• 28 Mar

    Il libro degli “avvertimenti”
    Es 7-10

    di p. attilio franco fabris

    Il racconto delle piaghe ci presenta con insistenza la richiesta di JHWH al faraone: lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto (Es 5,1.3). Perché questa insistenza sul doversi recare nel deserto? (Cfr 8,21-23).

    La motivazione data da Mosè sembra apparentemente manifestare rispetto per la cultura e la religione egiziana, in realtà egli tocca un punto cruciale della polemica anti idolatrica. Per la bibbia l’Egitto, come Sodoma e Gomorra, è un paese simbolo spirituale del peccato e dell’idolatria, luogo di alienazione spirituale per il popolo di Dio (Gn 18,20-21….). Nella richiesta di Mosè si intravvede perciò una denuncia sferzante: quelli che voi egiziani adorate come dei, per noi figli di Israele, sono vittime da sacrificare all’unico Signore e Dio.

    Una geografia teologica

    Potremmo anche tentare di leggere la geografia egiziana in un’ottica teologica polemica. L’Egitto è il paese attraversato dal grande fiume Nilo, una presenza che dà sicurezza perché benefica: lì essa viene divinizzata. L’Egitto come Babele con il suo Eufrate simboleggia per l’uomo biblico l’autosufficienza arrogante del potere mondano che per questo è indotto ad auto divinizzarsi. Si dà dunque in diversi testi biblici una lettura negativa della geografia egiziana:Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti dò. Quando avrai mangiato e ti sarai saziato, quando avrai costruito belle case e vi avrai abitato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro e abbondare ogni tua cosa,il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima;  che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire. Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze” (Dt 11.8-17). Invece il paese che il Signore promette è “un paese di monti e di valli, beve l’acqua della pioggia che viene dal cielo; paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano sempre gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine”. Si dà dunque una “geografia dell’immannenza” in Egitto e una “geografia della trascendenza” nella terra di Canaan¸ geografia dell’illusoria autosufficienza e geografia della grazia.

    Non su qualunque terra si può dunque rendere culto al Signore, ma solamente su quella alla quale egli Egli ha destinato il suo popolo (Naaman lo capirà perfettamente: cfr 2Re 5,8-19).  Da un paese come l’Egitto bisogna dunque “uscire”. La chiamata  che Dio rivolge al suo popolo è la stessa che egli aveva fatto ad Abramo: Vattene, parti, esci… dalla tua terra… verso una terra che io ti indicherò (Gn 12,1). Ci sono situazioni dalle quali, divenendo prossime di peccato, bisogna uscire, tagliando risolutamente il male alla radice (Mt 5,29-30).

    Il libro degli ammonimenti: la vittoria di JHWH sull’idolatria imperialistica

    La sezione dei capitoli 7-10 dell’Esodo è interamente dedicate alla narrazione delle dieci “piaghe” con cui JHWH colpisce l’Egitto a causa di Israele al fine di costringerlo alla liberazione del suo popolo. Diciamo subito che il termine “mofet” andrebbe tradotto meglio con “prodigi” o “segni” (il termine “magefa – da “nagaf – colpire non compare che in 9,14). Ciò significa che la narrazione biblica attribuisce alle cosiddette piaghe ben più che un  significato di flagelli punitive; esse assumono un valore simbolico – sono segni – che descrivono drammaticamente il rapporto conflittuale e decisivo che contrappone JHWH e il faraone il quale raccoglie in sé esemplarmente tutte le prerogative dell’opposizione demoniaca a Dio.

    La narrazione è scandita da una serie di monotoni commenti che sottolineano la “durezza di cuore” del faraone. In questo indurimento del cuore si manifesta tutta la radicale avversione degli uomini a Dio: qui si tratta in particolare di quell’avversione a Dio che passa attraverso la scoperta esaltante dell’efficacia della forza politica, scientifica e militare con la sua pretesa di sostituirsi a Dio. E’ un’opposizione che assume diversi volti lungo la storia e nella nostra stessa vita (il faraone che si oppone a Dio è anche dentro ciascuno di noi, Paolo lo chiamerebbe “il vecchio uomo”, il “vecchio Adamo”). Oggi la potremmo identificare con una sorta di relativismo, scientismo, culto di sé.

    La sconfitta del faraone e la follia della sua ostinata resistenza

    La narrazione biblica non vuol presentare altro protagonista che non sia Dio stesso: è lui che parla, ordina, prevede le difficoltà e le opposizioni, stabilisce quando e dove intervenire. La sua è una sovranità assoluta apparentemente ostacolata dall’indurimento del cuore dell’uomo. In verità tutto avviene secondo le intenzioni e le decisioni di Dio: tutto contribuisce a dimostrare che la signoria di JHWH è stabilmente vittoriosa.  Il racconto proclama con la sua insistenza la certezza che il potere faraonico di tutti i tempi è sconfitto dall’unica vera signoria di JHWH. E’ la stessa certezza con cui l’apocalisse canta la sconfitta finale e definitiva di Babilonia la grande prostituta, l’anti-gerusalemme:

    Un angelo gridò a gran voce:  È caduta, è caduta Babilonia la grande ed è diventata covo di demòni, carcere di ogni spirito immondo, carcere d’ogni uccello impuro e aborrito e carcere di ogni bestia immonda e aborrita. Perché tutte le nazioni hanno bevuto del vino della sua sfrenata prostituzione, i re della terra si sono prostituiti con essa e i mercanti della terra si sono arricchiti del suo lusso sfrenato». (18,2-3)

    Ma l’ascoltatore e chiamato ad assistere con stupore alla follia dell’ostinazione faraonica, alla sua folle rivalità, hybris la chiamerebbero i greci, di opporsi alla signoria di JHWH. Atteggiamento che porta in sé sempre il seme dell’autodistruzione. Come un ritornello prenderemo che di fronte ad ogni “segno” il cuore del faraone si ostinò…

    La coscienza del faraone ci appare ambigua e contraddittoria, tutta tesa semplicemente al calcolo politico della gestione e conservazione del potere, come farà Erode dinanzi all’annunzio della nascita del re dei giudei.  Talvolta egli sembra aprirsi al dialogo, a cercare un compromesso, addirittura sembra giungere a pentirsi…, in realtà l’indurimento del faraone rimane costante. Anzi lo stesso svolgersi delle situazioni sempre più drammatiche e catastrofiche non ha altro risultato che rendere sempre più inamovibile la sua rigidezza. E’ la controrisonanza alla fin fine solo autodistruttiva della rivalità che si mette qui in azione: del tipo mi spezzo ma non mi piego!

    Si tratta di posizioni che conosciamo bene anche per esperienza personale. Di fronte ai “segni” inequivocabili che Dio nella sua misericordia ci invia perché con umiltà possiamo leggerli a nostra salvezza rischiamo di opporre la nostra posizione e interpretazione, il nostro progetto. Si instaura una lotta dalla quale inevitabilmente usciremo sconfitti. Quanti “poteri” lungo la storia si sono scontrati con la chiesa di dio uscendone alla fine sconfitti ed autoannientati?

    La cortigianeria degli intellettuali e dei tecnocrati

    Accanto al faraone compaiono altri personaggi minori ma che orbitano attorno a lui. Si tratta di “sapienti, incantatori, maghi” che vengono convocati dal faraone affinché “con le loro magie” operino dei “segni” che possano contrapporsi a quelli di JHWH. Essi sono perfetti uomini di corte, dediti al culto del sovrano per il proprio tornaconto e perciò devoti osservanti delle regole che garantiscono il potere. Potremmo definirli come “gli intellettuali” al servizio del potere! Come veri intellettuali essi avrebbero tutti gli strumenti culturali necessari per comprendere e sbugiardare i limiti oggettivi del potere al cui culto si sono prestati, ma sono troppo…di corte. Preferiscono la loro fette di potere alla verità.

    Questi intellettuali sono anche dei “tecnici” capaci di operare vere e proprie “magie”: la magia è forza prestigiosa che caratterizza l’uso consapevole ed efficace della tecnica che esalta le capacità e l’autonomia dell’uomo facendole illudere di essere al pari di Dio e di potersi alla fine sostituire a lui. Come non stupirci dei progressi dell’ingegneria genetica con i suoi obiettivi di “creare” a suo piacimento e come la desidera la vita? Oppure la tecniche dell’informatica o della medicina? I maghi d’Egitto in un primo tempo riescono a operare le stesse cose (7,11) a competere in effetti con Dio: “Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anche i maghi dell’Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa. Gettarono ciascuno il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni” (Es 7,11-12).  La competenza “dei maghi” permette loro di elaborare prodotti artificiali, validamente concorrenziali sul perenne mercato dei surrogati di cui anche oggi il mondo è pieno e dinanzi a cui è facile rimanere… incantati.

    Tuttavia ad un certo punto essi si devono arrestano riconoscendo che è all’opera il dito di Dio:  I maghi fecero la stessa cosa con le loro magie, per produrre zanzare, ma non riuscirono e le zanzare infierivano sugli uomini e sulle bestie. Allora i maghi dissero al faraone: «È il dito di Dio!» (8,14-15). Essi devono desistere e riconoscere a malincuore la sconfitta. Ancora una volta l’impresa di Babele viene vanificata in se stessa.

    L’ ammonimento iniziale: 7,8-13

    Il “segno” iniziale è dato in uno scontro con i praticanti delle scienze occulte, i maghi (hartummim). La scena verte sulla funzione del “bastone” di Mosè (di Aronne: tradizione P). Questo bastone diviene un “tannim” che può indicare qualsiasi bestia selvaggia, ma indica in modo particolare il grande serpente di mare, figura archetipa delle antiche cosmologie (Is 27,1; Gen 1,21; Gb 7,12; Sal 148,7). Tannim forma con il Leviathan e il Rahab il trio dei mostri acquatici che abitano l’abisso simbolo del caos primigenio. Nel nostro testo esso simboleggia l’Egitto, serpente d’acqua, che sarà vinto da JHWH nel momento del passaggio del Mar Rosso. Vittoria preannunciata dal fatto che il bastone di Mosè divora quelli dei maghi. Questo prodigio iniziale riveste un forte significato profetico.

    Primo avvertimento: il Nilo rosso 7,14-25

    La scena dell’incontro-scontro tra Mosè e il faraone è emblematica: si rappresenta l’uomo di Dio solo, munito solo della forza della Parola affidatagli, di fronte ai poteri di questo mondo. Il secondo “ammonimento” è dato da Dio al faraone perché: Da questo fatto saprai che io sono il Signore (7,17). La forza del nome di Dio si esercita sul Nilo fiume-dio dell’Egitto da cui proviene tutta la vita del paese. Il Nilo diviene color rosso, il che raffigura il “sangue”: segno ammonitore del sangue dei figli degli ebrei gettati in esso per ucciderli, ma segno anche del sangue degli egiziani che sarà sparso a causa della resistenza alla parola di Dio. Ma i maghi riescono a riprodurre il prodigio: lo spargimento del sangue non è forse sempre possibile a tutti? La conclusione è che il faraone voltò le spalle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto (7,23).

    Ulteriori avvertimenti:  7,26-8,11

    Il terzo avvertimento è costituito da una proliferazione delle zanzare (8,12-15). A questo punto i maghi non riescono a “produrre” le zanzare. Essi devono riconoscere: “E’ il dito di Dio!” (v. 15). Sono eliminati dalla competizione con Lui. Il faraone resta perciò solo a combattere con Dio.

    Il quarto avvertimento è costituito da nubi di fastidiosi i moscerini o tafani (8,16-28). La novità è che ora Dio promette che tale flagello non toccherà il paese dove risiedono gli israeliti, il Goshen, e questo perché il faraone riconosca che io Jhwh sono nel paese” (v. 18). Questo testo è di fondamentale importanza teologica: vi si afferma una presenza e un’azione divina che travalica i limiti del santuario e del paese: Dio è ovunque sia il suo popolo, egli è “in ogni luogo” e ne sempre unico signore. Paradossalmente i moscerini sembrano riuscire a vincere il faraone il quale è costretto a dare l’autorizzazione a Mosè e agli ebrei di andare a “servire il Signore…” ma la condizione è di un permesso temporaneo di soli “tre giorni di cammino”. Permesso che immediatamente viene però revocato.

    Giunge perciò il quinto ammonimento: il bestiame viene colpito dalla peste (9,1-7). I segni si fanno sempre più drammatici in contrapposizione al crescente indurimento del cuore del faraone. La minaccia di morte inizia ad intravvedersi. Anche qui la mano di Jhwh mette da parte i suoi e colpisce i suoi nemici.

    Il sesto avvertimento (9.8-12) è dato dalla comparsa di ulcere sul corpo di persone e animali. Ricompaiono i maghi, ma ironicamente come vittime. Viene confessata la fede nella potenza di Jhwh: la sconfitta dei maghi diviene atto d’ossequio all’opera di Dio nei confronti di chi tenta stoltamente di “scimmiottarla”: I maghi non poterono stare alla presenza di Mosè a causa delle ulcere che li avevano colpiti come tutti gli Egiziani. Ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone, il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva predetto a Mosè (Es 9,11-12)

    Il settimo ammonimento è rappresentato dall’invio distruttivo della grandine (9,13-25). Dal v. 14 al 21 predomina la riflessione teologica: Jhwh è il solo Dio, non ve ne è altri. Qui è’ significativo che Mosè dopo aver annunciato il flagello, indichi al faraone il mezzo per evitarlo. JHWH per bocca di Mosè avvisa ancora una volta con misericordia il faraone:  Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra; invece ti ho lasciato vivere, per dimostrarti la mia potenza e per manifestare il mio nome in tutta la terra. Ancora ti opponi al mio popolo e non lo lasci partire! (9,15-17).

    Qui troviamo una novità importante: alcuni egiziani obbediscono a Mosè perché “temono la parola di Jhwh”. Quindi la conversione del cuore almeno in qualcuno inizia a far breccia portando salvezza: Chi tra i ministri del faraone temeva il Signore fece ricoverare nella casa i suoi schiavi e il suo bestiame; chi invece non diede retta alla parola del Signore lasciò schiavi e bestiame in campagna. (9,20-21). Passaggio importante per il risvolto di apertura universale della fede in JHWH: si afferma che anche ai non ebrei, anzi agli stessi nemici, sia data la grazia di poter udire la parola per ottenere la salvezza (cfr Is 19,16-25; libro di Giona).

    A questo punto nel faraone sembra avvenire un ripensamento: ora egli è convinto di “peccato” e che il “giusto è Jhwh”. Gli risulta chiaro che il paese appartiene a Jhwh e non a lui? Sembrerebbe dall’andamento del testo che la coscienza del faraone evolva nella presa d’atto di questa consapevolezza: Allora il faraone mandò a chiamare Mosè e Aronne e disse loro: «Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli: Pregate il Signore: basta con i tuoni e la grandine! Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre» (9,28).

    Tuttavia l’indurimento del cuore ha ancora il sopravvento nonostante tutto: Il faraone vide che la pioggia era cessata, come anche la grandine e i tuoni, e allora continuò a peccare e si ostinò, insieme con i suoi ministri. Il cuore del faraone si ostinò ed egli non lasciò partire gli Israeliti, come aveva predetto il Signore per mezzo di Mosè (9.34-35). Si rivela tragicamente ci come l’ostilità e la rivalità possano abitare la coscienza dell’uomo di fronte alla Parola tanto da non voler tener conto neppure dei fatti! Lo svolgersi delle situazioni invece di far cedere sembra non far altro che rendere impermeabile il cuore del re.

    Arriviamo di conseguenza all’ottavo avvertimento: le cavallette (10, 1-20). La piaga dell’invasione delle cavallette è presente anche in altri testi biblici come punizione in seguito all’infedeltà al Signore (cfr Na, 3,15-17; Gl 1-2 testo che rilegge il nostro brano). Un’invasione di cavallette significa distruzione dei raccolti e quindi carestia e morte. Ma il risultato presso il faraone è sempre il medesimo.

    Arriviamo al penultimo avvertimento: il dilagarsi sull’Egitto delle tenebre simbolo della morte e del caos (10,21-29). Il testo parla di un forte vento (khamsim) che portando sabbia oscura la luce del sole. Le “tenebre” nella scrittura indicano sempre il “Jom JHWH – il giorno terribile del Signore” (cfr Am 5,18-20; Gl 2,2…) in cui egli giunge come giudice della storia e dell’umanità:

    Guai a coloro che attendono il giorno del Signore!

    Che sarà per voi il giorno del Signore?

    Sarà tenebre e non luce.

    Come quando uno fugge davanti al leone

    e s’imbatte in un orso;

    entra in casa, appoggia la mano sul muro

    e un serpente lo morde.

    Non sarà forse tenebra e non luce

    il giorno del Signore,

    e oscurità senza splendore alcuno? (Am 5,18-20)

    Al v. 23 ancora una sottolineatura importante: ma “i figli di Israele avevano luce nelle loro dimore”. La luce è simbolo della presenza e dell’azione benefica del Signore, segno di salvezza. La Parola di Dio è simbolizzata dalla luce che illumina il cammino del credente (cfr Is, 60,1-3.19-20; Nm 6,25…). Ora mentre tutto all’intorno è tenebra, il popolo di Dio abita un paese di luce: non può essere altrimenti. Sarà la stessa colonna di luce che lo accompagnerà nel cammino verso la salvezza.

    Un duello cosmico per una nuova creazione

    Il fatto che le piaghe siano descritte come fenomeni naturali fa sì che esse ci rimandino anche  alla portata cosmica del conflitto che si sta svolgendo. L’abuso del potere stravolge anche il rapporto con il creato non solo con il proprio simile e con Dio: il creato è coinvolto nel peccato dell’uomo e di conseguenza ne geme e soffre. Tutto questo è sotto il nostro sguardo: quando l’uomo si autoerige ad unico padrone del mondo riduce la creazione a schiavitù stravolgendone il significato vero. La natura offesa e tormentata, deviata dal suo obiettivo, dagli abusi dell’istituzione imperialistica di turno alla fine si ribella in modo clamoroso e manifesta inequivocabilmente la propria appartenenza a JHWH.

    Il racconto delle piaghe mentre descrive questo stravolgimento assume nello stesso tempo l’andamento di una nuova creazione: si parla di acque e di tenebre che sono per l’appunto gli elementi che nel primo racconto della creazione definiscono la situazione del  caos originario (cfr Gn 1,2). In altre parole: l’ostinata opposizione a Dio da parte del faraone riconduce il mondo intero al caos originario. Tuttavia appare che il cosmo sia strettamente alleato con Dio e quindi coinvolto nella sua grande opera di liberazione, in una sorta di nuovo doloroso parto da cui deve nascere la nuova creatura, il nuovo figlio: il popolo libero di Israele (cfr Es 4,22).

    La paziente pedagogia di Dio

    Il libro della sapienza rilegge il racconto delle dieci piaghe come la storia esemplare della pazienza di dio, della sua pedagogia e giustizia nei confronti degli egiziani (Sap 10-15).

    Essa liberò un popolo santo e una stirpe senza macchia

    da una nazione di oppressori.

    Entrò nell’anima di un servo del Signore

    e si oppose con prodigi e con segni a terribili re.

    Diede ai santi la ricompensa delle loro pene,

    li guidò per una strada meravigliosa,

    divenne loro riparo di giorno

    e luce di stelle nella notte (Sap 10,15-17)

    Questa vicenda contiene una delle lezioni bibliche più solenni e complesse sulla provvidenziale strategia divina nella storia del mondo: si tratta di un’economia di salvezza per tutti mediata dal particolare popolo-figlio che Dio si è eletto. E’ della massima importanza che tutti, egiziani e israeliti, vedano e sappiano che lungi dall’amare tutti allo stesso modo, il Signore fa distinzione tra Israele e l’Egitto, fino al punto da combattere contro il faraone e i suoi eserciti.. Israele e non l’Egitto è il “figlio primogenito”. Ma d’altra parte Dio è anche il Dio degli egiziani! Egli ama talmente solo Israele che in lui ama tutte le altre nazioni (Rm 8,28-32; ….). Colui che obbedisce al Signore è visitato dalla sua benedizione, che lo raggiunge attraverso Israele, mentre per colui che disobbedisce, Israele diventa una “trappola”. Ciò è contenuto già nella promessa fatta ad Abramo: Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (Gn 12,2-3). La vicenda delle dieci piaghe, lungi dall’essere una “apertura alle ostilità” da parte di Dio contro l’Egitto è una specie di grande “missione popolare” presso il grande impero idolatra “per far giustizia di tutti gli dei dell’Egitto” (Es 12,12), e per far conoscere al faraone e a tutti gli egiziani il nome e la gloria di JHWH, che essi non conoscono, mentre egli è pure il loro Signore.

    Chiediamo al Signore di assumere nei confronti della storia una visione di fede capace di discernere la sua paziente pedagogia: la benedizione ci giunge attraverso Cristo, il figlio di Israele, ed è offerta a tutti i popoli indistintamente. A me saperla accogliere nell’obbedienza e nella lode.

    Benedetto sia Dio,

    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,

    che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale

    nei cieli, in Cristo (Ef 1,13)

    Posted by attilio @ 10:38

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