatto che spesso nella rabbia si smarrisce l’obiettivo e la misura delle proprie lamentele. Così anche Mosè impara a lamentarsi (e lo farà molte altre volte): Allora Mosè si rivolse al Signore e disse: «Mio Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo e tu non hai per nulla liberato il tuo popolo!» (5,22-23).

    La sua è una preghiera pura di lamentazione, in cui il credente denuncia presso Dio lo scandalo del trionfo del male sul bene. Dio viene rimproverato per il suo operato, (Ger 12,1; Sal 13; 22; 43; 88; Giobbe; …) per l’ingiustizia dilagante a cui egli sembra non porre rimedio e che ricade sul credente stesso che prega.

    Se ho peccato, che cosa ti ho fatto,

    o custode dell’uomo?

    Perché m’hai preso a bersaglio

    e ti son diventato di peso? (Gb 7,20)

    Dirò a Dio, mia difesa:

    «Perché mi hai dimenticato?

    Perché triste me ne vado,

    oppresso dal nemico?» (Sal 41,10).

    I tempi e le modalità di Dio sconcertano: è faticoso entrare nella sua pedagogia fatta di sapienza e pazienza. La risposta di Dio alla lamentazione non è una spiegazione, né un ragionamento: essa consiste in una nuova promessa: “Vedrete!” ovvero saranno i fatti a parlare.

    Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa. Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede; ma se indietreggia, la mia anima non si compiace in lui. Noi però non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima. (Ebr 10,36-39)

    E gridarono a gran voce:

    «Fino a quando, Sovrano,

    tu che sei santo e verace,

    non farai giustizia

    e non vendicherai il nostro sangue

    sopra gli abitanti della terra?».

    Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro. (Ap 6, 10-11)

  • 26 Mar

    La rivelazione del Nome tra dubbi e contraddizioni

    Es 3,11-22; 4,18-31

    di p. Attilio Franco Fabris


    Dio chiede a Mosè di tornare in quell’Egitto da cui quarantanni prima era fuggito braccato e impaurito e di affrontare quella che era la massima potenza e autorità politica, militare e religiosa. Ovvio che dinanzi a questa prospettiva Mosè senta le sue povere forze vacillare, dopotutto ha già sperimentato un’amara sconfitta e delusione in questo senso. Ma Dio gli chiede di porsi nuovamente di fronte all’incerto, in un’avventura rischiosa e umanamente quasi impossibile, ma con una differenza fondamentale: ora egli è mandato da un Altro. Dovrà fare affidamento unicamente alla potenza della parola di Colui che lo manda, su nient’altro: “Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro”  (Gr 1,17).

    Ma la paura nonostante questo si affaccia nella coscienza di Mosè e gli fa dire: “Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?” (v. 11). Certo egli ormai è cosciente della sua debolezza e limitatezza, non vive più dei sogni pretenziosi e intempestivi di quand’era giovane, ora può solo dire: “Chi sono io per andare da faraone e far uscire dall’Egitto gli israeliti?”. Non è più il nobile che poteva dire: “Ma lei non sa chi sono io!”.

    Dinanzi a questo timore il Signore pronuncia solo una parola che è promessa: “Io sarò con te” (v.12 cfr Gn 26,3.24; Gd 6,16;1Re 11,38; Gr 15,20; Is 41,10; Lc 1,30; Lc 5,10; At 27,24…). Insieme a questa parola Dio aggiunge un’altra promessa: Dio dà appuntamento a lui e al popolo proprio in quel luogo. Tutti toccheranno con mano che Dio è fedele e la sua parola certa: “Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte»” (Es 3,12). Ma le promesse non terminano lì, ai piedi del monte: Dio rilancia la promessa fatta ad Abramo: il suo popolo dovrà poi salire alla terra promessa: in un “paese vasto e buono” dove “scorrono latte e miele”.

    Dimmi chi sei…

    Ma in nome di chi Mosè dovrà presentarsi al suo popolo e al faraone? È evidente che Mosè senta la necessità di sapere il nome di questo Dio: “Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Mi diranno: Come si chiama? E io che risponderò loro?” (v.13).  Conoscere il nome di Dio equivale a possedere la sua potenza e ad invocarla. Nel nome, secondo la cultura semitica, risiede tutto il mistero della persona. A Mosè che continuamente domanda: Chi-sono-io per andare dal faraone…(3,11,…) il Signore risponde semplicemente: “KI-EHYEH ‘IMMAKH – IO SONO CON TE”.

    La risposta di Dio è a prima vista ambigua e deludente: “Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono!” (v.14). Dio si sottrae, come altre volte nella scrittura, alla pretesa impossibile dell’uomo. Come a Giacobbe che domanda il nome del suo aggressore, anche qui il nome non viene di per sé dato, o meglio si tratta di un nome che dice tutto e nulla nello stesso tempo. Con ciò Dio da un insegnamento importante a Mosè: “Io non sono come gli altri dei disponibili alle strumentalizzazioni degli uomini desiderosi di potenza, il mio mistero mi appartiene perché non sono un idolo “opera delle mani di un uomo” (Sal 115,4).

    Purtuttavia ascoltata in profondità la definizione che Dio da si se stesso contiene una rivelazione straordinaria: se da un lato infatti egli nasconde all’uomo la sua identità trascendente, dall’altro egli dice il suo desiderio di entrare in dialogo con la storia degli uomini: “Io sono colui che sono” manifesta così non tanto un’entità metafisica quanto una presenza costante nella storia. A Mosè deve bastare sapere che “IO-CI-SONO”, che Dio è COLUI CHE E’, COLUI CHE E’ QUI CON TE E PER TE. Questo è molto più importante del sapere il nome.  Il nome del Signore è: “Eccomi!”. Questo nome nel nuovo testamento sarà che gesù si darà:  “Emmanuele-Dio con noi”:  “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)

    “Io Sono” non è forse il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe? (cfr v.15). Egli è il Dio di sempre che si ricorda delle sue promesse: “Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione” (v.15). Mosè non dovrà far altro dinanzi ai suoi fratelli se non aiutarli a riandare alla loro storia per affermare che il Dio dei è ancora presente e lo sarà anche in futuro accanto a loro.

    Ci interroghiamo: anche per me Dio “è colui che è”. Il Dio sempre presente che mi accompagna nel cammino della vita e opera liberazione e salvezza. E’ il Dio della promessa e della speranza. L’atto di fede sta nell’affidarmi alla sua promessa, a fare affidamento su di essa vincendo le mie paure e resistenze che dicono la mia poca fede. Chiedo al Signore la grazia di avvertirlo presente e agente nella mia vita, la grazia di fidarmi di questa sua presenza operante nella mia vita e nella storia. Anche per me è l’invito. “Non temere!”.

    Ancora obiezioni e resistenze

    Ma tutto questo per Mosè (e anche per noi ) non basta. La coscienza vittima della paura di perdere avverte forti resistenze: esse si manifestano attraverso dubbi che si trasformano in vere e proprie obiezioni.

    La prima di queste è la previsione, già d’altra parte costatata anni prima, dell’insensibilità non tanto del faraone quanto dei fratelli ebrei al messaggio di cui è portatore: “Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!” (v.4,1). Quanto spesso la nostra paura ci porta a fare previsioni che riteniamo infallibili, ma basate unicamente non sulla fiducia accordata alla parola ma su calcoli ed esperienze solo umane.

    La successiva obiezione è: “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua” (v.4,10). Dunque l’obiezione non è più sui destinatari ma si sposta dai destinatari all’emittente.

    Dunque Mosè percorre tutte le possibili strade per opporre obiezioni! Continua a nutrire perplessità e dubbi circa l’efficacia della missione affidatagli: ai suoi occhi tutto, se stesso e gli altri, gli appare complesso ed impossibile. A nulla sembrano dunque servire promesse e rassicurazioni da parte di YHWH. Quanto anche noi ci aggrovigliamo rendendo tutto complicato ed impossibile dimenticandoci che a Dio “Tutto è possibile”.

    Questa resistenza raggiunge il suo vertice al v. 13: “Perdonami Signore mio, manda chi vuoi mandare”. Il che equivale a: “Senti, ti ringrazio della fiducia, ma trovatene un altro”. Siamo nella linea dell’ambiguità e resistenza che abitano non solo il cuore di Mosè, ma anche dei giudici, dei porfeti, dei re, dei discepoli, di noi stessi. Unicamente Cristo può dire subito e con pieno e totale abbandono:Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.  Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebr 10,8-10).

    Le reazioni di Mosè sono autentici contrasti interiori: risonanze e controrisonanze alla Parola. Sono le nostre stesse reazioni che scaturiscono nel momento in cui ci raggiunge la Parola di Dio.  L’incontro con JHWH non è una bacchetta magica che risolve tutto: la debolezza di Mosè vi entra ancora in gioco, se mai egli si era prima illuso di possedere autonomamente energie straordinarie. Una sola cosa gli viene ripetutamente garantita dal Signore, proprio quella che più comincia ad intimorire Mosè:  Egli ha con sé solo la potenza della Parola di Dio e questa sola. Anche gli apostoli saranno mandati solo con questa garanzia: Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa…” (Mc 6,7s).

    Una “posta in gioco” molto alta: richiede tutto!

    In effetti il dialogo con Dio non si risolve in una serie di indicazioni o imposizioni pratiche da eseguire alla cieca, militarmente. In questo dialogo rientra totalmente il ruolo della libertà dell’uomo, una libertà che è ferita dal peccato e dunque da conquistare passo dopo passo. Ecco perché il dialogo che Dio stringe con gli uomini non conferisce loro giustificazioni di ordine culturale o di ordine pratico all’agire umano, né consente di identificare la parola di Dio con un preciso piano di interventi: la parola di Dio non dà nulla più di quel che essa stessa è, nella fragilità di una promessa il cui compimento appartiene soltanto all’iniziativa di JHWH: Dio chiede a Mosè di acconsentire nella fede alla sua iniziativa: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire” (4,11).

    Per vincere le sue resistenze JHWH garantisce a Mosè l’assistenza dei suoi “segni” (4,2-9), ma questi sono “segni” di uno scontro violento col faraone (al v. 21 compare il tema dell’indurimento del cuore del faraone che percorrerà tutta la sezione delle piaghe inflitte all’Egitto).. Egli ben capisce che in gioco è la sua stessa “carne” e il suo stesso “sangue” ovvero tutta la sua vita (4,6-8).

    Si rende benissimo conto Mosè della posta in gioco: egli sente che non avrà sconti sulla fatica di ogni missione che voglia essere un vero servizio del bene. Dovrà rinunciare ad ogni ipotesi “clericale” e mettersi alla ricerca di “fratelli”, non di sudditi, di persone anch’esse libere, di interlocutori a cui Dio parla personalmente e non di uditori obbligati a subire la sua funzione mediatrice. In 4,24-26, un testo oscuro e enigmatico che fa riferimento a Gn 32,23-32, questa posta in gioco è espressa in modo altamente drammatico. In entrambi gli episodi si tratta di una abilitazione alla missione di un uomo di cui Dio vuol servirsi: Mosè è all’improvviso terribilmente provato da Dio come lo fu Giacobbe. Questa irruzione violenta di Dio nella vita di Mosè è un’agonia, un combattimento in cui l’uomo sperimenta tutta la sua povertà, il limite, la debolezza. Ciò è importante affinché egli si ricordi sempre da quel momento che la forza che lo abiterà non sarà la sua ma quella di Dio stesso.

    Ci rendiamo conto della “posta in gioco” che è iniziata nel momento in cui Dio mi ha interpellato e chiamato. Chi si avvicina a me si avvicina al fuoco! Cosa ha significato e significa concretamente per me questa “posta in gioco” in cui pongo “sul tavolo” tutta la mia vita fidandomi di Dio e acconsentendo al suo mandato? Quante e quali mosse pongo per trattenere il “gioco” e non rischiare? Quanto gioco al ribasso? Quanto sono disposto a “giocare”?

    Mosè e Aronne

    Mosè torna dal suocero per comunicargli la decisione di tornare dai suoi fratelli (4,18). La prospettiva sembra ritornare all’inizio, ma se tutto sembra ripetersi in modo uguale tutto in realtà è diverso. Il movimento di Mosè verso i suoi fratelli non è più l’intervento generoso, ma ingenuo e presuntuoso, di un giovane pieno di energie e iniziative. Ora il viaggio è disposto da Dio ed egli è solo un povero anziano a cui solo la chiamata di Dio dà slancio e vigore (4,20). Il suo protagonismo è finalmente scomparso. Dio ora ha mano libera!

    Ma ci sono alcuni elementi nuovi. Il giorno in cui Mosè riceve da Dio la sua missione non segna per lui l’avvio di un frenetico attivismo pastorale. Mosè non studia a tavolino progetti e iniziative, non stila programmazioni di interventi sul come andare dai suoi fratelli.

    Paradossalmente egli non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli, che già questi, nella persona di Aronne, gli muovono incontro. E questo mentre Mosè è ancora sul”monte”: ciò significa che egli è scavalcato dall’iniziativa di Dio! L’esperienza dei dodici, come anche quella della Chiesa primitiva, sarà proprio quella di sentirsi “scavalcati” dall’azione di Dio, portati ad andare in una direzione che mai avrebbero preso in considerazione (Cfr Gesù che si fa incontro alla barca nella tempesta, la moltiplicazione dei pani, le apparizioni del risorto, Cornelio, i cristiani di Antiochia,…)

    Non abbiamo mai sperimentato questo “scavalcamento” da parte di Dio nella nostra vita? Forse proprio nel momento in cui freneticamente stilavamo altri progetti e ipotesi “pastorali” o “spirituali”….?

    Mosè non è più solo: il Signore fa spuntare inaspettato un fratello con cui condividere il cammino e la missione. Già prima il Signore aveva ricordato a Mosè mentre obiettava: Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? (4,14).  Questa collaborazione verrà sottolineata anche in 6,9-7,7. Si insisterà sulla comune origine: sono due fratelli (Aronne viene commemorato quale fratello “maggiore” di Mosè: “Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatre “ (7,6; 6,20), e sulla complementarietà delle loro funzioni (7,1ss). Perché questo bisogno (di tradizione P: sia Mosè che Aronne sono della tribù sacerdotale di Levi) di dare rilievo anche alla figura di Aronne? Se la parola di Mosè (ironia del profeta!) è “impacciata” (6,12.30), Dio gli mette accanto Aronne, il quale presterà la sua voce perché venga affidato il messaggio affidato a Mosè (6,29; 7,1s). In questo senso la presenza di Aronne assume il carattere di necessità. Solo in forza della sua cooperazione la missione si potrà realizzare. Anzi il nostro  testo pone quasi sulla stesso piano le due figure: “Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne, e diede loro l’incarico…” (6,13). Non è questo un aiuto ulteriore di grazia perché Mosè sia preservato dalla tentazione di ritornare a credersi l’unico protagonista?

    Si tratta di porre poi in risalto due dimensioni fondamentali. Da un lato si sottolinea la solitudine di Mosè, il dramma della sua missione così contrastata e sofferta: “Perché dunque mi hai inviato?” (5,22). Dall’altro la narrazione cerca di strappare l’uditore da un’immagine (rischiosa perché miticizzante) di un Mosè quale eroe solitario e lontano. Egli è invece inserito a pieno titolo nel tessuto del suo popolo: la presenza di Aronne sta a sottolineare proprio questa appartenenza, questa solidarietà.

    Altro elemento successive di riflessione sarà il rapporto, necessario ma spesso complesso e conflittuale (come apparirà nel seguito), tra profezia e sacerdozio in ordine alla edificazione del popolo di Dio. Collaborazione necessaria all’uno e all’altra contro la pretesa di accaparrarsi unilateralmente la missione che deve restare iniziativa essenzialmente divina. Da qui il discorso della complementarietà dei carismi presentata da Paolo soprattutto nella lettera prima ai Corinzi.

    Il popolo credette… ma per poco!

    Il capitolo quarto termina con il primo approccio di Mosè e Aronne presso i fratelli ebrei in Egitto. Esso inaspettatamente si rivela positivo: il popolo credette . il verbo “credere” è espresso nella sua accezione teologica di “adesione alla parola”. Mosè si era sbagliato anche qui!

    Ma l’entusiasmo e la fede con cui il popolo accoglie l’annuncio è di breve durata: presto Mosè e Aronne dovranno difendersi dall’accusa di aver solo peggiorato la situazione: paradossalmente le critiche e le resistenze degli israeliti al progetto della liberazione saranno molto più forti di quelle del faraone. Mosè sarà “crocifisso” da questa tensione: da una parte il Signore che lo carica del ruolo di “mediatore della liberazione”, dall’altra la resistenza del faraone, e ancora la resistenza del popolo di Israele che esita a mettersi in cammino verso la terra promessa. Come non può sorgere il dubbio nella coscienza di Mosè? Il timore di aver nuovamente fallito, sbagliato nuovamente tutto? Anche questo fa parte del cammino… Sempre attuale la parola di Is 53,1: Signore chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?

    Mosè apparirà sempre più una parabola di Gesù (Yehshuah: JHWH salva!) mandato per liberarci dalla schiavitù di satana e del peccato. Crocifisso dalla resistenza e dal rifiuto del suo stesso popolo.

  • 25 Mar

    VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR

    2Cor 12,7-10

    di Lyonnet


    Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.

    7Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

    Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.

    Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, «or sono quattordici anni», dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.

    v.7 «Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca».

    Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera. Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: «Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia», vedono volentieri in questa «spina» una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche. Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.

    San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che «toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino» (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: «Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito»; e ancora 2 Cor. 4,4: «Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo...».

    Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di «debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie» (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): «Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli...». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).

    Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: «Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me». Preghiera insistente, ripetuta «tre volte», come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa «spina» un grande ostacolo per il suo apostolato.

    Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: «Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. «Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza»: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico.

    È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: «Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo». «Mi glorierò» kauchesomai, cioè «riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza». «Affinché abiti in me la potenza di Cristo»; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della «gloria di Jahvé» sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: «E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
    Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): «Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte».

    Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo. Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).

    L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi . Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno «spirito pitone» che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e obbligato a lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, «presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città...» (v. 5).
    Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.

    A Berea (17,10) trovarono i Giudei «animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero...». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, «si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. «Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! ...», e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).

    Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla. «Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.

    A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno «choc». Ecco il testo: «Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili» (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo! ». Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, «una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore», e vorrebbe essere lui stesso «anatema dal Cristo» per i suoi «fratelli secondo la carne…» (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.

    Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: «Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città!» (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. «Ho un popolo grande in questa città ».

    A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: «Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: «La mia potenza si mostra appieno nella debolezza»; «quando sono debole, è ben allora che sono forte»; «molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo».

    Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.

    Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei «liberatori» o «salvatori» d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che «dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti» (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. «Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo» (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, «levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato!» (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. «Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! ...»(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. «Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani...» (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.

    La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: «Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato» (1 Sam. 17,45).

    Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: «Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla» (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete «pescatori d’uomini».

    Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della «potenza di Dio nella debolezza dell’uomo» è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: «Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte» (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).

    Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: «Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni» (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli «da parte dei Giudei», che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, «da parte dei pagani». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: «perciò lo mandava spesso a chiamare» (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei «fratelli», di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi «predicatori», che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.

    Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.

    Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemmela comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità,  raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare «affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi» (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: «Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare?» (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: «Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene» (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessuno (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata «il testamento spirituale di San Paolo»: «Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato…» (1,15) «Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen!» (4,9-18). teme che

    Mai, forse, nella sua vita l’Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto «la potenza si mostra appieno nella debolezza».

    [1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
    [2].
    V. anche 1 Cor.4,9-13.
    [3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in «Rivista Biblica» 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

    Per la meditazione…

    a.     L’esperienza di Paolo è anche la mia. Sotto quali aspetti?

    b.     Di fronte alla mia debolezza come mi pongo? Quali sentimenti e reazioni provoca?

    c.      Chiedo al Signore la grazia di guardare alla mia debolezza con i suoi occhi, che mi guardano dalla sua croce.

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