• 31 Gen

    MA LIBERACI DAL MALE


    di p. Attilio Franco Fabris

    Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono (Gn 1,31).

    Nonostante questa affermazione posta nella prima pagina della Scrittura Gesù ci fa invocare, per l’affrettarsi del Regno, al Padre la liberazione dal male: Liberaci dal male!

    E’ nell’esperienza comune dell’uomo di ogni tempo una suddivisione della realtà in cose buone e cattive.

    To’b – agathos è tutto ciò che è buono e bello, ciò che sentiamo piacevole.

    Al contrario ra’ – poneròs – kakòs è ciò che è portatore di sofferenza, dolore, e soprattutto morte.

    UNA DIVERSITA’ DI RISPOSTE ALLO STESSO PROBLEMA

    Di fronte al problema del male che ogni giorno, attraverso l’esperienza personale e i mass-media , l’uomo si trova ad affrontare egli avverte un certo imbarazzo: se da un lato ne è affascinato per la prospettiva dell’indipendenza, dell’autonomia, del potere dall’altro se ne sente la minaccia e il sapore di morte.

    Di fronte a tale ambivalenza è diverso il modo di posizionarsi di fronte al problema del male.

    Una prima possibilità è che l’uomo mettendo a tacere la propria coscienza, richiamo nostalgico della propria dignità e della casa del padre, faccia volutamente la scelta del male come percorso di realizzazione di sé. Un cammino che noi crediamo condurre al nulla, alla disperazione e “dannazione”.

    Da un altro lato l’uomo può sentirsi schiacciato, impotente di fronte ad un male esterno ed interno che lo coinvolge e spesso travolge; da qui una passiva rassegnazione, un incrociare le braccia misconoscendo le proprie responsabilità.

    Da un altro lato l’uomo può aggredire colui o coloro che ritiene responsabili del male: può essere l’altro che mi sta di fronte, oppure un gruppo, un popolo; e questa è una strada che ha risposto al male con altro male.

    Oppure vi può essere un altro responsabile: Dio. Il male è un difetto della sua creazione. Nel IV sec.  A.c. Epicuro affermava: O Dio vuole sopprimere il male e non può e allora è impotente… Oppure non vuole e non può, e allora è un “niente”… Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio… O infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?

    UNA LETTURA DIVERSA

    La risposta della Rivelazione biblica è diversa; essa ci parla di un ”mistero dell’iniquità” e in quanto tale ci rimanda ad una spiegazione che va al di là dei nostri ragionamenti e deduzioni.

    La Scrittura ci presenta la realtà tragica dell’uomo: creato nella libertà per il bene e in un mondo buono egli ha scelto una strada diversa: fin dall’origine ha scelto il male.

    Ha cercato il bene nelle creature al di fuori della volontà di Dio, ha preteso di ergersi a dio lui stesso, nel diritto e capacità di decidere autonomamente del bene e del male. E’ questa in fin dei conti l’essenza del peccato.

    La conseguenza, subito sperimentata già dai progenitori, è stata un frutto di sofferenza e di morte (cfr. Gn 3,16-19). Una conseguenza scaturita dal fatto che liberamente staccatosi dalla fonte della vita l’uomo si è ritrovato immediatamente solo e diviso.

    Questa scelta ha fatto sì che il male potesse entrare, come in una breccia ormai insanabile, nel mondo e qui proliferare. L’umanità diviene talmente cattiva da “far pentire” Dio d’averla creata (Gn 6,5). L’uomo non ha più saputo arginare il male.

    L’uomo sperimenta duramente che ormai “il mondo intero è in potere del maligno” (1Gv 5,19).

    Per ogni singolo uomo, per tutta l’umanità, si spalanca la voragine dell’esperienza della lacerazione, di una  schiavitù dalla quale non ci si riesce ad affrancare..

    Il poeta Ovidio, contemporaneo di s. Paolo, scriveva: “Vedo il bene e lo approvo, ma seguo poi le cose peggiori” (Metamorfosi, 7), e ancora il filosofo Seneca che in una sua lettera dice: “Perché mai, caro Lucillo, mentre tendiamo a una meta siamo tirati in una direzione opposta e spinti là donde vorremmo fuggire? Qual è mai la forza che è in continuo contrasto col nostro animo e non ci lascia voler niente con fermezza?… Nessuno da solo è abbastanza forte per liberarsene: è necessario che qualcuno gli dia una mano, che qualcuno lo tragga fuori” (Ep. 52).


    UNA DRAMMATICA SITUAZIONE

    C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7,18).

    E’ una frase lapidaria tratta dall’epistolario di Paolo; essa non riguarda solo l’esperienza dell’apostolo ma quella di tutti noi.

    Si tratta di una situazione di cui prendiamo coscienza innumerevoli volte lungo l’arco, non dico della vita, ma di una sola giornata.

    Questa lacerazione insanabile, questa drammatica impotenza invoca liberazione e guarigione: Chi mi libererà?

    Paolo arriva perciò ad affermare che ormai nell’uomo vi è una legge contraria a quella dello Spirito. L’apostolo la definisce la “legge della carne”. Si tratta di un dinamismo sfrenato di amor proprio, di desideri, di concupiscenze. A questo l’uomo è attratto e asservito.

    Si giunge ad una concezione profonda della realtà del peccato. Esso non consiste solo in qualche violazione o trasgressione della Legge, è qualcosa di ben più grave. E’ realtà che incatena come una ragnatela tutti e tuttoNon c’è un giusto, neanche uno!” (Rm 3,10); “Non c’è sulla terra un giusto che faccia solo il bene e non pecchi” (Qo 7,20). (anche il creato)

    La Legge non fa altro che portare l’uomo a prendere consapevolezza di questa malizia e lontananza da Dio e dell’impossibilità da se stessi di liberarsi da tale tragica situazione. In un certo senso essa acutizza l’angoscia di un’umanità incapace di “scegliere e di fare” il bene: Nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,23).


    UN GRIDO CHE INVOCA LIBERAZIONE

    Ecco allora il grido di Paolo: “Oh me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24).

    Infatti “la resistenza della natura è cosa sconcertante. Sappiamo tutti che la peccaminosità, cioè la ricerca selavaggia, animale della propria soddisfazione e affermazione, è per eccellenza ciò che ci rende infelici. La peccaminosità è quindi alla coscienza dell’uomo una cosa intollerabile, un entrare in un inferno; per questo essa provoca la ricerca sfrontata di anestetici psichici, di divertimenti e compensazioni. “ (A. Ledrus)

    Questa liberazione invocata ha trovato finalmente risposta nella misericordia di Dio: “Siano rese grazie a Dio mediante Gesù Cristo Signore nostro” (Rm 7,25); “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria mediante il Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 15,57).

    Non si tratta di una liberazione raggiunta mediante la padronanza di sé in una ricerca di autocontrollo come dicevano gli stoici, non propone la via della morte come soluzione di un dramma insolubile (come per Platone), non rimanda solo ad un futuro escatologico in cui finalmente l’uomo sarà liberato (come nel giudaismo).

    Questa liberazione si è già verificata, è già stata introdotta nella storia, una “nuova creazione” è già in atto.

    All’uomo è stato dato un “cuore nuovo” capace di rispondere alle esigenze della nuova alleanza. Tale liberazione trova in Cristo Gesù morto e risorto la sua rivelazione ed attuazione. Il credente innestato in Cristo mediante la fede e i sacramenti partecipa già della sua liberazione e della sua vittoria.

    Il Battesimo è il nostro essere rigenerati alla vita nuova di figli non più schiavi del male.

    La Confermazione è la forza dello Spirito che ci rende capaci della lotta contro il potere di Satana.

    L’Eucaristia è il nostro essere innestati in Cristo vincitore della morte e del peccato, ovvero di ogni male. Il suo corpo e sangue ne sono segno e pegno.

    Nel sangue di Gesù si è manifestata la grazia del Padre che ha sottratto l’uomo alla signoria schiavizzante del Male.

    Vorrei accennare pure al sacramento della Penitenza come luogo privilegiato in cui il credente sperimenta la vittoria di Cristo sul suo male e sul suo peccato, luogo di misericordia e di festa in cui è dato al credente di credere nella forza della misericordia del Padre più grande di ogni male.

    Niente ormai può nuovamente incatenare il credente, strapparlo “all’amore di Dio che si è manifestato in Cristo Gesù Signore nostro” (Rm 8,39): è in lui la radice della nostra libertà. “Non c’è più dunque nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù. Infatti la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2).

    LA LIBERAZIONE COME DONO

    La liberazione dal male non è dunque frutto dei nostri sforzi, essa è un dono posto in noi, un dono da chiedere incessantemente affinché la vittoria di Cristo sia rinnovata continuamente in noi: “Liberaci dal male”.

    Tale liberazione è frutto di grazia immeritata: “mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Questo non toglie che essa non domandi una nostra collaborazione all’opera della grazia: “la domanda a Dio di liberazione dal male diviene sincera quando noi stessi ci impegniamo nella mortificazione e nella positiva abnegazione delle soddifazioni con cui nutriamo la nostra esistenza, e nella rottura di quei condizionamenti interiori ed esteriori che, alla luce della parola di dio, riconosciamo come peccaminosi: forze di palese o mascherata schiavitù” (A. Ledrus) .

    Il male da cui chiediamo di essere liberati è anzitutto dentro di noi. Chiedere di essere liberati dal male significa chiedere di essere liberati da tutto ciò che in noi si frappone all’opera di liberazione che il Padre per Cristo ha per noi predisposto. Lutero diceva: Qui credit in Christum evacuatur a seipso – Chi crede in Cristo deve svuotarsi di se stesso.

    Significherà ancora coraggio di coinvolgersi in una lotta contro il male non solo presente dentro ciascuno di noi ma anche fuori di noi: quel male che si rivela in strutture di ingiustizia, di sopraffazione, di violenza… quante volte il grido della Chiesa si è alzato contro il male presente nel mondo, un grido coraggioso che ha comportato spesso il sangue di tanti martiri.

    Chiedere una liberazione dal male per che cosa? Per qual fine? Non si tratta solo di eliminare qualcosa, una macchia o una sporcizia; è qualcosa di molto di più! Domandiamo una presenza che garantisca la liberazione ottenuta e sia essa stessa la novità ottenuta: è Gesù questa novità.

    Ormai l’uomo, trasformato dalla grazia, può “fare il bene” (cfr. Gal 6,9s); può “fare opere buone” (cfr. Mt 5,16).

    In forza delle promesse battesimali il cristiano ha rotto definitivamente con l’opzione di Adamo.

    Ma attenzione! Essere liberati dal male non significa non sentire più l’impulso del male, la sua attrattiva, la possibilità di compierlo.

    Non perché si sperimenta questo significa che la nostra adesione a Cristo sia inutile.

    Il credente invece si pone alla luce di Cristo, sapendo che in lui il peccato è già stato sconfitto da Cristo. Siamo ormai irrevocabilmente votati alla sua signoria.

    E’ una richiesta possibile anche al credente che sperimenta in sé la fragilità e la disposizione di innumerevoli cadute. Egli può ripetere le parole della Preghiera del Signore in tutta verità, nella certezza che Dio gli rimane sempre propizio, che il suo essere  peccatore è oggetto delle premure della grazia. E’ certo che il Padre “non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva”.


    LIBERACI DAL MALIGNO

    L’ultima domanda del Padre nostro la ritroviamo anche nella preghiera stessa di Gesù per i suoi discepoli: Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno (Gv 17,15).

    Ci vogliamo inserire in questa preghiera che si fa solidale con tutta l’umanità bisognosa di liberazione.

    Il termine poneròs con cui si definisce il “male” è equivoco: grammaticalmente può essere inteso sia al genere neutro come a quello maschile.

    Il “mistero di iniquità” nella rivelazione non viene inteso solo come una semplice assenza di bene; esso è una forza, un’entità personale, che asservisce l’uomo e corrompe il mondo.

    Il catechismo della Chiesa Cattolica afferma: Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il “diavolo” (“dia-bolos” colui che “si getta di traverso”) è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta da Cristo. (n. 2851).

    Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, essa gli si oppone. Ha iniziato una guerra incessante che durerà quanto la storia. Si avventa “contro la Donna”, ma non la può ghermire. “Allora si infuria contro la Donna” e se ne va “a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12,17). E’ per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano: Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20): la sua venuta infatti ci libererà dal maligno” (CCC 253).

    Teniamo tuttavia ben ferma la certezza che se il demonio regna nel mondo lo fa solo per mezzo della malizia umana. Nella misura in cui la malizia viene ammessa e prevale nel nostro cuore si cade sotto l’influenza dominatrice di Satana: Il Male non è infatti tanto forte da potersi opporre alla potenza del signore, ma ha potuto nascere in virtù della disobbedienza ai comandamenti (Gregorio di Nissa, Il fine cristiano).

    L’entrare nel regno include una violenza, una volontà risoluta nel voler collaborare con la grazia al fine di vincere tali tendenze-passioni (Mt 11,12: Dal tempo di Giovanni il Battista fino ad ora il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti vogliono impadronirsene). E’ questo il grande capitolo che la teologia spirituale riserva all’ascesi, indispensabile componente di ogni cammino che voglia dirsi autenticamente spirituale.

    “Le nostre affezioni disordinate, i nostri favoreggiamenti allo spirito laico e borghese, i compromessi con ogni forma di potere sono le catene delle quali il maligno tiene uno degli estremi per ritardarci, farci indietreggiare, vacillare e cadere sul cammino della salvezza. Rotti questi legami, Satana non ha più potere su di noi” (A. Ledrus).

    Paolo inviterà i cristiani di Efeso: Rivestite l’armatura di Dio onde poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra lotta non è con avversari di sangue e carne ma contro i principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male” (Ef 6,11-12).

    Da qui il dovere di una vigilanza incessante: Siate sobri, vigilate, il vostro nemico il diavolo, come leone ruggente si aggira, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede (1Pt).

    In questo combattimento contro il male è necessario rinsaldare la virtù della speranza, che vinca ogni nostro scoraggiamento quando sperimentiamo la nostra debolezza e sconfitta. Occorre sempre ravvivare la speranza nella vittoria di Cristo a cui già partecipiamo in virtù della fede e del battesimo.

    E’ Cristo vincitore che alla sua comunità e ad ogni discepolo ripete ancora oggi: Ecco che io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e ogni potenza del nemico, e niente vi nuocerà (Lc 10,19).

    Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato De Sacramentis: Il signore che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a dio, non teme il diavolo: “Se infatti Dio è con noi chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)” (5,30).

    Siamo discesi con quest’ultima domanda nel profondo della nostra povertà, l’abisso del male in cui rischiamo di rimanere avvinghiati. Il Padre nostro ci ha fatto ripercorrere tutti i grandi temi della fede, ora si conclude qui, con una invocazione al Padre affinché doni ai suoi figli la pace, la vita, la gioia, l’allontanamento da tutto ciò che si può frapporre tra noi e Lui.

    In quest’ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l’umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell’attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell’umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha “potere sopra la Morte e sopra gli Inferi” (Ap 1,18), “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8) (CCC 2854).

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Come ti poni di fronte al problema del male presente in te e intorno a te. Che tipo di risposta cerchi di darvi? (nessuna risposta, rassegnazione, colpevolizzazione di altri, o di Dio, scoraggiamento…).

    2.In quale misura ti senti responsabile del male?

    3.Il male presente in te e nel mondo fa scaturire l’ansia della liberazione? Fa nascere l’invocazione: Liberaci dal male? In quale misura vivi la certezza che la forza di Dio è la tua forza, che in Cristo sei già vincitore del peccato e della morte? Cosa scaturisce da questa certezza? Oppure te ne senti schiacciato?

    4.La presenza e l’agire di Satana nel mondo è un dato di fede. San Pietro ci mette in guardia: Siate sobri e vigilate, il vostro nemico il diavolo si aggira! Cerchi di arginare la sua azione tramite una giusta ascesi?

    5.In quale misura ti lasci coinvolgere nella lotta contro le varie forme di male presenti nel mondo? Cosa potresti fare di più o meglio?

  • 30 Gen

    NON CI INDURRE IN TENTAZIONE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Una conclusione questa della preghiera del Signore che apparve subito alquanto strana se paragonata a tutte le preghiere giudaiche. Esse non terminano mai, per così dire, al negativo, ma sempre con una benedizione o una richiesta di pace. Nel Padre Nostro, quasi si discendesse una china sempre più profonda, al termine ritroviamo il richiamo alla tentazione e al maligno!

    Un disagio dimostrato già in alcuni manoscritti del N.T. e apostolici. La Didaché, un documento importantissimo databile alla stessa epoca degli ultimi scritti canonici, testimonia l’aggiunta di alcune comunità di una solenne esaltazione della regalità di Dio: Poiché tuo è il Regno, tua la potenza e la gloria nei secoli (8,3).

    UN DIO CHE CI TENTA?

    Come se non bastasse questo la stessa richiesta di “non indurci in tentazione” risulta poco chiara. Immeditamente viene da domandarsi: come mai Dio metterebbe alla prova l’uomo?

    Diamo uno sguardo ai testi biblici e notiamo un fatto sconcertante: vi è detto che sono i giusti ad essere provati, mai gli empi. La tentazione è un “privilegio”, un appannaggio solo dei “giusti” e dei pii, di cui Giobbe è il primo rappresentante.

    Figlio , preparati alla tentazione. Accetta quanto ti capita, sii paziente nelle vicende dolorose, perché Dio prova gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore (Sir 2,1.4-5).

    Ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe (Gdt 9,25-26).

    Dio può tentare con la prova sofferta ma anche col benessere:

    Quando ti sarai saziato, quando avrai visto il tuo bestiame grosso e minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento ed il tuo oro e abbondare ogni cosa, il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dmenticare il Signore tuo Dio (Dt 8,12-14).

    A questo punto ci domndiamo: se allora le tentazioni sono utili alla crescita della fede dei giusti e dei “pii”, perché domandare a Dio di “non indurci in tentazione”?

    A questo punto occorre farci una domanda: qual’è la tentazione e il male dal quale chiediamo di essere liberati? Sono forse le contrarietà, le difficoltà della vita, le malattie, le disgrazie, la vecchiaia? E ancora: Perché chiedere di essere liberati dal male se lui lo può fare in un attimo?

    Dio è presentato talvolta nelle vesti del “tentatore”.

    Un esempio classico è il confronto con 2Sam 24,1 nel quale si dice che è Dio ad incitare Davide al censimento. In  1Cr 21,1 si interprterà lo stesso gesto come proveniente dallo spirito cattivo avversario di Dio.

    Con questo si vuole affermare una verità di fondo: che nulla sfugge al progetto di Dio e che anche le azioni malvage sono da lui utilizzate al fine di compiere i suoi disegni (es Iil Signore indurì il cuore del faraone” Es 4,21, ovvero “Dio permise che il cuore del faraone si indurisse”).

    Sono molti i testi in cui Dio è presentato come colui che “mette alla prova” (cf Gn 22,1-19; Es 15,25; 16,4; Dt 8,2; Gd 2,22…). In questi testi si dice che Dio “mette alla prova”, ma non per provocare al male.  Si vuole affermare che Dio vuol far crescere nella fedeltà il suo popolo e i suoi eletti attraverso tutti gli avvenimenti in cui si trovavano coinvolti. Pur trattandosi di fatti provocati da fattori umani, la Scrittura li presenta come “tentazioni” di Dio in quanto situazioni che imponevano scelte decisive e sofferte in suo favore o contro di Lui.

    E’ DIO O IL DIAVOLO?

    Nel VI sec. Israele viene a contatto con le culture e religioni persiane.

    Si fa strada la concezione che il male esistente nel mondo sia causato dall’avversario di Dio: Satana. Una figura che aiuterà a purificare notevolmente il linguaggio teologico della Bibbia.

    Si comprende che situazioni di male, di peccato non possono essere imputate a Dio ma al suo avversario: è questi che diviene allora il “tentatore” per eccellenza (cf Sp 2,24; Gb 1-2;…)

    Rimane sì una tentazione che costantemente viene attribuita a Dio: quella derivante dalla sofferenza, dalle disgrazie, dalle contrarietà della vita:

    Figlio, se cominci a servire il Signore, preparati alla prova (Sir 2,1)

    Dopo essere stati castigati un poco saranno largamente premiati, poiché Dio li ha provati come oro nel crogiulo e li ha trovati degni di sé (Sap 3,5).

    Per questo si giungerà addirittura a chiedere la prova come occasione di crescita di fede:

    Saggiami, Signore, e mettimi alla prova, esamina col fuoco le mie reni (Sal 26,2).

    Una preghiera rischiosa e da farsi con molto discernimento.

    Esiste un racconto ebraico molto esplicativo al riguardo di rabbi Jehuda: “Un giorno Davide si lamentò con Dio dicendo: “Signore del mondo, perché si dice: Dio di Abramo, Dio d’Isacco e Dio di Giacobbe e non Dio di Davide?”. Il Signore rispose: “Perché essi sono stati messi  alla prova e tu no”. Allora Davide gli disse: “Signore, metti alla prova anche me, tentami, come dice il salmo”. Dio acconsentì alla preghiera, gli fece incontrare Bersabea moglie di Uria e…”.

    Nel Nuovo Testamento l’immagine di un Dio che “tenta” l’uomo è completamente abbandonata:

    Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio! Perché Dio non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce” (Gc 1,13-14).

    Così la tentazione è attribuita alle seduzioni dello spirito del male (cf 1Pt 5,5-9; 1Cor 7,5; Lc 8,13).

    Certo rimane saempre la convinzione che la prova svolge un ruolo importante nel cammino di purificazione della fede:

    Considerate motivo di perfetta letizia il fatto di essere sottoposti a ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la costanza… Beato l’uomo che sopporta la prova, perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita” ( Gc 1,2-3.12).

    Esultate pur essendo afflitti da svariate prove… Non stupitevi della persecuzione che si è accesa in mezzo a voi per provarvi, quasi che vi succedesse qualcosa di strano. Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi (1Pt 1,6; 4,12-13).

    Teniamo però presente che anche in questo caso le “tentazioni” non sono attrbuite a Dio. E’ la fede in lui  che aiuta ad affrontarle e superarle.

    COS’E’ LA TENTAZIONE?

    Il termine “tentazione” nell’accezzione comune richiama immeditamente una provocazione al male, al peccato. Da qui la difficoltà a capire come Dio possa “indurre” al male.

    Ma un’analisi dei testi biblici fa risaltare chiaramente che esistono diversi tipi di tentazione.

    C’è quella che ha come scopo quello di farci cadere, e Dio non ne può essere l’autore.

    Vi è una seconda tentazione il più delle volte tesa dall’uomo a Dio che si presenta come una volontà negativa di verifica: “Se… allora….”. Dio non si sottomette mai ad essa.

    C’ un’altra tentazione che non presenta caratteristiche di occasione di male e scelta del bene. E’ quella che si offre all’uomo come un’opportunità di crescita, di purificazione, di miglioramento. Questa tentazione contiene sì implicitamente il rischio della caduta nel male o nell’errore ma è pure passaggio obbligato per una crescita. Questa tentazione, nel Nuovo Testamento, non è presentata come proveniente da Dio. Dio ne insegna invece la via d’uscita, dona la forza per affrontarla e superarla (cf 1Cor 10,13).

    La medesima situazione che da parte di Satana è sfruttata come “tentazione”, cioè insidia per trascinarci all’infedeltà, rappresenta una “purificazione” da parte di Dio per consolidare la stessa nostra fedeltà.

    Facciamo poi attenzione che la lingua ebraica non distingue tra volontà causativa e volontà permissiva. Quando la Scrittura dice che Dio “tenta”, ciò equivale a “permette la tentazione”. E quindi anche l’espressione del Pater traducendola va intesa correttamente così: Non permettere che siamo indotti in tentazione.

    Nel Pater non chiediamo solo di non cadere, ma addirittura di “neppure entrare” nella tentazione di abbandonare la sequela di Gesù. “Una richiesta questa che implora lo Spirito di discernimento e di fortezza” (CCC 2846).

    Un’antica preghiera ebraica contemporanea a Gesù diceva: Non indurmi al potere del peccato, né alla forza della colpa, né alla violenza della tentazione, né al disprezzo. Fa’ in modo che io sia guidato dall’istinto buono e che l’istinto cattivo non mi domini (Ber.b. 60b).

    LA GRANDE TENTAZIONE

    Ancora una volta vediamo come il Padre Nostro ci riaggancia alla preghiera di Gesù nel Gethsemani. Significativamente l’ambito in cui il Pater viene a collocarsi in modo perfetto, ci dicono gli esegeti, sembra essere proprio il racconto della dolorosa passione del Signore.

    Se Gesù ci fa chiedere di “non essere indotti in tentazione” questo è perché lui stesso ha provato la violenza della tentazione: Sa compatire le nostre infermità perché è stato tentato in tutto come noi (Ebr 4,15)

    Nel Padre nostro non chiediamo al Padre che prepari per noi un cammino diverso, più comodo e meno rischioso di quello del Figlio suo Gesù. Imploriamo da lui invece di non essere lasciati a soccombere tristemente e mortalmente alla tentazione.

    Quale tentazione in modo particolare? Non certo dalla nostre piccole colpe o difetti quotidiani anzitutto! La grande tentazione è quella delle defezione, dell’abbandono della sequela di Cristo, della sua sapienza al fine di abbracciare quella del mondo. Non scorderemo che ogni cristiano sarà inevitabilemnte tentato dalle tentazioni che furono già di Gesù nel deserto e nell’orto degli Ulivi.

    E’ questa la “prova”, la “tentazione” per antonomasia. Tutte le altre tentazioni in fin dei conti sono relative a questa: quella di tracciare un nostro cammino, lontano da quello corrispondente alla volontà del Padre. In fin dei conti è un voler uscire dalla sequela crucis.

    Scrive O. Clèment: La grande tentazione sarebbe piuttosto di sentirsi guariti dalla malattia di Dio, guariti dall’interrogativo, alleggeriti del mistero, senza angoscia né stupore”

    La nostra scelta di Cristo non è fatta una volta per tutte, deve essere rinnovata e attualizzata in ogni momento e circostanza della vita.

    Il tempo dell’attesa del ritorno del Signore nella gloria è doloroso tempo di prova per la comunità dei discepoli.

    “Allora vi consegueranno ai supplizi e vi uccieeranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda” (Mt 24,9-10)

    Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,3-4)

    Gesù disse loro: Tutti rimarrete scandalizzati, poiché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse” (Mc 14,27)

    L’esistenza della comunità cristiana è e sarà continuamente minacciata dal male fuori e dentro di lei; guai se il Padre non intervenisse col dono dello Spirito di fortezza. “Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo” (Ef 6,11); “Il Signore sastrappare dalla prova gli uomini pii” (2Pt 2,9) (nb qui si parla di una prova non tanto di prova particolari); “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze, ma insieme alla tentazione vi darà anche il modo di uscirne bene, con la possibilità di sostenerla” (1Cor 10,13).

    Gli eletti sono i discepoli che sono stati “provati” dalla tentazione, sono passati “attraverso la grande tribolazione”, e che “hanno perseverato sino alla fine” (Mc 13,13).

    Così la tentazione è paragonata al vaglio: “Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliavi come il grano” (Lc 22,31).

    Vediamo che questa richiesta della preghiera del Signore si aggancia direttamente al desiderio dell’attuarsi definitivo del Regno: “La nostra domanda s’inserisce interamente nell’aspirazione di desiderio per la venuta del regno, che fa di essa una preghiera piena di fiducia nella vittoria” (H. Schurmann).

    L’ARMA DEL CRISTIANO

    Quale l’arma affidata da Gesù al discepolo contro l’insidia di questa tentazione? E’ la preghiera: Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mc 14,38). Si chiede di neppure entrare e non solo di non cadere nella tentazione!

    La preghiera incessante manifesta la nostra fiducia nella fedeltà incrollabile del Padre che non lascia il proprio figlio soccombere alla prova(“Ti basta la mia grazia” si sente dire Paolo 2Cor 12,7-9). La tentazione diviene pericolo quando si tralascia la preghiera. La prova sarà “troppo forte” soltanto se, venendo meno la preghiera, non otteniamo quell’aiuto  che Dio ha predisposto ottenessimo tramite essa.

    “La tentazione c’è: il cristiano deve sapere che c’è e pregare di non cadere in una situazione fatale per la sua vocazione di figlio di Dio. Il discepolo di Gesù, il povero sempre minacciato da colui che è “forte”, deve domandare a Dio ogni giorno, dome domanda il pane, la forza per non essere travolto nella prova, la forza per restare fedele alla sua vocazione di figlio di Dio; la domanda per sé e per gli altri, che possono essere tentati come lui” (M. Ledrus).

    Afferma il Catechismo: Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. E’ per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul tentatore fin dall’inizio e nell’ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza” (n. 2849).

    La nostra vigilanza è in vista della “lotta contro un nemico insidioso, non “contro carne e sangue, ma contro i principati e le potestà, contro le insidie del diavolo” (Ef 6,11-12), il quale non mira ad altro che a renderci disattenti, a tenerci addormentati per farci perdere la speranza e farci cadere nei gorghi di morte. Chi può lusingarsi di non esserne avviluppato” (M. Ledrus)


    SCHEDA DI LAVORO

    *        Come reagisci dinanzi alla tentazione? Ricorri alla preghiera?

    *        La tentazione trova il suo terreno di crescita nella nostra debolezza, nel nostro orgoglio, e nel voler fare a notro modo rivendicando una “nostra” libertà.

    Come vivi la tua libertà? Come la concepisci?

    Come sperimenti la lotta in te tra la “l’uomo carnale e lo spirituale”, tra il “vecchio e nuovo Adamo”?

    *        Riesci a leggere la prova, la tentazione, come occasione di crescita umana e spirituale? Ne vedi gli aspetti positivi?

    *        Beato chi persevererà sino alla fine. Così è stato per Gesù, gli apostoli e tutti i santi. Possiedi questa fede? La nutri con la preghiera, la meditazione della Parola, la carità attiva?

    *        Sai essere vicino con la preghiera e la carità a chi attraversa la prova, la tentazione? Sei portato a giudicarlo, a condannarlo? Trovi difficile accoglierlo nella sua debolezza?

    *        Leggi e medita Mc 14,32-42. Cosa ti suggerisce per il tuo cammino di fede? Cosa ti senti chiamato a cambiare nella tua vita?

    • Alla fine scrivi una preghiera di commento a questa penultima richiesta del Padre Nostro.

  • 29 Gen

    RIMETTI I NOSTRI DEBITI


    di p. Attilio Franco Fabris

    “Ho infranto senza saperlo, la legge del mio dio, ho compiuto, senza saperlo, ciò che la mia dea detesta. I miei peccati sono numerosi, grandi sono le mie mancanze, ma io non conosco gli sbagli che ho commesso… I miei peccati sono sette volte sette… Perdona le mie mancanze e che io canti le tue lodi”. Si tratta di una invocazione di un uomo di 4000 anni fa, rivolta alle sue divinità. Quest’uomo prova una viva coscienza di un errore, uno “sbaglio” non voluto, non conosciuto, di cui sente di portare le conseguenze; ed è da questo senso di colpa che nasce l’invocazione del perdono.

    Si tratta di un piccolo esempio al quale potrebbero essere aggiunti tanti altri in cui ritroviamo una coscienza di peccato presente in tutti i popoli antichi. Coscienza di “peccato” però con una comune caratteristica: essa è intesa come trasgressione materiale di una proibizione posta dagli dei(i tabù). La loro infrazione comporta colpa, condanna, morte.

    Se all’inizio il popolo di Israele risentiva di questa concezione culturale (cfr. es. Nm 15,22-29; 2Sam 6,6ss) ben presto venne superata alla luce di una concezione diversa, più profonda, relazionale del peccato: esso non è più infrazione di un “tabù” ma rottura di un rapporto con Dio. Per Israele la concezione di peccato diviene inseparabile dalla dottrina dell’Alleanza.

    Perché nell’uomo esiste questo “senso della colpa”? Probabilmente perché da sempre l’uomo ha sperimentato una grande debolezza e fragilità, la propensione a fare il male.

    Non bisogna meravigliarsi di incontrare, in questo senso, espressioni pessimistiche nella Scrittura:

    Ogni pensiero concepito dal loro cuore non era altro che male… perché il cuore dell’uomo è incline al male fin dalla giovinezza (Gn 6,5; 8,21);

    Tutti gli uomini sono peccatori e sono privi della gloria di Dio (Rm 3,23);

    Tutti manchiamo in molte cose (Gc 3,2)

    Se diciamo di essere senza peccatori inganniamo noi stessi (1Gv 1,8).

    In tutte le lingue il concetto di peccato è molto ricco di idiomatismi; solo la lingua ebraica ne annovera almeno una ventina; ad esempio: trasgredire una regola, inciampare, deviare, fare un passo falso, fallire il bersaglio, commettere ingiustizia, ribellarsi, fare un torto, comportarsi da folle…

    Ma il termine più usato è comunque hattàh che significa offesa, torto.

    Preso atto di questo peccato insito nell’uomo rimane il problema del come eliminarlo, ecco allora il comune bisogno di remissione delle colpe.

    Nei popoli antichi essa avveniva tramite riti espiatori destinati a ristabilire il  giusto equilibrio infranto con la divinità.

    In questo senso vi era (e rimane ancora in noi in certa misura) una concezione del peccato inteso come macchia da lavare, ovvero come impurità. Questo concetto porta ad intendere la remissione come offerta di riti purificatori. Da qui ad esempio, il ricorso alla simbologia dell’acqua purificatrice (Lv 14,5), del fuoco (Nm 31,22), del sangue (Lv 16,14-19), dell’animale su cui si scaricavano le colpe del popolo (Lv 14,7.53). Questa purificazione-remissione portava addirittura all’esclusione del colpevole dalla comunità, o addirittura in casi estremi alla sua eliminazione fisica (Dt 13,6).

    Questo è molto significativo: nella rivelazione il peccato non è presentato solo come un errore dell’uomo, una sua scelta sbagliata, ma invece come un’”offesa” arrecata a JHWH, una rottura dell’alleanza, della sua amicizia.

    Dal punto di vista umano certamente il peccato appare solo come un danno che il peccatore infligge a se stesso e tuttalpiù agli altri: in questo caso Dio non viene ad essere interessato dalla mia colpa. Il “saggio” Eliu dice a Giobbe: Se pecchi, che male fai a Dio? Se moltiplichi i tuoi delitti che danno gli arrechi? (Gb 35,6).

    Ora secondo la Scrittura il peccato non è mai una realtà che viene a coinvolgere solo l’uomo. Esso è sempre un torto fatto a Dio, è visto alla stessa stregua dell’adulterio con cui l’amata tradisce l’amore dello sposo (cfr. la vicenda del profeta Osea).

    La conseguenza è che la remissione dei peccati richiede un triplice atto:

    – il riconoscimento della colpa come rottura dell’alleanza (cf Sal 38)

    – la richiesta di perdono a Dio(Sal 51)

    – il “ritorno” nell’alleanza con Dio (Lam 5,1).

    Ma la domanda è: l’uomo è in grado di compiere questa trafila?

    Anche qui La sacra Scrittura si manifesta un po’ pessimista: Chi cade si rialza, chi perde la strada torna indietro. Perché allora questo popolo è così testardo nella sua ribellione, persiste nella malafede e rifiuta di convertirsi? (Gr 8,4-5).

    Ecco allora Israele implorare a Dio che sia lui stesso a prendersi a cuore quell’iniziativa di salvezza che l’uomo da solo non riesce a sviluppare: Fammi tornare ed io potrò ritornare, perché tu sei il Signore mio Dio (Gr 31,8).


    PERDONA I NOSTRI DEBITI

    Abbiamo accennato al fatto della varietà di vocaboli con cui è designato il peccato nella sacra scrittura. A questi esistenti, negli ultimi secoli prima della nascita di Cristo, se ne aggiunse un altro: il peccato come debito nei confronti di Dio.

    Come la maggior parte degli altri termini esso non appartiene alla sfera religiosa ma è desunto dal linguaggio profano e precisamente da quello che regola i rapporti economici.

    L’idea di Dio che sottostà a questo vocabolo è quella, forse un po’ irritante, di un Dio sovrano che deve essere servito con timore e precisione. E’ un legislatore e un giudice  dinanzi al quale l’uomo deve cercare di vivere in uno stretto rapporto di giustizia.

    Ma dobbiamo sinceramente riconoscere che questo nella realtà è impossibile.

    L’uomo sperimenta di essere perennemente e terribilmente in arretrato con i pagamenti!

    Scribi e farisei si ritenevano piamente a posto in quanto conoscitori di tutte le sottigliezze della legge: addirittura qualcuno arrivava a sentirsi in credito di fronte a Dio come il fariseo della parabola (cfr. Lc 11,42).

    Ovvio che il giudizio finale in quest’ottica non sarà altro che una resa dei conti come simboleggia l’arcangelo Michele con la bilancia in mano. Per il giudaismo solo nel caso che i due piatti fossero stati perfettamente pari si sarebbe potuto attendersi un atto di misericordia da parte di Dio che avrebbe fatto prevalere il piatto delle opere buone.

    Dicevano i rabbini: “L’uomo si consideri per metà giusto e per metà debitore. Se osserva un comandamento è bene per lui perché ha fatto piegare la bilancia dalla parte del merito”.

    Forse con meraviglia scopriamo che l’immagine del debito è presente nei vangeli, mentre è pressoché assente negli altri scritti del  nuovo testamento:

    Un creditore aveva due debitori, l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta… (Lc 7,41ss)

    A un re si presentò un debitore che gli doveva diecimila talenti… (Mt 18,23ss)

    Un uomo mandò i suoi servi a ritirare i frutti della sua vigna… (Mc 12,1-9)

    Un uomo ricco aveva un amministratore, questi fu accusato di sperperare i suoi beni… (Lc 16,1-8)

    Un uomo partendo per un lungo viaggio consegnò i suoi beni ai suoi servi… (Mt 25,14-30).

    Ma il termine debito applicato al peccato compare solo nella preghiera del Padre Nostro nella versione di Matteo. Luca scrivendo a non ebrei userà invece il termine più chiaro di “peccati”, riprendendo tuttavia il termine debitori nella seconda parte: Rimetti a noi i nostri peccati, anche noi infatti li rimettiamo ad ogni nostro debitore.

    Perché l’uso di questa immagine proprio nella preghiera del Signor rivolta… al Padre, verso il quale ci ritroveremmo debitori? Debitori perché?

    Non certo di qualcosa perché tutto è suo dono, e un dono non rende debitori.

    La richiesta del Padre nostro sarebbe incomprensibile se non si tenesse presente la concezione biblica del peccato che non è solo un errore umano ma ancor più è rottura del rapporto con Dio, della sua alleanza con noi. Ricordiamoci che in una visione biblica il peccato non può mai essere definito in modo appropriato come “colpa”, come “trasgressione alla legge”, ma solo come “debito”, “inadempienza” della nostra risposta al patto di amore.

    I nostri tradimenti assumono realmente il valore di debito: si tratta di un debito di amore verso il Padre.

    Riti cultuali possono cancellare questo debito?

    I profeti ammoniscono circa l’impossibilità di questo ricorso ai riti di raggiungere lo scopo: è necessario che cambi il cuore! E si tratta di cosa ancor più difficile!

    Ecco allora il profeta Ezechiele annunciare per i tempi messianici il dono dello Spirito che “purificherà il popolo da tutte le sue iniquità” , e darà “un cuore nuovo” (36,25-36),.

    Gesù, il Messia di Nazareth, viene così presentato come colui che “libererà il popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21), e “porterà al popolo la salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77).

    Egli è colui che è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19,10). Il suo atteggiamento verso i peccatori suscita scandalo e scalpore, accuse e persecuzione.

    Giunge a pronunciare parole di perdono in modo completamente gratuito: Ti sono perdonati i tuoi peccati (Mc 2,5).

    I suoi gesti pongono fine ad una religione d’angoscia che impone all’uomo la conquista di una sua impossibile giustizia.

    La remissione dei peccati è ora concessa dal Padre come puro dono della sua benevolenza.

    Per Gesù l’unico atteggiamento che rende “giusti” è quello del pubblicano in fondo al tempio che prega: O Dio, abbi pietà di me peccatore (Lc 18,13). Il perdono è un dono gratuito della misericordia  del Padre e non è condizionato dalle prestazioni che l’uomo crede di accaparrassi dinanzi a lui.

    Gesù insegna nella parabola del Padre misericordioso che il peccato non è una macchia da lavare, è una rottura del rapporto di amore col Padre. Nella situazione di peccato il figlio vive lontano dal Padre e dalla dignità di se stesso.

    La remissione del peccato non inizia con gli atti di pentimento dell’uomo, ma con il perdono incondizionato di Dio “che corre incontro con le braccia aperte”. Egli ama l’uomo sempre, sia che sia buono sia che sia cattivo (cf Mt 5,45).

    Ed è proprio l’esperienza di questo amore che trasforma il peccatore, il suo cuore, e gli dà la consapevolezza della sua situazione, gli infonde il pentimento e il desiderio di conversione.

    Allora la richiesta del Padre nostro non vuole ottenere un perdono che c’è già. Il suo effetto è di creare in noi le condizioni necessarie affinché il dono di misericordia del Padre possa trovare in noi la giusta disposizione.

    E perché questo si concretizzi è indispensabile che in noi rinasca una vera consapevolezza della realtà e della gravità del peccato.

    “Perdonaci i nostri debiti” è chiedere a Dio di aiutarci a riempire tutta la distanza che ci separa da lui , di cui abbiamo preso coscienza e di cui i nostri peccati passati non sono che un segno.

    Ci viene rivelata la realtà consolante di un Padre che non abbandona il figlio fuggito: egli continuamente ricolma i vuoti e le fratture. Rimette i “debiti”. Se vuole che il figlio gli chieda perdona è perché prenda coscienza della posta in gioco.


    KERIGMA DEL PERDONO

    Ci presentiamo al Padre come “debitori”. E’ atteggiamento di verità e umiltà. Ciascuno di noi lo è. Origene scrive: “Nessun uomo passa un’ora del giorno o della notte senza contrarre un debito”. Il peccato è in me e sento che solo l’amore che promana dal Padre per il Figlio nello Spirito mi può guarire da questo germe di morte.

    Il Kerigma apostolico è il lieto annuncio di questo perdono che Dio ha offerto al mondo per mezzo della croce del Figlio.

    Ma in che senso Dio perdona?

    Ci possono essere diverse visioni del perdono offertoci. Fa finta di non vederle, o… si “dimentica”,

    La rivelazione non dice questo. Dio prende sul serio il peccato, in tutta la sua gravita e drammaticità. Esso è autodistruzione dell’uomo e allontanamento da Dio: conduce alla morte. La salvezza, la grazia offertaci, ha perciò un prezzo altissimo: la vita preziosa del Figlio.

    Dio perdona nel senso che converte il peccatore, gli cambia il cuore. Lo rinnova dal di dentro con la grazia dello Spirito. Non gli offre solo una “copertura giuridica”, è una “ricreazione” dell’uomo stesso ad immagine di Cristo (cf la veste bianca del figlio prodigo Lc 15,20; il perdono all’adultera: Gv 8,11).

    Siamo stati riconciliati con il Padre per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10). Nel Figlio “abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7).

    Quest’esperienza dell’essere perdonati è fondamentale: “Non posso muovere un solo passo, non solo per strada ma nella vita, senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio, della sua volontà che io esista: altrimenti il disgusto di me stesso e la sensazione della mia inesistenza mi disintegrerebbero nel nulla o, per essere più esatti, nell’inferno” (O. Clèment).

    Siamo debitori perché in fin dei conti dovremmo prendere coscienza che noi riceviamo costantemente noi stessi dalle mani di Dio Padre.

    PERDONARE I DEBITORI

    Che significa “perdonare i debitori”?

    Non si tratta soltanto di perdonare le offese che ci sono state arrecate, ma anche che rinunciamo a qualunque rivalsa nei confronti di chi ci ha rifiutato ciò che ci spettava di diritto, ovvero che siamo disposti a rimetterci.

    Discorso assurdo per l”uomo carnale”, direbbe s. Paolo, che non intende le cose spirituali, la logica del Regno e della Croce. Non dimentichiamo il contesto in cui nel vangelo di Matteo Gesù insegna il Padre nostro: il discorso programmatico e rivoluzionario delle Beatitudini. Solo a coloro che lo accolgono senza rimanerne scandalizzati è dato di comprendere che l’amore non tiene conto del male ricevuto, tutto scusa, in tutto fa credito (1Cor 13,5).

    Un atteggiamento certamente difficile e costoso se già sant’Agostino lamentava che durante la liturgia alcuni si battevano rumorosamente il petto nella prima parte dell’invocazione per poi… tacere nella seconda!

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: “Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso… Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto alla sua grazia”.

    Il nostro cuore vacilla di fronte a questa esigenza che appare a volte realmente insormontabile. Aggiunge a questo proposito il catechismo: “E’ impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce “dalla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all’Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci “a vicenda “come” Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32)”.

    Gesù insiste sul dovere del discepolo a ricercare continuamente settanta volte sette, la ri-conciliazione con il fratello. Se i rabbini dicevano che nessun motivo era valido per interrompere la preghiera, Gesù dirà invece che il ricordo di una riconciliazione da ricercare deve interrompere perfino l’offerta più sacra all’altare.

    Perdonare i debiti significa saper incontrare con occhi nuovi il fratello “debitore” vedendo in lui non un nemico ma un fratello da aiutare, a cui rinnovare la nostra fiducia. E’ uno sguardo nuovo rivolto non al passato dell’offesa arrecataci, ma al futuro di una pace da costruire.

    Il perdono non è mai un dato di fatto acquisito una volta per tutte e a forza di volontà. Si tratta di un cammino da percorrere insieme al crocifisso. “Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione” (CCC 2843).

    Un’altra sottolineatura. Non chiediamo a Dio rimetti i miei debiti ma i nostri debiti. La richiesta è da parte non del singolo ma della comunità.

    Comunità dei discepoli del crocifisso che si dona reciprocamente la pace e la riconciliazione che essa riceve da Dio e che si impegna a diffondere nel mondo.

    Ci accorgiamo di quanto spessore e verità dovrebbe essere costituito lo scambio della pace fatto durante la liturgia!

  • 28 Gen

    PROFESSIONE DI FEDE di PAOLO VI

    Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (Cfr. Dz.-Sch. 3002), Creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale.


    Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni, nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosè (Cfr. Ex. 3, 14); ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni (Cfr. 1 Io. 4, 8): cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di Colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che «abitando in una luce inaccessibile» (Cfr. 1 Tim. 6, 16) è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata.

    Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l’unico e identico Essere divino, sono le beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l’umana misura (Cfr. Dz-Sch. 804). Intanto rendiamo grazie alla Bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l’Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.


    Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coaeternae sibi et coaequales (Dz-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell’Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre «deve essere venerata l’Unità nella Trinità e la Trinità nell’Unità»


    Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri (Dz-Sch. 150); e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l’umanità (Cfr. Dz.-Sch. 76), ed Egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature ma per l’unità della persona Cfr. Ibid.).
    Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in Sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo Comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com’Egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo Sangue Redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risolto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all’Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all’ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.

    E il suo Regno non avrà fine.


    Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Resurrezione e la sua Ascensione al Padre; Egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell’intimo dell’anima, rende l’uomo capace di rispondere all’invito di Gesù: «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Matth. 5, 48).


    Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (Cfr. Dz.-Sch. 251-252) e che, a motivo di questa singolare elezione, Ella, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (Cfr. Lumen gentium, 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (Cfr. Dz.-Sch. 2803) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (Cfr. Lumen gentium, 53).
    Associata ai Misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (Cfr. Lumen gentium, 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l’Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (Cfr. Dz.-Sch. 3903) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, Nuova Eva, Madre della Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 53, 56, 61, 63; cfr. Pauli VI, Alloc. in conclusione III Sessionis Concilii Vat. II: A.A.S. 56, 1964, p. 1016; Exhort. Apost. Signum Magnum, Introd.), continua in Cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (Cfr. Lumen gentium, 62; Pauli VI, Exhort. Apost. Signum Magnum, p. 1, n. 1).


    Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, «non per imitazione, ma per propagazione», e che esso pertanto è «proprio a ciascuno» (Dz-Sch. 1513).


    Noi crediamo che nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – «là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rom. 5, 20).


    Noi crediamo in un sol Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano «dall’acqua c dallo Spirito Santo» alla vita divina in Gesù Cristo (Cfr. Dz-Sch. 1514).


    Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l’opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (Cfr. Lumen gentium, 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (Cfr. Lumen gentium, 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (Cfr. Sacrosanctum Concilium, 5, 6; Lumen gentium, 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l’irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
    Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell’Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (Cfr. Dz-Sch. 3011). Noi crediamo nell’infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli (Cfr. Dz.-Sch. 3074), e di cui è dotato altresì il Collegio dei vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (Cfr. Lumen gentium, 25).
    Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (Cfr. Lumen gentium, 23; cfr. Orientalium Ecclesiarum, 2, 3, 5, 6).


    Riconoscendo poi, al di fuori dell’organismo della Chiesa di Cristo, l’esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all’unità cattolica (Cfr. Lumen gentium, 8), e credendo alla azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l’amore per tale unità (Cfr. Lumen gentium, 15), Noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l’unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.


    Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. Lumen gentium, 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l’influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch’essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (Cfr. Lumen gentium, 16).


    Noi crediamo che la Messa, celebrata dal Sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell’Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e dei membri del suo Corpo mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell’ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel Cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (Cfr. Dz.-Sch. 1651).
    Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (Cfr. Dz-Sch. 1642, 1651-1654; Pauli VI, Litt. Enc. Mysterium Fidei), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all’unità del suo Corpo Mistico (Cfr. S. Th. III, 73, 3).
    L’unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel Cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal Sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il Sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell’Ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo Incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il Cielo, si è reso presente dinanzi a noi.


    Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all’amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L’intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in Lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l’ardore dell’attesa del suo Signore e del Regno eterno.


    Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
    Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del Cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è (Cfr. 1 Io. 3, 2; Dz.-Sch. 1000) e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (Cfr. Lumen gentium, 49).

    Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del Cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l’amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo- la parola di Gesù: Chiedete e riceverete (Cfr. Luc. 10, 9-10; Io. 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
    Sia benedetto Dio Santo, Santo, Santo. Amen.

  • 28 Gen

    DACCI OGGI IL NOSTRO PANE

    di p. Attilio Franco Fabris

    Nella prima parte del Pater avevamo tre desideri, tre auspici da rivolgere al Padre che è nei cieli.

    Nella seconda parte sono contenute invece tre domande che riguardano direttamente noi: gli chiediamo il pane, il perdono dei nostri peccati, la vittoria sulle tentazioni.

    Questa struttura ripete quella di tante preghiere ebraiche.

    Ad esempio nelle Diciotto Benedizioni le prime tre erano benedizioni rivolte a Dio, nelle dodici successive erano presentati a Dio i bisogni materiali e spirituali; infine le ultime tre erano caratterizzate dal ringraziamento.

    La ragione di questo schema lo possiamo dedurre da un commento rabbinico:

    “Le prime tre invocazioni fanno pensare a un servo che chiede favori al suo padrone; le ultime a un servo che ha ricevuto un favore dal suo padrone e ora prende nuovamente commiato”.

    Ma per il cristiano non si tratta di ricercare una sorta di captatio benevolentiae da parte della divinità. Per lui Dio è un Padre di fronte al quale non ci si prostra come schiavi, ma verso il quale egli nutre una fiducia e spontaneità filiale.

    Se prima ci si interessa della santificazione del suo nome, della venuta del suo regno e dell’adempimento della sua volontà è perché solo dopo aver contemplato il suo progetto si è in grado di vedere con occhi nuovi i nostri problemi di ogni giorno, la nostra vita con tutte le sue necessità e contraddizioni.

    Veniamo ora alla prima richiesta.

    Ci domandiamo anzitutto la ragione del perché la  prima domanda è in riferimento al pane.

    Il fatto stesso che si domandi il pane può apparire umiliante ed ingiusto all’uomo. Non è infatti un dovere e un onore per l’uomo guadagnarsi il suo pane senza stendere la mano? Non è con il suo lavoro che egli porta a casa il pane per i suoi? Perché chiederlo a Dio? Non è un ridursi a fare i mendicanti? Dio stesso non ha imposto forse ad Adamo di guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte?

    Ma allora come interpretare la domanda?

    Potremmo anzitutto partire prendendo atto dell’ingiustizia esistente che porta con sé la fame nel mondo. Un quarto dell’umanità ne soffre drammaticamente… e sono i deboli che ne pagano le conseguenze amaramente e drammaticamente. Poniamo sulle loro labbra la preghiera del Padre nostro! Essa acquista subito uno spessore concreto che forse per noi, abituati all’abbondanza, non ha. Ad essi manca il pane quotidiano!

    Riporto un testo significativo di un anonimo brasiliano che racconta il dramma di coloro che non hanno di che vivere, neppure il necessario:

    Molto presto, come ogni mattina

    bambini disputano con i cani

    attorno ad una latta di spazzatura.

    E dividono con i cani

    il pane ammuffito della spazzatura.

    In un mondo cane, senza cuore,

    ecco la forma che Dio ha trovato

    per esaudire la preghiera

    dei piccoli affamati:

    Dacci oggi il nostro pane quotidiano!

    In quel giorno,

    in quella settimana,

    il pane della nostra tavola

    non era lo stesso.

    Era pane amaro,

    peino delle bestemmie dei poveri

    che per Dio sono suppliche.

    E’ tornato ad essere dolce e buono,

    quando fu condiviso

    con quegli affamati.

    Bambini e cani.

    E’ una dura realtà di fronte alla quale le parole del Magnificat suonano come una beffa: Ha ricolmato di beni gli affamati e i ricchi ha rimandato a mani vuote.

    Dio che ha cura degli uccelli del cielo e veste i gigli del campo come può lasciare morire di fame migliaia di bambini?

    La fede di molti viene messa a dura prova da queste domande.

    Attenzione! Non possiamo permetterci di ignorarle, spostandoci subito e comodamente, commentando la preghiera del Signore, su di un piano puramente spirituale!

    IL PANE NOSTRO DACCI OGNI GIORNO

    E’ un dovere del padre di famiglia procurare il pane ai figli; e in questa richiesta possiamo scoprirvi l’invito a guardare a Dio nel suo volto di Padre provvidente.

    Ritorniamo alla preghiera delle Diciotto Benedizioni. In essa  non manca la richiesta di benedire il lavoro dei campi e i frutti della terra:

    “Per noi, per il bene, Signore nostro Dio benedici questa annata e tutti i suoi raccolti. Ricolmaci dei tuoi beni, benedici questa annata e rendila simile alle migliori annate del passato. Benedetto sei tu, Signore, che benedici i raccolti.”

    In italiano diciamo: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Ma nel testo greco la disposizione delle parole è diversa, dice: il pane nostro, quello di ogni giorno, dà a noi oggi. L’accento non è quindi sul dacci ma sul pane.

    Potremmo dilungarci sulla simbologia profonda ed estesa che il pane ha assunto nella nostra cultura occidentale.

    Nel pane posto in mezzo alla tavola intorno a cui è radunata tutta la famiglia è riassunta la vita di tutti: la fatica, la gioia, la condivisione.

    Al tempo di Gesù, ma non solo, il pane era cosa sacra. Non poteva essere buttato nell’immondizia, non lo si tagliava con il coltello (usanza mantenuta nella cultura monastica) ma lo si spezzava perché solo le mani dell’uomo erano degne di toccarlo. Il pane è sacro perché contiene il lavoro dell’uomo e la benedizione di Dio.

    Capiamo allora che, in fin dei conti, con la parola pane si vuole rappresentare tutto ciò che è necessario alla vita. Esso rappresenta, riassume, tutti i doni di Dio e la collaborazione dell’uomo: Servirete il Signore ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua (Es 23,25).

    E’ significativo che chi prega non dica “Dammi il mio pane quotidiano”, ma il nostro pane.

    Anche in questo caso la sua preghiera deve essere costantemente impregnata dal comandamento nuovo del Signore.

    NOSTRO O DI DIO?

    Ma come possiamo dire “nostro” se il pane lo chiediamo a Dio?

    Abbiamo un riferimento illuminante nel libro del Levitico: “Se seguirete le mie leggi… mangerete il “vostro” pane a sazietà e abiterete tranquilli nel vostro paese” (26,5).

    Della manna non si dice mai che è “nostra”: Tu Signore non hai rifiutato la “tua” manna”(Ne 9,20).

    Il pane è invece contemporaneamente dono di Dio e frutto del sudore della fatica e del sacrificio dell’uomo, per questo parla del “vostro” pane e gli uomini possono giustamente dire “nostro”.

    qual è allora il pane “nostro” benedetto da Dio?

    Quello prodotto “insieme” ai fratelli, quello ottenuto dalla terra che Dio ha destinato a tutti e non solo a qualcuno, quello che non contiene le lacrime del povero sfruttato.

    Non può pregare in modo sincero ed autentico chi pensa unicamente al proprio pane, chi accumula cioè beni per sé, per soddisfare i propri capricci, dimenticandosi del povero che manca di “pane”.

    Non può chiedere a Dio il “nostro” pane chi non lavora per pigrizia, chi vive alle spalle degli altri.

    Scriveva con parole di fuoco Basilio di Cesarea vescovo del IV sec.: “Se ciascuno si tenesse solo ciò che gli serve per le normali necessità e lasciasse il superfluo agli indigenti, ricchezza e povertà scomparirebbero… All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo baule. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti” (Non lasciare che il tuo denaro dorma, 6).

    QUELLO DI OGNI GIORNO

    Vi è nella richiesta al Padre del pane una notevole difficoltà interpretativa che ha fatto e fa discutere schiere di esegeti e teologi.

    Troviamo infatti un aggettivo molto strano: epioùsion che traduciamo con quotidiano.

    Ora, questo aggettivo non si ritrova non solo in nessun altro testo della sacra scrittura ma anche  in quelli profani (tranne una sola volta in un resoconto di rifornimenti di viveri ad un distaccamento militare). Non è facile perciò stabilirne l’esatto significato.

    Esso può essere inteso come “necessario alla vita”, oppure come “il pane per questo giorno”, oppure “il pane per il giorno che viene”.

    I biblisti tendono a privilegiare l’ultima interpretazione: Dacci il pane per il giorno che viene. Ma stabilito questo che cosa esattamente significa?

    Generalmente si fa ricorso al parallelo biblico della manna nel deserto. La comunità degli israeliti mormorava per la mancanza di cibo. Allora il Signore disse a Mosé: “Io sto per far piovere per voi pane dal cielo; il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di ogni giorno, perché io lo metta alla prova per vedere se cammina secondo la mia legge o no” (Es 16,4).

    In cosa consisteva la prova? Probabilmente nel fatto che al mattino il popolo usciva a raccogliere il cibo necessario “per il giorno che veniva”, non lo si poteva accaparrare in vista degli altri giorni, pena la putrefazione del prodotto conseguenza della sfiducia in Dio.

    Quindi il giorno che viene è l’oggi.

    Se immaginiamo il Pater recitato al mattino significa: Dacci oggi il nostro pane per questa giornata.

    Evidentemente chi prega  con queste parole intende rifiutare la logica  mondana dell’accumulo dei beni per sé, soprattutto quando i fratelli soffrono per la fame.

    Con questa richiesta chiediamo che il cuore viene liberato dalla bramosia del possesso e dall’angoscia per il domani. (Cfr. Mt 6,19-21; Lc 12,20ss).

    Rabbi Eliezer di Modiim, contemporaneo di Gesù, insegnava: “Chi ha da mangiare per oggi, e dice: Che cosa mangerò domani? È un uomo di poca fede.”

    Non si tratta perciò di una fuga dal lavoro, di un pretesto di disimpegno e pigrizia, né di fatalismo. E’ anzitutto un richiamo forte a ciò che è essenziale alla vita: aiutami padre a liberarmi dalla schiavitù dei beni e dammi la forza di condividerli con i poveri.

    Il discepolo è chiamato a sentirsi libero, ad accontentarsi del necessario, ad aprire gli occhi sulle necessità dei fratelli. (Andando non portate con voi né bisaccia, né due tuniche, né denaro, né bastone...).

    Per capire bene questa domanda non bisogna dimenticare che il Pater viene insegnato da Gesù nel contesto, paradossale per il mondo, delle Beatitudini.

    Chi accetta di seguire Cristo entra a far parte di una comunità che si propone  al mondo come società alternativa a quelle rette dalle leggi della competizione, della ricerca egoistica del proprio interesse, dell’accumulo dei beni.

    Può pregare così chi ha rinunciato a riporre tutta la sua fiducia nel denaro, nel potere, nei beni di questo mondo e ha scelto la povertà perché sa che Cristo l’ha scelta come via privilegiata per aprirsi ai valori del regno.

    Solo chi fa propria la logica del servizio e del dono di sé diviene “figlio del regno che viene” e può pronunciare in modo autentico la preghiera del Signore.

    Il discepolo non deve mai chiedere il superfluo.

    Nel libro dei Proverbi leggiamo:

    Signore, io ti domando due cose,

    non negarmele prima che io muoia:

    non darmi né povertà né ricchezza;

    ma fammi avere il cibo necessario,

    perché, una volta sazio, io non ti rinneghi

    e dica: Che m’interessa del Signore!

    Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi

    profanando così il nome del mio Dio (30,7-9).

    Si tratta cioè di saper gioire del necessario che la provvidenza non fa mancare.

    ALCUNE RIFLESSIONI CONCLUSIVE

    Un’altra considerazione che è possibile fare è il fatto che il domandare il cibo rimanda  al nostro essere creature, legate alla terra; in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati, incompiuti, dipendenti, mortali. Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata, che non vuole fare i conti con la storia e con la realtà concreta in cui siamo immersi. Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro (Sulla preghiera del Signore, IV): “Dacci oggi il nostro pane quotidiano: questa frase esprime un altro insegnamento morale: ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci che la vita umana è effimera: a ciascuno appartiene soltanto il presente, la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero, non sappiamo infatti che cosa porterà il domani. Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?

    Ci rendiamo coscienti di questo quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti. Quel cibo che sta davanti a noi è “nostro” ma è prima ancora “grazia”. Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto. Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto, un nostro “possesso” esclusivo.

    La richiesta rivela così la mia verità di un essere dipendente da Dio che è Padre, che ha cura dei  suoi figli nella sua provvidenza che è amorevole. Stendo le mani alle sue mani di padre per ricevere da lui il necessario per la vita (cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato  della comunione sulla mano).

    Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia. Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni, in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.

    Ancora: la richiesta del Pater mi insegna a mai disgiungere la preghiera dal lavoro. Chi lavora e non prega non è nella verità: si illude di essere lui protagonista della propria vita.

    Chi prega e non lavora non è nella verità: non mette in atto quelle capacità di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

    Terremo sempre presente la sapiente massima attribuita a Ignazio di Loyola: “Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio e agire come se tutto dipendesse da noi”.

    UN PANE DI VITA ETERNA

    Il pane è sempre realtà da condividere, da spezzare.

    Non per nulla è il segno-sacramento scelto da Gesù per l’Eucaristia, memoriale vivo della sua vita donata e spezzata sulla croce. Cristo si moltiplica quando viene spezzato. Tutti se ne nutrono e non si esaurisce mai.

    E’ il Padre che prepara una mensa per tutti e per tutti spezza il pane che è il dono del Figlio dato “per noi”.

    Scrive s. Pietro Crisologo in un suo sermone: “Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo Cristo. Egli stesso è il pane che, seminato nella vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella Chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste” (Sermoni, 71).

    La  Provvidenza del Padre qui è al massimo livello: quel pane porta con sé vita eterna.

    Ed è questa l’apice della riflessione sulla richiesta del pane fatta al Padre.

    Diviene domanda  di un pane che non perisce, di un pane per una vita nuova, perché “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.

    Il Catechismo della Chiesa cattolica fa propria questa accentuazione: “Presa alla lettera  – la parola epiousios-sovrasostanziale – indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo “farmaco di immortalità” senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine legato al precedente è evidente il senso celeste “Questo giorno” è quello del Signore, quello del banchetto del regno, anticipato nell’Eucaristia che è già pregustazione del regno che viene” (2837).

    Cristo parola del Padre è questo pane. Non per nulla  nella prima comunità l’eucaristia era denominata lo spezzare insieme il pane. (Cf Gv 6,34; Mt 4,4; Mc 8,14).

    Eucaristia e carità sono indivisibili: “La richiesta del pane, se vogliamo avanzarla senza incoscienza o ipocrisia, ci impone un’altra esigenza: quella della condivisione. La comunione eucaristica è condivisione, il “sacramento del fratello” è inseparabile da quello dell’altare, diceva san Giovanni Crisostomo” (O. Clèment)

    SCHEDA DI LAVORO

    1.      “Dacci il nostro pane quotidiano”: come è intesa da me questa domanda della Preghiera del Signore? Quanta consapevolezza vi è in me della povertà di chi magari mi passa accanto? Come mi pongo dinanzi ad essa e a quella di tante popolazioni del mondo?

    2.      Senti in te il desiderio e l’imperativo della condivisione come aspetto essenziale all’esperienza di vita cristiana? Come si concretizza nella tua vita? Come ne è ostacolata?

    3.      Leggi e medita Mt 6,19-21.25-34: che cosa significa per il cristiano credere nella provvidenza del Padre che è nei cieli? Qual è l’atteggiamento fifliale che eviti sia il disimpegno sia l’affanno?

    4.      Gesù dice: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo” (Potresti rileggere il discorso di gesù a Cafarnao in Gv 6).  Cosa ti dice questa frase? Che posto ha nel tuo cammino spirituale la Parola e l’Eucaristia? Rappresentano realmente per te l’indispensabile “pane del pellegrino”?

  • 28 Gen

    SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

    di p. Attilio Franco Fabris

    DUE INTERPRETAZIONI

    Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.

    Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.

    Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.

    Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?

    Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc)).

    Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.

    Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.

    Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola “volontà” – in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz – ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano “comandare – imporre – ordinare”, ma “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”.

    Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.

    La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.

    Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.


    QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?

    Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater – sia fatta la tua volontà

    essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.

    Anzitutto  ci domandiamo:

    – in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?

    – come egli intende realizzarlo?

    Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.

    Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:

    Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.

    Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è “servo”, è “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6).  Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.

    La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28).

    GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE

    Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa “volontà” del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.

    Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:

    Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).

    Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)

    Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30)

    Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv  19,30).

    Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati … secondo la volontà di Dio” (Gal 1,4). “E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo” (Eb 10,10).

    LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO

    Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).

    Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).

    Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.

    La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.

    Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.

    Tale preghiera trasforma il nostro cuore.

    In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.


    COME IN CIELO COSI’ IN TERRA

    Era convinzione degli antichi che il progetto di Dio fosse già pienamente realizzato in cielo. E’ lì che si trova, nella dimora di Dio, la celeste Gerusalemme sottratta ad Adamo ed Eva dopo la colpa.

    Una città contemplata, desiderata…

    Nel Pater si chiede che essa sia portata sulla terra.

    Ma un dubbio sorge.

    A quale delle tre aspirazioni del Pater si riferisce l’espressione “come in cielo così in terra”? Generalmente si pensa solo alla terza.

    Ma la tradizione ha sempre trasmesso l’interpretazione che essa si riferisca a tutte e tre (es. Il Catechismo Tridentino la raccomanda).

    La prima parte della Preghiera del Signore andrebbe dunque letta  così:

    Padre nostro che sei nei cieli,

    sia santificato il tuo nome come in cielo così in terra

    venga in tuo regno come in cielo così in terra

    sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.

    OSSERVANZA DEI COMANDAMENTI

    Abbiamo visto che non si può ridurre la volontà di Dio a un insieme di precetti morali.

    Ma è che l’adesione al progetto di benevolenza divina comporti una vita completamente nuova anche su questo fronte.

    Ma questa necessità nasce dalla legge-grazia dello Spirito che è stata posta in noi nel battesimo .

    Domandiamo al Padre la forza e la grazia dell’obbedienza (fà che amiamo ciò che comandi! Dalla liturgia) al comandamento nuovo.

    Il suo comandamento, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua Volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato (CCC 2822).

    Un percorso arduo, difficile, in cui vediamo il nostro desiderio spesso scontrarsi con una fragilità che non riusciamo a vincere, questo vorrà dire che siamo lontani dalla volontà di Dio?

    Se non riesci a “osservare i comandamenti” non considerarti mai perso, non ti inacidire in modo moralistico o volontaristico. Più a fondo, più in basso della tua vergogna o della tua caduta c’è Cristo. Volgiti a lui, lascia che ti ami, che ti comunichi la sua forza. E’ inutile che ti accanisci in superficie: è il cuore che deve capovolgersi. Non devi cercare nemmeno annazitutto di amare Dio, ti basta capire che Dio ti ama (O. Clèment).

    RASSEGNAZIONE

    Certo la contraddittorietà di un regno e di una volontà divina che potrebbe mettere tutto e subito a posto ogni cosa rimane. Ci è difficile capire, soprattutto di fronte a certi drammi, l’”impotenza” di Dio.

    La preghiera ci aiuta a leggere la storia con gli occhi di Dio, ad avere la sua pazienza di fronte alla zizzania che cresce col grano, di accettare i tempi e i modi così diversi dai nostri che tante volte riteniamo i soli e i migliori.

    Questa preghiera e questa attesa acuiscono in noi la fame e sete di giustizia caratteristiche  di ogni vero discepolo.

    La volontà di Dio non è più un mistero:

    “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).

    In Cristo contempliamo già la realizzazione della volontà di Dio su di noi e sulla storia. Certo resta l’incertezza dei tempi, riguiardo alla modalità e alle circostanze.

    In Cristo, mediante i sacramenti dell’iniziazione, il Padre compie in noi la sua volontà. E in questa volontà ciascuno di noi entra da soggetto, da protagonista; vi sono chiamate in causa la nostra libertà, intelligenza, creatività. Nella volontà di Dio non vi è nulla di preconfezionato. Il Padre ci ha fatto dono di esistenze aperte, da costruire con lui.

    La preghiera ci dispone nel medesimo atteggiamento del giovane Samuele: “Parla Signore che il tuo servo ti ascolta”, di Maria di Nazaret: “Eccomi sono la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”.

    Non si tratta di rassegnazione ma di collaborazione. Scrive Teilhard de C. (Ambiente divino): Il trovare e il compiere la volontà di dio non è un fatto immediato né consiste in un atteggiamento passivo… Non raggiungerò la volontà di Dio in ogni istante se non all’estremo limite delle mie forze, nel punto in cui la mia attività tesa verso il meglio-essere si trova continuamente controbilanciata dalle forze avverse che cercano di fermarmi o di farmi cadere. Se non faccio tutto il possibile per avanzare o per resistere non mi trovo al punto giusto, non subisco Dio quanto potrei e quanto egli desidera. Se invece il mio sforzo è coraggioso, perseverante, io raggiungo Dio attraverso il male, al di là del male; io mistringo a lui.

    Ancora una volta prendiamo atto di come la preghiera del cristiano sia diversa da quella del pagano: questi tenta di ottenere con la preghiera che la divinità si pieghi al suo volere, in fin dei conti se ne vuole accapparrare la potenza. Il cristiano invece, come Gesù, chiede di conoscere ed attuare il volere del Padre. Gli chiediamo luce per conoscerla, forza per adempierla. E una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nsotro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudini per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi (Agostino, Confessioni, 9.20).

    CONCLUDENDO LA PRIMA PARTE

    La prima parte del Pater si sofferma su dio. Così fa Gesù nel riassumere la Thoràh: Amerai Dio e amerai il tuo prossimo.

    Pregare che il nome sia santificato, il regno venga, o la volontà sia fatta è cosa che non può essere realizzata senza che già si partecipi effettivamente, con il cuore e con l’anima, a questo regno di giustizia e di amore, alla volontà di pace.

    Senza conversione e impegno per il prossimo nenache una delle richieste può essere pronunziata correttamente” (B. Stendaert).

    SCHEDA DI LAVORO

    1.      “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”. Queste parole esprimono il progetto per cui Gesù vive. Cosa ti suggeriscono? Perché è fondamentale per Gesù – e per te di conseguenza – fare della volontà del Padre il proprio “cibo”?

    2.      “Sono disceso non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato”. Come di poni di fronte alla volontà di Dio? Ti è facile scoprirla? Ne hai paura o desideri viverla pienamente? Perché?

    3.      Leggi e medita Gv 6,37-40 e Ef 1,3-14: che cosa si intende per volontà di Dio? Come la applichi alla tua vita?

    4.      Gesù nel Getsemani prega: “Padre se possibile passi da me questo calice… ma non la mia ma la tua volontà sia fatta”. A volte è difficile compiere la volontà del Padre. Ti è accaduto in passato? Forse stai vivendo ora questo momento: come ti stai ponendo di fronte ad essa? Cosa ti risulta più difficile da accogliere? Perché? Nella difficoltà fai riferimento come Gesù alla preghiera onde trarne forza e speranza?

    5.      Prova ad esprimere in una preghiera scritta quello che il cuore e la mente ti hanno suggerito in riferimento a questa terza domanda del Padre nostro.

  • 27 Gen

    SIA FATTA LA TUA VOLONTA’

    di p. Attilio Franco Fabris

    DUE INTERPRETAZIONI

    Vi è una prima interpretazione immediata e problematica di questa richiesta.

    Essa richiama il concetto di rassegnazione, di passività di fronte a ciò che nella vita vi è di sofferenza inevitabile.

    Non siamo lontani dallo stoicismo dei filosofi antichi. Epitteto diceva: “Uniformarsi agli eventi che non dipendono dalla nostra volontà è saggezza”.

    Quale lettura dare della frase di Gesù detta nell’orto del Getsemani: Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta (Mt 26,42)? O di At 21,14, dove i cristiani di Cesarea si rassegnano al fatto che Paolo salga a Gerusalemme: Sia fatta la volontà del Signore?

    Se non bastasse la letteratura apocalittica parla dei libri che si trovano nei cieli in cui tutto ciò che accade è già scritto (Il Cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù (1Macc).

    Vi è anche una seconda interpretazione: fare la volontà di Dio consiste nell’obbedire ai suoi comandamenti. Si tratta della nostra sottomissione ad essi. Fare la volontà di Dio in fin dei conti comporta anzitutto un atteggiamento morale.

    Ma evidentemente queste due interpretazioni appaiono se non erronee certamente molto limitate.

    Prendiamo anzitutto in esame l’etimologia della parola “volontà” – in greco Thelema. Essa è traduzione di due termini ebraici: hapetz – ratzah. Vi è una sorpresa: entrambi le radici non significano “comandare – imporre – ordinare”, ma “compiacersi – provare gioia – desiderare ardentemente”.

    Ad esempio: “insegnami Signore a fare la tua volontà” andrebbe tradotto: “insegnami Signore a compiere ciò di cui tu ti compiaci”, “ciò che ti da gioia”, “ciò che desideri ardentemente da me”.

    La differenza semantica dunque è notevole. L’aspetto morale passa decisamente in secondo piano (Il re Ciro farà la mia volontà (Is 44,28), non nel senso che obbedirà alla legge ma nel senso che compirà ciò che il Signore desidera). Inoltre non appare il concetto di sottomissione passiva a qualcosa di ineluttabile già deciso per me.

    Al primo posto è messo il progetto di Dio, il disegno di salvezza che lui ha per il suo popolo, perché è questo il primo desiderio di JHWH.

    QUALE NUOVO(?) SIGNIFICATO?

    Se ora applichiamo questa lettura all’espressione che ritroviamo nel Pater – sia fatta la tua volontà

    essa assume una precisa colorazione forse diversa da come l’abbiamo intesa finora.

    Anzitutto  ci domandiamo:

    – in che cosa consiste il progetto di benevolenza di Dio, il suo compiacimento, il suo desiderio ardente?

    – come egli intende realizzarlo?

    Alla prima domanda si può rispondere con 1Tm 2,4: Dio nostro Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e che giungano alla conoscenza della verità.

    Alla seconda citiamo la Lumen gentium 9:

    Piacque a Dio (è sua volontà) di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo… Si scelse quindi il popolo israelita.

    Volontà di Dio è la salvezza di tutti, indistintamente (La volontà di Dio non è un valore giuridico, è un influsso di vita che dona l’esistenza e la rinnova quando essa si smarrisce). Lo strumento attraverso il quale farla giungere è la scelta di un popolo: Israele è “servo”, è “luce delle nazioni” (Is 42,6; 49,6).  Certo è una scelta che appare assurda al mondo (cf Is 53,2-3.10). Israele è piccolo, povero, perseguitato.

    La volontà di Dio di conseguenza sembra così estrosa agli occhi umani: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sonole mie vie – oracolo del Signore – quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie (Is 55, 8-9). (Cfr 1Cor 1,27.28)

    GESU’ PIENO ADEMPIMENTO DELLA VOLONTA’ DEL PADRE

    Gesù in tutta la sua esistenza si inserisce in questa “volontà” del Padre: Mio cibo è fare la volontà del Padre.

    Gesù è ben cosciente che la sua missione è compiere la volontà del Padre:

    Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv 6,38-39).

    Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera (Gv 4,34)

    Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato (Gv 5,30).

    Tutta la sua esistenza ha come punto cardine questo desiderio: l’ultima parola di Gesù è riassuntiva di tutta la sua esperienza di relazione alla volontà del Padre: E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: Tutto è compiuto! E chinato il capo rese lo spirito (Gv  19,30).

    Il Catechismo commenta: E’ in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù entrando nel mondo, ha detto: “Ecco io vengo… per fare, o Dio la tua volontà” (Ebr 10,7; Sal 40,7). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli consente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22,42). Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati … secondo la volontà di Dio” (Gal 1,4). “E’ appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del Corpo di gesù Cristo” (Eb 10,10).

    LA VOLONTA’ DEL PADRE NEL CRISTIANO

    Piena conformità alla volontà del Padre che è salvezza dell’uomo peccatore: “Affinché la libertà dell’uomo peccatore non soccomba alle tenebre, Dio si incarna e scende nella morte, nell’inferno, perché ci sia finalmente un luogo in cui l’uomo possa unirsi alla volontà divina. Questo luogo è Cristo. In Cristo la volontà umana si è dolorosamente e gioiosamente unita a quella del Padre” (O. Clèment).

    Fare la volontà del Padre è unire la nostra volontà a quella di Cristo: Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, per compiere la sua volontà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a gesù e con la potenza del suo Santo Spirito posssiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (CCC 2825).

    Il cristiano sà che questa richiesta sarà sicuramente esaudita nonostante tutto. Gli errori umani, il peccato, non impediranno la sua realizzazione.

    La preghiera in questo senso non cambia Dio, ma colui che prega.

    Quando preghiamo chiedendo che si compia la volontà del Padre noi ci disponiamo a renderci aperti con tutte le forze affinché il suo disegno si realizzi per ogni uomo.

    Tale preghiera trasforma il nostro cuore.

    In colui che prega la volontà del Padre può aprirsi un varco, e solo la preghiera può implorare che sulla terra discenda la Gerusalemme del cielo.

  • 26 Gen

    VENGA IL TUO REGNO

    di p. Attilio Franco Fabris


    Il Battista impernia la sua predicazione sulla conversione in vista dell’avvento del Regno:

    Il Regno dei cieli è vicino”: Mt 3,2

    Gesù riprende questo tema, anzi annuncerà che ormai il regno è giunto:

    Il tempo è compiuto, il Regno die cieli è vicino”: Mt 1,15

    Il regno di Dio è in mezzo a voi”: Lc 17,21.

    Leggendo i vangeli ci accorgiamo di come il Regno di Dio è il centro della sua predicazione di Gesù di Nazaret (122 volte di cui 90 in bocca a Gesù).

    Così anche i discepoli sono mandati a predicare il Regno:

    Mt 10,7

    At 28,31

    Ma che cos’è il Regno dei Cieli, o per usare un’altra espressione il “regno di Dio”? I testi non lo dicono. E’ evidente che per gli interlocutori non occorresse spiegarlo talmente era chiaro!

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Nelle teogonie dei popoli antichi il mondo nasceva da una lotta tra Dio e il Caos. La regalità di dio veniva dunque stabilita al momento della creazione.

    Essa veniva ciclicamente celebrata affinché potesse perpetuarsi. Il mondo infatti era costantemente minacciato dal Caos (ecco allora le celebrazioni rituali del giorno e della notte, dell’inverno e primavera, della morte e della vita… )

    Un ruolo fondamentale era dato dalla figura del re: toccava a lui, in quanto rappresentatnte-figlio-luogotenente di dio, assicurare l’ordine da cui scaturiva prosperità, pace, giustizia per i poveri e gli oppressi (cf Is 1,23; Sl 72,7.16).

    Ad esempio quando il re babilonese Assurdanipal (669-630 ac) assurge al trono, esso viene celebrato con queste parole:

    Governo prospero

    anni di equità

    Piogge abbondanti,

    fiumi in piena…

    i vecchi saltano

    i fanciulli cantano.

    Le fanciulle esultano di gioia,

    le donne concepiscono…

    Quelli che da anni giacevano ammalati rivivono,

    gli affamati sono saziati,

    i magri diventano grassi,

    gli ignudi sono coperti di abiti.

    Israele coltiva la speranza del regno di Dio, ma a differenza di altri popoli non lo proietta come un ritorno ciclico al passato, non è un ritorno alla mitica età dell’oro, esso invece appartiene al futuro dell’alleanza, alle promesse stesse di Dio fatte a Abramo, Isacco e Giacobbe.

    Questa convinzione di fede nasce anche dall’esperienza derivante dalla delusione a cui Israele soggiace passando da un re all’altro. La monarchia è screditata inesorabilmente. Nasce l’attesa che  re e pastore d’Israele sia JHWH stesso (cf Gr 22,1-4; Ez 34). Alla fin fine ci si rende conto che il regno verrà solo se JHWH stesso “pascolerà” il suo popolo.

    Nonostante tutte le prove e persecuzioni Israele non mancherà mai di questa speranza (tuttora). Ne fanno testo tante preghiere salmiche in cui si celebra il trionfo di JHWH e l’instaurarsi del suo Regno:

    “Il Signore è re, tremino i popoli…

    Re potente che ami la giustizia” (Sl 99,1.4)

    “Acclamate come vostro re il Signore…

    Egli viene a giudicare la terra,

    giudicherà il mondo con giustizia

    e i popoli con rettitudine” (Sl 98,6.9).

    Equivalente sarà l’immagine della venuta finale del Signore, del giorno di JHWH, in cui egli farà definitivamente giustizia e porterà salvezza (cf Is,35,4; Gl 2,1; Gl 3,1-5; Sof 1,14).

    Altra immagine equivalente sarà la riunificazione di tutti i popoli sotto l’unica signoria di Dio, ed essa avverrà sul monte santo di Sion (Alla fine dei gioni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti… Is 66,19-21; Mic 4,1-7). [1]

    NEL NUOVO TESTAMENTO

    Nel II sec. A.C. si attesta una forte attesa del regno di Dio testimoniata dalla fioritura della letteratura apocalittica, tutta permeata dalla speranza della sua vicinanza.

    Un avvento, ci dicono, che non sarà privo di drammaticità. Daniele 7 descrive la progressiva distruzione ed annientamento dei grandi imperi terreni. Non avverrà il passaggio dunque senza dolore: calamità, guerra, morti e pestilenze. Come se il mondo ripiombasse nel caos primigenio in attesa di una nuova creazione. Sono i dolori del parto, preludono alla nascita di una nuova vita.[2]

    Gesù annuncia il regno, ovvero intende affermare che è giunta l’ora del suo avvento; le speranze stanno per essere realizzate.

    Ma di che Regno parla di Gesù? Come lo intende?

    Non si identifica con l’interpretazione politica e nazionalistica, ma d’altro lato non da adito ad una interpretazione puramente spirituale ed interiore che fa riferimento solo alla coscienza del singolo.

    La sua parola pur non facendo politica risulta sovversiva nei confronti di tutte le strutture di peccato, mentre egli rifiuta di schierarsi dalla parte di chi lo vorrebbe attirare su di un campo politico (cf Gv 6,14s).

    Gesù pone dei gesti concreti, visibili, dei segni direbbe Giovanni, che annunciano un ordine nuovo:

    Lc 7,22 in rif. a Is 61,1-2

    Tra tutte le immagini usate da Gesù per parlare del Regno, una gli è particolarmente cara: è la gioia del banchetto al quale tutti sono invitati iniziando proprio dagli ultimi, malati e peccatori (cf Lc 14,21).

    Gesù userà anche le immagini del grano e la zizzania (Mt 13,24), del granello di senape ( Mt 13,31), del lievito (mt 13,33), del tesoro nascosto e la perla preziosa (Mt 13,44), della rete ricolma di pesci (mt 13,47).

    Gesù talvolta afferma la presenza in atto del regno, altre volte lo annuncia prossimo. E’ importante questa sottolineatura che suggerisce il già e il non ancora del regno come inteso da Gesù nell’invocazione del Pater.

    Con l’incarnazione infatti il Regno è già entrato in questo mondo, ma come un “granello di senape” (cf Mt 13,31s). E’ piccolo, insignificante, nascosto, ma possiede già in sé tutte le sue potenzialità future, è destinato a svilupparsi incredibilmente fino al suo compimento alla fine dei tempi.

    Questo Regno in germe deve ora ancora lottare contro le forze di morte presenti nel mondo, che saranno definitivamente sconfitte alla fine quando la zizzania sarà raccolta e bruciata.

    Quando il regno sarà completato? Dice Paolo: quando Cristo “consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto a nulla ogni potenza nemica… e aver posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte… e Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,24-28).

    Dunque il regno è presente già sin d’ora, ma la sua piena manifestazione è nel futuro.

    La Chiesa non è il Regno di Dio già attuato, essa è comunità di credenti chiamata a porre i segni del Regno lungo la storia, vocazione ad essere sacramento del regno in questo mondo (cf Mc 16,15-18).

    VENGA IL TUO REGNO

    Il discepolo di Gesù è invitato dalla preghiera del Pater ad invocare l’avvento del Regno.

    Ed è questa una preghiera che ha sempre accompagnato la comunità cristiana che accanto all’invocazione del Pater, pregava dicendo: Marana thà. “E’ il grido dello Spirito e della Sposa: Vieni Signore Gesù” (CCC 2817). Venga il tuo Regno!

    Queste invocazioni sottolineano il fatto che la venuta del regno è gratuita, è puro dono, indipendente dalla volontà dell’uomo. Esso si può ricevere,  ereditare (cf Mc 10,17), accogliere (Mc 10,15); attendere (Lc 2,25).

    Da parte nostra ci sarà dunque solo un’attesa passiva? Si tratta di stare a braccia conserte come in stazione attendendo il treno?

    Pregando le parole “Venga il tuo Regno” siamo  portati a chiedere di entrare nella volontà di Dio, nell’ottica del suo Regno, imparando a scorgere din d’ora, nella nostra storia, i suoi germi di presenza.

    La preghiera, se è autentica, costringe ad aprire il nostro cuore all’accoglienza di questi germi del regno e a porre a nostra volta dei segni concreti della sua presenza. Se il regno è pace, giustizia, amore, verità e vita questo significa che cercherò sin d’ora di incastonare in questa storia così sbilenca, contraddittoria, segnata dal male e dalla morte gesti nuovi di giustizia, di verità, di vita, di amore. Sono questi doni che ci rimandano all’azione presente dello Spirito nella Chiesa e nel mondo. Non per nulla antiche traduzioni dicevano in luogo di “venga il tuo regno” le parole “Il tuo santo spirito venga su di noi e ci purifichi”. Lo Spirito è sempre più immediato inizio del regno che viene nella storia. (Massimo il Confessore -IV sec. – leggeva la sequenza Padre-Nome-regno come un movimento trinitario).

    Si domanda una presenza maggiore della ricchezza di Cristo tra gli uomini, nella loro vita, nelle loro strutture, nel mondo in cui essi abitano (U.Vanni)

    UN RE CROCIFISSO

    La struttura delle fiabe rappresenta una drammatizzazione della vita, con le sue prove, le sue lotte, i suoi conflitti. Il fine è sempre lieto: “Vissero tutti felici e contenti”. I cattivi sono inesorabilmente castigati. Il bene trionfa sempre: è solo questione di tempo e di pazienza. I ruoli sono sempre ben definiti: i cattivi sono proprio cattivi, e i buoni unicamente buoni.

    Per i bambini le fiabe sono importanti: svolgono il ruolo di iniziazione al mistero della vita e della morte.

    Ma gli anni passano, i bambini non sono più tali, la fiaba della vita si sfalda a volte lentamente ma inesorabilmente. Ci si rende conto che non esistono bacchette magiche o talismani che risolvono i problemi. La vita si presenta carica di contraddittorietà: i ruoli sono sempre meno definiti, il bene spesso sembra non trionfare mai, tutto sembra avvolto da un velo che prennauncia un’inesorabile morte senza speranza.

    La regalità di Cristo sulla croce si staglia sulla storia  in tutta questa contraddittorietà e assurdità. Non vi è un lieto fine nella sua vita terrena: l’innocente è stato ucciso, in quel giorno “fu sparso sangue innocente” (Dan). Sono i “buoni”, gli osservanti della Torah che hanno ucciso Gesù. E la sua morte non è quella dell’eroe: nella sua umanità Gesù sente tutto il dramma, lo quarcio nella sua carne, del passo, della pasqua, che si appresta ad affrontare (“e il suo sudore cominciò a cadere a terra come gocce di sangue”).

    Nel Vangelo di Giovanni troviamo una sezione dedicata al regno, ed essa è destinata alla Chiesa affinché non cada in nessun equivoco riguardo ad esso..

    Siamo infatti proprio nel racconto della Passione. Dinanzi a Pilato Gesù non nasconde la sua regalità: “Io sono re”, ma afferma nel medesimo tempo l’essenziale diversità della sua regalità  da quelle di questo mondo “Il mio regno non è di questo mondo” (cf Gv 18,36).

    Egli sarà un re coronato di spine e rivestito del mantello regale di porpora. Inchiodato sulla croce come su un trono, e presentato al mondo intero (le tre lingue) come il “re dei giudei” (19,20).

    Ed è qui che il vangelo proclama al mondo la regalità del Signore Gesù che dona la vita  liberamente e per amore:  “li amò sino alla fine” (13,1).

    Dove sta la gloria, la “santificazione del Nome di Dio nella passione e morte del Figlio?

    Gesù muore per il Regno che ha annunciato e che non vede. Come Abramo che morì con la promessa di Dio di una terra e di una numerosa discendenza: ma muore possedendo solo una tomba, e un figlio.

    E’ sicuramente un re che si muove su di una linea opposto ai re di questo mondo (cf la lavanda dei piedi: Gv 13,18-36).

    Egli ha posto i germi del regno nella storia, ha posto anzitutto se stesso. Come Risorto egli continua la sua presenza in mezzo a noi e attraverso noi. I segni del regno dunque ci sono, ma sta a noi il saperli riconoscere. Spetta ancora a noi collaborare affinché essi siano posti lungo i solchi della storia, nella certa speranza che al di là di ogni pretesa immediata di riuscita e realizzazione.

    Cero questi segni rimarranno poveri, deboli, spesso perseguitati. Ma qui risulta fondamentale la fede nella fedeltà del Padre che non verrà meno alla promessa di cieli e terra nuova.

    Così la Chiesa e il cristiano imparano ad attendere fiduciosi la venuta del  regno del Padre.

    Non lo vogliamo però identificare subito e solo con il “paradiso”, perché allora si domnaderebbe come san Paolo di essere subito sciolti dai legacci di questo mondo. Anche se “in effetti si tratta principalmente della venuta finale del regno di Dio come il ritorno di Cristo” (CCC 2818).

    Il regno è già qui, è dentro la storia. Ed è questa la “lieta notizia”: è giunto a voi il regno di Dio (Lc 11,20).

    E’ necessario avere occhi di fede e di sapienza per riconoscerlo in mezzo alla zizzania; occorre disponibilità per apreire il cuore alla sua venuta già sin d’ora pregustandone il suo sapore.

    Sapienza per imparare ad accoglierne con fiducia i ritmi, i tempi, le modalità così spesso diversi dai nostri (cf Mt 13,47-50 il grano e la zizzania).

    Nessuno lo possiede o lo possederà in pienezza. Nessuno può dire “eccolo qui o eccolo là”. Esso è un tesoro nascosto (cf Mt 13,44), rivelato ai piccoli (“Ti benedico o Padre….”).

    Per ora il regno è lievito, è sale, è luce (cf Mt 13,33; 5,13-14).

    L’umile e fiduciosa attesa del dono ci aiuta ad evitare ogni forma di fanatismo che porterebbe ad identificare in modo ottuso e meschino noi stessi, i nostri progetti e realizzazioni con il Regno stesso di Dio, rischio che la Chiesa in certe epoca ha più di una volta  vissuto.

    “Che il regno non sia di questo mondo ci libera così dalle utopie totalitarie (da cui la cristianità non si è sempre preservata). Ma che esso affiori già nella pace, nella bellezza, nella tenerezza della liturgia e della contemplazione, ci libera dalle delusioni e dalle amarezze che ci rendono cinici e crudeli” (O. Clement, Anacronache).


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Il regno di Dio è come un granellino di senape… è come un seme che un uomo getta nella terra…

    Possiedo questa fede nella presenza operante del regno?

    Riesco a vederne i segni di presenza e di crescita in me e attorno a me? Provo ad elencarne alcuni.

    2. Il regno è come il lievito….

    C’è in me questo lievito? Esso fermenta il mio modo di vivere?

    Se questo non avviene: perché, quali ne sono i motivi? Cosa potrei fare?

    Mi sento attirato e impregnato da altri titpi di lievito?

    3.       Il Signore è re in eterno, per sempre…

    La signoria di Dio nella mia vita: la riconosco? Come si concretizza la mia sottomissione ad essa?

    Senti che la tua vita è affidata a lui in tutta sicurezza?

    4.       Annunzierò le tue meraviglie o Signore…

    Il regno è testimoniato dalla tua vita. Esso si manifesta tramite le tue azioni, il saper porre cioè germi del regno lungo i solchi della tua storia che è quella di tutta l’umanità.

    So collocare questi semi del regno?

    Se si in che modo?

    Se no: perché? Cosa potrei fare affinché questo si concretizzi?



    [1]Prendiamo nota che la forte critica che l’ebraismo rivolge al cristianesimo sta proprio in questo. Come potete dire che è giunto il Messia quanto le profezie legate alla sua venuta prevedono l’instaurarsi definitivo del Regno di Dio? (Cf Is 11,6-9; 2,4; Ez 36,25-35) Nulla è cambiato nel mondo. Permangono violenze, ingiustizie, soprusi, malattie morte. Cosa rispondereste?

    [2]Interessante notare come si presenteranno due correnti di riflessione teologica all’interno del giudaismo.  Una prima penserà che il regno consista in una restaurazione della dinastia davidica. Anche all’interno del NT alcuni discepoli si presentano con quest’attesa (cf Mc 10,37). Una seconda, più spiritualista, penserà il regno di Dio come un ordine radicalmente nuovo, non solo annientamento dei nemici di Israele ma addirittura dello stesso male.

  • 25 Gen

    SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

    di p. Attilio Franco Fabris


    Più che trattarsi di domande le prime tre richieste del Padre Nostro esprimono degli auspici, dei desideri, delle attese:

    – sia santificato il tuo nome

    – venga il tuo regno

    – sia fatta la tua volontà

    A questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta così: E’ proprio dell’amore pensare innazi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non “ci” nominiamo ma siamo presi dal “desiderio ardente” dall”ansia” stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo (2803).

    Il primo di questi desideri è dunque che il santo Nome di Dio sia santificato.

    Si tratta per noi di una espressione strana per noi (è sempre stata per lo più intesa come il rispettare il nome di Dio non bestemmiandolo), ma comunissima nel giudaismo.

    Troviamo ad esempio nella preghiera quotidiana dello Qaddish:

    Sia glorificato e santificato
    il tuo grande Nome
    nel mondo che egli ha creato

    secondo la sua volontà

    E nella terza delle Diciotto Benedizioni leggiamo:

    Tu sei santo e il tuo nome è santo.
    Noi santificheremo il tuo nome nel mondo,
    come è santificato nell’alto dei cieli.

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Per la cultura semitica il nome non era una semplice designazione convenzionale, esso era intimamente legato alla persona, si identifica con essa.

    Dare un nome nuovo significava ad esempio affidare a quella persona una nuova missione, un nuovo modo di essere, implicava un profondo cambiamento e un potere su di lui (cfr il romanzo di Gary Jennings, L’Azteco, in cui il protagonista Mixtli lo scrivano dovrà cambiare nel suo cammino diversi nomi a seconda con i potenti con cui si troverà a che fare).

    Ricevere un nome da qualcuno significava riconoscere di essere dipendenti da Lui (cf Gn 17,5; 1,3-10; 2,20: Non ti chiamerai più Abram ma Abraham perché padre di molti popoli io ti costituirò)).

    Di conseguenza conoscere il nome significava possedere il segreto intimo della persona, avere un potere su di lui, da qui il suo valore magico.

    Israele conosceva il nome santo di Dio che gli era stato rivelato (cf Es 3,14-15; 6,2-3), ma doveva impegnarsi a non ingiuriarlo mai nè impiegare per maledizioni (cf Lv 24,11-15), nè per giuramenti o altro (cf Lv 19,12; Es 20,7).

    Nel post esilio il rispetto del Nome giunse a tal punto che solo il Sommo Sacerdote lo poteva pronunciare e una sola volta all’anno, nel Santo dei Santi nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). La qual cosa fece sì che si perdesse l’ esatta pronuncia del sacro Tetragramma JHWH.

    Incontrandolo nella lettura della Scrittura doveva essere sempre sostituito da un titolo similare (es Adonai) aggiungendo la formula “Benedetto sia il suo Santo Nome”.

    Ad un primo livello dunque capiamo che santificare  il nome di Dio significa rispettarlo, onorarlo, mai profanarlo, non usarlo in modo magico al fine cioè di voler piegare Dio al proprio servizio (cf Lv 18,21; 20,3).

    Il verbo “santificare” equivale a separare, distinguere.

    Dio è il “Tre volte Santo” (cf Is 6,1-5), ovvero Colui che è totalemente “Altro” dall’uomo, distinto e separato da lui.

    Santificare il nome di Dio ad un secondo livello significa dunque riconoscere che egli è Unico, ineguagliabile, ineffabile nel suo mistero. Ed era in questo senso che il giudaismo interpretava il termine ehad-Uno nello Shemà Israel.

    Israele santificava il nome di Dio professando e magnificando la sua azione nella storia, narrando le opere da lui compiute, manifestando lo stupore per il suo agire e rivelarsi. Ed è questo un terzo livello:

    Anche lo starniero, che non appartiene ad Israele tuo popolo, se viene da un paese lontano a causa del tuo nome perché si sarà sentito parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascoltalo dal cielo, luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo e sappiano che al tuo nome è stato dedicato questo tempio che io ho costruito” (1Re 8,41-43).

    Quindi il nome di Dio è glorificato-santificato quando si annunziano le sue opere. Israele è chiamato ad essere un inno vivente alla santità-unicità di Dio, popolo nel quale JHWH manifesta la sua gloria:

    Vedendo ciò che ho fatto in mezzo a loro,

    santificheranno il mio nome,

    santificheranno il Santo di Giacobbe,

    tremeranno di fronte al Dio di Israele” (Is 29,23).

    E’ tutta la storia di Israele che santifica il nome del Signore, e Israele ben conosce questa sua missione. Compito dei padri sarà di narrare ai figlio le grandi opere di JHWH iniziandoli alla santificazione del nome:

    Grande è il Signore e degno di ogni lode,

    la sua grandezza non si può misurare.

    Una generazione narra all’altra le sue opere,

    annunzia le sue meraviglie.

    Diffondono il ricordo della sua bontà immensa” (Sl 145,3-7).

    Ma vi è uncora un quarto livello. Occorre partire dalla considerazione che anche la santificazione del nome fatta nella liturgia splendida del Tempio e nei riti non è sufficiente, e i profeti lo ricorderanno insistentemente; è indispensabile che tutto questo sia accompagnato da una vita “santa” ovvero conforme ai dettami della Torah:

    Siate santi, perché io il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 22,31)

    Osservate i miei comandi, non profanate il mio nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli isrraeliti. Io sono il Signore che vi santifico”

    L’ingiustizia, il sopruso, l’idolatria sono profanazioni del nome santissimo di Dio:

    Hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; calpestano come polvere della terra la testa dei poveri… e così hanno profanato il mio santo nome” (Am 2,6-7).

    Arriviamo ad un testo fondamentale per entrare in una ancor più profonda comprensione dell’espressione “santificare il nome di Dio”. Si tratta di Ez 36,20-38:

    “Giunsero fra le nazioni dove erano spinti e disonorarono il mio nome santo, perché di loro si diceva: Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati.  Annunzia alla casa d’Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le genti presso le quali siete andati.  Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore – parola del Signore Dio – quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi.

    Il profeta sta scrivendo al popolo esiliato, ridotto in schiavitù. Tale situazione è letta come conseguenza dell’infedeltà alla Legge. I pagani, un tempo meravigliati per il successo di Israele, ora lo deridono e con esso un Dio che si è dimostrato non più dalla loro parte.

    Ma ecco che JHWH non sopporta che il suo Nome a motivo di Israele sia disonorato. Egli dunque prenderà sicuramente posizione al fine di difendere il suo nome. In che modo? Ricostruendo il suo popolo, riportandolo nella terra promessa, soprattutto dando un cuore nuovo ad Israele affinché non si allontani più da lui, santificando così il suo Nome santo davanti a tutti i popoli.

    Nel parlare di ciò che Dio compie, la spiritualità giudaica usava la forma passiva (passivo teologico onde evitare il Nome di Dio): “sarete giudicati”, “vi sarà dato…” equivale a “Dio vi giudicherà”, “Dio vi darà”…

    “Sia santificato il tuo nome” lo traduciamo con “O Dio santifica il tuo nome”.

    Gesù dirà ad esempio: “Padre glorifica il tuo nome” (Gv 12,28).

    Non siamo noi anzitutto a glorificare Dio, non ne ha bisogno!

    Il suo nome è glorificato nella sua opera di salvezza gratuita nei confronti dell’uomo: il cieco, il paralitico, il peccatore che sperimentano la salvezza se ne tornano “lodando e glorificando Dio”.

    Nel Pater noi chiediamo di poter sperimentare al più presto la sua opera di salvezza in noi, nella Chiesa, nel mondo intero.

    Una preghiera già esaudita dalla fedeltà di Dio anche se non ancora realizzata in modo definitivo, ma di cui possiamo già sin d’ora “assaggiare” gli anticipi. E di cui a volte, in momenti difficili, ci augurereremmo di vedere già realizzata pienamente.

    Speranza e desiderio ardente presente già nell’antico giudaismo: “Glorificato e santificato sia il suo grande nome nel mondo… E ciò avvenga ai nostri giorni, nel tempo di vita della casa di Israele, in fretta e in tempo prossimo”.

    A questo punto sorge una domanda: se è Dio che deve santificare il suo santo nome a che serve la nostra preghiera?

    La nostra supplica non cambia il cuore di Dio che rimane sempre fedele al suo patto, ma il nostro. Siamo noi che dobbiamo renderci disponibili ad accogliere la sua opera di salvezza. Che il suo nome sia santificato perciò nella nostra vita.

    IL NOME: MISTERO DELLA PERSONA

    In mezzo ad una massa di volti sconosciuti dà gioia il sentirsi chiamare improvvisamente per nome da una voce amica.

    Il mio nome risuona come un riconoscimento di me stesso come persona, esso è quella realtà che mi distingue dagli altri e che mi permette di entrare in relazione con l’altro.

    Senza un nome io non esisto. Quando incontriamo un bambino gli chiediamo infatti per prima cosa: Come ti chiami?

    Il nome è dunque non soltanto quella realtà che mi definisce ma altresì quella realtà che mi pone in relazione con qualcun altro: quando sono chiamato io esisto, io sono interpellato.

    Anche Dio ha rivelato al suo popolo il suo nome: JHWH (cf Es 3,14). Non è dunque un’astrazione, un principio anonimo di esistenza.

    Ma mentre rivelava il suo nome vi si nascondeva. JHWH significa infatti: “Io sarò”. E’ come se avesse detto: Da ciò che farò capirete chi sono.

    La rivelazione del suo nome lungi dal compiere la rivelazione diventa un invito pressante alla ricerca, perché Dio non si lascia afferrare: JHWH è Dio ineffabile, indicibili, indescrivibile.

    Gesù, che è l’esegesi del Padre (cf Gv 1), ci ha manifestato un altro nome di Dio: il suo essere Padre, il suo essere amore. Con la sua incarnazione, passione e morte ci ha detto chi è Dio.

    E’ in Gesù che il Nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: rivelato da ciò che egli è, dalla sua parola, dal suo sacrificio (CCC 2812).

    Il nuovo nome è dunque Amore (“Dio è Amore”). Per santificare il Nome noi dobbiamo unicamente rifugiarci nella croce di Cristo. Nella sua sofferenza e morte (O. Clèment).

    INVOCARE IL NOME DEL SIGNORE

    Dio ci conosce nome per nome. Di fronte a lui non siamo una massa.

    Un nome con il quale Dio ci interpella, intesse un dialogo, una relazione sponsale, paterna, amicale. Quando chiama qualcuno lo fa sempre con il suo nome.

    Invocare il nome santo di Dio è rispondere a questa chiamata, e questa invocazione può assumere tantissime sfaccettature:

    – un chiamare in causa Dio di fronte al dramma della sopfferenza umana: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

    – un atto di abbandono e resa nelle sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46)

    – un grido di aiuto: “Padre passi da me se possibile questo calice”.

    Invocare il nome non è pretesa di piegare Dio: è lui il Signore, l’onnipotente, il creatore che chiama le stelle per nome (Is 40,26).

    SANTIFICARE IL NOME

    E’ Gesù colui che più di ogni altro ha santificato il Nome di Dio.

    Nell’Eucaristia memoriale vivo della sua morte e risurrezione, preghiera somma della Chiesa, noi santifichiamo il Nome di Dio. Nella liturgia della parola narriamo le sue meraviglie per noi santificando il suo Nome. La memoria di Dio nella vita ci porta a compiere opere tali da santificare il suo nome.  I nostri gesti di amore, di dono, di sacrificio sono occasione di lode al Padre da parte degli uomini (cf Mt 5,16), la nostra vita di fronte agli altri assume il compito di specchio di Dio:

    I serafini, lodando Dio, dicono: Santo, Santo, Santo; appunto le parole “sia santificato il tuo nome” significano che il suo nome sia glorificato. E’ come se dicessimo a Dio: Concedici di vivere in modo così puro e perfetto che tutti, vedendo noi, ti glorifichino. La perfezione del cristiano sta proprio in questo, nell’essere così irremprensibile in tutte le sue azioni, che chiunque lo vede, per esse rende lode a Dio” (s. Giovanni Cris., Om. In Matteo, 19)

    In fin dei conti non possiamo santificare il Nome se non lasciandolo entrare nella nostra vita con la sua azione santificante. “Il nome santifica ed è santificato in un medesimo processo” (B. Standaert).

    Diceva Nieztche: Mostrami che tu sei redento e io crederò al tuo Redentore.


    L’INIZIAZIONE CRISTIANA

    Il battesimo: è l’evento di salvezza posto all’inizio della nostra vita in cui il nostro nome è messo in relazione al nome del Padre, del Figlio e dello Spirito. La Trinità ristabilisce in noi la sua dimora di gloria-santità.

    Nella confermazione Dio ci chiama ancora per nome per affidarci un compito, una missione dentro la comunità cristiana. La nostra vocazione come missione-testimonianza della santità di Dio

    Nell’Eucaristia, solenne invocazione del Nome, la Trinità rinnova l’alleanza con noi. Ci si riconosce Uno dinanzi all’altro. Essa è memoriale delle grandi opere compiute da Dio in cui egli è santificato.

    La catechesi e la predicazione assumeranno ancora la tonalità del racconto come ambito in cui Dio rivela il suo nome e in cui viene santificato.

    NEL NOME DI GESU’

    Ogni preghiera liturgica è rivolta al Padre nel nome di Gesù nello Spirito Santo. Avviene così una duplice rivelazione:

    – la via che Dio ha percorso per arrivare a noi

    – la via che dobbiamo percorrere per andare a lui.

    E’ Cristo la via per giungere al Padre (cf Gv 14,6 Mostraci la via…).

    La nostra preghiera è dunque valida, efficace, se fatta nel suo nome:

    Gv 14,13-16; 15,16; 16,23-26

    Ed è lo Spirito di Gesù a suscitare in noi la preghiera: il grido di Abbà (cf Rm 8,15-27).

    La nostra preghiera raramente si rivolge al Padre (forse sintomo dell’abbandono della tradizione biblica e liturgica). Ci sembra non conveniente “scomodare” il Padre, non si ha familiarità con lui. Anche Cristo spesso è rispedito in cielo, lontano da noi… non ci resta che Maria!

    Ma la tradizione biblica  ci mostra un Padre tenero e “materno”, di cui Gesù è il volto umano. Nel suo Spirito ci rivolgiamo al Padre in tutta fiducia (Ebr 4,14).

    Se esasperiamo il ruolo dei santi rischiamo di adombrare questo volto paterno di Dio, ricadendo in una sorta di mitologia diversificata secondo tante “competenze”.

    NELL’EDUCAZIONE

    – Il nome di Dio va sempre abbinato a realtà positive. Non va usato come deterrente o come ricatto. – Ci si abitui a rivolgersi al Padre nella lode e nel rendimento di grazie per i suoi doni.

    – Alla luce del suo Nome vengAno letti a grandi fatti della vita.

    – Si purifichi continuamente la conoscenza di Dio. Vi è troppa ignoranza in questo campo d essa genera spesso solo puerilità, magismo, paure


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Alla luce di Ez.  36,20-38 è JHWH che santifica il suo nome in mezzo alle nazioni nonostante il peccato di Israele occasione di denigrazione del suo Nome.

    Dio è fedele nonostante il nostro male.

    Questo ravviva la nostra fiducia nella sua misericordia. E’ presente nel tuo cammino spirituale, oppure dinanzi al male ci scoraggiamo, o addirittura vi si persevera senza prendere coscienza che esso diviene occasione di non santificazione del nome?

    2.       Il nome di Dio è santificato quando si annunziano le sue opere.

    Prova a ripercorrere la tua storia, scoprivi alcune opere di Dio.

    Quali sono?

    Sono diventate occasione per santificare il suo Nome?

    3.       Chiedere che il Nome sia santificato significa rendersi disponibile il nostro cuore all’opera che Dio vuole compiere in noi a beneficio della Chiesa e del mondo.

    Senti in te questo desiderio e disponibilità?

    Cosa fare da parte nostra per rendersi concretamente disponibili?

    Quali ostacoli secondo te vengono a frapporsi?

    Cosa fare per cercare di abbatterli?

    4.       Prova a stendere per iscritto un tuo commento e una preghiera che accompagni questa  prima invocazione del Padre Nostro.

  • 25 Gen

    CHE SEI NEI CIELI

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’espressione “che sei nei cieli” non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.

    Era questa un’espressione comunissima al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

    Quale il significato di questa espressione?

    Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inacessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, linfinito.

    Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida, costituito da acque trattenute da un’immenso velo costellato di stelle. Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve (cf Gb 37,9; 38,22). Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne (“Io tengo salde le sue colonne”).

    Al di sopra di tutto il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12).

    Dio comunicava con la terra tramite gli angeli; essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12); in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane essi si serviranno di ali.

    L’espressione “che sei nei cieli” sta ad indicare dunque la totale trascendenza di Dio, ma non la sua lontananza! Evitando anche la banalizzazione e la proiezione di false immagini di Dio.

    Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre essa vuole anzitutto eliminare ogni possibile confusione tra i “padri terreni” e il “Padre” da cui proviene ogni paternità.

    Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre”, può generare in noi un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inacessibile.

    Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio; la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.

    E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende infinitamente.

    Il peccato ci ha allontanato “dai cieli”, sono essi la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).

    La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo. E’ un cielo ormai aperto: “si spalancarono i cieli” durante il battesimo di Gesù, e da allora non sono più richiusi all’uomo. In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati. Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6).

    La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione: I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo (5,8).

    LA PREGHIERA CRISTIANA

    Guardando tre gesti con cui accompagnamo la nostra preghiera cogliamo alcuni elementi della nostra fede, ovvero della nostra relazione con Dio.

    Anzitutto vediamo che i cristiani pregano il Pater stando in piedi

    I mussulmani invece pregano stesi a terra rivelando la loro sottomissione a Dio. Pregando coì essi sottolineano la sua assoluta trascendenza e lontananza.

    Noi preghiamo il Padre nostro stando in piedi. E’ la posizione di Colui che è risorto, è il nostro identificarci con Cristo.

    Nel battesimo siamo infatti passati da morte a vita. Gesù ci ha fatto dono del suo stesso Spirito. Cristo risorto così vive in noi (cf Gal 2,20).

    Non ci sentiamo poi schiacciati dalla trascendenza di Dio, siamo costituiti nella libertà e nella filiolanza nei suoi confronti.

    Preghiamo volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo. Luogo della trascendenza di Dio.

    Vogliamo vedere le cose con gli occhi di Cristo sempre rivolti al Padre (cf Canone Romano): infatti è in Lui che sta la verità di noi stessi, della realtà che ci circonda e della storia che attraversiamo.

    Così diciamo  che egli è Padre che è nei cieli, vicino ma nello stesso tempo avvolto nel suo mistero.

    Scrive sant’Ambrogio: “ O uomo tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono… Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre… che ti ha redento per mezzo del Figlio e di: Padre nostro!… Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perhé ha generato lui solo, noi invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio” (De Sacram. 5,19).

    Si prega con le braccia allargate.

    Ed è questo il gesto spontaneo con cui il bambino corre incontro al papà o alla mamma.

    E’ pure il gesto indicante una disponibilità incondizionata, come quella di Gesù sulla croce: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato… Allora ho detto: Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà”(Ebr 10,5-7)

    E’ gesto di invocazione e di intercessione non solo per noi ma per il mondo intero.

    Non chiediamo con questo gesto che la volontà del Padre si pieghi alla nostra: al contrario è segno di apertura, disponibilità alla sua volontà; è la consegna di noi stessi.


    SCHEDA DI LAVORO

    1.       Ciascuno di noi lungo la sua storia, attraverso l’educazione e l’ambiente, viene a configurarsi un’immagine di Dio con dei tratti positivi e negativi. Si tratta di un’immagine il più delle volte “inconscia” ma che  proprio per questo rischia di arrestare o di facilitare l’incontro con Dio.

    Non bisogna avere paura di queste immagini, determinante invece è prenderne coscienza. Senza scandalizzarsi se ci accorgiamo che esse sono forse ben lontane dal volto del Padre rivelatoci da Gesù.

    Prova a guardare il tuo mondo interiore, soprattutto quello dei sentimenti, l’idea di Dio da quali sentimenti è accompagnata, quali idee ed immagini suscita?

    Sotto quali tratti è vicina all’immagine del Padre di Gesù?

    Per quali ne è invece lontana?

    2.       Quale esperienze ricordi come fondamentali nella tua esperienza di Dio?

    3.       Quale immagine di Dio e di uomo emerge dalla preghiera di Gesù presentata  in Mc 14,36-37? Prova a richiamare altri testi in cui Gesù rivela il volto di Dio come Padre.

    4.       Quale gesto spontaneamente saresti portato a fare recitando il Padre nostro?

    5.       Gesù insegnando il Padre nostro ci invita ad uscire dal nostro individualismo e da una concezione gretta di Dio. Dio è Padre di tutti, e in una famiglia uno ha a cuore i bisogni dell’altro.

    Prendo in considerazione la mia preghiera e quella della mia famiglia-comunità.

    Essa possiede la caratteristiche di essere costantemente aperta a tutta la Chiesa e al mondo intero?

    Ti sforzi di superare la tentazione di una preghiera ripiegata solo su te stesso e le tue necessità?

    6.       Dio è vicino e nello stesso tempo costantemente trascendente. Sempre da ricercare e scoprire. Il suo mistero è insondabile.

    Per me Dio Padre è vicino o lontano? La sua trascendenza mi allontana da lui, oppure diviene spinta alla ricerca umile e fiduciosa della preghiera?

    7.       I “cieli” in cui ha dimora il Padre sono oggetto del tuo desiderio. Il tuo cuore è rivolto là dove sta assiso Cristo Gesù alla destra del Padre?

    8.        Prega lentamente il Pater immedesimandoti in Gesù.

    Esprimi questa tua conformazione a lui con dei gesti:

    – le braccia allargate che ti ricordano l’offerta della sua vita sulla croce e la sua disponibilità

    – in piedi facendo memoria della sua risurrezione dai morti.

    – gli occhi rivolti al cielo dove è  la dimora del Padre.

    – il cuore aperto a tutto il mondo presentato al Padre nell’intercessione.

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