• 25 Mar

    VIRTUS IN INFIRMITATE PERFICITUR

    2Cor 12,7-10

    di Lyonnet


    Una delle espressioni che più profondamente e con più sicurezza consentono di penetrare nell’anima di San Paolo è quella che si usa chiamare la magna charta dell’apostolo: Virtus in infirmitate perficitur. Queste parole rappresentano il vertice dell’intera pericope di 2 Cor. 12,7-10, nella quale l’Apostolo passa in rassegna le difficoltà che gli si frappongono sulla strada del suo ministero.

    7Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. 8A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.

    Qui di seguito dapprima esporremo brevemente il passo, e poi vedremo come le affermazioni di San Paolo ricevano luce da quanto sappiamo della sua vita, e come si inseriscono in una precisa linea di spiritualità biblica.

    Siamo verso il 56-57. Paolo evoca in questa pagina alcune grazie mistiche, ricevute, dice, «or sono quattordici anni», dunque verso il 42-43, cioè poco prima dell’inizio del suo ministero apostolico (la sua prima missione ebbe inizio nel 45), grazie che probabilmente erano destinate, nel pensiero di Dio, a prepararlo alla sua missione ormai prossima. Ora, in connessione immediata con queste grazie, Paolo confida ai fedeli di Corinto di averne ricevuta un’altra non meno importante.

    v.7 «Perciò, affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo (messaggero) di Satana, incaricato di schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca».

    Una spina (scolops, stimulus). A che cosa allude San Paolo? Partendo dalla versione della Volgata (datus est mihi stimulus carnis meae, col genitivo) (1), molti latini hanno pensato che Paolo intendesse parlare di tentazioni contro la castità. Ma questa interpretazione non ha alcuna possibilità di essere vera. Molti moderni, invece, riferendosi a una possibile interpretazione del passo di Gal. 4,13: «Sapete che vi annunziai il Vangelo la prima volta in occasione di una mia malattia», vedono volentieri in questa «spina» una malattia, probabilmente cronica, forse febbri malariche. Ma piuttosto che appoggiarsi a un tale testo, che non ha relazione certa con il nostro, è metodo migliore consultare prima il contesto immediato del passo. Esso infatti ci fornisce qualche preziosa indicazione.

    San Paolo aggiunge nello stesso v. 7 che questa spina è un messaggero di Satana, cioè qualcosa che egli considera come un ostacolo al suo apostolato. Satana è difatti colui che «toglie la parola dal cuore degli uomini per impedire che, credendo, si salvino» (Lc. 8,12). Di lui parla anche 1Tess. 2,18: «Infatti per una o due volte abbiamo determinato di venire da voi, ma Satana ce l’ha impedito»; e ancora 2 Cor. 4,4: «Il dio di questo mondo ha accecato le menti degli infedeli, perché non rifulga ad essi lo splendore del vangelo della gloria di Cristo...».

    Nel v. 10 poi, Paolo sembra dare ogni chiarimento necessario, parlando, in termini generali, di «debolezze, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie» (non di malattia!). Sono tutte le sofferenze, le tribolazioni inerenti alla vita apostolica, delle quali ha parlato, per es., nel capitolo precedente (11,23-27): «Di più poi nei travagli, di più nelle prigioni; oltremodo di più sotto le battiture… in pericoli tra i falsi fratelli...». Notiamo la menzione delle persecuzioni (2).

    Il v. 8 contiene la preghiera di Paolo: «Tre volte, riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me». Preghiera insistente, ripetuta «tre volte», come ha fatto il Signore al Getsemani, che mostra quanto Paolo ne soffrisse e come considerasse questa «spina» un grande ostacolo per il suo apostolato.

    Al v. 9 abbiamo la risposta di Gesù: «Ora egli mi ha risposto: ‘Ti basta la mia grazia…’». Il Signore, implorato, sembra respingere la domanda dell’Apostolo. Invece in realtà la esaudisce. Paolo chiedeva che si allontanasse da lui questa spina, perché vedeva in essa un ostacolo al suo apostolato; orbene, ciò che Paolo credeva un ostacolo era in realtà la condizione più favorevole perché l’apostolato potesse aver il suo perfetto compimento. «Poiché – aggiunge il Signore – la mia potenza si mostra appieno nella debolezza»: la potenza di Dio non può dispiegare le sue virtualità, raggiungere tutti i suoi effetti, se non nella debolezza dell’uomo, dello strumento apostolico.

    È un paradosso evangelico, un aspetto della dottrina della fede. Perciò Paolo nel v. 9 continua: «Ben volentieri, adunque, io mi glorierò nella mia debolezza, affinché abiti in me la potenza di Cristo». «Mi glorierò» kauchesomai, cioè «riporrò tutta la mia fiducia nella mia debolezza». «Affinché abiti in me la potenza di Cristo»; il verbo usato qui da Paolo, episkenoo, è lo stesso che indica la presenza della «gloria di Jahvé» sull’arca e, nel N. T., la presenza del Verbo di Dio sulla nostra terra: «E il Verbo si è fatto carne ed ha abitato fra noi» (Io. 1,14). L’Apostolo, conscio della sua debolezza, diventa come un’incarnazione della potenza di Cristo!
    Si capisce allora come Paolo possa così continuare ( v. 10): «Per questo io mi compiaccio delle mie debolezze, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per la causa di Cristo, perché quando son debole è ben allora che sono forte».

    Questo è il significato generale delle parole di San Paolo. Ma per poter penetrarne tutta la profondità non sarà inutile inserirle nella sua vita, la quale ne costituisce un commento straordinariamente significativo. Di fatto, se Paolo ha formulato questa legge dell’apostolato con espressioni così vivide, così chiare, è forse perché Dio l’ha rivelato al suo Apostolo attraverso l’esperienza concreta. Prima di formularla Paolo l’ha vissuta. E non c’è da meravigliarsi che ne abbia fatto confidenza in una lettera ai Corinti, perché l’ha vissuta in modo particolare, ci sembra, proprio a Corinto, nella fondazione stessa di questa chiesa. Basta ricordare brevemente le circostanze di tale fondazione, quali sono riferite da San Luca in quel breviario della vita apostolica che sono gli Atti (16,11-18,11).

    L’arrivo di Paolo a Corinto fu preceduto da una serie di scacchi dolorosi . Siamo durante il secondo viaggio missionario, verso il 50. Paolo, venendo dall’Asia Minore, ha per la prima volta messo piede sul suolo dell’Europa. Passato da Troade in Macedonia, ha predicato a Filippi, dove ha guarito una giovane schiava posseduta da uno «spirito pitone» che procurava molto guadagno ai suoi padroni, facendo l’indovina (16,16). Incarcerato insieme a Sila, suo compagno, e poi liberato e obbligato a lasciare la città (16,40), giunse a Tessalonica, dove i Giudei avevano una sinagoga (17,1). Tutto comincia bene: non poche conversioni di Giudei e soprattutto di proseliti e di gentili…(17,4). Ma i Giudei, mossi da invidia, dice il testo, «presero alcuni pessimi uomini del volgo e provocarono un tumulto e misero a rumore la città… Non avendo trovato Paolo e Sila nella casa di Giasone, dove alloggiavano, trascinarono Giasone stesso ed alcuni fratelli davanti ai capi della città...» (v. 5).
    Paolo deve approfittare della notte per fuggire di nuovo e cosi evitare ai fratelli altri incidenti.

    A Berea (17,10) trovarono i Giudei «animati da sentimenti più nobili di quelli di Tessalonica… Molti fra essi credettero...». Ma i Giudei di Tessalonica, inteso che ebbero il successo di Paolo, «si portarono pure colà e andavano agitando e sollevando le folle». Nuova partenza (17,13 s.) e arrivo, questa volta, ad Atene (17,15 ss.). Qui Paolo supera se stesso nel celebre discorso dell’Areopago (17,22-32), nel quale mostra un’abilità umana eccezionale, potendo far leva anche su circostanze favorevoli. «Percorrendo la vostra città – egli può dire – ho trovato un altare con questa iscrizione: A un dio ignoto. Quello che voi venerate senza conoscerlo, io lo annunzio a voi! ...», e riferisce – caso unico! – anche un verso dei loro poeti (v. 28). Tutto inutile. L’insuccesso è quasi totale. Malgrado l’una o l’altra conversione, Paolo capisce che non c’è niente da fare e, per la prima volta, lascia la città di sua spontanea iniziativa (18,1).

    Prende la via sacra che passa per Eleusi, dove evidentemente non si ferma, e raggiunge la città di Corinto, ricca, dedita ai commerci, cosmopolita e di pessima fama (18,1-5). Prende alloggio nel quartiere giudaico e ha la buona fortuna di incontrare due sposi già cristiani, giunti da poco dall’Italia, cacciati come Giudei dall’imperatore Claudio: Aquila e Priscilla. «Siccome esercitavano il suo stesso mestiere, andò a stare con loro e si misero a lavorare insieme». Ogni sabato Paolo disputa nella sinagoga con i Giudei. Anzi (18,3), quando Sila e Timoteo portano i soccorsi dalla Macedonia, si dedica tutto alla predicazione (18,5). Ma ancora una volta urta contro un’opposizione inattesa.

    A questo punto la serie degli insuccessi provoca in lui uno «choc». Ecco il testo: «Facendo essi opposizione e scagliando ingiurie, Paolo scosse le sue vesti e disse loro: Il vostro sangue ricada sul vostro capo. Io sono puro. D’ora in poi mi rivolgerò ai gentili» (18,6). Il gesto di scuotere le vesti Paolo l’aveva già fatto ad Antiochia (13,51), e lo ripeterà poi ad Efeso (20,26) in circostanze simili. Ma qui soltanto aggiunge al gesto parole di imprecazione: «Il vostro sangue ricada sul vostro capo! ». Per lui, che scriverà ai Romani di provare, davanti all’incredulità di Israele, «una grande tristezza e un continuo dolore nel… cuore», e vorrebbe essere lui stesso «anatema dal Cristo» per i suoi «fratelli secondo la carne…» (Rom. 9,2-3), un tale grido è espressione di un animo quasi disperato, sul punto di abbandonare tutto: se i Giudei di Corinto non volevano sentir parlare di Gesù, che cosa si poteva aspettare dai pagani della città? Ma proprio nel crollo di ogni prospettiva umana interviene la grazia a dare all’ Apostolo abbattuto nuovo vigore.

    Gli Atti raccontano che in queste circostanze Paolo, durante la notte, ebbe una visione del Signore, cioè di Gesù risorto; e Gesù gli disse: «Non temere, ma parla, e non tacere, perché io sono con te e nessuno ti metterà le mani addosso per farti del male; parla, perché ho un popolo grande in questa città!» (18,9-10). Paolo allora, senza alcuna speranza umana, forte unicamente della fiducia in Dio, come Abramo, obbedisce alla voce del Signore. E Corinto sarà una delle chiese più fiorenti da lui fondate. «Ho un popolo grande in questa città ».

    A conferma del racconto degli Atti sta una confidenza fatta da Paolo stesso ai Corinti, quando, evocando gli inizi della predicazione ai membri della futura comunità, dice: «Fratelli miei, quando venni da voi, non mi presentai ad annunziare la testimonianza di Dio con sublimità di linguaggio o di sapienza… Io stesso mi trovai fra voi in uno stato di debolezza, di timore e di trepidazione, e il mio parlare, come la mia predicazione, non si basava su persuasivi argomenti di sapienza, ma su una dimostrazione di spirito e di potenza, affinché la vostra fede non si fondasse sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1Cor. 2,1-5). Queste parole hanno il loro degno commento in quelle che già abbiamo lette, e che potrebbero chiamarsi la magna charta dell’apostolato: «La mia potenza si mostra appieno nella debolezza»; «quando sono debole, è ben allora che sono forte»; «molto volentieri mi glorierò delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo».

    Magna charta dell’apostolato. Di fatto non ci troviamo davanti al caso singolare di un apostolo, sia pure il più grande, San Paolo. Si tratta, in realtà, di una legge generale, insegnata attraverso tutta la Bibbia, legge di cui tutti i grandi servi tori di Dio – cioè coloro dei quali Dio ha voluto servirsi per operare la salvezza del mondo – hanno fatto l’esperienza.

    Un esempio particolarmente chiaro è quello di Gedeone, nel libro dei Giudici, ossia dei «liberatori» o «salvatori» d’Israele. Il popolo di Dio è arrivato, finalmente, nella terra promessa, ma questa terra è da conquistare, e sembra che gli Ebrei abbiano ottenuto da Dio le prime vittorie solo per esser più sicuramente preda dei loro nemici. Anzi in questo preciso momento essi sono in balia dei Madianiti, così che «dovevano scavarsi spelonche, antri e fortezze sui monti» (Giud. 6,2). Israele invoca il soccorso di Dio, che invia il suo angelo a Gedeone. Il dialogo fra il messo divino e Gedeone non manca di drammaticità. «Il Signore è con te, prode campione!… – Ahimè, Signore mio, se veramente il Signore è con noi, come mai siamo colpiti da tanti mali? dove sono tutti i suoi prodigi, che i nostri padri ci narrano? Ora, invece, ci ha abbandonati e dati nelle mani di Madian. Allora il Signore lo guardò e disse: Orsù, con la forza che ti comunico libera Israele dai Madianiti! – Rispose Gedeone: Di grazia, Signore, con che mezzo potrò io mai liberare Israele? Ecco, la mia famiglia è la infima di Manasse ed io il più piccolo della casa di mio padre! – … Io sarò con te e tu abbatterai Madian come se fosse un sol uomo» (Giud.6,12-I6). Gedeone obbedisce, percorre le tribù di Israele e raduna quanti più può. Un buon numero: 32 mila! Veramente il Signore era con lui. Pieno di fiducia, «levatosi di buon mattino con tutti i suoi uomini, pose gli accampamenti contro i Madianiti. Allora il Signore disse a Gedeone: Troppa gente è con te, perché io possa dare Madian in tuo potere. Israele si glorierebbe contro di me, dicendo: È stato il mio valore che mi ha salvato!» (Giud.7,2). Questo sfoggio di potenza è un ostacolo da eliminare. Ecco allora la progressiva e drastica riduzione del numero degli armati. «Da’ questo ordine: Chiunque è timoroso ed ha paura, si ritiri e torni indietro. Se ne ritirarono allora 22 mila e ne rimasero solo 10 mila… La gente è ancora troppa! ...»(7,3-4). Di riduzione in riduzione, il numero scende a 300. «Con questi uomini, io vi libererò e darò Madian nelle tue mani...» (7,7). Se la potenza dell’esercito era un ostacolo, la debolezza umana è ora una condizione favorevole, anzi necessaria, per il buon successo.

    La stessa legge si applica al caso di David, prima alla sua chiamata (1 Sam. 16,1.6.11), poi al combattimento con Golia, quando il giovanetto grida all’avversario: «Tu vieni a me armato di spada, di lancia e di giavellotto, io vengo a te nel nome del Signore, che tu hai sfidato» (1 Sam. 17,45).

    Gli esempi sono innumerevoli. Basta ricordare, nel vangelo, il racconto della vocazione degli Apostoli al tempo della pesca miracolosa: «Abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla» (Lc. 5,5), esclama Pietro. Ebbene, proprio adesso vi trovate nelle condizioni favorevoli di strumenti di Dio. D’ora innanzi sarete «pescatori d’uomini».

    Di fatto, la prima applicazione che, scrivendo ai Corinti, San Paolo fa di questa legge della «potenza di Dio nella debolezza dell’uomo» è proprio alla vocazione stessa dei cristiani: «Quello che per il mondo è debole, Iddio lo scelse per confondere quello che è forte» (1 Cor. 1,27). Dio sceglie gli strumenti umanamente meno capaci o che si credono tali: Gedeone, David, coloro a cui gli uomini non pensavano. Cosi i dodici apostoli: tra i Giudei erano gli ultimi da scegliere per convertire dei compagni che detestavano e dai quali erano detestati! Perciò solo poco a poco riuscirono a capire di essere veramente mandati ai gentili (cfr. le esitazioni di Pietro in Atti 10).

    Ma Paolo, lui, non era forse strumento perfettamente preparato anche sotto il profilo umano? Si. Però dobbiamo prima notare che si riteneva preparato per la conversione dei Giudei, non dei pagani. Lo mostra il fatto accaduto dopo la sua conversione, di cui egli stesso fa confidenza nel discorso ai Giudei di Gerusalemme: «Tornato a Gerusalemme, mentre stavo pregando nel tempio, fui rapito in estasi e vidi il Signore che mi diceva: Affrettati a partire da Gerusalemme, perché essi non riceveranno la tua testimonianza a mio riguardo. E io risposi: Signore, loro stessi sanno che io facevo mettere in prigione e battere con verghe nelle sinagoghe quelli che credevano in te… Ma egli mi replicò: Va’, io ti invierò lontano, alle nazioni» (Atti 22, 17-21). Soprattutto le capacità umane di Paolo furono continuamente ostacolate da queste necessità, angustie, persecuzioni di cui parla cosi spesso. Sembra che egli abbia esperimentato la sua debolezza radicale, la sua impotenza, proprio attraverso questi ostacoli, suscitati sulla sua strada sin dall’inizio (cfr. 2 Cor. 11,24-27): ostacoli «da parte dei Giudei», che impedivano la sua predicazione ai gentili, come abbiamo visto, e che lo faranno arrestare a Gerusalemme; ostacoli, anche, «da parte dei pagani». Ricordiamo il procuratore Felice, che lo tiene due anni in carcere a Cesarea, nella speranza di averne del denaro: «perciò lo mandava spesso a chiamare» (Atti 24,26). Ostacoli, in modo particolare, da parte dei «fratelli», di coloro cioè che avrebbero dovuto aiutarlo. Sono i cristiani di origine giudaica, anzi «predicatori», che accusano Paolo di predicare un cristianesimo edulcorato, infedele alla rivelazione di Dio nell’Antico Testamento.

    Il Signore permise che Paolo incontrasse questi avversari sin dagli inizi del suo ministero, ad Antiochia di Siria, donde deve salire a Gerusalemme per difendersi davanti agli Apostoli (Atti 15,1-2; cfr. Gal. 2,1.12), durante tutta la sua vita fino all’ultima tappa della seconda prigionia romana.

    Così, per esempio, in Galazia è presentato come uno che cerca di piacere agli uomini e perciò annacqua il vangelo autentico, come un apostolo di secondo grado, che non aveva conosciuto il Cristo (Gal. 1,20; 2,6). A Corinto è accusato di dubbio versatilismo, arroganza e superbia (2 Cor. 1; 3,1); e i suoi avversari cristiani hanno talmente staccato la comunità dal suo Apostolo, che, non osando ritornarvi per paura di non essere ricevuto, manda avanti Tito per informarsi della situazione! A Gerusalemmela comunità non accetti la colletta delle chiese della gentilità,  raccolta con tanta cura e tanta fatica: perciò domanda ai Romani di pregare «affinché il soccorso che porta a Gerusalemme sia gradito ai santi» (Rom. 15,31). Ed il timore non era senza fondamento come prova l’accoglienza che riceve dalla comunità secondo la testimonianza stessa degli Atti: «Tu vedi, o fratello, le migliaia di Giudei che hanno creduto, e tutti sono zelanti della legge. Ora, sono venuti a sapere che tu insegni a tutti i Giudei che si trovano in mezzo ai gentili, di separarsi da Mosè, dicendo ad essi di non far circoncidere i loro figli e di non seguire le consuetudini. Che cosa, dunque, fare?» (Atti 21,20-21). Anzi la stessa opposizione lo segue a Roma – se, come si suppone generalmente, la lettera ai Filippesi è stata mandata da Roma: «Alcuni predicano il Vangelo per una certa invidia e per spirito di contesa… spinti da spirito di parte, per motivi non retti, immaginandosi di aggiungere sofferenze alle mie catene» (Fil. 1,15-17). In ogni caso, a Roma i suoi avversari hanno così ben lavorato, che, quando l’Apostolo vi fu per la seconda volta prigioniero, non sembra esser stato assistito quasi da nessuno (3). Basta leggere la commovente 2Tim., scritta, forse, qualche settimana prima del suo martirio e a ragione chiamata «il testamento spirituale di San Paolo»: «Tu sai come tutti quelli che sono dell’Asia mi hanno abbandonato…» (1,15) «Affrettati a venire da me al più presto, perché Demas mi ha abbandonato per amore di questo mondo e se n’è andato a Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Soltanto Luca è con me… Alessandro, il ramaio, mi ha fatto molto male… Guardati anche tu da lui, perché si è opposto molto vivamente alla nostra parola. Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito: che ciò non venga loro imputato! Mi ha però assistito il Signore e mi ha dato forza, affinché la predicazione per mezzo mio fosse compiuta e venisse ascoltata da tutti i gentili; ed io sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni opera cattiva e mi conserverà per il suo regno celeste. A lui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen!» (4,9-18). teme che

    Mai, forse, nella sua vita l’Apostolo si è sentito così isolato, così solo; mai, forse, ha esperimentato fino a questo punto il senso di debolezza, di impotenza. E il Signore gli permette di offrire, di fronte a tutti i gentili in questo tribunale romano, un’ultima, suprema e solenne testimonianza! Meglio, una penultima testimonianza, perché l’ultima, la suprema, sarà il suo martirio stesso, quando la spada del carnefice lo unirà per sempre al suo Signore (Cfr. Rom. 8, 35). Allora ancora una volta esperimenterà fino a qual punto «la potenza si mostra appieno nella debolezza».

    [1]. Il testo greco ha invece il dativo te sarki senza l’aggettivo possessivo.
    [2].
    V. anche 1 Cor.4,9-13.
    [3]. V. A. PENNA, Le due prigionie romane di San Paolo in «Rivista Biblica» 9 (1961) pp. 193-208 (specie p. 204).

    Per la meditazione…

    a.     L’esperienza di Paolo è anche la mia. Sotto quali aspetti?

    b.     Di fronte alla mia debolezza come mi pongo? Quali sentimenti e reazioni provoca?

    c.      Chiedo al Signore la grazia di guardare alla mia debolezza con i suoi occhi, che mi guardano dalla sua croce.

    Posted by attilio @ 10:26

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