• 29 Mar

    La Pasqua di JHWH e di Israele

    Es 11-13

    di p. Attilio Franco Fabris

    I capp. 12-15 del libro dell’esodo custodiscono il cuore della memoria e della speranza della fede ebraica e di quella cristiana.

    Come leggere il violento intervento di Dio nei confronti del popolo egiziano quando nell’ultimo avvertimento assistiamo alla strage di tutti i suoi primogeniti? Occorre anzitutto andare al genere letterario sottinteso. Questo modo di raccontare le cose serve agli autori del testo biblico unicamente a sottolineare per contrapposizione, un’affermazione positiva, che rappresenta il vero scopo del racconto: l’esperienza straordinaria della salvezza. Le vicende esteriori non sono altro che un’illustrazione pubblica e macroscopica di ciò che avviene nella profondità della coscienza, là dove Israele acquista la consapevolezza fondamentale della propria appartenenza a Dio. La morte dei figli degli egiziani non deve servire ad altro che a commentare con un’illustrazione assai efficace il mistero dell’elezione di cui Israele è depositario.

    L’ultima “piaga” rappresenta l’ultimo drammatico atto per ottenere il crollo delle resistenze del faraone alla liberazione del popolo di Jhwh. Dopo di ciò gli israeliti non saranno solo autorizzati ad uscire dal paese, ne saranno addirittura scacciati con forza, non senza prima aver spogliato l’Egitto delle sue ricchezze.

    In ogni esperienza di salvezza corrisponde un inevitabile sentimento di distinzione rispetto al mondo e all’intera umanità: sappiate che il Signore fa distinzione tra Egitto e Israele (11,7).  L’intervento di Dio segna un “giudizio”: di salvezza per coloro che sono di Dio, di perdizione per coloro che sono contro Dio. Le piaghe d’Egitto sono inizio del giudizio di Dio sul mondo. Questo “giudizio” che raggiunge il suo vertice nella pasqua del “figlio unigenito” Cristo Gesù: Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. (Gv 12,31)

    Nell’esodo israele è denominato da JHWH come suo “figlio primogenito” di JHWH (4,22). In tale affermazione si può riassumere tutta la vicenda della liberazione dall’oppressione egiziana. D’ora in poi nulla più potrà sottrarre al popolo di Dio la ferma consapevolezza di essere il figlio privilegiato ed eletto, il “figlio primogenito”. Una contrapposizione già enunciata a Mosé: Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito (4,22).

    Ricordati!

    Nella notte di pasqua nasce il popolo di Israele. Avvenimento fondante la sua identità di cui dovrà fare perenne memoria per conservare la propria identità di popolo salvato e amato dal suo Dio. Le prescrizioni per la celebrazione pasquale non hanno altra finalità che quella di conservare il ricordo di quella notte di veglia: gli israeliti ne faranno “memoriale” (zikkaron” 12,14).  “Ricordati”, dice la prima parola, “zekor”, ovvero compi un rito memoriale che renda sempre attuale questo giorno, perché “oggi voi partite” (al presente).

    Celebrare il “memoria” non è solamente riportarsi al passato con la memoria e il sentimento, ma compiere un’azione che rende presente e attuale la realtà ricordata. Il memoriale si fonda sul passato ma nello stesso tempo lo trascende nell’oggi nella sua valenza salvifica; così che al credente è dato non solo di celebrare ma sperimentare la salvezza sempre operante di Dio. Celebrazione che di conseguenza proietta anche verso il futuro dell’intervento salvifico definitivo di Dio. Infatti la salvezza non è prodotta o condizionata dalla mia presenza al fatto storico, ma dalla grazia dell’azione di Dio che prodotta in quell’evento permane oggi e nel futuro.

    Celebrare la festa di pasqua dunque è uscire dall’Egitto.  Questo esodo-liberazione sarà ri-vissuto ogni anno nel memoriale della Pasqua: “Questo sarà per te come segno sulla tua mano e come un memoriale tra i tuoi occhi, perché la legge di Jhwh sia sulla tua bocca” (v.9). Il fatto della liberazione, l’esperienza di salvezza vissuta, dovrà sempre essere presente a ogni israelita che ne è beneficiario, come se l’avesse scolpito sulle mani e come se lo vedesse sempre davanti ai suoi occhi. Ugualmente avrà sempre sulla bocca, nello spirito e nel cuore, la “thora” che procede da quell’avvenimento fondamentale prolungandolo. Perciò quando i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo atto di culto? Voi direte loro: E’ il sacrificio della pasqua del Signore, il quale è passato (ha saltato) le case degli israeliti in egitto quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case (12,26).

    La novità di questa prima celebrazione della pasqua è data dal fatto che viene celebrato un rito che è memoria di un evento salvifico che deve ancora attuarsi, Israele non è ancora uscito dall’Egitto. Prima  Il rito, la festa, si presenta come coscienza di ciò che sta per compiersi, come coscienza anticipata.  Si celebra una speranza. E’ questa una valenza fondamentale anche del memoriale eucaristico: anticipazione di quel ritorno glorioso del Signore, e del banchetto finale del regno, che la Chiesa attende con impazienza, come la sposa attende la sposa: Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. (1Cor 11,26). Prima viene celebrato il sacramento (12-13) e a esso fa seguito la realtà significata dalla storia (14-15).

    La festa annuncia che l’attesa è terminata: Dio sta per venire. Per questo la celebrazione è contrassegnata da una nota di urgenza (12,11). È a causa di questa urgenza che, in base alla ricostruzione teologica che guida la narrazione, gli israeliti mangiarono pani azzimi: non avevano potuto indugiare (12,39). Il tempo è ormai compiuto, il Signore viene, ed ogni nostra urgenza di libertà troverà finalmente lo sbocco a cui ci ha orientati la speranza di poter vedere “un cielo nuovo e una nuova terra” (Ap 21,1).

    La festa della Pasqua

    E’ la pasqua per Jhwh” (v. 11): la parola “pesah” ha una etimologia difficile. La pasqua ebraica deriva dalla fusione di due feste più antiche: una festa di pastori che consisteva nell’immolazione di un’agnello (pesach) a scopo apotropaico al fine di allontanare i pericoli che minacciavano il gregge e quindi la vita stessa dei pastori; e nel successivo banchetto notturno contrassegnato da danze (saltare: pasach). La seconda festa era invece una festa agricola in cui per sette giorni si mangiava pane azzimo. La prescrizione di mangiare pane non lievitato viene dalla concezione mediorientale a riguardo della purezza: è impuro e cattivo tutto ciò che è causa di corruzione, di disgregazione, ovvero di morte (cfr 1Cor 5,6-8) quindi ciò che è lievitato. Può forse aver aggancio anche nella concezione antica che nulla doveva sussistere dell’antica raccolta, e che occorre ricominciare tutto di nuovo, come rito augurale di prosperità e abbondanza.

    Israele ha radicalmente trasformato il significato di queste feste riconducendole ad un preciso evento storico: l’uscita dall’Egitto. Nasce così la Pasqua ebraica, che non è più festa di pastori o di agricoltori ma festa di un popolo che fa memoria della sua nascita e liberazione.

    La morte dei primogeniti

    Il racconto della decima piaga assume un particolare valenza teologica in forza della connessione con la prima celebrazione della festa di pasqua (12,1-28).

    La distinzione dei primogeniti è resa pubblica ed esplicita mediante il segno con cui ogni capofamiglia ebreo traccia con il sangue dell’Agnello sui due stipiti e sull’architrave della porta di casa (12,7.22). Il sangue è simbolo della vita: offerto esso risparmia dalla morte. Il NT parlerà del “sangue di Cristo” mediante il quale siamo stati riscattati, ovvero salvati:

    Cristo è il nuovo Agnello immolato dal cui sangue tutti saranno riscattati:

    secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza. (1Pt 1,2)

    Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. (1Pt 1,18-19)

    Il “riscatto” di questo genere è collegato alla storia della “decima piaga”: (13,1s.11-16).  Fare dono a Dio di tutto ciò che è “primo” è pratica religiosa antichissima e intensissima nel suo significato: è riconoscere che tutto proviene da Dio, che ogni vita è da lui e a lui deve ritornare. Per Israele questo acquista un ulteriore valore: ogni primogenitura “riscattata” acquista il valore di memoria della salvezza: “per ricordare che con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto”. (14,16).  Perciò: “santificami per me.. consacrami tutti i primogeniti”: cioè dammeli, riservali a me solo, perché “sia uomo che animale, tutto mi appartiene”. Ora questo come sommo sacrificio ciò sarebbe richiesto anche per gli uomini: bisogna salvaguardare i diritti di Dio! Il mezzo adottato per ottemperare a questa esigenza sarà l’istaurazione della legge del “riscatto”, effettuato secondo il rito di sostituzione (Cfr Es 34,19-20).

    Questo atto di riscatto è espresso con il verbo “padah”: che sta ad indicare il liberare con riscatto, da cui sciogliere, liberare, salvare. Jhwh ha manifestato la sua potenza e i suoi diritti con la morte dei primogeniti, uomini e bestie, degli egiziani; i primogeniti di Israele ne sono stati riscattati, non sono “passati a Jhwh” (v. 12). Questo privilegio deve essere compensato con un rito perenne di “riscatto”. Rito che simbolicamente ricorderà l’azione liberatrice di Dio  che si ripete generazione dopo generazione. Questo “riscattare” i primogeniti, le primizie, sarà memoriale perenne dell’azione salvifica di Dio: Maria e Giuseppe ottempereranno anch’essi a questa legge quando presenteranno al Tempio il figlio Gesù:Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore,  come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore” (Lc 2,22-24).

    Celebrare la Pasqua è essenziale: la liberazione dall’Egitto diviene prototipo anche per noi della liberazione da tutte le forme di male, da tutti gli asservimenti e schiavitù, da tutto ciò che si oppone alla vita, e dunque liberazione dal male e dalla sua massima manifestazione che è la morte. Pasqua, passaggio-salto di danza come è nel crocifisso bizantino, dalla schiavitù alla liberazione, dalla morte alla vita, pasqua del crocifisso risorto. Non per nulla Cristo  interpretò tutta la sua vita alla luce della pasqua del suo popolo (cfr Mc 14,1ss; Lc 22,14…), lasciando a sua volta ai suoi il memoriale della pasqua definitiva. Questa fu sicuramente la catechesi fondamentale che egli fece ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27).

    La liturgia cristiana nella grande veglia di Pasqua in cui le due pasque si illuminano a vicenda e si rimandano canta nell’Exultet: “Questa è la vera Pasqua, in cui è ucciso il vero Agnello, che con il suo sangue consacra le case dei fedeli… Questa è la notte che salva su tutta la terra i credenti nel Cristo dall’oscurità del peccato e dalla corruzione del mondo, li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro”.

    Posted by attilio @ 08:46

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