• 17 Apr

    L’amore: il mistero più alto

    da J. Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book

    “Amare” è una parola sconvolgente.

    “amare” è interessarsi veramente a qualcuno, essere attenti a lui; è rispettarlo così come è, con le sue ferite, le sue tenebre e la sua povertà, ma anche con le sue potenzialità, con i suoi doni forse nascosti; è credere in lui, nella sua capacità di crescere, è volere che lui progredisca; è nutrire verso di lui una speranza folle: “non sei perduto; sei capace di crescere e di fare delle belle cose; ho fiducia in te”; è gioire della sua presenza e della bellezza del suo cuore, anche se resta ancora nascosta; è accettare di creare con lui dei legami profondi e duraturi, malgrado le sue debolezze e la sua vulnerabilità, la sua attitudine alla ribellione e alla depressione.

    Assai spesso non m’interesso di qualcuno se non quando ho la percezione di fargli del bene e quando sento di essere io il bene. Attraverso quella persona, io amo me stesso. È un’immagine di me stesso che io ricerco. Ma se la persona comincia a disturbarmi, a chiamarmi in causa, allora costruisco barriere per proteggermi. È facile amare qualcuno quando mi asseconda o mi dà la sensazione di essere utile, di riuscire.

    “Amare” è tutt’altra cosa. Significa spogliarmi di me stesso al punto che il mio cuore possa battere al ritmo dell’altro, perché la sua sofferenza diventi la mia sofferenza. È com-patire.

    L’amore: mito o realtà, esperienza vera o illusione? L’amore, scopo reale di una vita o scappatoia… L’amore dai molti visi, come si presenta in televisione, al cinema, alla radio? Attrazione effimera tra l’uomo e la donna, tradotta in atti sessuali che non sono più che giochi, passatempi, rischi, avventure, desiderio di dominare o di sedurre? O meglio, realtà umana, anche divina, vetta dell’amicizia, che implica un dono e un’esperienza fuori dal tempo e una fedeltà nel tempo?

    L’amore è il mistero più alto e più profondo dell’universo, alla fonte e alla fine di ogni cosa. Implica una forza di carattere, una fedeltà interiore, un’intelligenza perspicace, una delicatezza del cuore e soprattutto un ascolto, un’accettazione, una disponibilità verso l’altro, attitudini rare nella nostra società.

    Ma le cose rare sono spesso le più belle: si tratta di orientare su di esse lo sguardo, il cuore e lo spirito degli uomini del giorno d’oggi. È solo questo tesoro incomparabile dell’amore e dell’unione che può donare all’uomo la felicità.

  • 16 Apr

    L’incontro vivo con Gesù vivo

    L’emmoroissa: Mc 5,21-34


    PRESENTAZIONE

    L’incontro con il Vangelo è sempre un incontro con una Parola raccontata, trasmessa, vissuta. Questa Parola è una persona: Gesù Cristo.

    Don Paolo[1], con un’espressione intuitiva e sintetica, ma densa di significato, diceva che l’incontro con il Vangelo è “Incontro vivo con Gesù vivo”.

    L’accostarmi al Vangelo diventa così un incontro vivo, personale con Gesù, persona viva. Un incontro che mi prende e coinvolge tutta la mia persona. Un incontro che diventa vita ed esperienza.

    Diceva ancora don Paolo: “Dal momento che Dio si è fatto Uomo, niente mi interessa di tutto il resto. Mi voglio incontrare con quest’Uomo. Gli voglio parlare. Lo voglio ascoltare”.

    È l’inizio di un’avventura, di cui sai il principio, e che arriva dove il Signore ti vuole condurre, se ti fidi di Lui.

    Senti il bisogno di conoscerLo a fondo, di studiare la Sua meravigliosa personalità; e il Vangelo studiato, scrutato, amato, diventa l’occupazione più deliziosa; e Gesù ti sorge sempre più vivo al fianco, sempre più conosciuto, sempre più sperimentato, sempre più familiare.

    E nasce il colloquio incessante con Lui. E Lui dentro cresce…

    Don Paolo aggiungeva: “…e ti brucia sempre più con il Suo amore, e ti fa sentire l’amore infinito del Padre che ti ha dato tutto, che ti dona tutto, che ti aspetta a casa”.

    L’incontro vivo con Gesù vivo è un’esperienza ed è il punto di partenza del “Movimento Fac”. Per il Fac, il fare è il traboccare dell’interiorità: il mistero di Cristo dentro di noi incontrato e amato, che diventa vita.

    L’incontro vivo con Gesù vivo punta al cuore, all’essenza dell’esperienza cristiana: l’incontro con Gesù salvatore nella Chiesa e nella storia. Richiede quindi alcuni atteggiamenti di fondo: immersione nella fede, silenzio interiore, umiltà.

    Nella prima parte del fascicolo sono riportate alcune indicazioni che don Paolo ci ha lasciato, le quali costituiscono un metodo, ormai collaudato dall’esperienza di molte persone, per giungere all’incontro vivo con Gesù vivo.

    Nelle pagine che seguono è riportato un “incontro vivo” fatto da don Paolo. Avvicinarsi direttamente attraverso le sue parole è il modo migliore per cogliere la sua intuizione e la sua passione per Gesù, Dio fatto uomo.

    È un’esperienza diretta, da provare.

    COME LEGGERE IL VANGELO

    “L’incontro vivo con Gesù vivo nel Vangelo” è una nota caratteristica dei Corsi Fac, momento privilegiato all’inizio di ogni giornata.

    Il metodo è semplice, ma profondo. Suggerito da Don Paolo, è stato ed è per tanti una via di luce per attuare il proprio incontro personale con il Dio fatto Uomo.

    Il Vangelo si legge (o si ascolta) portandosi con tutto il proprio essere davanti a Gesù vivo che parla.

    Bisogna uscire dalle piccole strettoie tempo-spazio per portarsi lì, tra la folla che è attorno a Gesù.

    E questo bisogna farlo lasciandosi attirare dal Padre. “Nessuno  può venire a me, se non lo attira il Padre …” (Gv 6,44).

    È allora, e solo allora, che si compie il grande prodigio: l’incontro di te vivo con Gesù vivo.

    Chiudi un momento gli occhi e contempla con la mente questa realtà.

    Ecco Gesù. È seduto e parla alle folle. Sono giudei, samaritani, galilei.

    Ma osserva attentamente, guarda!

    Tutti questi sono come in prima fila. Dietro a loro, in seconda fila, stanno gli uomini della generazione seguente, e nella terza fila quelli della generazione appresso; poi via via altre generazioni… fino alla tua.

    Gesù parla a tutti, a ciascuno.

    Al centro della storia, attende che tu giunga finalmente a Lui.

    I CINQUE GRADI DI CONOSCENZA DEL VANGELO

    Questo modo di avvicinare il Vangelo passa per cinque diversi gradi di conoscenza.

    1 –  Conoscenza “orizzontale” o “in superficie”.

    Si afferra il senso del brano evangelico, ci si rende conto di ciò che realmente Gesù intende dire; di ciò che questo o quel fatto significano.

    Questa prima conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, trovandosi ad ascoltare in una delle più lontane file, si alza in punta di piedi, tende bene l’orecchio, segue il discorso attentamente e capisce.

    2 –  Conoscenza “verticale” o “in profondità”.

    E’ quella che, oltre al senso generale del testo, permette di afferrarne l’anima e di scendere in profondità.

    Qui chi legge ne scruta attentamente le divine ricchezze. Ne ricerca le connessioni con le pagine che precedono e che seguono; le relazioni dei fatti con l’ambiente, i costumi, e le persone.  Si tratta in pratica di studio che può essere sempre più profondo, attraverso testi con note accurate, commenti, monografie.

    Questa seconda conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, dopo essersi alzato in punta di piedi per ben intendere Gesù, viene portato dalla intensità della sua attenzione a spostarsi lentamente dalle più lontane file, fino a sedersi nella prima fila, ai piedi del Maestro.

    Questi primi due gradi di conoscenza del Vangelo distano però dal terzo grado, e dai seguenti, quanto la terra dal cielo.

    Sono due gradi di studio: il primo per capire; il secondo per approfondire. Ma in nessuno di essi si ha l’autentico incontro vivo con Gesù vivo.

    Questo avviene nel terzo grado, e nei due seguenti.

    3 –  Conoscenza “personale”.

    La persona, percorso il primo e secondo grado della conoscenza del Vangelo, si trova come faccia a faccia con Gesù.

    E’ qui che ha il primo brivido dell’incontro col Figlio di Dio.

    Quasi senza avvedersene, venutasi a sedere (sempre attratta dal Padre) in prima fila davanti a Gesù, ad un certo momento si trova sola con Lui.

    Sì, sola, perché in quel momento l’anima s’incontra con la realtà di Gesù che parlando, dicendo il suo Vangelo a tutti, lo vuole dire a ciascuno.

    L’anima è sola con Lui: faccia a faccia, respiro a respiro.

    Gesù parla: sono le stesse identiche parole di prima, quelle scritte su quella pagina, già studiate a fondo, con quel preciso senso… ma ora applicate da Lui a me.

    L’incontro vivo e vitale è avvenuto.

    Gesù mi guarda e parla, è Lui che dice quella pagina di Vangelo a me, per me, per i miei bisogni.

    E Lui mi conosce tutto: presente, passato, futuro. Lui mi esaurisce con la sua conoscenza, perché mi ha fatto, anzi mi fa continuamente, mi sostiene, mi conduce misteriosamente.

    Allora Gesù parla a lungo, e dice cose misteriose, ed applica quelle cose divine a me, per i miei bisogni vivi, brucianti.

    Gesù che parla è realmente dentro… perché in me, vivo di vita divina, c’è il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo.

    ……

    È così che il Vangelo diventa mia vita.

    È da questa terza conoscenza coltivata con costanza e con amore che nasce l’’amicizia intima personale con Gesù, l’Uomo più vivo, l’Amico senza del quale non si può vivere.

    È qui che scocca il “Sì” dell’anima e diventa sempre più profondo, sempre più intenso, sempre più frequente, sempre più caldo fino a diventare respiro, vita…

    E’ proprio qui, in questa conoscenza personale, che si inizia quella che noi chiamiamo, perdonatemi l’espressione insolita, la “malattia di Gesù”: malattia grave che non perdona.

    Mentre Lui dentro, cresce, cresce sempre più, fino ad occupare tutto: è il punto in cui l’anima sente la verità gioiosa del “Per me… il vivere è Cristo …” (Fil 1, 21); “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

    È in questa terza conoscenza che l’anima si può perdere in un solo versetto di Vangelo e rimanere a lungo, anche per ore, a colloquio con il suo Amico, con il suo Tutto.

    E questo terzo grado di conoscenza è di natura sua strettamente unito al quarto, è fatto per il quarto.

    4 –  Conoscenza “vitale”.

    È la conoscenza che viene dal Vangelo tradotto nella propria vita, accolto in sé.

    Spieghiamoci con un esempio. Un chimico, di un bicchiere d’acqua vi dirà tante cose. Vi darà la formula dell’acqua: H2O; vi parlerà delle sue proprietà, dei suoi contenuti organici e inorganici, ecc.

    Ma se avendo sete berrà quell’acqua, ne avrà una cognizione nuova, “vitale”; conoscerà la preziosità provvidenziale di quel liquido. Sperimenterà in sé benefici: alcuni avvertiti, altri meno, ma che sente vanno a giocare tra le componenti della propria vita e del proprio benessere.

    Così è di colui che, dopo essere passato per la prima, seconda e terza conoscenza di una pagina di Vangelo, si decide a tradurla nella propria vita.

    5 –  Conoscenza “vitale totale, o integrale”.

    Mentre la conoscenza personale e la vitale approfondiscono ed intensificano il loro ritmo, proprio per natura loro, portano alla grande, gioiosa, luminosissima scoperta del Cristo Totale: il mistero del Corpo Mistico.

    Così la persona si trova davanti al Gesù tutto intero, in cui sono presenti tutti i fratelli di tutti i tempi con tutti i loro bisogni, fusi nell’unità della reale persona mistica di Gesù, con i quali e per i quali noi operiamo, soffriamo, gioiamo. Usciamo allora da un quadro troppo ristretto, ancora egoistico ed iniziale: Lui-io, per entrare nel quadro dell’incontro col Cristo Totale: Lui capo, Lui corpo e io.

    Giunta a questo punto la persona ad imitazione di Gesù, è tutta tesa verso i fratelli, totalmente donata agli altri.

    … Per la redenzione di tutti.

    Ha allora la conoscenza più piena che di Gesù si possa avere quaggiù.

    È questa cognizione che fa i Santi.

    I Santi sono appunto coloro che hanno accolto Gesù nel modo più pieno, eroico, perfetto. In una parola “più dinamico”.

    Sono così diventati Vangelo vivo. Gesù vivo che passa attraverso il mondo di oggi. Ecco perché il mondo si commuove e crede. Essi sono Gesù che passa, ora, tra noi.

    Perché è di Gesù solo che ha bisogno il mondo. Gesù solo è il Salvatore.

    Chi accetta il Vangelo e lo rende vita, converte il mondo, perché in lui pesa e opera Gesù vivo.

    E questa realtà opera sempre, e tanto più quanto più l’accettazione è profonda, piena, eroica.

    LA SIGNORA BERENICE S’INCONTRÒ CON GESÙ

    “Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava  lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.” (Mc 5,21-34)

    Preghiamo!

    “Vieni, o Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del tuo  amore…”

    E rivolgiamoci alla nostra celeste Mamma e invochiamola  perché ci venga in aiuto. “Ave, o Maria…”

    Prima conoscenza di questa pagina di Vangelo: conoscenza “orizzontale”.

    Entriamo anche noi in mezzo alla folla che sta aspettando Gesù.

    Dimentichiamo per un momento il nostro ambiente, le nostre cose, i nostri affari, e tuffiamoci nella luce viva della fede, per incontrarci vitalmente con Gesù.

    Leggiamo adagio, e con pace.

    Seguiamo attentamente il  fatto  per capire.

    Ricordiamoci ben bene di rimanere in mezzo alla folla, tuffati in fede viva.

    Seconda conoscenza, e cioè in profondità.

    Riprendiamo il brano di Vangelo. Scrutiamolo. Per prima cosa, inquadriamo il fatto.

    Gesù, qualche giorno prima, aveva attraversato il lago (e fu proprio in questa circostanza che accadde il grande miracolo della tempesta sedata). Da Cafarnao, giunse presso Kursi, nel paese dei Geraseni.

    Qui era avvenuta la guarigione dell’indemoniato di Gerasa. Il miracolo, veramente drammatico, è narrato dai tre evangelisti Matteo, Marco e Luca, con particolari ricchi ed interessanti.

    Da Gerasa, Gesù, riattraversando il lago, puntò nuovamente su Cafarnao dove capitarono i fatti che noi mediteremo.

    Ed ora approfondiamo.

    “Essendo passato di nuovo Gesù in barca all’altra riva, gli si radunò attorno  molta folla, ed egli stava lungo il mare” (Mc 5,21).

    Non vi saprei dire quanti giorni sia stato assente Gesù da Cafarnao, forse solo un paio di giorni, ma, per quella gente, quei giorni erano sembrati interminabili.

    La folla però era rimasta ad aspettare sulla riva: “Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui” (Lc 8,40).

    Vieni, giriamo anche noi tra questa folla e osserviamo attentamente. La gran massa è composta di gente del popolo, assetata della divina parola di Gesù. Ci sono gli entusiasti guariti dal Maestro da varie malattie; attorno ad essi i loro parenti; poi i curiosi che mai finiscono di fare domande. Poi… gruppi di magnati: dottori, scribi, … gente dallo sguardo altero, racchiusi nei propri ricchi mantelli e sempre un po’ in disparte.

    E poi gente e gente, di tutte le età, classi e condizioni.

    Tutti aspettano Gesù.

    Tra tutti però, due persone, in modo tutto particolare, aspettano il Maestro: la signora Berenice[2] e… Mons. Giairo (perdonate se lo chiamo Monsignore: ma era il capo religioso della città).

    La signora Berenice era ammalata, e per di più di una malattia che, a quei tempi, rendeva legalmente impuri

    Poverina, da ben dodici anni soffriva di noiose e dolorose perdite di sangue.

    Aveva tentato tutto il tentabile per guarire; aveva consultato tutte le celebrità del tempo, ma invece di stare meglio era andata sempre peggiorando, e ormai aveva quasi dato fondo a tutte le sue sostanze.

    Ed ora lasciate che vi ricostruisca al vivo ciò che dovette essere capitato a questa signora nei giorni immediatamente antecedenti a quello in cui si confuse tra la folla che attendeva Gesù.

    Capitò così, o pressappoco, o anche meglio di così.

    Ammalata, (…si sa, tutti i malati fanno così!) non appena trovava una persona dal cuore compassionevole, si apriva in confidenze e raccontava tutti i suoi malanni: come si era ammalata, le cure fatte, le celebrità consultate, i miglioramenti, i peggioramenti, le speranze, le delusioni. Ed ora speranze non ne aveva proprio più…

    Ma un giorno Berenice sentì una notizia sorprendente che le diede un violento tuffo al cuore. Ciò che aveva saputo era meraviglioso, quasi incredibile.

    Stava dunque un giorno raccontando i suoi malanni… a chi?

    Questo non ve lo saprei proprio dire davvero, ma a qualcuno sì. A qualcuno che ai suoi lamenti e alla sua desolata sfiducia aveva contrapposto improvvisamente una speranza luminosissima, tanto luminosa da sembrarle assoluta certezza.

    Immagino questo dialogo.

    “Signora, ricorra anche lei al Rabbi! ”

    “Al Rabbi? E chi è questo Rabbi?”

    “Rabbi Jehoshuà di Nazareth! ”

    “Un medico?”

    “E che medico!! ”

    E l’interlocutore a narrare…

    Erano guarigioni…, miracoli…; poi la descrizione della bontà del Maestro, poi le sue parole tanto dolci e misericordiose, poi: “Pensi, è solo qualche mese che non molto distante da qui, a Nain, il Rabbi risuscitò perfino un giovanetto che veniva portato alla sepoltura! Dicono poi che guarisce tutti, tutti. Non si sa di nessuno che gli abbia chiesto di guarire e non l’abbia guarito!”

    Berenice se ne stava ad ascoltare col fiato sospeso, gli occhi sbarrati. Non perdeva una sillaba, un particolare.

    Cominciò quindi a fare domande e domande. Un vero fuoco di fila. “E dov’è?” – “E come si può parlargli?” – “E ascolta tutti?”

    Intanto nel cuore della poveretta la speranza, accesasi di colpo al primo racconto, si era andata dilatando, irrobustendo, fino a diventare assoluta certezza.

    Gesù! Ecco il nome che per Berenice era ormai diventato l’ancora della salvezza.

    E venne il giorno in cui corse voce che il Rabbi di Nazareth stava per giungere in città, e gran folla si era riversata verso la spiaggia.

    Berenice, superando le mille sue perplessità (era donna, e donna ammalata… di quel male…) si immerse tra la folla che correva, giunse alla spiaggia e attese.

    Attese a lungo la grande venuta, fermissimamente decisa a porre in atto un piano lungamente meditato.

    …..

    Intanto in un altro punto della città, in una casa signorile, una bimba di dodici anni stava agonizzando. Era la figlia unica di Giairo, il responsabile della Sinagoga di Cafarnao.

    Lasciamo per un istante la nostra Berenice ed entriamo in punta di piedi in questa stanzetta. Le finestre sono socchiuse, è gran silenzio, si ode solo il lieve rantolo della piccola ormai morente. Di tanto in tanto scoppi di pianto, poi invocazioni, sospiri… è la mamma! Il padre non c’è.

    Più volte da quella casa gruppi di parenti e amici erano partiti in cerca affannosa di Gesù, ma nessuno era stato capace di rintracciarlo; ora era partito il padre in persona con alcuni servi.

    Mentre la nostra Berenice, da ore, attendeva sulla spiaggia, Giairo girava affannosamente cercando Colui che solo poteva fare il miracolo.

    “Dov’è il Rabbi?” domandava di tanto in tanto ai passanti.

    “Di là dal lago! Così dicono.” “Tre giorni fa era alla spiaggia!” erano le risposte.

    “Sapete dove si trova il Rabbi di Nazareth?” domandò ad un certo punto a della gente che correva verso l’imbarcadero.

    “Corriamo anche noi al lago. Dicono che sia arrivato da Gerasa!” gli fu risposto.

    Giairo, di corsa, infilò la via del porto, deciso a tutto per portare il taumaturgo Maestro dalla sua piccola che stava morendo.

    Gesù era veramente arrivato da poco, ma già era stato circondato da gran folla che lo stringeva da ogni lato.

    Camminando alquanto lungo la riva del lago, era giunto ad un piccolo rialzo, e qui, seduto, aveva incominciato a parlare.

    “Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli  si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza : “La mia figlioletta è agli estremi; vieni ad imporle le mani perché sia guarita e viva” ” (Mc 5,22-23).

    “Largo, largo!” fa qualcuno. Ed ecco Giairo si butta ai piedi di Gesù e scoppia in dirotto pianto. La folla ammutolisce; si fa gran silenzio. Poi il pover’uomo, alzando il viso solcato di lacrime verso il Maestro, lo supplica, con frasi tronche, “ di venire! ”.

    La sua piccola, di dodici anni, l’unica, stava morendo.

    Sono presente a questa scena straziante, vi partecipo vivamente.

    Il pianto di un uomo… la compassione più profonda dipinta su tutti i volti… il rispetto del popolo per quel maestro venerato…

    Ma io guardo Gesù.

    Ecco, lo vedo subito alzarsi, sollevare affettuosamente da terra quel poveretto, e: “Vengo!”

    La folla si muove, lentamente punta verso una di quelle viuzze orientali tutte strettoie e sghimbesci, e preme, preme.

    Senti? Non ti senti premuto da ogni lato? La folla ci porta.

    Ma ho sempre tenuto d’occhio anche Berenice, ed ho visto il lampo dei suoi occhi quando il Maestro, in un gesto di sconfinata bontà e premura, è balzato in piedi dicendo: “Eccomi, vengo!”

    Proprio come fa un servo davanti al suo padrone!

    Sì, perché Lui è venuto a servire, Lui Dio (… e tu?).

    Pietro e i Dodici circondano ora il Maestro, che ha vicino Giairo, e lo difendono in tanto pigia pigia.

    “Largo! Largo! Un po’ di educazione! Lasciate passare il Maestro”, mi pare di sentire gridare Pietro. Il caro Simone è infatti tutto compreso della sua responsabilità di capo dei Dodici. Con la sua forza da torello, trattiene la folla che continuamente preme, urta, minaccia di travolgere. Tutti vorrebbero stare vicini al Maestro, vederlo, toccarlo, dirgli una parola; … vedere bene cosa capiterà.

    Le viuzze sono strette, e la folla cresce continuamente.

    Il piccolo gruppetto dei Dodici che attornia il Maestro, è ora sospinto, ora trattenuto, e sempre da ogni parte incalzato, pressato.

    È il momento giusto: gran trambusto, gran pigia-pigia.

    Berenice, confusa nella folla, alle spalle di Gesù, si fa animo. Preme, lavora di braccia, e a gran fatica, una dopo l’altra, espugna le fitte file di schiene che la separano dal Maestro.

    È trafelata, rossa in viso, stanca, ma… ormai è quasi giunta!

    Il piano l’aveva architettato da tanti giorni: confondersi tra la folla, arrivare fino alle spalle del Maestro, toccargli anche solo il fiocco del mantello, SAREBBE GUARITA! Aveva infatti sentito dire tante volte che da Lui usciva una virtù risanatrice.

    Sono gli ultimi sforzi.

    Eccola, Berenice, rossa in volto, vivamente emozionata, affannata, ma traboccante di fede viva, ha superato ormai l’ultimo ostacolo: una ondata della folla che minacciava di risucchiarla in un vortice dopo tante fatiche! Ecco, ora si fa piccola piccola, ora si sommerge, scompare tra la folla; allunga il braccio in uno sforzo supremo verso il Maestro, laggiù in basso verso il fiocco del mantello che vede oscillare…

    Eccolo! CIAK!… Lo ha finalmente afferrato; Lo ha toccato!

    Un brivido la percorre tutta, poi un grande benessere.

    È guarita!

    Felice, beata! lascia quel fiocco benedetto, si ritira.

    “Nessuno mi ha scorto!” stava sospirando.

    Ma d’un tratto quella grande marea incalzante si fermò; di botto.

    “Chi mi ha toccato!?” chiese solenne e pacata la voce del Maestro che si era improvvisamente arrestato.

    “Chi mi ha toccato?”

    (A questo punto sarebbe veramente delizioso meditare sui tre Vangeli sinottici, passando dall’uno all’altro per coglierne le interessantissime varianti, che concordate, darebbero una scena viva, di estremo interesse.)

    Pietro, grondante sudore e trafelato per tanta fatica nel trattenere la gente che da ogni parte pareva volesse soffocare il Maestro, alle parole di Gesù, rimane trasecolato: “Chi mi ha toccato?… Ma Maestro, vedi bene che tutti ti pigiano, ti stringono da ogni parte e tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Ma Gesù, serio, e girando attorno lo sguardo, continuava a chiedere: “Chi mi ha toccato?”

    Questo gesto di girare attorno gli occhi, fissando con lo sguardo, è riferito da Marco che, come tutti sappiamo, riporta nel suo Vangelo la predicazione di Pietro. Marco infatti fu a Roma, per lunghi anni, il segretario di Pietro.

    In questa paginetta, ed in quella che verrà, raccontata da Marco, noi possiamo riascoltare l’eco della predicazione viva, pittorica di Pietro, testimone oculare.

    “Chi mi ha toccato? ” continuava a chiedere Gesù. E, man mano che Gesù si volgeva intorno chiedendo, la gente a rispondere: “Io no! io no!”.

    E a me pare di sentire anche Mons. Giairo rispondere: “Io no, Maestro!”… ed era vero!

    Allora Gesù soggiunse: “Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una forza è uscita da me.”

    Ormai Gesù, guardando fisso, e sempre chiedendo: “Chi mi ha toccato?” si era voltato verso coloro che gli stavano alle spalle.

    Berenice, che nella sua felicità già si era ritratta di qualche passo tra la folla, al fermarsi di botto del Maestro, al sentire quelle tremende parole, era rimasta come di sasso. D’altronde la morsa della folla la teneva lì stretta e ferma a soli pochi metri da quegli occhi divini che ora, non aveva alcun dubbio, stavano per posarsi su di lei.

    Gettando un lamento, la poverina si fece avanti, cadde bocconi ai piedi del Maestro, e tremante… “disse tutta la verità”.

    Sentiamola da Marco:

    “…. da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera  di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello.

    Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita.”

    E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.” ( Mc 5, 25-29).

    Se andaste a vedere lo stesso racconto in Luca, a proposito del male di questa poveretta e di tutto ciò che aveva dovuto soffrire a causa dei medici (ed è per questo che in Marco, nel brano riportato, noi abbiamo sottolineato alcuni versetti), voi trovereste un racconto molto succinto e sbrigativo. Luca è medico, e si comprende perciò la sua delicatezza verso… i colleghi che avevano curato Berenice. Salta perciò dei particolari che è pur interessante sapere, e che Pietro nella sua predicazione non tralasciava mai.

    “Gesù le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace, e sii guarita dal tuo male””. (Mc 5,34)

    Il volto di Gesù si era aperto ad un luminoso sorriso; aveva potuto mostrare al suo popolo una donna in cui aveva trovato tanta fede.

    “La tua fede ti ha salvata!”

    Fede! Fede!

    Ecco ciò che ci vuole perché succedano i miracoli.

    Terza conoscenza: personale.

    E questa si fa personalmente.

    Non la posso fare io per te.

    Ed è qui che il Vangelo esplode in meraviglie. Rileggi il brano da capo. Sta in silenzio. Senti Gesù che applica quelle verità a te.

    Al solito, io mi sforzerò di darti un aiuto dall’esterno. Ti darò una mano indicandoti dei passaggi. Ma poi dovrai continuare tu.

    Non temere. Ti condurranno gli Angeli.

    PONTI PER PASSARE AD UN INCONTRO VIVO CON GESU’ VIVO

    *       “ Lo accolse la folla perché tutti lo stavano aspettando ” (Lc 8, 40).

    Sono qui sulla spiaggia. Tutti aspettano Gesù.

    Tutti. Anch’io. Gesù verrà.

    Ci sarà chi, dopo averlo atteso, si esaurirà in sterile curiosità: vedere cosa farà Gesù.

    Ci sarà chi, vistolo, crollerà le spalle e se ne andrà.

    Ci saranno tanti che lo pigeranno e premeranno, ma senza toccarlo.

    E ci saranno coloro che lo toccheranno e sentiranno che da Lui erompe forza e vita.

    Chi lo ha toccato, tornerà a ritoccarlo per avere sempre più luce, più forza, più vita. Una volta infatti che uno ha veramente trovato Gesù, da Lui non può più separarsi e solo bramerà quell‘innesto-contatto prolungato che è il segreto generatore di vita divina.

    E chi, avendo incontrato Gesù, non lo ha conosciuto e perciò non lo ha toccato, continuerà ugualmente a cercarlo  affannosamente. Perché TUTTI hanno bisogno di Gesù.

    Ecco, arriva Gesù. Bisogna che IO lo tocchi.

    *       Toccare e stringere.

    Leggiamo attentamente e notiamo:

    – v. 24 “molta folla gli si stringeva intorno”

    – v. 31 “ … la folla ti si stringe attorno”

    … ma da Gesù non usciva forza alcuna.

    – v. 27 “… gli toccò il mantello”

    – v. 28 “… se riuscirò… a toccare

    – v. 30 “… chi mi ha toccato il mantello?

    – v. 31 “… chi mi ha toccato?

    … e da Gesù uscì forza divina.

    Si può pestare i piedi a Gesù; lo si può schiacciare… senza toccarlo.

    …..

    Si tocca Gesù ogniqualvolta lo si incontra nella luce della fede, ma fede*. vera, quella “ teologale ”, perciò fede-vita.

    Gli si pestano i piedi, lo si urta e schiaccia, quando “si sa” di Lui; “si dice, si discute, si tratta” di Lui, anche molto dottamente, ma rimanendo sul piano della fede… scientifica, che non è fede-vita.

    Qui, l’anima, che pure intimamente ha fame di Gesù, non si incontra con Lui, perché rimane sul piano puramente umano.

    Di più. È qui che avviene il grande inganno di credere di avere fede, quando si hanno solo delle nozioni…

    E il danno di questo abbaglio è gravissimo.

    Che direste di un imprenditore che avesse costruito la più perfetta delle fabbriche, ma si fosse dimenticato di fare l’allacciamento dei fili della propria cabina ai cavi che attingono energia dalla centrale?

    Qualora costui non si decidesse a stabilire quel necessario contatto, dovrebbe rassegnarsi a vedere vano e pazzia tutto il lavoro fatto.

    Tutta la sua fatica, senza quel contatto con una sorgente di energia, si risolverebbe in un grande e faticoso fallimento.

    Come prete, rimango meditabondo davanti alla meraviglia del primo Papa: “Maestro, tutti ti urtano e Tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Pietro non sapeva che si può urtare e pestare i piedi a Gesù, senza toccarLo…

    Ma lo imparò!

    Io posso non toccare Gesù, pur celebrando la S. Messa; stringendo l’Ostia tra le mani; donando Gesù agli altri…

    E tu, quando partecipi alla Messa, quando vai in Chiesa, quando ricevi Gesù, tocchi Gesù… o solo gli pesti i piedi?

    Solo se lo toccherai, sentirai che da Lui esce vita e gioia divina.

    * “La tua FEDE ti ha salvata”.

    Gesù con te ragionerà a fondo dei casi della tua vita. Forse ti dirà così:

    “Non i tuoi sforzi (anche quelli ci vogliono, e falli tutti), ma la Fede, quella vera, ti salverà.

    Lavora, lavora, lavora… e poi?

    Accumula, accumula, accumula… e poi?

    Perché tutto ciò che hai fatto e fai, quello che hai guadagnato e pensi di guadagnare, si muti in luce, diventi gioia e sia vero guadagno per te e per i fratelli, deve essere costantemente fatto e visto nella luce della fede! Questa, e questa sola ti salverà.

    E la fede è vedere con gli occhi di Dio.

    Ti muovi tu costantemente in questa luce?

    Sappi che qui sta il segreto della felicità vera.

    Altrove non la troverai”.


    [1] Don Paolo Arnaboldi (1914/1998), iniziatore del Movimento Fac.

    [2] Pare, da antiche tradizioni, che questo fosse il nome della donna guarita da Gesù. Noi la chiameremo così.

  • 15 Apr


    Il Signore è in mezzo a te!

    Un grido di giubilo inaspettato:

    Sofonia 3,1-2; 7-8; 14-18

    di p. Attilio Franco Fabris

    Messaggio centrale

    Se il profeta annuncia il “Giorno di JHWH” come il giorno del giudizio e della condanna, contemporaneamente annuncia il kerigma della salvezza: Dio sarà re e salvatore, il suo amore rinnoverà Gerusalemme. Ne scaturisce un invito alla gioia e all’esultanza: non scoraggiarti “il Signore è in mezzo a te”.

    Sofonia svolge il suo ministero dopo la fine del governo tirannico del re Manasse e prima della riforma di Giosia. Siamo verso il 700 a.C. Siamo in uno dei momenti più difficili della storia di Israele: la corruzione e l’ingiustizia dilagano, si assiste da parte del popolo ad un progressivo abbandono della fede, dilaga una grave forma di sincretismo che vede un culto rivolto agli idoli pagani Baal e Astante. Non a caso il terzo capitolo del libro di Sofonia inizia con una violenta requisitoria contro Gerusalemme e tutti i suoi capi:

    1 Guai alla città ribelle e contaminata,

    alla città prepotente!

    2 Non ha ascoltato la voce,

    non ha accettato la correzione.

    Non ha confidato nel Signore,

    non si è rivolta al suo Dio.

    7 Io pensavo: «Almeno ora mi temerà!

    Accoglierà la correzione.

    Non si cancelleranno dai suoi occhi

    tutte le punizioni che le ho inflitte».

    Ma invece si sono affrettati

    a pervertire di nuovo ogni loro azione.

    E’ una constatazione amara di un allontanamento, di un tradimento dell’alleanza nonostante ripetuti inviti e correzione: il popolo è infatti di “dura cervice” (cfr Es 32,9). Che fare in questa situazione? Che prospettive si presentano per il futuro?

    Il profeta si fa annunciatore di catastrofi: esse appaiono inevitabili a causa del male dilagante, il male è castigo a se stesso, è fautore di morte, divisione, distruzione. Le prime parole che Dio pronuncia nel libro profetico lo testimoniano drammaticamente: “Tutto farò sparire dalla terra. Distruggerò uomini e bestie. Sterminerò l’uomo dalla terra” (1,1-3).

    Sofonia annuncia imminente la venuta di JHWH come giudice tremendo (Gr 11,20) e il suo giudizio sarà un castigo inevitabile: “Giorno d’ira, d’angoscia e d’afflizione, di rovina, di sterminio, di tenebre, di caligine, di nubi, di oscurità, di squilli di tromba e di allarmi” (1,15-16: sequenza “Dies irae”). Si tratta di un castigo universale: esso non colpisce solo Gerusalemme, ma anche tutti i popoli del mondo:

    8 Perciò aspettatemi – parola del Signore –

    quando mi leverò per accusare,

    perché ho decretato di adunare le genti,

    di convocare i regni,

    per riversare su di essi la mia collera,

    tutta la mia ira ardente:

    poiché dal fuoco della mia gelosia

    sarà consumata tutta la terra.

    Ma il discorso prende inspiegabilmente una direzione sconcertante, dall’annuncio di questa “ira ardente” improvviso si affaccia inspiegabile un invito alla gioia. È come il bagliore di un raggio di sole che squarcia inaspettato le tenebre riaprendo il cuore alla speranza:

    14 Gioisci, figlia di Sion,

    esulta, Israele,

    e rallegrati con tutto il cuore,

    figlia di Gerusalemme!

    15 Il Signore ha revocato la tua condanna,

    ha disperso il tuo nemico.

    Sofonia definisce il “resto di Israele[1]con l’immagine della Figlia di Sion (3,14-18): una piccola comunità che si affida unicamente alla fedeltà di Dio, che è sicura della presenza del suo Dio, e i cui occhi sono a questo punto illuminati dalla fede e dalla sicurezza nella vittoria di Dio; questa è l’immagine che Sofonia dà del “resto”, dell’Israele delle sue speranze.

    Gioisci…esulta…rallegrati!” (cfr Is 12,6; 49,13; 65,14; Zc 2,14; 9,9; Gr 31,7). Il cambiamento di tono è improvviso, e sembrerebbe, come detto, a prima vista inspiegabile. Come è possibile passare dalle minacce di un castigo incombente ad un annuncio improvviso di gioia e di speranza, a una “revoca della condanna”? Cos’è accaduto? Forse che Israele si è convertito, ha cambiato vita facendo penitenza dei suoi peccati? Ma questo non è accaduto e il profeta lo sa! Quindi la ragione deve stare da un’altra parte.

    Dio promette gratuitamente salvezza: egli eliminerà i suoi rivali per restare solo lui unicamente come re e come sposo che ama la sua sposa. Egli non può rinnegare la sua parola, e l’alleanza stipulata con Israele. Questa revoca ha solo un motivo: la fedeltà dell’amore di Dio che non si arrende dinanzi a nessun tradimento e infedeltà dell’uomo, ma sempre si ripropone come Dio fedele: “unica roccia di salvezza” (Sal 61,3)

    Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,

    tu non vedrai più la sventura.

    Dio riafferma la sua ferma volontà di prendere lui stesso in mano sua le sorti del suo popolo:  “Re d’Israele è il Signore in mezzo a te” (v.14; cfr v.17). la sua presenza doveva essere simbolizzata dal Tempio dove JWHW manifestava la sua Gloria (1Re 8,12-19) e dall’istituto regale con la sua funzione di luogotenenza di Dio, ma, per i profeti, queste due realtà hanno mancato a questo obiettivo: al culto non corrispondeva una fedeltà vitale all’alleanza, la regalità si era pervertita nella ricerca di se stessa e del suo potere. È per questo che la gloria di Dio viene vista allontanarsi da Gerusalemme da Ezechiele (10,18), ma già dopo il primo peccato (originale) di idolatria ai piedi del Sinai la tenda del convegno dovette essere posta “fuori dell’accampamento”(Es 33,7). Questa triste situazione invocava presso i “poveri di JHWH-resto di Israele” un intervento decisivo e personale di Dio a favore del suo popolo (cfr Is 63,19). Ecco Sofonia annunciare che finalmente è giunto questo momento in cui Dio, sterminati tutti i nemici, personalmente instaurerà il suo regno eterno, egli sarà “Re d’Israele” (cfr Lc 1,32).

    16 In quel giorno si dirà a Gerusalemme:

    «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!

    17 Il Signore tuo Dio in mezzo a te

    è un salvatore potente.

    Esulterà di gioia per te,

    ti rinnoverà con il suo amore,

    si rallegrerà per te con grida di gioia,

    18 come nei giorni di festa».

    La profezia si tramuta in canto nuziale per un connubio ritrovato. La città-sposa tornerà ad essere bella, diverrà nuovamente la delizia per il suo sposo: “esulterà di gioia… si rallegrerà con grida di gioia come nei giorni di festa” (vv. 17-18). Gerusalemme diverrà realmente “Città della Pace”.

    La gioia di Gerusalemme scaturisce  dalla ritrovata relazione sponsale con JHWH: se il Signore gioisce con lei e per lei essa allora non ha da temere più nulla, non può più “lasciarsi cadere le braccia” in un atteggiamento di di-sperazione. Dio si presenta come re che lotta per la liberazione del suo popolo: “è un salvatore potente in mezzo a te”, è lui il primo soldato (cfr Is 9,5; 10,21) è “un guerriero che salva” mettendosi in prima fila; un’immagine questa frequente nei salmi di lamentazione (Sal 7,13-14; 10,15;) e nei profeti (cfr Is 9,6; 42,13; Gr 14,9; 20,11).

    Ritorna la bellezza e la gioia dell’amore antico e il piacere di un matrimonio rinnovato e se ne celebra nel giubilo la festa. Lo sposo non allontanerà più la sua sposa da sé, anzi, sarà lui stesso “a rinnovarla nel suo amore”, da se stessa infatti ne sarebbe incapace!

    Il protagonista di tutto sarà solo il Signore Dio!

    E quanto ai castighi minacciati, e al giorno dell’ira e del giudizio? Il “Giorno di JHWH” non appare più come il momento terribile della punizione, del castigo implacabile che si abbatte sul popolo peccatore: esso si trasforma invece nel giorno in cui finalmente il Signore riesce a far trionfare il suo amore sul male del mondo. Dio infatti vuole solo compiere opere di salvezza! L’ira di Dio è rivolta contro il peccato non contro il peccatore. La paura del castigo ben venga se essa viene a richiamare alla coscienza di Israele gli effetti disastrosi che il male produce con i suoi frutti di morte (cfr Is 3,11).

    Il piccolo “resto di Israele” trova in Maria “serva e sposa” la sua immagine emblematica. Non per nulla la vergine di Nazaret viene salutata con le stesse parole con cui il profeta si rivolge alla città santa: “Gioisci, non temere, il Signore è in te”. Per Luca la profezia trova dunque compimento in quell’istante: in Gesù discendente del trono di Davide, Dio stesso prende dimora in mezzo al suo popolo (cfr Gv 1,14), instaurando il suo regno eterno.

    In Cristo, Dio metterà in atto il “Giorno di vendetta”: si compirà nel giorno del venerdì santo, giorno di tenebre e caligine, in cui Dio opera un giudizio finale sul peccato dell’uomo e offre a tutti in Cristo la sua vittoria sul male.

    La gioia sarà grande: Dio è in mezzo al suo popolo (cfr Gv 20,19-20).

    Per la riflessione

    La paura del castigo accompagna l’esperienza religiosa di Israele e nostra: il nostro peccato non potrebbe attirare se non questo. Eppure proprio in questa amara constatazione la Parola ci invita alla gioia: essa è donata dal fatto che Dio “ci rinnova nel suo amore”, egli “è in mezzo a noi” come “salvatore potente”. Nessun male può permettere al credente di “lasciargli cadere le braccia”.

    Preghiera

    Ci si appoggia alla roccia,

    ma non serve:

    si sgretola la roccia.

    Ci si appoggia a un tronco,

    ma non serve:

    imputridisce e cade.

    Sostegno inalterabile,

    tu solo,

    padrone di tutte le cose.

    Tu solo ascolti la nostra preghiera.

    Tu che, solo, ci salvi,

    o Creatore!

    (Preghiera malgascia)


    [1] Dio promette ad Abramo una discendenza “numerosa come le stelle del cielo” (Gn 15,5), e Dio, per bocca di Amos, avverte Israele: “Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli di Israele” (Am 3,12). Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1Tm 2,4) ed annunzia che, al tempo della grande tribolazione, “se a motivo degli eletti, i giorni tristi non fossero abbreviati, nessuno avrebbe salva la vita” (Mt 24,22). Questo resto, risparmiato dal passaggio del giudizio, costituisce un elemento essenziale della speranza biblica. L’idea si collega all’esperienza delle guerre e dei loro massacri. L’annientamento del vinto praticato così spesso, poneva ad Israele il problema della sua sopravvivenza, e quindi del valore delle promesse divine. Secondo il contesto, la parola può caratterizzare l’ampiezza della catastrofe: “Non sopravvive che un resto” (Is 10,22), oppure evocare la speranza che sussiste con la sopravvivenza di un resto (il nostro caso).

  • 14 Apr

    La grazia a caro prezzo

    Dietrich Bonhoeffer, Sequela


    La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della no­stra Chiesa.

    Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo.

    Grazia a buon prezzo è grazia considerata materiale da scarto, perdono sprecato, consolazione sprecata, sa­cramento sprecato; grazia considerata magazzino ine­sauribile della Chiesa, da cui si dispensano i beni a pie­ne mani, a cuor leggero, senza limiti; grazia senza prez­zo, senza spese. L’essenza della grazia, così si dice, è ap­punto questo, che il conto è stato pagato in anticipo, per tutti i tempi. E così, se il conto è stato saldato, si può avere tutto gratis. Le spese sostenute sono infinita­mente grandi, immensa è quindi anche la possibilità di uso e di spreco. Che senso avrebbe una grazia che non fosse grazia a buon prezzo?

    Grazia a buon prezzo è grazia intesa come dottrina, come principio, come sistema; è perdono dei peccati inteso come verità generale, come concetto cristiano di Dio. Chi la accetta, ha già ottenuto il perdono dei pec­cati. La Chiesa che annunzia questa grazia, in base a questo suo insegnamento è già partecipe della grazia. In questa Chiesa il mondo vede cancellati, per poco prezzo, i peccati di cui non si pente e dai quali tanto meno desidera essere liberato.

    Grazia a buon prezzo, perciò, è rinnegamento della Parola vivente di Dio, rinnegamento dell’incarnazione della Parola di Dio.

    Grazia, a buon prezzo è giustificazione non del pecca­tore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. «È inutile che ci diamo da fare». Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori «anche nella migliore delle vite». Perciò anche il cristiano viva come vive il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo — a scanso di essere accusato dell’eresia di fanatismo — di condurre,   sotto  la  grazia, una  vita  diversa  da   quella che conduceva sotto il peccato.  Si guardi bene dall’in­fierire  contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon prezzo, dall’erigere una nuova schiavitù del-l’interpretazione letterale,  tentando di condurre una vi­ta  in  obbedienza  ai comandamenti  di  Gesù Cristo!   Il mondo è giustificato per grazia, e perciò — in nome del­la serietà di questa grazia per non opporsi a questa in­sostituibile graziai — il cristiano viva come vive il resto del mondo!

    Certo, il cristiano desidererebbe fare qualco­sa di straordinario; è senza dubbio la rinuncia più diffi­cile quella di non farlo, ma di dover vivere come il mon­do! Ma il cristiano deve accettare questo sacrificio, es­sere pronto a rinunciare a se stesso e a non distinguersi, nel suo modo di vivere, dal mondo. Deve lasciare che la grazia sia veramente grazia, in modo da non distruggere la fede del mondo in questa grazia a buon prezzo. Il cri­stiano sia, nella sua vita secolare, in questo sacrificio ine­vitabile che deve compiere per il mondo — anzi, per la grazia! — tranquillo e sicuro nel possesso di questa gra­zia che fa tutto da sé. Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia.

    Questa grazia a buon prezzo, che è giustificazione del peccato, e non giustifica­zione del peccatore penitente che si libera dal suo peccato e torna indietro; non perdono del peccato che separa dal peccato. Grazia a buon prezzo è quella grazia che noi concediamo a noi stessi.

    Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è gra­zia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.

    Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commercian­te da tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.

    Grazia a caro prezzo è l’Èvangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo pic­chiare.

    È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia, perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara, perché condanna il peccato, è grazia, perché giusti­fica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo — «siete stati comperati a caro prezzo» — e perché per noi non può valere poco ciò che a Dio è costato caro. È soprattutto grazie., perché Dio non ha ri­tenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio.

    Grazia a caro prezzo è la grazia ritenuta cosa sacra a Dio, che deve essere protetta di fronte al mondo, che non deve essere gettata ai cani; è grazia perché Parola viven­te, Parola di Dio, che lui stesso pronuncia come gli piace. Essa ci viene incontro come misericordioso invito a segui­re Gesù, raggiunge lo spirito umiliato ed il cuore contrito come parola di perdono. La grazia è a caro prezzo perché aggioga l’uomo costringendolo a seguire Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù ci dice: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero».

    Due volte è stata rivolta a Pietro la chiamata: Seguimi! È stata la prima e l’ultima parola di Gesù al suo disce­polo (Me. 1,17; Gv. 21,22). Tutta la vita di questo è po­sta tra queste due chiamate. La prima volta Pietro ha sentito l’invito di Gesù sul lago di Genezaret ed ha ab­bandonato le sue reti, la sua professione, e lo ha letteral­mente seguito. L’ultima volta il Risorto lo trova di nuovo nella sua professione di prima, sul lago di Gene­zaret, ed ancora una volta gli dice: Seguimi! Frammezzo c’era stata tutta una vita di discepolato al seguito di Cristo; al centro la sua professione di fede in Gesù come il Cristo (l’unto) di Dio. Tre volte a Pietro fu annunziata la stessa cosa: al principio e alla fine a Cesarea di Filippo, che, cioè, Cristo è il suo Dio e il suo Signo­re. È la stessa grazia di Dio che lo chiama: Seguimi! e che si manifesta nella sua professione di fede nel Figlio di Dio.

    Per tre volte la grazia si è fermata sulla via di Pie­tro: una grazia annunziata tre volte in maniera diversa; e così fu la grazia di Cristo stesso, e non certo una gra­zia che il discepolo si annunziava da se stesso. Fu la stessa grazia di Cristo che vinse il discepolo e lo indus­se ad abbandonare tutto per seguirlo, la stessa che ope­rò in lui la professione di fede, che a tutto il mondo doveva apparire una blasfemia, la stessa che richiamò l’infedele Pietro alla comunione del martirio e gli per­donò così tutti i peccati. Grazia e seguire Cristo, nella vita di Pietro, sono indissolubilmente legati. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo.

    …. Se la grazia è il ‘risultato’ di una vita cristiana, donato da Cristo stes­so, questa vita non è dispensata nemmeno un attimo dal seguirlo. Se la grazia è, invece, presupposto per prin­cipio della mia vita cristiana, allora i peccati che com­metto durante la mia vita in terra sono giustificati in partenza. E allora in base a questa grazia posso pec­care, dato che il mondo, per principio, è giustificato per grazia. Io, allora, continuo a vivere la mia vita secolare-borghese; nulla cambia nella mia esistenza, ep­pure sono sicuro di essere coperto dalla grazia divina. Tutto il mondo, sotto questa grazia, è divenuto ‘cri­stiano’, ma il cristianesimo, sotto questa grazia, è di­venuto mondo come mai in precedenza. La vita cristiana consiste appunto nel fatto che io vivo nel mondo come il mondo, che non mi distinguo in nulla da esso, anzi, non devo nem­meno — per amore della grazia! — distinguermi da esso, ma che al momento opportuno dall’ambiente ‘mon­do’ mi reco nell’ambiente ‘chiesa’ per ricevervi l’assi­curazione del perdono dei peccati.

    Sono dispensato dal­la necessità di seguire Cristo mediante la grazia a buon prezzo, che deve essere il nemico più accanito della volontà di seguirlo, che deve odiare e disprezzare l’im­pegno a seguirlo veramente. La grazia come presupposto è una grazia di nessun valore; la grazia come risultato è una grazia a caro prezzo. È terribile riconoscere quan­to è importante il modo con cui una verità evangelica viene espressa e messa in atto. È la stessa parola che esprime la giustificazione per sola grazia, eppure l’uso errato della stessa frase porta alla distruzione totale del­la sua essenza.

    Se Faust, alla fine della sua vita spesa nello sforzo di conoscere, dice: «Riconosco che non possiamo sa­pere nulla», questo è un risultato ed ha un senso ben diverso che se uno studente di primo anno si arroga tale frase per giustificare con essa la sua pigrizia (Kierkegaard). Come risultato l’affermazione è vera, come presupposto è un autoinganno. Il che significa che non si può separare ciò che è stato riconosciuto dall’esisten­za che ha portato a tale constatazione. Solo chi si trova al seguito di Gesù, dopo aver rinunciato a tutto ciò che aveva, può affermare di essere giustificato per sola grazia. Egli riconosce nell’invito stesso a seguire Gesù la grazia, e nella grazia questo invito. Chi, però, pensa di essere dispensato per via della grazia dal seguirlo inganna se stesso.

    Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese isti­tuzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo bas­so; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribui­vano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. Dove restava ciò che aveva riconosciuto la Chiesa primitiva la quale, durante il catecumenato, vigilava tanto attenta­mente sulle frontiere tra Chiesa e mondo, sulla grazia cara? Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio? Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di ani­me uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammo­nimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica.

    E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disob-bedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? Quale senso poteva avere per noi questa parola se non quello di un ri­chiamo ad una sobrietà assai umana, inteso a fermare il nostro cammino, a soffocare in noi il piacere di seguire Gesù, con l’affermazione che questa era una via scelta solo da noi stessi, un impiego di forze, una fatica e una disciplina non solo inutili, ma addirittura dannosi? Infatti nella grazia tutto era già pronto e compiuto! Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessa­riamente lasciava la via alla quale era chiamato da Ge­sù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di ricono­scere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diver­samente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la gra­zia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente for­te, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbe­dire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque co­mandamento di buone opere.

    Non possiamo più, oggi, eludere il problema. Diviene sempre più evidente che la difficoltà della no­stra chiesa sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani.

    Beati coloro che si trovano già alla fine del cam­mino che noi vogliamo percorrere, e che comprendono, pieni di meraviglia, quello che veramente non pare comprensibile, cioè che la grazia è a caro prezzo pro­prio perché è grazia pura, perché è grazia di Dio in Gesù Cristo. Beati coloro che, seguendo semplicemente Gesù Cristo, sono vinti da questa grazia, così che pos­sono lodare con cuore umile la grazia di Cristo che sola agisce. Beati coloro che, avendo conosciuto questa gra­zia, possono vivere nel mondo senza perdersi in esso, che, seguendo Gesù Cristo, hanno acquistato una tale certezza della loro patria celeste, che sono veramente liberi per la vita in questo mondo. Beati coloro, per i quali seguire Gesù Cristo non ha altro significato che vivere della grazia, e per i quali grazia non ha altro significato che seguire Gesù Cristo. Beati coloro che so­no divenuti cristiani in questo senso, coloro dei quali la grazia ha avuto misericordia.

  • 13 Apr

    Giairo e l’emoroissa

    Mc 5, 21-43

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’episodio precedente è il miracolo della liberazione dell’indemoniato di Gerasa, prigionieri di satana nei sepolcri: 5,1-20.

    Qui Gesù appare come liberatore anche dalla morte, ultimo risultato del male e nemico ultimo: Rm 6,23; 1Cor 15,26.

    I due miracoli si commentano vicendevolmente incentrandosi su un unico messaggio.

    Essi sono legati dalle parole: “Salvare”, “Credere”, “Toccare”.

    Vi sono due donne

    Vi sono in comune “12 anni”

    Una è povera, segregata e paurosa

    L’altra una figlia di un capo della sinagoga.

    L’intento di Marco è di indicare Gesù come colui che suscita la fede.

    La fede di Giairo e della donna fanno sì che Gesù possa manifestare la sua potenza.

    L’incontro con Cristo fa scaturire la vita per l’una e per l’altra.

    Il brano evangelico è una catechesi sul cammino della fede in tre tappe:

    1.      una fede incipiente: quella che vede solo il proprio bisogno e limite, e guarda all’onnipotenza divina come ad una soluzione

    2.      un secondo livello è dato dallo sguardo di Gesù che cerca un dialogo, un rapporto. Da questo dialogo sgorga una parola che riapre alla speranza e alla vita al di là di quello che si poteva sperare di ottenere : “Va’ in pace!”.

    La fede ottiene così non solo un dono di guarigione fisica, ma diviene salvezza per la totalità dell’uomo. E’ esperienza del regno di Dio già presente ed operante in Cristo. Non siamo guariti solo dalla nostra miseria, ma dall’amore di Cristo ci viene dischiuso il limite stesso nel quale eravamo bloccati.

    3.      Un terzo livello ancora più alto è la fede che Gesù domanda a Giairo. Egli richiede una fiducia totale, che va al di là di ogni evidenza umana. E’ un invito a “sperare contro ogni speranza”. “Credi tu questo?” (Gv 11,26).

    Brani paralleli:

    Sap 1,13-15; 2,23

    Sal 30

    1Re 17,17-24

    2Re 4,8-37; 13,20

    Gv 11

    A. AMBIENTAZIONE: UNA RIVA DEL LAGO DI TIBERIADE E LA FOLLA

    21

    Il lago: è il luogo abituale in cui Gesù svolge la sua predicazione

    Siamo sul litoraneo di Cafarnao: il paese dove abita Gesù.

    Tutti lo conoscono: è un loro conterraneo.

    La folla:

    lo segue… i motivi?

    per curiosità, con varie attese, vi è forse devozione.

    Certamente una buona dose di fanatismo.

    Ricerca di qualche esperienza straordinaria: non è uno che fa miracoli?

    Spera di ottenerne qualche tornaconto.

    Perché ne hanno sentito parlare.

    Lo segue perché percepisce una parola diversa, detta “con autorità”.

    …………

    Se dovessi analizzare i motivi per cui ritengo di seguire Cristo quali elencherei?

    Provare ad enuclearli (in percentuale 100%)

    B. GIAIRO E LA SUA SUPPLICA

    22

    Ogni sinagoga aveva un responsabile coadiuvato da un piccolo consiglio (da tre a sette persone). Non è chiaro se Giairo sia il capo o uno del consiglio.

    Il capo della sinagoga dirige il servizio divino, conferisce le varie funzioni, cura la manutenzione dell’edificio.

    Giairo: dall’ebraico Jar (Risplenda la divinità, ma che può essere inteso anche come “Egli, Dio, risusciterà”). Un nome che indica la promessa.

    Egli sta cercando affannosamente Gesù.

    Chi tipo di persona è Giairo?

    La sua famiglia

    Il suo ruolo sociale

    La sua religiosità

    I suoi sentimenti in questo momento,

    le sue attese e le sue paure.

    La sua relazione con Gesù… come l’ha conosciuto?

    Che idea avrà di lui?

    Il gesto di gettarsi ai piedi indica la sua supplica, ma anche la sua disperazione, e l’urgenza della sua preghiera.

    Con questo gesto si riconosce un’autorità a cui si deve ascolto e obbedienza.

    Valore e significato del gesto di “cadere ai piedi”

    23

    Una preghiera di supplica che nasce dal profondo dell’angoscia

    Una situazione disperata: la “figlioletta” è agli estremi

    Un invito: vieni

    Una speranza: perché sia “salva” e “viva

    Egli prega in nome di sua figlia.

    Quale valore ha questa preghiera, come l’abbiamo sperimentata?

    il gesto di imporre le mani è abituale nella cultura semitica e sottolinea momenti importanti.

    Significa il conferimento/passaggio di un potere per un compito da svolgere o una guarigione.

    La ragazza deve essere “salvata”: quindi non si tratta di una semplice guarigione, ma di una salvezza da domandare. Una vita nuova da richiedere.

    24

    Gesù si avvia con Giairo e la folla.

    In questo cammino analizzare sentimenti, speranze, attese di Gesù, di Giairo e della folla.

    Una folla che “schiaccia” Gesù.

    Siamo sulla strada.

    C. L’EMOROISSA

    25

    L’emoraggia è la secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. E’ una radicale malattia e debolezza. Solo un intervento divino può liberare da una tale situazione.

    La donna perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la rende impura, immonda. Di per se rende impura ogni cosa che tocca.

    Non può entrare nel tempio, né partecipare alle feste religiose (es. la pasqua). Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana.

    Immaginiamo questa donna.

    Chi è? (La tradizione l’ha identificata con la Veronica che asciugherà il sangue sul volto di Cristo, ella avrebbe anche eretto un monumento in memoria del miracolo nella sua città di Banias (Eusebio).

    Da dove viene?

    Come vive la sua malattia?

    Che tipo di relazione ha con gli altri?

    Con i medici…

    Che tipo di religiosità?

    L’uomo tenta di accapparrarsi la potenza divina, di dominarla, di appropriarsene. Il Dio della rivelazione si è sempre sottratto a questa pretesa perché è lui che vuole donare la sua vita all’uomo e ne prende l’iniziativa: è il mistero della sua accondiscendenza.

    Solo in quest’ottica di accondiscendenza il limite diviene luogo di incontro e di comunione.

    Qui si riallaccia tutto il discorso sui sacramenti:

    come azioni di Cristo che nuovamente ci tocca e salva.

    Come vivere questo aspetto sacramentale?

    Ma anche si può riallacciare il tema del valore di tutta la realtà che ci circonda, che porta in sé la presenza divina. Questa realtà ci tocca continuamente. Tutte le nostre esperienze sono eventi attraverso i quali Dio ci tocca. Si tratta di esperienze che vengono derise dall’incredulo forte solo dei parametri della sua ristretta intelligenza.

    Occorre far uso della “memoria” per pregare gli avvenimenti della nostra vita. Essi non sono vuoti, ma carichi di una reale potenzialità di incontro con Dio. “Ogni avvenimento è un “oremus””.

    26

    Molti medici! E’ l’ansia della vita, la paura di perderla che costringe l’uomo a tentare tutte le vie ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Ha dilapidato le sue sostanze.

    27-28

    Avendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi?

    Con quali risonanze?

    E’ convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita.

    Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30).

    Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Cosa significa e comporta questo? Quali risonanze?

    Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56

    Il verbo “toccare” è nel brano molto importante (4 x): esso esprime con un’immagine materiale la fede che è un venire a contatto con Gesù. La donna e Giairo sono convinti che il contatto fisico con Gesù è salvezza.

    Contro ogni ideologia è il “toccare” Cristo che salva (cfr. 1Gv 1,1ss).

    Il toccare nella fede è particolare perché fa sprigionare la potenza di Cristo.

    Ma vi è anche un altro toccare, quello della folla, che solo opprime e non produce nulla.

    Vi è un “toccare” interiore ed esteriore.

    C’è un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi, ed una invece che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità.

    I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!

    Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca.

    Non vuole scoprirsi nella sua povertà.

    Non vuole esporsi: è immonda.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    E’ superstizione? Il vangelo sottolinea la disperazione e la sconfinata fede di questa donna a cui Gesù risponde con la guarigione e il dialogo intessuto con lui: la parola suscita e suggella il miracolo. La fede dunque non è solo esperienza soggettiva ma è incontro spirituale e personale con Dio.

    Qui si interseca il discorso circa il ruolo del bisogno nella dinamica della fede.

    29

    la guarigione è immediata. (non viene qui perseguita una dinamica cristologica!). La prospettiva è solo quella del contesto storico dell’attività di Gesù.

    30

    La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Non è il contatto fisico che guarisce (=magia) ma la fede che è rapporto personale. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. E’ Gesù che in verità “tocca” la donna, come farà con la piccola morta.

    Dal costato uscirà abbondante sangue, fino all’ultima stilla.

    E’ importante il passaggio dalle spalle al volto.

    Gesù si volta… (risonanze)

    31

    I discepoli non comprendono la domanda. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    32

    Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio.

    L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Analizzare l’esperienza vissuta dello sguardo di Dio su di noi: le risonanze che provoca

    33-34

    Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. Essa si attende che Gesù assorba la sua malattia senza venirne contagiato: è una fede che comprende e trascende anche ciò che è illegittimo e equivoco.

    La donna ha infranto i limiti imposti dal tabù, e da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei un misto di gioia esplosiva e di paura (il suo gesto è equivoco e carico di risonanze negative: il contatto con donne mestruanti è comunque sempre negativo)

    La fede è certezza che Dio agisce attraverso Gesù, perché ama l’uomo ed invita ad intrattenersi con lui in un’esperienza d’accoglienza e di amore

    Cfr. 2,5; 4,40; 5,36; 9,23; 10,52.

    Questo incontro col volto di Cristo la libera da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.

    Perché? La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffatta di gioia, si sente libera dal suo incubo.

    “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio.

    Gesù non propone un conflitto tra fede e magia, ma trasporta le concezioni magiche della donna nella fede. Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” sarà il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio e che toglie all’uomo i suoi tormenti.

    D. VERSO LA CASA DI GIAIRO

    35

    “Finché c’è vita c’è speranza” ma ora? La “figlioletta” è morta prima che il taumaturgo arrivasse.

    La morte è il caso estremo di malattia.

    La morte avviene “nel frattempo” dell’incontro con l’emoroissa.

    36

    Non cedere nella fede, neppure di fronte all’evidenza della sua apparente inutilità.

    E’ la fede che salva, chiamata a confrontarsi con la morte.

    “La tua fede ti ha salvata” (v 34).

    Gesù non si ferma a discutere, ma continua a procedere calmo e sicuro come nulla avesse sentito.

    37

    siamo nella linea del “segreto messianico”. E’ il primo miracolo che avviene lontano dalla folla.

    I tre apostoli prescelti sono coloro che assistono anche alla trasfigurazione e alla preghiera nel Getsemani ovvero tutti e tre gli episodi sono collegati dal tema della pasqua di morte e risurrezione.

    38

    sono i riti per esorcizzare la paura della morte.

    39

    Una domanda paradossale e apparentemente stolta. Come è stata quella ai discepoli nel mare: “Perché siete così paurosi?”. Gesù mette in discussione le cose più ovvie.

    La morte è un sonno.

    Si esprime la fiducia nel Dio più potente della morte.

    Ma su questo si apre un divario forte tra Gesù e i presenti.

    40

    non dei parenti ma degli altri intervenuti.

    41

    In aramaico. E’ potenza misteriosa?

    Si usano due verbi:

    –          svegliati

    –          alzati

    sono i verbi classici indicanti la risurrezione: 14,28; 16,6; 8,31; 9,9-10

    “Alzati amica mia, mia bella e vieni” (Ct 2,10)

    Non sono parole magiche di cui si servivano taumaturghi o maghi: la parola di Gesù è chiara ed esprime apertamente la sua volontà.

    42

    Vi è grande stupore.

    Chi è Gesù?

    Si è di fronte a qualcosa di inspiegabile che interpella la coscienza dell’uomo.

    Uno stupore simile a quello delle donne dinanzi al sepolcro vuoto (16,8).

    L’ultimo ordine appare paradossale!

    In realtà quello che si esige è nella linea del segreto messianico.

    43

    12 anni ha la fanciulla: l’età dell’amore, del fidanzamento.

    Un gesto di delicatezza da parte di Gesù.

    Ma anche un sottile preannuncio della sezione dei pani (6,6-8,30).

    Cristo è il pane della vita: Gv 6

    Appendice

    Il segreto messianico

    Esso assume il significato di una progressiva rivelazione del mistero di Cristo. Ovvero si tratta di un “metodo formativo” usato da Gesù stesso.

    Il suo era e resta sempre un mistero troppo arduo per essere compreso e accolto pienamente da tutti: è indispensabile la fede che viene dall’alto.

    Ed è attraverso la predicazione kerigmatica della Chiesa che vi si può accedere pienamente.

  • 12 Apr

    Un pellegrinaggio a dodici anni

    (Lc 2, 41-52).

    Poniamo attenzione soltanto alle prime battute del brano. Un brano molto ricco che contiene l’ordito della nostra vita. Anzitutto vediamo gli elementi che vengono descritti: i personaggi (i genitori e Gesù dodicenne), il contesto sociale (l’usanza del pellegrinaggio al tempio), il contesto geografico (Gerusalemme), il contesto religioso liturgico (la Pasqua, che è una festa). Di ogni elemento cercheremo di comprendere il valore e  di cogliere il messaggio per la nostra vita.

    1- “ I suoi genitori .   Sono presentati come osservanti, religiosi, devoti.  Il fatto che entrambi siano religiosi e osservanti, consenzienti ad andare in pellegrinaggio a Gerusalemme ogni anno, non è indifferente. In fondo Gesù viene qui definito a partire anzitutto da quell’atmosfera di serenità,   di fedeltà alla legge, che creano intorno a lui i suoi genitori.

    Questa grande grazia di avere il padre e la madre saldamente concordi sull’educazione profonda da impartire al proprio figlio, l’hanno anche molti di noi. Tuttavia c’è chi ha soltanto uno dei due; e addirittura c’è chi non ha nessuno dei genitori ad aiutarlo nella fede.

    – La riflessione si fa subito personale. E io come mi trovo in proposito? Quale apprezzamento ho dei miei genitori rispetto al mio credere, alla mia tensione morale e spirituale?

    la preghiera: “Ti ringrazio, Signore, per i doni che mi hai fatto attraverso la mia famiglia, i nonni, le persone che in qualche maniera hanno contribuito alla mia formazione Signore, so che tu disponi ogni cosa per il meglio, so che anche quello che a prima vista non mi è gradito, ha un significato salvifico per la mia vita. Fa’ dunque che io comprenda il senso delle grazie e il senso delle prove”.

    2. L’età di Gesù –   “ Quando egli ebbe dodici anni”.

    C’è poi il secondo personaggio che è il “fanciullo Gesù”colto non in un momento qualunque della sua vita, ma in un’età di passaggio perché questo dei dodici anni è un passaggio importante, è simbolo di un passaggio di vita che Gesù compie come uomo, come israelita, come figlio

    Gesù lo compie anzitutto come uomo E’ quel momento in cui una persona capisce che deve diventare uomo, cioè che comincia a prendere in mano la sua vita: quindi incomincia quella percezione che io devo decidere ciò che voglio fare di me nella vita; una percezione lenta, graduale che alla fine termina con la scelta dello stato di vita, della professione  E’ un’età di cambio esistenziale profondo, misterioso,

    *Egli compie questo passaggio anche come israelita, come figlio del suo popolo perché era l’età in cui uno si preparava a diventare “bar mitzwah” cioè “figlio della legge, del precetto”  Quindi un’età in cui uno comincia ad assumere in proprio i doveri religiosi come membro cosciente- responsabile del suo popolo.

    *E l’età in cui uno compie un forte passaggio anche come figlio di famiglia: è l’età in cui uno incomincia a ridefinire chiaramente il suo modo di essere figlio, fino a quel momento in cui Gesù si rivela rispetto al Padre suo nei cieli. Tutte le famiglie si accorgono che questo passaggio esiste. Mentre prima l’obbedienza andava quasi da sé, da quel momento si inizia a decidere quale rapporto tenere verso i genitori. Se è un rapporto accettato come rapporto di amore, di ubbidienza allora diventa cosciente, personale, vissuto.

    Come sintetizzo il messaggio delle prime parole: “il fanciullo Gesù ebbe dodici anni”?. E’ l’età dei grandi cambiamenti! * fisicamente, ma non ci si accorge che i figli cambiano come persone. acquisti un’altra fisionomia. Io ho I’impressione che molti genitori colgono solo quest’aspetto prevalente che poi comporta la ginnastica,

    Cosa vuol dire che cambiano come persone?

    Cambiano perché anzitutto sorge in essi una coscienza morale, che prima esisteva come ubbidienza o disubbidienza ai genitori, ma è a quest’età che una coscienza morale comincia davvero a essere qualcosa dentro. Una coscienza morale che è percepita come una coscienza del male come qualcosa di facile, di gratificante; e una coscienza del bene come qualcosa di necessario, ma di difficile e arduo. Uno allora comincia davvero a fare delle scelte, capisce che fare il bene è qualcosa di bello, di giusto, di necessario, di difficile e arduo. E fare il male è qualcosa che non si deve fare, ma è più facile anche sotto le forme della pigrizia, del lasciarsi andare, del fare tutte le proprie comodità, del non prendersi mai a cuore niente, del lasciare che i genitori provvedano a tutto, del non rendersi responsabile. E’ più facile lasciarsi servire in tutto, esigere sempre nuovi divertimenti e svaghi.

    Qui sorge il problema morale: io che cosa scelgo? Che cosa faccio? Faccio qualcosa di serio, di deciso? Accetto i sacrifici della vita oppure mi lascio andare a qualunque cosa? Ciascuno in questo momento sperimenta la propria libertà, la sperimenta come libertà di lasciarsi andare al male magari vissuto nelle piccole e semplici cose, che poi diventano complicate quando uno fa sempre i suoi comodi. Da qui nascono le pretese, le prepotenze, il lamentarsi per qualunque cosa … Oppure la sperimenta come libertà di fare il bene, il tenersi in mano, il sapersi sacrificare, il capire i bisogni degli altri … Con il problema morale della libertà nasce inoltre un problema che potremmo dire esistenziale: uno comincia, anche senza accorgersi, a interrogarsi: cosa faccio nella mia vita?

    Sono domande molto importanti, che non possono essere banalizzate, non sono più sogni di bambini. Certo c’è sempre molto sogno e molta fantasia in tutto quello che facciamo; grazie a Dio noi per tutta la vita siamo capaci di sognare e di fantasticare. Ciascuno di noi è una creatura un po’ artista che sogna e che si entusiasma. Però dietro queste cose c’è il bisogno di definirsi di fronte al proprio avvenire, di fronte agli altri, agli stessi genitori.

    3. Luogo fondamentale è certamente Gerusalemme, menzionato due volte: “si recavano tutti gli anni a Gerusalemme”, “il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme”.

    Ed è menzionata Gerusalemme non solo in maniera statica come città che è là, ma è la città che è meta di un pellegrinaggio verso la quale si va. Quindi come elemento di luogo è menzionato anche il fare pellegrinaggio, cioè compiere un gesto sacro altamente simbolico che consiste nell’avviarsi verso un luogo sacro, indicando un primato di Dio nella propria vita. Fare pellegrinaggio è segno di adesione sacra ad un mistero di Dio, manifestato in maniera privilegiata in questo luogo.

    Anche qui ci sarebbe tanto da dire perché noi sappiamo di quali significati è piena anche la menzione di Gerusalemme per un ebreo: Gerusalemme città di Dio, città Santa, città storica, capitale civile, luogo nella quale si rivela la gloria di Dio, luogo del tempio, della preghiera, della gioia, della festa, luogo nel quale soltanto si celebrano i sacrifici e le grandi feste di Israele.

    Un pellegrinaggio a un santuario è simbolo del pellegrinaggio della vita: l’incontro con Dio. Quest’anno più di un milione di giovani sono in cammino verso Colonia. Per festeggiare proprio quanto stiamo meditando.

    I tempi

    Il tempo viene indicato come Pasqua, anzi come la festa di Pasqua, meglio specificato con “i giorni della festa di Pasqua”: quindi è la Pasqua intesa come festa prolungata, festa di una settimana.

    Noi sappiamo quali evocazioni straordinarie ha la Pasqua per una famiglia ebraica per un fanciullo che ha sentito raccontare delle vicende di Mosè, dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, dell’Agnello immolato il cui sangue era messo sugli stipiti delle porte perché l’angelo sterminatore risparmiasse gli Ebrei, del passaggio del Mar Rosso, del Sinai.

    La Pasqua è tutto questo; è una grande serie di simboli che ricordano il proprio passato, la propria storia e religione; è un po’ la sintesi di tutti i valori: “Dio si è chinato su di noi, si è ricordato del suo popolo mentre eravamo schiavi in Egitto, ci ha liberati, ci ha reso un popolo degno, unito ci ha dato una legge, una costituzione. Ci ha dato dignità, libertà …”

    Tutto ciò è collegato con questa Pasqua ed è anche un momento di gioia, festa.

    Quale signifcato ha per me la DOMENICA?  Noi non possiamo vivere senza la domenica”(sine dominica non possumus esse) “Sì, sono andata all’assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana”. Pronunciate dai Martiri di Abitine queste parole manifestano quale importanza i cristiani abbiano dato, fin dai primi secoli, alla partecipazione all’Eucaristia domenicale. L’hanno considerata come un’esigenza irrinunciabile.

  • 08 Apr

    La morte dell’uomo vecchio

    da p. Amedeo Cencini

    Per costruire un autentico rapporto con Dio occorre essere disposti ad un’opera di smantellamento dell’uomo vecchio, se non vogliamo accontentarci di mettere vino nuovo in otri vecchi e continuare a rammendare tutta la vita abiti logori.

    Di quale opera di smantellamento? Si tratta di liberarci anzitutto dalle false immagini di Dio che ci sono state proposte nell’arco della vita e/o che da noi stessi ci siamo costruiti.

    Teniamo presente che ad un’immagine di Dio corrisponde un itinerario spirituale preciso. Ad una falsa immagine di Dio corrisponde un falso itinerario spirituale.

    Le illusioni

    E’ per questo che è facile  correre il rischio di cadere in pericolose illusioni.

    Gesù nel vangelo ci dona un criterio di discernimento per il nostro itinerario spirituale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze” (Mc 12,30).

    Per fare un’esperienza autentica di Dio occorre tutto l’uomo: cuore, mente, volontà.

    La globalità del nostro essere, la totalità dei nostri dinamismi in esso insiti.

    Se Dio è Dio egli è tutto o niente.

    L’illusione sentimentale

    Il sentimentale crede che per conoscere Dio occorre che io ne “senta” l’emozione, lo sperimenti sentimentalmente.

    Dio è ridotto ad un’emozione piacevole, il mio essere è considerato solo un fascio di sensazioni.

    Una impostazione di cammino spirituale di questo genere risulterà: instabile, illusorio, contraddittorio.

    Instabile: la nostra emotività è instabile. All’entusiasmo succede la freddezza, il disinteresse. (Soprattutto questo nell’ambito della preghiera).

    Illusoria: l’emozione rimane fine a se stessa e non porta ad un reale cambiamento e conversione: “Si cercano le consolazioni di Dio ,e non il Dio delle consolazioni).

    Contraddittorio: non ci si compromette realmente in una relazione amorosa con Dio che è richiesta in un autentico rapporto. L’attenzione è ancora centrata su di sé.

    Deviazioni possibili: la superstizione, la disperazione, lo spiritualismo, il devozionalismo, l’intimismo pietistico.

    Dio è il Dio della vita, non un oggetto di consumo per la ricerca di “esperienze spirituali”.

    L’illusione morale

    La volontà qui è assolutizzata. Per fare esperienza di Dio devo fare determinate cose, devo osservare un determinato codice morale, devo impormi una determinata ascesi.

    Come il giovane ricco diremo: “Che cosa mi manca?… Cosa devo fare?” (cf Mt 19,20).

    L’affettività sottostante è prevalentemente idealizzante. Fa da traino alla vita un alto ideale di sé, solitamente con funzione compensativa.

    Ma l’esperienza di Dio è prendere atto che è Lui a cercare l’uomo, a chinarsi su di lui: l’esperienza di Dio è puro suo dono. L’uomo può solo disporsi alla sua azione.

    Il volontarista:

    non sa dire grazie: Tutto è frutto delle sue fatiche. E’ lui che si acquista i meriti per la salvezza. Si vanta davanti a Dio come il fariseo della parabola. Dio è colui che premia o castiga: è giusto ed esigente padrone. Non è certo il padre del figliol prodigo, o il padrone degli operai dell’ultima ora.

    Non riconosce il suo limite: il limite stona, non è sopportato, non ci deve essere. Occorre in qualche modo negarlo. (Complesso della statua o del sughero!)

    La propria povertà non è occasione di grazia, del sentirsi accolto, amato, redento ma causa invece di deprezzamento di sé, di disistima. Il volontarista preferisce essere contato tra le file dei 99 giusti e non certo fra i peccatori di cui il paradiso fa festa.

    E’ un perfezionista-legalista: la legge gli dà sicurezza. Per cui è rigido con se stesso e con gli altri. Il v. Fatica ad amare perché la sua energia è tutta impiegata nel poter raggiungere la sua impossibile perfezione.

    Notiamo che alla lunga è molto difficile, se non impossibile, che uno regga nel cammino spirituale facendo leva solo sulla forza di volontà. Non ci si può chiedere di fare cose alla lunga solo perché si devono o si vogliono fare.

    L’illusione intellettuale

    C’è il tipo tutto testa. Ritiene egli che conoscere Dio sia azione prevalentemente speculativa. Il suo credere equivale ad una formula.

    Si tratta di una strumentalizzazione di Dio per i propri scopo di rassicurazione.

    Non ha il senso della trascendenza e del mistero: presume di sapere tutto, conoscere tutto, spiegare tutto. E’ il tipo che non ha nessun tipo di problemi in quanto riduce tutto ai propri schemi di pensiero. Dio è incasellato.

    Non è capace di silenzio adorante: vuole capire e programmare; gli risulta difficilissimo abbandonarsi. La propria vita è tenuta stretta tra le mani,

    Dio viene ridotto ad una funzione di certezza teorica.

    Conclusione

    Siamo contaminati tutti da queste illusioni.

    Il rendersene conto non è un dramma ma l’inizio della liberazione.

    “Illudere” è etimologicamente “predenrsi gioco”: e nessuna vuol prendersi gioco né di Dio né di se stessi.

    Non vi fate illusioni, non ci si può prendere gioco di Dio” (Gal 6,7).

  • 08 Apr

    DEL VENIR MENO DELLA FEDE NELLA NOSTRA SOCIETA’

    E’ un momento storico che vede una fede difficile da vivere, una fede che viene scossa continuamente.

    Convinzioni semplici e familiari sono messe ormai apertamente in discussione: la società è ormai un cantiere febbrile. Non ci si riconosce più. E’ una prova dolorosa, un momento critico, che per chi sa leggere in profondità, diviene occasione per un autentica esperienza spirituale.

    L’illusione che il cristiano possa installarsi comodamente nella sua fede sta per essere smascherata. E questo cammino è maestro di purificazione.

    Sì, si parla della prova della fede, ma la vera prova non è quella prevista, programmata, letta sui libri. Quella vera  giunge all’improvviso, spietata. E’ quella che toglie la terra sotto i piedi.

    La mistica parla di purificazione, notte, come di quel momento in cui l’uomo è gettato a terra, il naso nella polvere con una preghiera ormai impraticabile, in un’angoscia senza fondo.

    La prova della fede nella cultura moderna

    Possiamo chiederci se oggi, molti cristiani non siano condotti per queste acque oscure. A volte nell’incapacità di scorgervi un’occasione di crescita spirituale.

    E’ un dato di fatto che il cristianesimo nel nostro occidente è andato incontro ad una usura culturale.

    Questo è un fattore di crisi culturale che si interseca con l’altro più individuale: la purificazione come fase  critica conosciuta nella dottrina spirituale.

    Una purificazione dall’illusione religiosa

    La prova della fede è una purificazione. Di che cosa?

    Fondamentalmente dell’illusione religiosa stessa: la sua funzione essenziale è quella di farmi passare dal mio Dio al Dio della rivelazione. E’ il momento della morte di quel Dio specchio che mi restituisce l’immagine ideale di me e /o delle mia paure.

    Nel momento della prova lo specchio s’infrange (sette anni di guai!): si è frantumata l’illusione. Cosa resta?

    Non resta più niente: il mio precedente cammino spirituale appare in tutta la sua fragilità, inconsistenza (pur nella sua necessità del portarmi fino a quel punto).

    Mi ritrovo sbattuto a terra, cieco, come Paolo folgorato sulla via di Damasco.

    La reazione illusoria è di credere che la purificazione si superi a sforzi di volontà: basta rimettersi più vigorosamente sulla giusta strada. Quello che il lavoro di purificazione mette giustamente in causa è questa pretesa di gestire secondo noi stessi, a nostro modo e sotto il nostro controllo, quel grande, profondo, irresistibile distacco al quale si deve pur arrivare da ciò che noi avevamo fatto di Dio.

    Quando la fede non dispone più di un linguaggio

    Dove va a finire questo passaggio  attraverso il fuoco della purificazione?

    Ci si aspetterebbe che esso venisse a rinverdire e riscaldare tutto il precedente linguaggio della fede. Ma il suo aspetto più temibile è che essa passi dentro tutto questo linguaggio distruggendolo: il linguaggio “cristiano” appare inabitabile.

    Da cosa dipende ciò?

    Dal fatto effettivo che la purificazione viene ad iscriversi in una cultura che fa apparire desueto, impraticabile, impossibile ciò che si riferisce al cristiano: scienza, politica, economia, filosofia, storia, etnologia, psicanalisi hanno questo effetto.

    Chi attraversa la purificazione viene a trovarsi assolutamente senza appoggio dalla parte della fede manifesta; e ciò può venire a confondersi, per la coscienza, con la scomparsa di ogni fede. E’ il buio totale dell’anima.

    Chi è nella prova vede una certa qual decomposizione del proprio cristianesimo: ed è questione di verità, perché pretendere diversamente sarebbe mentire, fare “come se…” sarebbe recitare, generosamente certo e con tutta la buona volontà, il personaggio che era il loro sul teatro della fede. Ma è venuto il vento a strappare tutti gli scenari, tutti i costumi e a lasciarli spogli sulla pubblica piazza.

    Credenti che si sentono del tutto soli

    Sarebbe necessario per chi attraversa la prova trovare un punto di riferimento e di dialogo.

    Capita piuttosto che l’ambiente cristiano sia pronto a lasciare che questa gente si allontani, quando addirittura non la spinga fuori. Basta infatti presupporre che “noi siamo cristiani”, facendo funzionare alla bene meglio il buon vecchio linguaggio perché gli altri siano esclusi. C’è la tentazione da parte nostra di accusare o di scusare, evitando così un autentico ascolto.

    Il fuoco della purificazione è anche la solitudine.

    Nella notte del Sabato santo

    Il primo effetto del “passare il fuoco” è senza dubbio quello di ricondurre duramente l’uomo che credeva di credere alla condizione umana. Tutte le sicurezze che non poggiavano su nulla crollano.

    Non è una crisi religiosa passeggera che lascia tutto il resto intatto, come quando si cambia l’impiego. La prova sta molto più alla radice, alla base dell’essere umano. La Parola coinvolge la totalità dell’uomo, non solo una parte. Non può esistere zona di ripiegamento, una zona franca in cui rifugiarsi per mettersi al sicuro.

    Una via di passaggio è indispensabile perché ne va della  propria salvezza.

    “Voglio aprire una porta. Questo voglio. Questo desidero. Invoco. Grido. Piango. Desidero.” (P. Neruda).

    E’ vivere con Cristo la spiritualità del grande silenzio del Sabato santo: “Rovina del Tempio, Sabato della de-creazione: è in sospeso la nascita dell’uomo. E’ solo se la croce ha questa forza (di distruzione, di morte), che l’altro versante, la vita, potrà essere l’amore senza misura e non la cosa pia alla quale sono tanto attaccati i cristiani” (Bellet)

    E’ facile cadere nel nulla: è importante cadere ai piedi del crocifisso disceso negli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Padre nelle tue mani rimetto la mia anima!

    La posta in gioco è la genesi dell’uomo

    E’ un immenso lavoro sotterraneo, nascosto, una gestazione lenta opera della grazia. Per il momento non si ha da vivere che giorni grigi, uno dopo l’altro.

    Tutto è ridotto all’essenziale: all’avere il coraggio della verità, al non affermare di più di quel che non si possa e neppure di meno, lasciare davanti a sé le cose che non si comprendono più, aver cura degli altri, farsi prossimo. Non schiacciare gli altri sotto il peso delle nostre infelicità, non cadere nel lamento, nel risentimento, nell’asprezza.

    Un Vangelo in presa diretta, che va all’essenziale

    La fase della purificazione permette che si apra dolosamente un luogo in cui il Vangelo si ponga a contatto con la vita. Gesù, nei confronti della pratica religiosa sterile e asettica è stato quanto mai duro: ha spinto i suoi uditori fuori dal recinto religioso  del tempio rassicurante: “Pagate la decima della mente e del comino e dimenticate l’essenziale: la giustizia, la misericordia”.

    Chi è nella prova non è lontano dalla fede, è vicino alla sua essenziale e vitale posta in gioco. Avviene infatti una semplificazione estrema del messaggio evangelico: forse potrebbe apparire un impoverimento rispetto a tutto il contenuto di dottrina, costumi, riti… Ma ciò è necessario per ritrovare il nocciolo: che non è fatto di rigidezza e chiarezza che si attenderebbe, può darsi anzi che sia semplicissimo, balbuziente, parziale, momentaneo.

    Allora lungi da ridurre la Paola a quel che noi ne diciamo, si resta in ascolto, disposti a che avvenga in noi il cammino che non più noi costruiamo.

    Questo rapporto è l’essenziale: perdiamo ad un tempo la nostra bella “soggettività” individuale, chiusa in se stessa e in quel che crede e il bell’ordine oggettivo sempre completo, immobile e in verità disponibile al nostro controllo.

    Il luogo della fede non è più la soggettività o l’oggettività (così complici): ma è la relazione stessa, la fede come tale. E’ vuoto e ricerca nello stesso tempo.

    La lunga pazienza delle gestazioni

    Che occorre fare? Aderire alle cose cristiane così come sono, riprendere il linguaggio comune e abituale, ritornare alle pratiche, ritornare all’ambiente cristiano?

    Tanti lo faranno, tanti altri no. Per questi la morte della cultura cristiana è in essi: si sono resi conto che il rianimare un cadavere non è affatto il risveglio della resurrezione.

    Sarà indispensabile per loro imparare la pazienza: forse fino ad accettare di non vedere nella loro vita mortale prender forma questo stile di pensiero, di pratica di poetica e di comunità, che è il loro voto più profondo.

    Spesso agli altri cristiani questa pazienza manca: si vuole una soluzione immediata, scordando che la gestazione, la nascita non si fanno per decreto, non basta nemmeno obbedire.

    Attenzione! Per quel che sa di prova e crocifissione, si può essere tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco di una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla in sé, respingerla negli altri… E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte. Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli; nel frattempo pratica con vivacità l’ingiustizia verso coloro che dovrebbe aiutare, poiché la fede senza amore è una fede morta.

  • 04 Apr

    Emergenza educativa e tracce di percorsi educativi

    Dal DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

    Conferenza Episcopale Italiana

    61a ASSEMBLEA GENERALE

    Roma, 24 -28 maggio 2010

    Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni.

    Tale orizzonte temporale è  proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa.  E mi sembra necessario  andare fino alle radici profonde di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida.

    Io ne vedo soprattutto due.

    Una radice essenziale consiste -mi sembra -in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.

    In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo  dall’altro, l’”io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la  comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’”io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’”io” a se stesso.

    Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un “io” completo in se stesso, mentre diventa  “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”.

    L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano.

    La prima fonte dovrebbe essere la natura seconda la Rivelazione.

    Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso.

    La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o -si dice -forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni.

    E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro.

    Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri.

    E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare.

    Così, in questo “concerto” – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’”io” al “tu”, al “noi” e al “Tu” di Dio.

    Quindi le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma, pur  consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione.  Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il  Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge.

    Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’”io” per il “tu”, per il “noi”, per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi.

    Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.

    I giovani portano una sete nel loro cuore, e questa sete è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita. È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili.

    La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”  (Gaudium et spes, 41).

    L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi  sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.

    Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di  cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane.

    In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà  fondamentali.

    La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le  ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri.  Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più  incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità. In questa luce, ciò che è motivo di scandalo,  deve tradursi per noi in richiamo a un “profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”  (Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010).

    Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo. Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza. Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al  matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così  potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno.

    La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.  Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica. Sarebbe illusorio – questo vorrei sottolinearlo – pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra.  Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per  attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa e ritorna alle vere fonti dei valori. Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese.

  • 03 Apr

    LA DECISIONE DI METTERSI IN CAMMINO:

    LA CONVERSIONE

    Se nel mio cuore desidero incontrare Dio devo mettermi nella disponibilità a lasciare, a cambiare ciò che ingombra, appesantisce, ostacola: in una parola a convertirmi.

    Conversione è processo lento, discreto, faticoso che ha luogo lungo il nostro cammino verso Dio, scoperto sempre più come realtà trascendente.

    Conversione dunque è cammino, condizione abituale: non può essere ridotto ad un momento singolo e limitato nel tempo. “Disse un anziano: C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!” (Detti).

    Si tratta di conservare nel cammino la spinta alla fedeltà e alla costanza, superando le facili tentazioni dell’arrestarsi nella comodità di una determinata situazione, o in quella che gli antichi definivano come aurea mediocritas.

    (Nella teologia si parla di una duplice conversione:

    una prima è data dal proposito di dedicarsi al servizio di Dio

    una seconda è data dal donarsi interamente incamminandosi nella via della santità.

    Molti si fermano solo alla prima)

    Perché è difficile convertirsi? Perché è facile subito riternersi nella categoria dei giusti che non più necessitano di conversione? Quali sono le componenti della conversione?

    Conversione e trascendenza

    Impegnati come siamo a divenire sempre più esperti sulle cose di Dio, va a finire che ci abituiamo ad esse: non siamo più capaci di meravigliarci per ciò che Dio compie in noi e attorno a noi.

    Facciamo l’abitudine alla sua Parola di modo che essa non ci provoca più. Non sentiamo perciò il bisogno di cambiare.

    Abbiamo ridotto Dio a nostra misura, in modo che Egli non possa avanzare più di tante pretese.

    La vera conversione smantella questa presunzione. Il cammino di chi si converte inizia con la scoperta che Dio è al di là delle cose, è più grande dei nostri progetti e ideali. E’ radicalmente diverso dalle immagini che ci siamo fatti di lui. Egli ci trascende infinitamente: “Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri” (Is).

    Quando si percepisce realmente Dio come il Totalmente Altro questo di conseguenza modifica il nostro cammino, l’idea di noi stessi, del nostro rapporto con Dio. Di fronte a questo Dio trascendente si scopre che l’unica risposta vera è la trascendenza di sé stessi e del proprio mondo. Ossia la conversione: un processo di trasformazione della propria storia.

    “Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per lui: Dio è così grande, c’è una tale differenza tra Dio e tutto ciò che non è lui” (Ch de Foucauld)

    “Tutto io reputo una perdita…”

    La trascendenza divina illumina la vacuità e inconsistenza e i propri dei del passato:

    criteri di azione,

    gerarchie di valori

    interpretazione della realtà

    attaccamenti

    ….

    Tutto può funzionare nella nostra vita come idolo!

    Quanto più entriamo in contatto con il vero Dio, tanto più diventiamo sensibili a tutto ciò che da lui in qualche modo ci allontana ( è questa l’esperienza di tutti i santi: più entravano nel mistero più avevano coscienza del proprio peccato e del bisogno di conversione)

    Non si tratta qui di perfezionismo morale, Né di sforzi di volontà. E’ conseguenza logica dell’esperienza di Dio nella propria vita.

    Quando Dio si rivela tutto il resto perde valore o assume un valore nuovo.

    E’ l’esperienza travolgente di Saulo: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura…” (Fil 3,7-8).

    C’è un momento del nostro cammino in cui “le cose di prima” devono sembrarci spazzatura: se questo non avviene corriamo il rischio di non convertirci mai, e di non rinascere a nuova vera vita.

    Perché le cose di prima devono essere considerate “spazzatura”? “A motivo di Gesù Cristo” risponde Paolo.

    A questo motivo fondamentale potremmo aggiungerne un altro più terra: perché una falsa impostazione del proprio cammino alla fine risulta frustrante anche nei riguardi della gratificazione dei nostri bisogni.

    Quando si vive in funzione dei propri bisogni scatta inevitabilmente un conflitto, la gratificazione di certi bisogni è un pozzo senza fondo: non sazia la fame anzi l’aumenta.

    Continuando a vivere in questa direzione ci si fa del male, si vive in modo sconclusionato: è importante arrivare a questa constatazione.

    Quando ci si sente traditi da ciò che sembrava prometterci felicità, si perde il gusto per quanto prima attraeva irresistibilmente, si comincia a provare nausea e disprezzo per le vecchie abitudini: le cose di prima diventano spazzatura; un tempo desiderate ora sono considerate nullità. “La trasformazione non è solo un sentimento morale di colpa, ma la consapevolezza del nostro desiderio insaziabile, di quel desiderio che è in noi come un vuoto che diviene richiamo, come l’incavo di una pienezza sconosciuta” (O. Clement).

    Conversione è sentire ormai impellente il bisogno di sbarazzarsi di una falsa struttura di impostazione del proprio cammino.

    La provocazione del Trascendente e l’esperienza fallimentare di un certo stile di vita hanno creato una esigenza profonda di cambiamento. “Il pentimento – la metanoia – nel suo senso più forte deve essere portato alle radici di tutte le facoltà mentali, volitive ed affettive, fino al centro dell’essere intero: corpo e anima. Si tratta di una seconda nascita” (P. Evdokimov)

    E’ una fase certamente negativa, ma d’altra parte il cammino di conversione non è una cura di bellezza spirituale, un leifting, non è un riaggiustamento alla bene meglio, ma è trasformazione, rinascita che comporta inevitabilmente una morte: “distrugge una vita e ne produce un’altra… noi lasciamo la tunica di pelle per rivestire un mantello regale” (N. Cabasilas)

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