• 24 Gen

    PADRE NOSTRO

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’aggettivo “nostro” nel Pater è riferito ovviamente a Dio (“di noi”), non sta ad indicare certamente possesso.

    Siamo noi il suo popolo ed egli è il nostro Dio. Si tratta di un’appartetenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’alleanza:

    Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).

    Ancora: nostro indica la comunità, la Chiesa , la famiglia di Dio nella quale siamo stati generati alla fede mediante il nostro battesimo.

    E quando preghiamo l’Orazione del Signore, anche nel silenzio e solitudine della nostra stanza, sempre noi ci dobbiamo sentire inseriti nella grande pregheira della Chiesa: in questo senso non esiste per me cristiano una preghiera mia.

    Così il Padre nostro ci fa uscire dal nostro individualismo. E per essere pregato in verità “le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati”(ccc 2792).

    E’ la preghiera che deve abbattere ogni frontiera e ostacolo che si frappone agli altri.

    E nella Preghiera del Signore ci presentiamo portando tutti coloro per i quali il Figlio ha offerto se stesso: l’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo (CCC 2792).

    Pregando così il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiese che tutti siano una cosa sola.

    Il Pater, lo possiamo affermare, è la preghiera che ci fa passare dal Tu al Noi.

    Constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu:

    – il tuo nome

    – il tuo regno

    – la tua volontà.

    Nella seconda parte predomina il noi:

    – da a noi il nostro pane quotidiano

    – rimetti a noi i nostri debiti

    – non indurre noi in tentazione

    – libera noi dal male.

    Dal Tu del Padre passiamo ad noi scoprendo in tal modo l’altissima nostra dignità. Siamo figli, siamo un unico corpo per il battesimo e l’eucaristia, siamo un’unica famiglia, siamo fratelli e sorelle in Cristo con un legame più forte che quello del sangue (Mt 23,8).

    In famiglia pregare insieme il Pater significa riconoscere gli uni di fronte agli altri, in una comune professione di fede, la comune paternità di Dio da cui procede ogni altra paternità. Questo riconoscimento comune è garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole.

    In una comunità cristiana (religiosa) significa riconoscere che si è famiglia che trova il suo punto di riferimento non in se stessa, ma nel Padre da cui trae la propria origine e la sua ragione d’essere.

    Ci si riconosce così figli di un unico padre e fratelli non tanto per un legame fisico di sangue, ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre”.

    Comunità che si percepisce Corpo di Cristo in cammino verso l’esperienza della comunione.

  • 23 Gen

    Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l’amicizia della Chiesa con il mondo dell’arte, un’amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc’anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell’esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all’amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

    Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000, questo Pontefice, anch’egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra “quanti – come recita l’indirizzo –, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza”. Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l’amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l’intelletto. “Noi abbiamo bisogno di voi – egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione… voi siete maestri. E’ il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità” (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VIIbid., 314). In quella circostanza, Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: “E se Noi mancassimo del vostro ausilio – proseguiva –, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l’arte” ( assunse l’ impegno di “ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti”, e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un’autentica “rinascita” dell’arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

    Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell’arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l’anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell’umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch’io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell’apostolo Pietro.

    Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell’uomo, minaccia che incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L’affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel “faccia a faccia”, in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l’itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l’orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l’8 dicembre 1965: “A voi tutti – egli proclamò solennemente – la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!” (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione. E questo grazie alle vostre mani… Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo” (Ibid.).

    Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell’opera non sempre saggia dell’uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l’esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

    Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo “risveglia” aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto. L’espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz’altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: “L’umanità può vivere – egli dice – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”. La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell’esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell’irrazionale o nel mero estetismo.

    Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: “La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere” (n. 3). E più avanti aggiunge: “In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, l’arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione” (n. 10). E nella conclusione afferma: “La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente” (n. 16).

    Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull’abisso dell’Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l’attesta un incalcolabile numero di opere d’arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell’immenso deposito di “figure” – in senso lato – che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell’artigianato e dell’arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

    Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un’estetica teologica con queste suggestive espressioni: “La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto”. Osserva poi: “Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione”. E conclude: “Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che – segretamente o apertamente – non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare”. La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito, Dio nella storia dell’umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: “In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c’è realmente la presenza di Dio. C’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim’ordine è, per sua essenza, religiosa”. Ancora più icastica l’affermazione di Hermann Hesse: “Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio”. Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: “Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte” (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: “L’arte ha bisogno della Chiesa?”, sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel “grande codice” che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

    Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch’io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell’umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell’impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l’umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

    Sant’Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell’uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: “Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell’oro, dell’argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza” (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

  • 23 Gen

    L’artista, immagine di Dio Creatore

    1. Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.

    Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.

    In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).

    Qual è la differenza tra « creatore » ed « artefice? » Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla — ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino — e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l’uomo e la donna « a sua immagine » (cfr Gn 1,27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr Gn 1,28). Fu l’ultimo giorno della creazione (cfr Gn 1,28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell’evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l’universo. Al termine creò l’uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.

    Dio ha, dunque, chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella « creazione artistica » l’uomo si rivela più che mai « immagine di Dio », e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda « materia » della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano: « L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione ».(1)

    Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo « dono », tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione.

    La speciale vocazione dell’artista

    2. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l’espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro.

    E importante cogliere la distinzione, ma anche la connessione, tra questi due versanti dell’attività umana. La distinzione è evidente. Una cosa, infatti, è la disposizione grazie alla quale l’essere umano è l’autore dei propri atti ed è responsabile del loro valore morale, altra cosa è la disposizione per cui egli è artista, sa agire cioè secondo le esigenze dell’arte, accogliendone con fedeltà gli specifici dettami.(2) Per questo l’artista è capace di produrre oggetti, ma ciò, di per sé, non dice ancora nulla delle sue disposizioni morali. Qui, infatti, non si tratta di plasmare se stesso, di formare la propria personalità, ma soltanto di mettere a frutto capacità operative, dando forma estetica alle idee concepite con la mente.

    Ma se la distinzione è fondamentale, non meno importante è la connessione tra queste due disposizioni, la morale e l’artistica. Esse si condizionano reciprocamente in modo profondo. Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell’umanità. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura.

    La vocazione artistica a servizio della bellezza

    3. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».(3)

    Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte. Esso si è già affacciato, quando ho sottolineato lo sguardo compiaciuto di Dio di fronte alla creazione. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella.(4) Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: « kalokagathía« , ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: « La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello ».(5)

    E vivendo ed operando che l’uomo stabilisce il proprio rapporto con l’essere, con la verità e con il bene. L’artista vive una peculiare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del « talento artistico ». E, certo, anche questo è un talento da far fruttare, nella logica della parabola evangelica dei talenti (cfr Mt 25,14-30).

    Tocchiamo qui un punto essenziale. Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica — di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore… — avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità.

    L’artista ed il bene comune

    4. La società, in effetti, ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, di professionisti, di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri, che garantiscano la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è « l’arte educativa ». Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.

    La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una « spiritualità » del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma: « La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere ».

    L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato

    5. La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di « un’immagine scolpita o di metallo fuso » (Dt 27,15), perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: « Io sono colui che sono » (Es 3,14). Nel mistero dell’Incarnazione, tuttavia, il Figlio di Dio in persona si è reso visibile: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna » (Gal 4,4). Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, il quale è diventato così « il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso ».(6)

    Questa fondamentale manifestazione del « Dio-Mistero » si pose come incoraggiamento e sfida per i cristiani, anche sul piano della creazione artistica. Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo.

    La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di « immenso vocabolario » (P. Claudel) e di « atlante iconografico » (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione. A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario ed artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del « Verbo fatto carne ».

    Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una concreta mediazione catechetica.(7) Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un riflesso del mistero insondabile che avvolge ed abita il mondo.

    Tra Vangelo ed arte un’alleanza feconda

    6. In effetti, ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose. Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito.

    Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta come sopraffatto al punto da non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite ed a far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio « non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo », così che « non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana » (At 17,24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre « al di là » delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!

    Di altra natura è la conoscenza di fede: essa suppone un incontro personale con Dio in Gesù Cristo. Anche questa conoscenza, tuttavia, può trarre giovamento dall’intuizione artistica. Modello eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico. Non meno significativa è, a questo proposito, la lauda estatica, che san Francesco d’Assisi ripete due volte nella chartula redatta dopo aver ricevuto sul monte della Verna le stimmate di Cristo: « Tu sei bellezza… Tu sei bellezza! ».(8) San Bonaventura commenta: « Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto ».(9)

    Un approccio non dissimile si riscontra nella spiritualità orientale, ove Cristo è qualificato come « il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali ».(10) Macario il Grande commenta così la bellezza trasfigurante e liberatrice del Risorto: « L’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo… è tutta occhio, tutta luce, tutta volto ».(11)

    Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.

    I primordi

    7. L’arte che il cristianesimo incontrò ai suoi inizi era il frutto maturo del mondo classico, ne esprimeva i canoni estetici e al tempo stesso ne veicolava i valori. La fede imponeva ai cristiani, come nel campo della vita e del pensiero, anche in quello dell’arte, un discernimento che non consentiva la ricezione automatica di questo patrimonio. L’arte di ispirazione cristiana cominciò così in sordina, strettamente legata al bisogno dei credenti di elaborare dei segni con cui esprimere, sulla base della Scrittura, i misteri della fede e insieme un « codice simbolico », attraverso cui riconoscersi e identificarsi specie nei tempi difficili delle persecuzioni. Chi non ricorda quei simboli che furono anche i primi accenni di un’arte pittorica e plastica? Il pesce, i pani, il pastore, evocavano il mistero diventando, quasi insensibilmente, abbozzi di un’arte nuova.

    Quando ai cristiani, con l’editto di Costantino, fu concesso di esprimersi in piena libertà, l’arte divenne un canale privilegiato di manifestazione della fede. Lo spazio cominciò a fiorire di maestose basiliche, in cui i canoni architettonici dell’antico paganesimo venivano ripresi e insieme piegati alle esigenze del nuovo culto. Come non ricordare almeno l’antica Basilica di San Pietro e quella di San Giovanni in Laterano, costruite a spese dello stesso Costantino? O, per gli splendori dell’arte bizantina, la Haghia Sophía di Costantinopoli voluta da Giustiniano?

    Mentre l’architettura disegnava lo spazio sacro, progressivamente il bisogno di contemplare il mistero e di proporlo in modo immediato ai semplici spinse alle iniziali espressioni dell’arte pittorica e scultorea. Insieme sorgevano i primi abbozzi di un’arte della parola e del suono, e se Agostino, fra i tanti temi della sua produzione, includeva anche un De musica, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola, per non citare che alcuni nomi, si facevano promotori di una poesia cristiana che spesso raggiunge un alto valore non solo teologico ma anche letterario. Il loro programma poetico valorizzava forme ereditate dai classici, ma attingeva alla pura linfa del Vangelo, come efficacemente sentenziava il santo poeta nolano: « La nostra unica arte è la fede e Cristo è il nostro canto ».(12) Gregorio Magno, per parte sua, qualche tempo più tardi poneva con la compilazione dell’Antiphonarium la premessa per lo sviluppo organico di quella musica sacra così originale che da lui ha preso nome. Con le sue ispirate modulazioni il Canto gregoriano diverrà nei secoli la tipica espressione melodica della fede della Chiesa durante la celebrazione liturgica dei sacri Misteri. Il « bello » si coniugava così col « vero », perché anche attraverso le vie dell’arte gli animi fossero rapiti dal sensibile all’eterno.

    In questo cammino non mancarono momenti difficili. Proprio sul tema della rappresentazione del mistero cristiano l’antichità conobbe un’aspra controversia passata alla storia col nome di « lotta iconoclasta ». Le immagini sacre, ormai diffuse nella devozione del popolo di Dio, furono fatte oggetto di una violenta contestazione. Il Concilio celebrato a Nicea nel 787, che stabilì la liceità delle immagini e del loro culto, fu un avvenimento storico non solo per la fede, ma per la stessa cultura. L’argomento decisivo a cui i Vescovi si appellarono per dirimere la controversia fu il mistero dell’Incarnazione: se il Figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta.(13)

    Il Medioevo

    8. I secoli che seguirono furono testimoni di un grande sviluppo dell’arte cristiana. In Oriente continuò a fiorire l’arte delle icone, legata a significativi canoni teologici ed estetici e sorretta dalla convinzione che, in un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei Sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione nell’uno o nell’altro suo aspetto. Proprio per questo la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce. Scrive in proposito Pavel Florenskij: « L’oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste ».(14)

    In Occidente i punti di vista da cui partono gli artisti sono i più vari, in dipendenza anche dalle convinzioni di fondo presenti nell’ambiente culturale del loro tempo. Il patrimonio artistico che s’è venuto accumulando nel corso dei secoli annovera una vastissima fioritura di opere sacre altamente ispirate, che lasciano anche l’osservatore di oggi colmo di ammirazione. Restano in primo piano le grandi costruzioni del culto, in cui la funzionalità si sposa sempre all’estro, e quest’ultimo si lascia ispirare dal senso del bello e dall’intuizione del mistero. Ne nascono gli stili ben noti alla storia dell’arte. La forza e la semplicità del romanico, espressa nelle cattedrali o nei complessi abbaziali, si va gradatamente sviluppando negli slanci e negli splendori del gotico. Dentro queste forme, non c’è solo il genio di un artista, ma l’animo di un popolo. Nei giochi delle luci e delle ombre, nelle forme ora massicce ora slanciate, intervengono certo considerazioni di tecnica strutturale, ma anche tensioni proprie dell’esperienza di Dio, mistero « tremendo » e « fascinoso ». Come sintetizzare in pochi cenni, e per le diverse espressioni dell’arte, la potenza creativa dei lunghi secoli del medioevo cristiano? Un’intera cultura, pur nei limiti sempre presenti dell’umano, si era impregnata di Vangelo, e dove il pensiero teologico realizzava la Summa di S. Tommaso, l’arte delle chiese piegava la materia all’adorazione del mistero, mentre un mirabile poeta come Dante Alighieri poteva comporre « il poema sacro, al quale ha posto mano e cielo e terra »,(15) come egli stesso qualifica la Divina Commedia.

    Umanesimo e Rinascimento

    9. La felice temperie culturale, da cui germoglia la straordinaria fioritura artistica dell’Umanesimo e del Rinascimento, ha riflessi significativi anche sul modo in cui gli artisti di questo periodo si rapportano al tema religioso. Naturalmente le ispirazioni sono variegate quanto lo sono i loro stili, o almeno quelli dei più grandi tra essi. Ma non è nelle mie intenzioni richiamare cose che voi, artisti, ben conoscete. Vorrei piuttosto, scrivendovi da questo Palazzo Apostolico, che è anche uno scrigno di capolavori forse unico al mondo, farmi voce dei sommi artisti che qui hanno riversato le ricchezze del loro genio, intriso spesso di grande profondità spirituale. Da qui parla Michelangelo, che nella Cappella Sistina ha come raccolto, dalla Creazione al Giudizio Universale, il dramma e il mistero del mondo, dando volto a Dio Padre, a Cristo giudice, all’uomo nel suo faticoso cammino dalle origini al traguardo della storia. Da qui parla il genio delicato e profondo di Raffaello, additando nella varietà dei suoi dipinti, e specie nella « Disputa » della Stanza della Segnatura, il mistero della rivelazione del Dio Trinitario, che nell’Eucaristia si fa compagnia dell’uomo, e proietta luce sulle domande e le attese dell’intelligenza umana. Da qui, dalla maestosa Basilica dedicata al Principe degli Apostoli, dal colonnato che da essa si diparte come due braccia aperte ad accogliere l’umanità, parlano ancora un Bramante, un Bernini, un Borromini, un Maderno, per non citare che i maggiori, dando plasticamente il senso del mistero che fa della Chiesa una comunità universale, ospitale, madre e compagna di viaggio per ogni uomo alla ricerca di Dio.

    L’arte sacra ha trovato, in questo complesso straordinario, un’espressione di eccezionale potenza, raggiungendo livelli di imperituro valore insieme estetico e religioso. Ciò che sempre di più la caratterizza, sotto l’impulso dell’Umanesimo e del Rinascimento, e poi delle successive tendenze della cultura e della scienza, è un interesse crescente per l’uomo, il mondo, la realtà della storia. Questa attenzione, di per sé, non è affatto un pericolo per la fede cristiana, centrata sul mistero dell’Incarnazione, e dunque sulla valorizzazione dell’uomo da parte di Dio. Proprio i sommi artisti su menzionati ce lo dimostrano. Basterebbe pensare al modo con cui Michelangelo esprime, nelle sue pitture e sculture, la bellezza del corpo umano.(16)

    Del resto, anche nel nuovo clima degli ultimi secoli, in cui parte della società sembra divenusta indifferente alla fede, l’arte religiosa non ha interrotto il suo cammino. La constatazione si amplia, se dal versante delle arti figurative, passiamo a considerare il grande sviluppo che, proprio nello stesso arco di tempo, ha avuto la musica sacra, composta per le esigenze liturgiche, o anche solo legata a temi religiosi. A parte i tanti artisti che si sono dedicati principalmente ad essa — come non ricordare almeno un Pier Luigi da Palestrina, un Orlando di Lasso, un Tomás Luis de Victoria? — è noto che molti grandi compositori — da Handel a Bach, da Mozart a Schubert, da Beethoven a Berlioz, da Liszt a Verdi — ci hanno dato opere di grandissima ispirazione anche in questo campo.

    Verso un rinnovato dialogo

    10. E vero però che nell’età moderna, accanto a questo umanesimo cristiano che ha continuato a produrre significative espressioni di cultura e di arte, si è progressivamente affermata anche una forma di umanesimo caratterizzato dall’assenza di Dio e spesso dall’opposizione a lui. Questo clima ha portato talvolta a un certo distacco tra il mondo dell’arte e quello della fede, almeno nel senso di un diminuito interesse di molti artisti per i temi religiosi.

    Voi sapete tuttavia che la Chiesa ha continuato a nutrire un grande apprezzamento per il valore dell’arte come tale. Questa, infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un’immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione.

    Si comprende, dunque, perché al dialogo con l’arte la Chiesa tenga in modo speciale e desideri che nella nostra età si realizzi una nuova alleanza con gli artisti, come auspicava il mio venerato predecessore Paolo VI nel vibrante discorso rivolto agli artisti durante lo speciale incontro nella Cappella Sistina, il 7 maggio 1964.(17) Da tale collaborazione la Chiesa si augura una rinnovata « epifania » di bellezza per il nostro tempo e adeguate risposte alle esigenze proprie della comunità cristiana.

    Nello spirito del Concilio Vaticano II

    11. Il Concilio Vaticano II ha gettato le basi di un rinnovato rapporto fra la Chiesa e la cultura, con immediati riflessi anche per il mondo dell’arte. E un rapporto che si propone nel segno dell’amicizia, dell’apertura e del dialogo. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari hanno sottolineato la « grande importanza » della letteratura e delle arti nella vita dell’uomo: « Esse si sforzano, infatti, di conoscere l’indole propria dell’uomo, i suoi problemi e la sua esperienza, nello sforzo di conoscere e perfezionare se stesso e il mondo; si preoccupano di scoprire la sua situazione nella storia e nell’universo, di illustrare le sue miserie e le sue gioie, i suoi bisogni e le sue capacità, e di prospettare una migliore condizione dell’uomo ».(18)

    Su questa base, a conclusione del Concilio, i Padri hanno rivolto agli artisti un saluto e un appello: « Questo mondo — hanno detto — nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione ».(19) Appunto in questo spirito di profonda stima per la bellezza, la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium aveva ricordato la storica amicizia della Chiesa per l’arte, e parlando più specificamente dell’arte sacra, « vertice » dell’arte religiosa, non aveva esitato a considerare « nobile ministero » quello degli artisti quando le loro opere sono capaci di riflettere, in qualche modo, l’infinita bellezza di Dio, e indirizzare a lui le menti degli uomini.(20) Anche grazie al loro contributo « la conoscenza di Dio viene meglio manifestata e la predicazione evangelica si rende più trasparente all’intelligenza degli uomini ».(21) Alla luce di ciò, non sorprende l’affermazione del P. Marie Dominique Chenu, secondo cui lo stesso storico della teologia farebbe opera incompleta, se non riservasse la dovuta attenzione alle realizzazioni artistiche, sia letterarie che plastiche, che costituiscono, a loro modo, « non soltanto delle illustrazioni estetiche, ma dei veri “luoghi” teologici ».(22)

    La Chiesa ha bisogno dell’arte

    12. Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell’arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio. Deve dunque trasferire in formule significative ciò che è in se stesso ineffabile. Ora, l’arte ha una capacità tutta sua di cogliere l’uno o l’altro aspetto del messaggio traducendolo in colori, forme, suoni che assecondano l’intuizione di chi guarda o ascolta. E questo senza privare il messaggio stesso del suo valore trascendente e del suo alone di mistero.

    La Chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo, operando con le infinite possibilità delle immagini e delle loro valenze simboliche. Cristo stesso ha utilizzato ampiamente le immagini nella sua predicazione, in piena coerenza con la scelta di diventare egli stesso, nell’Incarnazione, icona del Dio invisibile.

    La Chiesa ha bisogno, altresì, dei musicisti. Quante composizioni sacre sono state elaborate nel corso dei secoli da persone profondamente imbevute del senso del mistero! Innumerevoli credenti hanno alimentato la loro fede alle melodie sbocciate dal cuore di altri credenti e divenute parte della liturgia o almeno aiuto validissimo al suo decoroso svolgimento. Nel canto la fede si sperimenta come esuberanza di gioia, di amore, di fiduciosa attesa dell’intervento salvifico di Dio.

    La Chiesa ha bisogno di architetti, perché ha bisogno di spazi per riunire il popolo cristiano e per celebrare i misteri della salvezza. Dopo le terribili distruzioni dell’ultima guerra mondiale e l’espansione delle metropoli, una nuova generazione di architetti si è cimentata con le istanze del culto cristiano, confermando la capacità di ispirazione che il tema religioso possiede anche rispetto ai criteri architettonici del nostro tempo. Non di rado, infatti, si sono costruiti templi che sono, insieme, luoghi di preghiera ed autentiche opere d’arte.

    L’arte ha bisogno della Chiesa?

    13. La Chiesa, dunque, ha bisogno dell’arte. Si può dire anche che l’arte abbia bisogno della Chiesa? La domanda può apparire provocatoria. In realtà, se intesa nel giusto senso, ha una sua motivazione legittima e profonda. L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione? Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive?

    Di fatto, il soggetto religioso è fra i più trattati dagli artisti di ogni epoca. La Chiesa ha fatto sempre appello alle loro capacità creative per interpretare il messaggio evangelico e la sua concreta applicazione nella vita della comunità cristiana. Questa collaborazione è stata fonte di reciproco arricchimento spirituale. In definitiva ne ha tratto vantaggio la comprensione dell’uomo, della sua autentica immagine, della sua verità. E emerso anche il peculiare legame esistente tra l’arte e la rivelazione cristiana. Ciò non vuol dire che il genio umano non abbia trovato suggestioni stimolanti anche in altri contesti religiosi. Basti ricordare l’arte antica, specialmente quella greca e romana, e quella ancora fiorente delle antichissime civiltà dell’Oriente. Resta vero, tuttavia, che il cristianesimo, in virtù del dogma centrale dell’incarnazione del Verbo di Dio, offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione. Quale impoverimento sarebbe per l’arte l’abbandono del filone inesauribile del Vangelo!

    Appello agli artisti

    14. Con questa Lettera mi rivolgo a voi, artisti del mondo intero, per confermarvi la mia stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l’arte e la Chiesa. Il mio è un invito a riscoprire la profondità della dimensione spirituale e religiosa che ha caratterizzato in ogni tempo l’arte nelle sue più nobili forme espressive. E in questa prospettiva che io faccio appello a voi, artisti della parola scritta e orale, del teatro e della musica, delle arti plastiche e delle più moderne tecnologie di comunicazione. Faccio appello specialmente a voi, artisti cristiani: a ciascuno vorrei ricordare che l’alleanza stretta da sempre tra Vangelo ed arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l’invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo.

    Ogni essere umano, in un certo senso, è sconosciuto a se stesso. Gesù Cristo non soltanto rivela Dio, ma « svela pienamente l’uomo all’uomo ».(23) In Cristo Dio ha riconciliato a sé il mondo. Tutti i credenti sono chiamati a rendere questa testimonianza; ma tocca a voi, uomini e donne che avete dedicato all’arte la vostra vita, dire con la ricchezza della vostra genialità che in Cristo il mondo è redento: è redento l’uomo, è redento il corpo umano, è redenta l’intera creazione, di cui san Paolo ha scritto che « attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio » (Rm 8,19). Essa aspetta la rivelazione dei figli di Dio anche mediante l’arte e nell’arte. E questo il vostro compito. A contatto con le opere d’arte, l’umanità di tutti i tempi — anche quella di oggi — aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino.

    Spirito creatore ed ispirazione artistica

    15. Nella Chiesa risuona spesso l’invocazione allo Spirito Santo: Veni, Creator Spiritus … — « Vieni, o Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato ».(24)

    Lo Spirito Santo, « il Soffio » (ruah), è Colui a cui fa cenno già il Libro della Genesi: « La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (1,2). Quanta affinità esiste tra le parole « soffio — spirazione » e « ispirazione »! Lo Spirito è il misterioso artista dell’universo. Nella prospettiva del terzo millennio, vorrei augurare a tutti gli artisti di poter ricevere in abbondanza il dono di quelle ispirazioni creative da cui prende inizio ogni autentica opera d’arte.

    Cari artisti, voi ben lo sapete, molti sono gli stimoli, interiori ed esteriori, che possono ispirare il vostro talento. Ogni autentica ispirazione, tuttavia, racchiude in sé qualche fremito di quel « soffio » con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall’inizio l’opera della creazione. Presiedendo alle misteriose leggi che governano l’universo, il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa. Lo raggiunge con una sorta di illuminazione interiore, che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello, e risveglia in lui le energie della mente e del cuore rendendolo atto a concepire l’idea e a darle forma nell’opera d’arte. Si parla allora giustamente, se pure analogicamente, di « momenti di grazia », perché l’essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende.

    La « Bellezza » che salva

    16. Sulla soglia ormai del terzo millennio, auguro a tutti voi, artisti carissimi, di essere raggiunti da queste ispirazioni creative con intensità particolare. La bellezza che trasmetterete alle generazioni di domani sia tale da destare in esse lo stupore! Di fronte alla sacralità della vita e dell’essere umano, di fronte alle meraviglie dell’universo, l’unico atteggiamento adeguato è quello dello stupore.

    Da qui, dallo stupore, potrà scaturire quell’entusiasmo di cui parla Norwid nella poesia a cui mi riferivo all’inizio. Di questo entusiasmo hanno bisogno gli uomini di oggi e di domani per affrontare e superare le sfide cruciali che si annunciano all’orizzonte. Grazie ad esso l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che « la bellezza salverà il mondo ».(25)

    La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: « Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! ».(26)

    I vostri molteplici sentieri, artisti del mondo, possano condurre tutti a quell’Oceano infinito di bellezza dove lo stupore si fa ammirazione, ebbrezza, indicibile gioia.

    Vi orienti ed ispiri il mistero del Cristo risorto, della cui contemplazione gioisce in questi giorni la Chiesa.

    Vi accompagni la Vergine Santa, la « tutta bella » che innumerevoli artisti hanno effigiato e il sommo Dante contempla negli splendori del Paradiso come « bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi ».(27)

    « Emerge dal caos il mondo dello spirito »! Dalle parole che Adam Mickiewicz scriveva in un momento di grande travaglio per la patria polacca(28) traggo un auspicio per voi: la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.

    Con i miei auguri più cordiali!

    Dal Vaticano, 4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione.

  • 23 Gen

    OSIAMO DIRE: PADRE

    di p. Attilio Franco Fabris

    NELL’ANTICO TESTAMENTO

    Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ad esempio Zeus era denominato “padre degli dei e degli uomini”; e nel secondo millennio a.C. troviamo un’invocazione sumerica al Dio Sin: “O Padre, misericordioso e clemente, che hai nelle tue mani la vita del mondo intero, o Padre generatore degli dei e degli uomini…”.

    Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive era chiamato “Padre”. Non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica.

    E’ una constatazione che può far sorgere meraviglia quando prendiamo atto sfogliando  l’Antico Testamento, che l’appellativo  Padre riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto).

    Israele infatti ha imparato a chiamare JHWH “Padre” molto tardi. Perché? Occorre pensare che nelle mitologie pagane dei popoli confinanti con Israele, la paternità di Dio era intesa in senso fisico-materiale. E questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio.

    L’uso del termine “padre” poteva suggerire ad Israele, facendole infiltrare, concezioni pagane ripudiate sin dall’inizio (Gs 24,23).

    Quando Israele inizierà a chiamare Dio “Padre”, e lo dovrà fare per non tralasciare la ricchissima simbologia che l’attributo conteneva, non lo farà come nei popoli pagani i quali con le loro mitologie designavano Dio come progenitore “padre del mondo”.

    La scrittura userà la simbolica del padre in un primo tempo per sottolineare il dovere dell’obbedienza del figlio-Israele al proprio padre (“Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” Dt 14,1), oppure per fondare e consolidare una prospettiva universalistica delle fede ebraica (“Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio?”Ml 2,10).

    E’ interessante ad esempio notare che la grande e tardiva religione monoteistica mussulmana tra i novantanove nomi dati a Dio non contiene quello di “padre”.

    Troppo forte è per i mussulmani  la concezione della assoluta trascendenza di Allah per potergli applicare una simbolica che fa troppo riferimento all’esperienza umana.


    AL TEMPO DI GESU’

    I rabbini al tempo di Gesù insegnavano: “Come il nostro padre è misericordioso nei cieli, così anche voi dovete essere misericordiosi sulla terra”.

    Nelle “Diciotto Benedizioni”, preghiera che certamente Gesù recitava quotidianamente, leggiamo: “O Padre nostro, facci tornare alla tua legge” (V ben.); “O Padre nostro perdonaci perché abbiamo peccato” (VI ben.)

    Nella preghiera dello Shemà troviamo: “O Padre nostro, tu hai pietà di noi… Padre nostro, padre di misericordia, il misericordioso, abbi pietà di noi”

    Così nel Qaddish: “Che le preghiere e le suppliche di Israele siano accolte dal loro Padre che è nei cieli. Amen!”

    La setta essenica che aveva trovato rifugio sulle sponde del Mar Morto nella sua preghiera recitava: “Mio padre non mi conosce e, in confronto a te, mia madre mi ha abbandonato. Eppure tu sei padre di tutti i tuoi fedeli e ti compiaci di essi come una madre amorosa nel suo piccolo, e come un padre premuroso tu stringi al petto tutte le tue creature”.

    Raccontavano i rabbini commentando Es 14,19 (“L’angelo del Signore che andava innanzi al campo di Israele si mosse e andò dietro a loro”) “Un uomo camminava per la via insieme al suo bambino. Il bambino lo precedeva, ma ad un certo punto giunsero i briganti a rapire il fanciullo. Il padre allora lo tolse davanti a sé e se lo pose dietro. Ma un lupo apparve in quella direzione ed egli tolse il fanciullo di dietro e di nuovo se lo pose dinanzi. E vennero poi i briganti dinanzi e lupi di dietro, sì che egli dovette sollevare il bambino e portarselo in braccio. Il bambino cominciò a soffrire per l’ardore del sole. Il padre lo coprì con la sua veste. Il bambino ebbe fame: il padre lo nutrì; ebbe sete e il padre gli diede da bere. Così fece Dio con Israele quando fu liberato dall’Egitto” (Mech 30a)

    Riportiamo ancora una parabola tratta dall’insegnamento rabbinico contemporaneo a Cristo: “Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?” (Dt R. 2,24).

    Ma anche in questo caso chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà-Papà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro papà.

    Dicevano i rabbini: “Quando un bambino inizia ad assaporare il frumento, impara a dire Abbà e Immà”. Un termine dunque che fa riferimento all’intimità familiare,ai rapporti affettuosi e confidenziali che il bambino ha col proprio papà e mamma. Ed è il termine abitualmente usato da Gesù nel descrivere il suo rapporto con Dio, con il Padre.

    Eppure Gesù lo usa abitualmente: tutte le sue preghiere iniziano con questa invocazione. Il che sta ad indicare un tipo di rapporto con Dio fatto di assoluta confidenza e fiducia, un rapporto profondamente filiale.

    In Gesù possiamo ardire (Nella liturgia questo è espresso con le formule introduttive: “osiamo dire”, “Rendici degni di”…) rivolgerci a Dio chiamandolo a nostra volta Abbà. Paolo dirà: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15

    E’ questa la parresia del cristiano: la semplicità schietta, la fiducia filiale, la gioiosa sicurezza, l’umile audacia, la certezza di essere amati (cfr CCC 2777).


    TRE OSSERVAZIONI

    1.     Se per gli israeliti Dio è anzitutto l’Altissimo, il Giudice e il Legislatore, in Gesù ritroviamo l’immagine di un Padre Buono che ha cura dei suoi figli.

    A lui ci si rivolge con la semplicità del bambino (Mt 5,15)

    Egli ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31)

    Conta i capelli del nostro capo, e conosce ogni nostra necessità (Lc 12,6).

    Di lui non si deve e non si può avere paura. ).

    2.     Il rapporto che Gesù ha con il proprio Padre appare peculiare a lui solo. Gesù non prega mai con i discepoli dicendo “Padre nostro”. Vi è sempre in lui una chiara distinzione (“Padre mio e Padre vostro” Gv 20,27).

    E’ possibile essere figli di Dio solo in lui, accogliendo il dono del suo Spirito: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27).

    3.     Il Padre nostro può essere recitato da tutti? La paternità di cui parla Gesù è riservata a coloro che hanno ricevuto il suo Spirito. E’ una figliolanza che deriva dal dono gratuito della vita stessa di Dio.

    Per cui a buon diritto esso può essere pregato in verità e consapevolezza solo da coloro che nella fede hanno accolto Gesù, la sua Parola e il dono del suo Spirito.


    IL PATER OGGI

    Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre.

    Questa figura è stata sentita come presenza bloccante e frenante della spontaneità della vita. Si è presentato come un avversario-padrone da combattere in quanto rappresenta tutti i condizionamenti e le alinazione.

    Si è rivendicato, in una società improntatata su un’ideologia radicale, il diritto di ognuno di costruire se stesso senza nessun “padre”. Ciascuno è autonomo, indipendente, creatore di se stesso.

    L’uomo si è ritrovato solo, sperduto. Incapace di darsi risposte. Ma questo invece di spingerlo al ritorno alla casa del padre lo ha spesso spinto in un parrossistico tentativo di spegnere la sua angoscia in direzione del raggiugimento di piccoli orizzonti individuali, piccole altre case che però non riscaldano mai a sufficineza il cuore.

    Il padre diventa una realtà insignificante, un ornamento di cui si può fare benissimo a meno.

    La religione del Padre è stata rifiutata o quel che è peggio lascia ora completamente indifferenti.

    Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi 49 Racconti una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontò / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te.

    Sono parole estremamente drammatiche, ma quanto mai rappresentative di un ‘epoca.

    Lo spauracchio di Dio, o il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane, l’adulto non ha bisogno di un Padre, può rischiare in proprio la vita.

    Tuttalpiù è meglio far riferimento a uno spirito universale, ad un cosmo divinizzato, ecc… in cui non mi sento minacciato nella mia libertà (cf New Age)

    Qui  si impone un’importante riflessione. Che Padre è quello rivelatoci da Gesù? Possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate e perseguitate dalla nostra cultura? Non è che forse si è rifiutata un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi coscienti o incoscienti ha avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica?

    Quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto nell’ambito delle relazioni familiari hanno e stanno influenzando nel loro rapporto con Dio Padre per cui egli diviene il giudice, il castigatore, colui che pretende sempre, il controllore….?

    A questo proposito lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica fa un commento illuminante: Prima di fare nostro questo slancio iniziale della Preghiera del Signore, non è superfluo purificare umilmente il nostro cuore da certe false immagini di “questo mondo”. L’umiltà ci fa conoscere che “nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” cioè “ai piccoli” (Mt 11,25-27).

    La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio. Dio nostro Padre, trascende le categorie del mondo creato. Trasporre su di lui, o contro di lui, le nostre idee in questo campo equivarrebbe a fabbricare idoli da adorare o da abbattere. Pregare il Padre è entrare nel suo mistero, quale egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato” (2779)

    Gesù ci rivela al contrario un Padre che è garante e fonte di liberazione; pensiamo solo alla rilettura che Gesù fa della Legge! E’ un Padre che ci proietta ad un futuro da costruire con lui nella solidarietà con i nostri fratelli; pensiamo alla parabola del Padre misericordioso.

    Non è certo l’Abbà di Gesù un padre-padrone geloso dell’autonomia dei figli.

    Questa visione negativa di Dio si incuneò nell’esperienza umana al momento della tentazione di Adamo ed Eva quando il serpento insinuò il sospetto di un Dio geloso delle sue prerogative divine.

    Giovanni Paolo II scrive nella sua enciclica Dominus et Vivificantem 38: Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio.

    Terminiamo con un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che hasperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre.

    Un giorno, racconta Celina sorella di Teresa, entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi)

    San Pietro Crisologo nei suoi Sermoni scrive: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (Ser. 71).

  • 19 Gen

    Padre nostro che sei nei cieli

    Da J. Ratzinger, Gesù di Nazaret

    Il Padre nostro nell’evangelista Matteo

    Il Discorso della montagna delinea un quadro completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero riassumere nell’ affermazione: solo a partire da Dio si può comprendere l’uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua vita diventa giusta.

    Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso.

    Se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l’ascoltare Dio. Per questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.

    In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un’esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L’amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell’unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini.

    Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.

    L’altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un’intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto.

    La cosa più importante al di là di tali situazioni momentanee – è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l’orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell’ amore del prossimo.

    Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale.

    Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell’ appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l’incontro con Dio dell’intera Chiesa, come in essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita.

    Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» – il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) – troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi.

    E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui.

    In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell’ Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De domo or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci precede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.

    Il Padre nostro nell’evangelista Luca

    Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto – sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare… “» (11,1).

    Il contesto è dunque l’incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L’insieme dell’operare di Gesù scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all’incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s).

    È quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell’ Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a immagine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr. FiI2,5).

    Per l’interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come meglio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche tener presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre.

    Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell’ esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un’interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.

    I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens – con il proprio spirito – andare incontro alla vox – alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a ciascuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.

    Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all’ origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell’una come nell’altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.

    Prima di addentrarci nell’interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un’invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale – l’amore verso Dio e l’amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell’amore.

    Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell’ amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l’uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell’essere uomini. Alla fine scendiamo sino all’ultima minaccia per l’uomo, dietro cui si apposta il Maligno – può affiorare in noi l’immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l’inizio: «Padre nostro»sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva. Padre Hans- Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro sempre con l’ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: “nostro Padre”». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell’ esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il regno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: “nostro Padre”» (p. 65s).

    Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c’è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.

    Padre

    Iniziamo con l’invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre. In questa sola parola è racchiusa l’intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio» (p. 10).

    L’uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la grande consolazione della parola «padre», poiché l’esperienza del padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall’insufficienza dei padri.

    Così dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre» propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura dell’uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni...» (Mt 5,44s). «L’amore sino alla fine» (cfr. Gv 13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci invita a diventare a nostra volta «figli» – a partire da questo criterio.

    Prendiamo ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Le 11,13). Ciò vuol dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di quello, ma di Dio che vuole donarsi a noi questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c’è bisogno» (cfr. Le 10,42). La preghiera è una via per purificare a poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.

    Quando il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall’ amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s). «Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro non proietta un’immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo – da Gesù – ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.

    Ora, però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che, secondo il messaggio di Gesù, in Dio l’essere Padre presenta per noi due dimensioni. Dio è innanzi tutto nostro Padre in quanto è nostro Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l’essere come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio. Ciò vale per l’uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15, secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di tutti […] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell’immagine biblica dell’uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo senso, già in virtù della creazione l’essere umano è in modo speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l’uomo sia immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.

    Questo ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è in modo unico «immagine di Dio»(cfr. 2 Cor4,4; Col 1,15). In base a ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l’uomo «a sua immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l’uomo a immagine del «nuovo Adamo», dell’Uomo che è il canone dell’umanità. Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio – è della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a Dio.

    Così la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con Gesù. Essere figli diventa l’equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come «figlio» e «figlia».

    «Tutte le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola «Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all’inizio della storia del peccato dell’umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli» non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l’esistenza umana, le dà senso e grandezza.

    Rimane infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone dell’amore di Dio con l’amore di una madre esiste: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In modo particolarmente toccante appare il mistero dell’amore materno di Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa «grembo materno», ma poi diventa il termine per il con-patire di Dio con l’uomo, per la misericordia di Dio. Nell’ Antico Testamento, organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare atteggiamenti fondamentali dell’uomo o anche i sentimenti di Dio, così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo l’Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell’ esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l’espressione più concreta dell’intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l’uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.

    Se nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell’uomo l’amore della madre appare inscritto nell’immagine di Dio, è tuttavia anche vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è un’immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna, ma appunto Dio, il Creatore dell’uomo e della donna. Le divinità-madri, che circondavano il popolo d’Israele come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un’immagine del rapporto tra Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all’immagine biblica di Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. Partendo da questo presupposto, l’essere delle cose e degli uomini appare necessariamente come un’ emanazione dal grembo materno dell’Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti. Al contrario, l’immagine del padre era ed è adatta a esprimere l’alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo mediante l’esclusione delle divinità-madri l’Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora, nonostante le grandi metafore dell’ amore materno, «madre» non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto.

    Nostro

    Da ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi» dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio». Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere l’altro, gli altri – di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto personale e insieme pienamente ecclesiale.

    Nel recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore, ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l’intera famiglia di Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi una famiglia al di là di ogni confine.

    Che sei nei cieli

    A partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l’ulteriore aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «lo piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» (Mt 23,9).

    La paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli ci ha pensati e voluti fin dall’ eternità; perché è Lui che ci dona l’autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque quell’altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino.

    La paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.

  • 15 Gen

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  • 15 Gen

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  • 14 Gen

    Riflessioni sul Salmo 50

    card. Carlo M. Martini

    1

    Il punto di partenza

    Dal Vangelo secondo Luca: 15, 1-10

    Si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ». Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
    O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
    E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».

    Il tema su cui ci proponiamo di riflettere, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo «Miserere », si può intitolare: cammino di riconciliazione.

    La scelta del tema

    1. C’è un nesso inscindibile tra la riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore.

    a. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del cuore.

    b. Come pure non c’è conversione del cuore – e quindi anche cammino di penitenza cristiana – senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.

    2. Esiste un itinerario penitenziale. La conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C’è un itinerario che è fatto secondo il cuore dell’uomo e che noi siamo invitati ad imparare, per ripercorrerlo.

    3. C’è una missione ecclesiale verso il mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i problemi della riconciliazione umana e cosmica.

    Per tutti questi motivi mi è sembrato importante riflettere, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.

    Il Miserere

    Il Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
    Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi. Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica. Celebri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.

    È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita. Il Miserere è la preghiera dell’uomo di sempre, appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.

    Possiamo ripetere, facendola nostra, la preghiera di Charles de Foucauld:

    Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.

    L’iniziativa divina

    I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con queste parole: .

    Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
    nel tuo grande amore cancella. il mio peccato.
    Lavami da tutte le mie colpe,
    mondami dal mio peccato
    .

    Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l’iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.

    I vocaboli che la versione italiana usa per indicare ciò che l’uomo ha fatto – il peccato, le colpe – non rendono adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole diverse che andrebbero lette così: «…cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, “tirami fuori” da ogni mio smarrimento ». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.

    Alle parole che indicano lo sbandamento dell’uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà… misericordia… amore ». C’è il peccato dell’uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l’insistenza non è sull’uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull’infinità di Dio.
    Cerchiamo di riflettere brevemente sui vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.

    Chi è Dio

    La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia». Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: « Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».

    Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo. Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.

    La seconda parola è « misericordia ». È interessante notare che l’espressione è: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista sottolinea la sproporzione infinita, che l’uomo intuisce senza comprenderla, della misericordia divina. In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga storia ricca di significato. Indica, infatti, l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
    Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai. Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante – secondo la parola di Gesù – ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un’attenzione della tenerezza di Dio.
    Noi traduciamo hésed con « misericordia» perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.

    La terza parola è « nel tuo grande amore ». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria. Questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per l’uomo, abbi misericordia, o Dio ».

    Questi tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com’è. Partendo dalla contemplazione dell’iniziativa divina per l’uomo, ci invita prima di tutto ad avere una grande e giusta idea di Dio.

    Domande per noi

    Nascono per noi alcune domande.

    Ho una giusta idea di Dio? Lo incontro così com’è? È importante questa prima domanda perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé, né degli altri.

    Nel cap. 15 del Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi, finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua creaturalità. Nell’ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un Dio un po’ cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo difficile Lui stesso e non si lascia raggiungere. Al fondo di tutti questi sentimenti c’è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama così come sono, che non è contento di me.

    La grande rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e tenero.
    Tutto questo l’ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge: «Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L ‘ha compreso la donna che, ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me» (15, 9). Gesù conclude la parabola: « Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (15, 10).
    Ciascuno di noi dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento qualcosa di molto importante per lui. Ecco che cosa significa avere un’idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino della riconciliazione.

    Seconda domanda: ho qualche idea sbagliata su Dio?

    Abbiamo già detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un’idea sbagliata di Dio. Emerge in noi, con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno e di cui ci vergogniamo? Ci ribelliamo contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?

    Terza domanda: che cosa posso fare per correggere l’idea sbagliata che ho di Dio? Per correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?

    Uno dei modi è certamente l’ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell’espressione spirituale della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l’uomo. Nella tua tenerezza cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle coltivate: Tu solo puoi darmi l’idea giusta perché come posso conoscerTi se non Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».

    Infine, l’ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per correggerla?

    L’idea sbagliata che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è criticabile (lo siamo un po’ tutti!), ma quando ci lamentiamo all’infinito di qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol dire che non abbiamo assunto l’atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero, positivo, la situazione.
    Spesso si creano tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altri. Se avessimo un’idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farci guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi. Perché non imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all’infinito perché l’altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa, proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il cuore, l’animo, la vita, il sorriso di questa persona?


    2

    Il riconoscimento della situazione

    Dal Vangelo secondo Luca,: 15,11-32

    Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso sud padre.
    Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
    Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
    Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».

    Riconosco la mia colpa,
    il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
    Contro di te, contro te solo ho peccato,
    quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
    Ecco, nella colpa sono stato generato,
    nel peccato mi ha concepito mia madre.
    Ma tu vuoi la sincerità del cuore
    e, nell’intimo m’insegni la sapienza.

    Le parole dei primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.

    La prima parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all’indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.

    La seconda parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.

    La terza parte è il progetto per l’avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà.

    Con termini a noi più abituali possiamo chiamare: 1. esame di coscienza il riconoscimento della situazione; 2. richiesta di perdono la supplica; 3. proposito il progetto per l’avvenire. Sono tre momenti chiaramente distinti nella lettura, anche semplicemente nella differenza dei verbi.

    Verso la verità di noi stessi

    Tre sono i soggetti che vengono presentati in azione.

    Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l’io. Io riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.

    Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l’uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.

    Il terzo soggetto dell’azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu: ovvero Dio stesso.

    C’è quindi l’io che riconosce, c’è una determinazione generale della situazione di colpa, c’è il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu, nell’animo mi insegni la sapienza.

    Cerchiamo di riflettere innanzi tutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter poi comprendere meglio quelle che precedono.

    Nel testo ebraico l’espressione « Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell’oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l’uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.

    «Tu mi insegni sapienza nel segreto.» La sapienza è una delle realtà più alte e più; profonde dell’Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.

    Ecco la chiave della prima parte del Salmo: Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia. La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell’anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all’autenticità di quello che io veramente sono.

    Il dialogo con il Tu

    Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano all’inizio: « Contro di te, contro te solo ho peccato ». Ho fatto ciò che non va davanti a te.

    A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l’emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore oltre che adultero.

    Eppure l’insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che gliela rinfaccia. Tuttavia, quando gli vengono apertamente detti gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.
    Peccando contro l’amico con il tradimento, con l’infedeltà e con l’adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua: «Contro di te, contro te solo ho peccato». L’espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te ». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Lc. 15, 11-32).
    L’uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l’immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.

    Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati oggi a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro ad ogni uomo, ad ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell’uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità. Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato ».

    La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell’uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente del senso di colpa.
    Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori. Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l’esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l’analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.

    In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l’uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell’uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.

    Come ‘è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti » giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito»dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso: Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un’esistenza nuova.

    Domande per noi

    Abbiamo visto che l’esame di coscienza è il lasciare emergere quella verità di noi stessi che Dio, nella sua bontà, ci insegna. Le parole del Salmo possono rinnovare dentro di noi il senso religioso, forse stanco di atti ripetuti e non capiti fino in fondo.
    Vi propongo allora due domande semplicissime e utili per prepararsi al Sacramento della Riconciliazione:

    Che cosa non vorrei avere sulla coscienza? Che cosa mi pesa, mi avvilisce, mi opprime, mi fa essere quello che non vorrei? Lasciamo che emerga ciò che ci viene come risposta a questa domanda con semplicità, senza ricorso immediato a formule imparate. È infatti la verità di noi stessi che sta nascendo come supplica, come desiderio, come immagine giusta o sbagliata di noi.

    Come avrei voluto essere e non sono stato? Come avrei voluto comportarmi nelle situazioni che ora mi pesano? Da qui comincia il dialogo, che chiarisce le motivazioni e i giudizi, ricostruendoci dall’interno, in quell’opera di creazione, esaltata nella seconda parte del Salmo, su cui mediteremo in uno dei prossimi incontri.

    Dopo queste domande, suggerisco quattro riflessioni:

    Quando ho fatto l’ultima volta l’esame di coscienza? L’esame di coscienza mi dà noia, mi disturba oppure mi lascia contento? Per capire meglio il significato di questo interrogativo vi può aiutare la lettura del seguente testo che traggo dall’autobiografia di S. Ignazio di Loyola:

    Pensando alle cose del mondo provava [il Santo scrive in terza persona, pur parlando di se stesso] molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava, si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi; dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro, e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demònio, l’altro di Dio.

    È quindi importante chiedersi se l’esercizio dell’esame di coscienza ci pesa oppure se ci lascia contenti.

    Considero l’esame di coscienza un’iniziativa divina di dialogo, cioè un colloquio con un Tu? Oppure lo ritengo una fastidiosa e faticosa analisi della psiche? Mi abituo a considerarlo un dialogo in cui parlo, ascolto, mi esprimo con fiducia, con la gioia di essere accettato, accolto e riabilitato a partire da ciò che sono?

    – Se trovo difficoltà nell’esame di coscienza, che esprime un modo di essere irrinunciabile dell’uomo che vuole prendere coscienza di sé, mi lascio aiutare dalla Chiesa nel dialogo penitenziale? La viva tradizione della Chiesa ci parla a lungo del cammino di conversione necessario ad ogni uomo, ad ogni comunità. Ci parla anche dei momenti di questo cammino, di cui fa parte la capacità di riconoscere autenticamente ciò che c’è in noi e di viverlo limpidamente davanti a colui che, in nome di Dio, ci ascolta in un dialogo paterno.

    Il Signore è pronto a trasformare la nostra, vita se la mettiamo nelle sue mani e auguro a ciascuno di vivere questa esperienza, che è una delle più belle che l’uomo possa fare.

    3

    Il dolore dei peccati

    Dal Vangelo secondo Luca: 22, 54-62

    Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui ». Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco! ». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di loro! ». Ma Pietro rispose: «No, non lo sono! ». Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questo era con lui, è anche lui un Galileo ». Ma Pietro disse: « O uomo, non so quello che dici ». E, in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. All’ora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E uscito pianse amaramente.

    Sei giusto quando parli,
    retto nel tuo giudizio.

    Per completare la riflessione sulla prima parte della sezione centrale del Salmo 50, meditiamo sulle parole: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio ». Esse ci permettono di entrare nel tema del dolore dei peccati.

    La parola « dolore », pronunciata nel contesto del Sacramento della Riconciliazione, può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione. È il ricordo di sentimenti talora spremuti a fatica; l’incertezza che ci può prendere se abbiamo avuto o non abbiamo avuto veramente il dolore in qualche nostra confessione; il senso di colpa per non riuscire, almeno ci sembra, a provare un dolore vivo dei peccati commessi e il ritardare forse, per questo, la confessione.

    Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolòre nel corpo, malgrado non lo voglia.
    Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierei il sonno. Che cos’è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?

    Il giudizio su di sé

    Vorrei cominciare da qualche riflessione generale. Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire. Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.

    Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l’ho fatto e non l’approvo. Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.

    Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C’è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se, nelle nostre confessioni, siamo portati ad accusare gli altri ed a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.

    E d’altra parte è vero che, forse per una certa abitudine al Sacramento della Riconciliazione, il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra. Più di frequente il pentimento è bloccato perché non siamo affatto convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero.

    In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.
    Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?

    È chiaro che il cammino da fare è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi ad una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.
    Invece di cominciare subito con la confessione propriamente detta, può essere opportuno cominciare ad instaurare un semplice colloquio amichevole che permette di esprimere la difficoltà di fondo, di dare voce a questa difficoltà e di farci aiutare a chiarirla. Sarebbe errato fermarsi alla difficoltà lasciandosi ipnotizzare da essa.

    Con queste tre riflessioni, siamo ancora ai preliminari di quello che è il dolore cristiano dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.

    La parte lesa

    Che cosa vuol dire concretamente: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio? ». Noi interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.
    Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.

    Questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello. La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono. Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.

    È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell’uomo: l’uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.

    Se noi chiediamo in che maniera l’offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell’Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce patte lesa e inizia la sua azione contro l’oppressore con queste parole: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Es. 3, 7-8 ). Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: «In verità vi dico… non l’avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).

    Il pianto di Pietro

    C’è un brano del Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l’esperienza del dolore del peccato che abbiamo meditato nelle parole di Davide. È l’episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: « In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte“. E uscito pianse amaramente» (Lc. 22,-54-62).

    Perché Pietro scoppia in pianto? Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po’ annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico. Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest’uomo e lui va a morire per me! È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l’ha demeritata, che fa scattare il contrasto.

    Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall’incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l’uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.

    Domande per noi

    La rivelazione del nostro peccato con il dolore che ne consegue deriva dall’incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l’infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso. .

    Possiamo chiederci:

    Per che cosa posso dire, in verità, dentro di me: « Contro di te, contro te solo ho peccato? ». Che cosa emerge nella mia coscienza quando rifletto su queste parole?

    Quali di queste cose che emergono sono lesioni dell’immagine di Dio in altri, sono rifiuto di attenzione, di ascolto, di aiuto, di stima? Ho colto, riesco a cogliere il rapporto tra la lesione di un altro e la lesione della mia amicizia e alleanza con Dio, che si è instaurata nel Battesimo e che vivo nell’Eucaristia?

    Sono consapevole della potenza riabilitativa del mio perdono? Anch’io, come Gesù, posso perdonare, posso fare rivivere, posso ridare fiducia e onorabilità.
    Riesco a farlo? Invoco lo Spirito Santo per essere, intorno a me, partecipe del potere riconciliatore di Cristo?

    E possiamo dire insieme:

    « Concedi, Signore, a noi che cerchiamo la via della penitenza, di entrare nel giusto cammino e concedi che questo entrare sia non soltanto per noi ma per tutta la città che spiritualmente è qui presente e cammina con noi. Tu, Signore, che hai donato il dolore del peccato a Davide e a Pietro, concedi la grazia di un dolore profondo a noi e alla nostra città per tutto ciò che ti offende».


    4

    La supplica

    Dal Vangelo secondo Giovanni: 8, 1-11

    Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei ». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? ». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore ». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più ».

    Crea in me, o Dio, un cuore puro,
    rinnova in me uno spirito saldo.
    Non respingermi dalla tua presenza
    e non privarmi del tuo santo spirito.
    Rendimi la gioia di essere salvato,
    sostieni in me un animo generoso

    Le parole costitutive della seconda parte del Salmo sono una supplica, una invocazione, una grande preghiera. Ne meditiamo solo alcune perché esprimono l’autentico grido di chi conosce Dio e impara a conoscere se stesso e vogliamo chiedere al Signore la grazia di poter condividere questo autentico grido.

    Sono le parole che troviamo alla fine della seconda parte: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso»

    L’epiclesi dello Spirito

    Cominciamo da una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell’uomo. Il versetto tradotto con « sostieni in me un animo generoso », infatti, nel testo ebraico si legge: «rafforzami col tuo Spirito generoso », oppure: « Poni in me uno Spirito generoso ».
    La supplica domanda lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria epiclesi.

    L’epiclesi liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo. La liturgia, oltre a questa invocazione eucaristica dello Spirito, ha, in alcune preghiere del canone, un’altra epiclesi comunitaria in cui si chiede che lo Spirito scenda sulla comunità e ne faccia una cosa sola in Cristo.
    Qui siamo di fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante del Salmo, come la consacrazione è il momento culminante dell’Eucaristia.

    Una nuova creazione

    Proviamo ora a riflettere su due domande parallele di cui una: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» è all’inizio dell’epiclesi dello Spirito e l’altra: «Rendimi la gioia di essere salvato» è nel contesto dell’epiclesi stessa.

    Qual è la domanda fondamentale? Crea in me.

    Il verbo creare è il primo della Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn. 1, 1). È parola che la Bibbia riserva per Dio solo: non è mai usata per un’azione umana, è esclusiva dell’azione divina che dal nulla pone in essere, dell’azione divina che fa qualcosa di assolutamente nuovo.

    La domanda è quindi di un’ azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell’uomo. E la parola « crea in me » è parallela con l’altra: « rendimi la gioia ». Nell’ebraico si legge: « Fa’ ritornare, fa’ risorgere in me la gioia ». Non si chiede qualcosa di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo originario che è il Battesimo. Il Sacramento della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra colpa abbiamo perduta.

    Per questo il Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non abbiamo vissuto profondamente l’esperienza dell’annuncio evangelico, la forza del kerygma. Come si può restituire ciò che non c’è mai stato o che c’è stato in maniera fiacca, slavata e generica? Come è possibile ritrovare la forza del Battesimo se non è mai stata percepita in un atto di impegno personale e autentico?

    Il cammino di conversione penitenziale deve essere un cammino che ci permetta di ritrovare quella forza sorgiva del Battesimo che forse alcuni non hanno mai esperimentato perché non hanno espresso, in modo personale e coerente, la loro donazione a Dio. Quella donazione che siamo chiamati ad esprimere nel Sacramento dell’Eucaristia, nel Sacramento della Confermazione, nella professione di fede, in un corso di Esercizi Spirituali che ci faccia comprendere la forza del messaggio salvifico di Dio. Senza questa prima esperienza, la Confessione è privata del mordente che dovrebbe avere come nuova azione di Dio che riconduce l’uomo nella pienezza dell’immersione nello Spirito Santo, propria della grazia. del Battesimo e della Cresima.

    La gioia cristiana

    Qual è l’oggetto dell’atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore puro, è la gioia.

    La Scrittura indica la gioia come l’esperienza fondamentale del cristiano, esperienza che corrisponde ad un cuore puro, pulito, ad un cuore che non si accusa perché è stato immerso nell’amore del Padre, perché ha visto Dio Padre buono che lo ha accolto e rifatto completamente.

    La gioia è l’esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure tante volte, ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza che si trascina stancamente. Non perché la gioia non sia dentro di noi – in noi, infatti, c’è la forza dello Spirito Santo e tutti l’abbiamo – ma perché non la esprimiamo, non le apriamo la via e così resta nascosta, quasi impercettibile.

    Lo spazio alla gioia è il momento della preghiera, dell’adorazione, del silenzio, del canto, del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci. « Crea in me, o Dio, un cuore puro… rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.

    È la gioia della donna adultera di cui parla il Vangelo di Giovanni (8, 1-11). Questo brano non si trova in molti manoscritti dei Vangeli, pur essendo antichissimo e pur facendo parte della primitiva catechesi cristiana. Non vi si trova perché, probabilmente, è stato ritenuto pericoloso, dal momento che non mette abbastanza in luce lo sforzo penitenziale della donna adultera! Sembra un brano che faciliti la colpa, il peccato, la deviazione morale. Tuttavia chi lo ha letto in questo senso e lo ha poi tolto da molti manoscritti e codici delle Scritture, non ha capito il perdono creativo di Dio, la forza rinnovatrice del suo Spirito nel cuore dell’uomo, la capacità che Dio ha di fare un uomo diverso, non semplicemente come risultato dello sforzo della buona volontà umana ma per il potere creativo dello Spirito.
    La gioia, che la donna quasi non esprime a parole, è l’immagine di ciascuno di noi, salvato  realmente dalla morte da una parola di perdono di Cristo.

    La certezza del perdono

    Il proposito che possiamo fare non è semplicemente una scommessa sul futuro, non è una previsione di ciò che saremo perché nessuno è profeta su di sé, non è la certezza di riuscire a dominarsi pienamente.

    Il proposito è la certezza della forza che emerge dal condono di Dio. Se Dio mi ama, se Dio mi perdona, io posso chiedergli: Signore, fammi essere diverso! Desidero, e tu lo sai, essere altro da ciò che sono stato! Il proposito è in questa supplica che a poco a poco lasci spazio alla gioia e alla forza dello Spirito dentro di me. È l’esperienza di S. Agostino:

    Ma tu, o Signore, guardasti all’abisso della mia morte e, nel profondo del mio cuore, distruggesti l’abisso della corruzione… Come subito mi apparve soave l’essere privo di quelle false dolcezze che prima avevo paura di perdere ed ora invece mi era gioia il lasciarle! Eri tu che le allontanavi da me, tu, o dolcezza vera e somma; le allontanavi e penetravi tu al loro posto, tu più dolce di ogni voluttà ma non per la carne ed il sangue; tu più luminoso di ogni luce ma intimo più di ogni segreto; tu sublime più di ogni grandezza, non per quelli però che sono alti di se stessi. Ormai il mio spirito era libero dalle dolorose preoccupazioni dell’ambizione e del guadagno e della lebbra di passioni inquiete e libidinose. Balbettavo le prime parole a te, mia lucé, ricchezza e salvezza, o Signore Dio mio (Dalle Confessioni, IX, 1).

    Domande per noi

    Propongo tre domande per la riflessione:

    Ho fiducia che Dio possa creare in me un cuore nuovo? Oppure vivo rassegnato alla mia debolezza, dicendomi che non c’è niente da fare perché sono fatto così?
    Ho fiducia nella forza battesimale dello Spirito che è in me e che il Sacramento della Riconciliazione ricrea, con atto creativo, dentro di me? Qui possiamo pregare: « Signore, accresci la mia fede. È poca ed è per questo che sono sempre lo stesso. Mi rassegno troppo facilmente ad essere ciò che sono mentre Tu mi chiami ad accettare di essere molto amato da Te, chiamato da Te a qualcosa che io desidero dal più profondo di me stesso ».

    Ho fiducia che Dio possa creare cuori nuovi? Questa domanda concerne il modo con cui guardo gli altri. Spesso li guardo come incorreggibili e le loro azioni come ormai inevitabili e non faccio niente per aiutarli perché non ho fiducia nella forza creativa dello Spirito.
    Spesso mi lamento degli altri, non prego per loro, ritengo di aver subito dei torti e penso che, mentre io posso convertirmi, per loro non ci può essere il dono della conversione.

    Do spazio alla gioia della mia salvezza? Le permetto di esprimersi? In che cosa potrebbe esprimersi in me? Forse in un momento di riflessione silenziosa e quotidiana su una pagina del Vangelo; forse in un sacrificio affrontato con decisione; forse in una parola di perdono e di amicizia concessa francamente e senza reticenze.

    Preghiamo gli uni per gli altri perché il nostro cuore si apra alla gioia della salvezza che viene dal Signore, alla gioia di ciò che Dio opera in noi. Preghiamo perché il nostro cuore sappia credere alla forza divina di salvezza e possa avere la pazienza e l’amore di essere, se il Signore lo vuole, strumento di questa forza di salvezza.

    5

    La confessione dei peccati

    Dal Vangelo secondo Luca: 18, 9-14

    Disse ancora questa parabola per alcuni the presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato ».

    Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

    A questo punto delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati. Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D’altra parte l’accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande. Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.

    Il disagio per il contenuto dell’accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo: « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ». Altre volte, al contrario, non sappiamo come esprimerci: « Mi aiuti perché non so come dire, sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».

    Il disagio che nasce dalla forma, dall’atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un’autoaccusa: Ho commesso questo, ho fatto quest’altro, sono colpevole della tal cosa.

    In un quadro più psicologico, l’accusa sfocia in un’autocritica che rischia di scivolare verso l’autogiustificazione. Mi sono cioè autocriticato così bene da essere riuscito a chiarirmi a me stesso e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio: il perdono diventa accessorio, aggiuntivo e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.

    Oppure si cade nell’eccesso opposto, nell’autolesionismo: ci si accusa allora senza fine, con una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non equilibrato senso della confessione dei peccati.

    Nascono quindi le domande sul valore: che valore ha l’accusa dei peccati? Quale valore costruttivo della personalità contiene? Perché è necessaria l’accusa? Non è meglio lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!? Oppure non è meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati? Sono dunque problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell’accusa.

    Il contenuto della confessione

    Nella nostra riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto ».

    La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c’è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
    Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
    L’ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l’ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.

    E tuttavia il dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre espressioni del Salmo: Riconosco la mia colpa (quale colpa?); il mio peccato mi sta sempre dinanzi (quale peccato?); contro di te, contro te solo ho peccato. Il Miserere, stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi la domanda: è necessario, è utile andare più in là? Non potremmo fermarci a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?

    In realtà, la Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume sociale del popolo di Israele, segue prima un’accusa: Hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali, i magistrati e i capi sono stati i primi a darsi a questa infedeltà. E poi nasce la preghiera di confessione: «Caddi in ginocchio, stesi le mani al mio Signore e dissi: Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio, poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) . Vengono quindi espresse tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione specifica di quanto è avvenuto: «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi dato per mezzo dei tuoi servi… il paese di cui andate a prendere possesso è un paese immondo… noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità, benché tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ». È un esempio, che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente.
    Un’altra celebre confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del libro di Neemia: Tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).

    Ci sono dunque nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l’accusa esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio. Se noi, dopo aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di fronte ad un’accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un’unità liturgica. I Salmi 49 e 50 (50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti, una liturgia penitenziale che iniziava con l’accusa circostanziata da parte di Dio e con l’accettazione di questa accusa da parte dell’uomo.

    Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel Salmo 49:

    Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno. Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua ordisce inganni, Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre. Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv. 18 ss.).

    Il Salmo 50 ‘emerge chiaramente come risposta: Riconosco la mia colpa… Contro di te, contro te solo ho peccato… sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

    E poi segue la preghiera:

    Purificami con issopo e sarò mondato… fammi sentire gioia e letizia.

    Da tutte queste parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che redarguisce l’uomo e lo interpella sul suo peccato.

    L’esame di coscienza – ora possiamo coglierlo meglio – è il mettersi di fronte alla Parola di Dio non come quadro etico di riferimento, ma come Parola che interpella, che rimprovera con quella forza d’amore che le è propria per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.

    Il contenuto dell’accusa non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire, non è il faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro: è un rispondere all’interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera. Lasciandoci interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione umile, semplice e chiara di confessare: Sì, è vero, questo l’ho fatto, Signore: hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!

    Questo non vuole evidentemente dire che l’accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura, del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a nome di Dio.
    Il processo che cambia l’uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con atteggiamenti imprendibili: è un metterei nel quadro dell’Alleanza e riconoscere che l’Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti in questo dialogo di amore e richiede un dialogo di pentimento e di riconciliazione.

    L’atmosfera della confessione: la « todà »

    Se leggiamo attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica, notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la confessione, è la parola todà oppure todarabbà, che vuol dire: grazie.

    Ogni volta che in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è: todà, grazie; todarabbà, grazie tante. Questa è la parola-chiave dei due Salmi. Significa non solo «grazie» ma pure « lode», confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la medesima.

    La riflessione sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura, come quelle di Esdra e di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa scoprire che c’è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:

    Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli. Ma nella nostra schiavitù Tu non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci hai fatto grazia, hai liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi, ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).

    La confessione e la lode si alternano: l’atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell’autolesionismo e dell’amarezza. Del resto, chi conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande Santo ha potuto congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la confessione dei propri peccati.

    Leggiamo un esempio ancora dalla preghiera di Neemia:

    Alzatevi, benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso, che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode… Tu, Tu solo sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… hai concesso il tuo spirito buono. Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).

    Questa lunga preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e riconoscimento della colpa in cui l’uomo trova la sua verità, trova l’umiltà e la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.

    Sarebbe anche bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:

    Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto. Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).

    La preghiera è simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14).
    L’errore del fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire: Tu sei grande, misericordioso, potente e io sono povero. Tu mi salvi e io ti lodo per la tua grande potenza. Ecco dunque l’atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l’atmosfera della todà.

    Il valore del perdono

    Personalmente mi è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull’uomo, distinguere, nel Nuovo Testamento, tre tempi. Nel linguaggio neo-testamentario si direbbe: tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza, diversi l’uno dall’altro, in cui Dio esercita il giudizio sull’uomo peccatore.

    a) Un primo tempo è quello del perdono battesimale. È il perdono o condono esercitato sull’uomo che fa il primo passo per entrare nell’Alleanza chiedendo il Battesimo. È il primo grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale». Dio decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e tutti hanno bisogno della misericordia divina. Chiede soltanto la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti battezzare e sarai salvo. Il peccatore è perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene fatto figlio, entra nell’Alleanza. È un giudizio dall’Alto di assoluto condono rispetto alla condizione umana di peccato.

    b) Un secondo tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel dialogo. Una volta che l’uomo è entrato nell’Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è offerto in un colloquio. Mentre prima del Battesimo non occorre colloquio salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell’Alleanza il giudizio salvifico postula il dialogo. La Parola di Dio redarguisce l’uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me, o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore. C’è quindi l’accusa del peccato e l’atto di perdono in un dialogo tra Dio e l’uomo che si svolge nell’ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla rottura dell’Alleanza.

    c) Un terzo momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.
    Alla fine di una tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la sua condotta. Nel giudizio retributivo non c’è più condono né dialogo: c’è il giudizio secondo verità.
    La serietà del dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta, tra il condono battesimale globale, in cui l’uomo è salvato con la semplice adesione di fede a Cristo; e il giudizio finale in cui l’uomo viene, rigorosamente pesato secondo le sue opere.
    Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l’uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio. C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale: in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante la Chiesa, restituisce gradualmente l’uomo alla coscienza della sua dignità e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.

    Domande per noi

    Propongo quattro domande per la riflessione personale.

    Mi lascio redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?

    Vivo l’accusa dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell’ambito dell’Alleanza? O la vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente un’autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?

    So unire la «confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di Lui? So unire la « confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle preghiere penitenziali dell’Antico Testamento che abbiamo ricordato?

    So rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell’ambito familiare, professionale e civile. Capisco che la Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte e pieno di amore? E non c’è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e pieno di amore!
    Per questo molta gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio, cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore, capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie, che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare perché non vogliamo veramente il suo bene. Nel tempo del Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po’ dimenticata. « Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te, va’ e correggilo da solo a solo e avrai guadagnato il tuo fratello. »
    Quante volte noi non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore, per aiutarlo! Abbiamo paura di amare così come Dio ci ama.

    Preghiamo allora gli uni per gli altri dicendo:

    « Signore, aprici gli occhi perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole e possiamo esprimerla come a te piace. Donaci di ritrovare la gioia della tua presenza!
    Signore, aiutaci a fare una confessione sacramentale che ci riporti nella verità e ci dia la forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva!
    ».

    6

    La penitenza

    Dal Vangelo secondo Luca: 19, 1-10

    Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».

    Allora gradirai i sacrifici prescritti,
    l’olocausto e l’intera oblazione,

    Vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione » (v. 21).

    In realtà, gli esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17, e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo. Alcuni li ritengono un’appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo. Si parla, infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti precedenti, invece, c’è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino di riconciliazione.

    Risonanze politiche del Salmo

    Ci troviamo dunque di fronte ad una visuale ampia, allargata, nella quale il cammino individuale va a sfociare nella vita liturgica dell’intera comunità di Israele, anzi dell’intera città.

    Potremmo dire che siamo chiamati a meditare sulle risonanze comunitarie e sociali del Salmo penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Non c’è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuore. E viceversa che non c’è conversione del cuore senza ripercussione sulla collettività.

    È su questo sfondo che desideriamo approfondire il momento del Sacramento della Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.

    La penitenza

    Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza », sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote. Egli, infatti, si domanda: Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti? Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia? Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico? Ecco che allora il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo. Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall’abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.

    D’altra parte sono convinto – e lo siamo tutti – che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento: nell’esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del « dolore» suggerendo le parole; invitando al proposito con l’esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore. Nel momento di suggerire la « penitenza », però, la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.

    Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti. degni di penitenza », segno di un cuore che si vuole rinnovare. Abbiamo così individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del Salmo.

    L’uomo Zaccheo

    Tenendo ora presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Lc 19, 1-10).
    Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l’uomo e Gesù: è un racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.

    In questo incontro, l’uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne, che sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono di Gesù.

    a) L’azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare « estatico »,che fa’ uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È un profondo desiderio che lo muove dal di dentro e che è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un’azione esterna.

    b) L’azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato ben noto e odiato, si metta a correre per la strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria. Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua ».

    Questa parola di familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.

    a)    L’azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.

    b)   L’azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria. La parola di Zaccheo: «Signore, dò la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua riconciliazione.

    Gioia e proposta della penitenza

    Tuttavia ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.

    Innanzitutto la gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l’altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall’amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione. Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.

    La seconda sottolineatura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuoi fare e Gesù l’approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui. Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di « penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). È la sua personale, storica, precisa penitenza.. Gesù l’approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa ».

    Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza? La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza. Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: « quale penitenza credi che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo momento al tuo cammino? ». Ciascuno, quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale. Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto; suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo… non privarmi del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato… ».

    Domande per noi

    Vorrei allora proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.

    La gioia di Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione? E se non lo accompagna abitualmente, qual è la causa? Parlo evidentemente di una gioia profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo spirito alla generosità.

    Se non c’è questa gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato. Un’idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una contemplazione interiore del Padre. Sono diversi motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.

    – La seconda domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della mia vita, che cosa direi? Questa è una domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze, i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei gesti che possono colpire alla radice il male che c’è in me. Gesti di penitenza quindi che sono un frutto degno della conversione personale. Se mi accorgo, ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall’egoismo, affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa davvero. Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita pigra, pesante, neghittosa. Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da antipatie; dalla non accettazione di alcune persone, allora emergerà come penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che mi coinvolga davvero.

    Preghiamo il Signore dicendo:

    « Signore, noi vogliamo offrirti frutti degni di penitenza non solo per noi ma per la Chiesa intera, per tutta l’umanità, per tutta questa città, perché ci sentiamo corresponsabili del cammino di conversione dell’umanità intera. Sciogli, o Signore, i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani perché possiamo conoscere ciò che veramente è segno di un cammino nuovo, ciò che è un passo avanti deciso verso di Te! Non permettere che cadiamo nell’abitudine, nella pigrizia, nella monotonia: rendici santamente inquieti perché mediante un cammino serio ed autentico verso di Te possiamo ritrovare in noi la sorgente della gioia. Te lo chiediamo per noi e te lo chiediamo per ciascun uomo e per ciascuna donna che nella nostra città, vive ed opera ».

    7

    Testimoniare la misericordia

    Dal Vangelo di Giovanni: 4, 1-39

    Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: « Dammi da bere ». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: « Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? ». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: « Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: . “Dammi da bere! “, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva ». Gli disse la donna: « Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i ‘suoi figli e il suo gregge? ». Rispose Gesù: « Chiunque beve di quest’ acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna ». « Signore, gli disse la donna, dammi di quest’ acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. » Le disse: « Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui ». Rispose la donna: « Non ho marito ». Le disse Gesù: « Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero ». Gli replicò la donna: « Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite, che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare ». Gesù le dice: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ». Gli rispose la donna: « So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa ». Le disse Gesù: « Sono io, che ti parlo ».
    In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: « Che desideri? », o: « Perché parli con lei? ». La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: « Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».
    Uscirono allora dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: « Rabbì, mangia ». Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: « Qualcuno forse gli ha portato da mangiare? ». Gesù disse loro: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete. Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete. Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato, altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro ». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: « Mi ha detto tutto quello che ho fatto ».

    Insegnerò agli erranti le tue vie
    e i peccatori a te ritorneranno.
    …la mia lingua esalterà la tua giustizia.
    Signore, apri le mie labbra
    e la mia bocca proclami la tua lode.

    Siamo giunti all’ultimo dei nostri incontri e vogliamo riflettere sulla necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione della misericordia. Ci ispiriamo ad alcune tra le parole della parte finale del Salmo 50, là dove viene espresso appunto il proposito di missionarietà: « Insegnerò agli erranti le tue vie..: la mia lingua esalterà la tua giustizia… apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.

    L’esperienza del salmista

    Notiamo innanzitutto che il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera precisa, che corrisponde all’itinerario da lui percorso: farò capire a chi è senza strada che una strada c’è, anzi che tu, o Signore, gli stai venendo incontro. Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma come testimone di ciò che è avvenuto a me.

    Ecco allora la forza di questa testimonianza: chi ha percorso un genuino cammino penitenziale, può aiutare altri a capire che c’è una via d’uscita: e non semplicemente una via d’uscita generica o stoica o eroica ma una via d’uscita in cui Dio stesso viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me. Più di una volta si verifica nella vita, infatti, che proprio chi è uscito da qualche tenebroso tunnel ha una singolare capacità di dire ad altri: coraggio, anche per te c’è sicuramente una via di uscita!

    Questa viene espressa dal salmista in modo aperto e libero, quasi gli fosse ridata la parola. Le tre realtà che segnano la parola umana – la lingua, le labbra, la bocca – vengono qui coinvolte nell’impegno di esprimersi missionariamente. Lingua, labbra, bocca si aprono non per una imposizione, non perché il testimone sente un dovere che grava sopra di sé, bensì per una effusione che gli viene dalla pienezza che ha dentro di sé. Sappiamo molto bene che una testimonianza a mezza bocca è poco efficace, talora è quasi una controtestimonianza. Quella invece che viene dall’esultanza della lingua, dal bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia, è veramente degna di essere rispettata e di essere ascoltata.

    Possiamo subito domandarci: com’è la mia testimonianza? È una testimonianza a mèzza bocca, in cui le labbra si muovono a fatica e annaspo in cerca delle parole? In questo caso non nasce da una esperienza: nasce piuttosto da qualche cosa che non è ancora entrato dentro di me.

    Oppure, è una testimonianza spontanea, libera, gioiosa, in cui le parole vengono fuori da sole? In questo caso sta operando in me la tua grazia, Signore, è il tuo Spirito che mi apre la bocca perché io possa cantare le tue lodi con amore, perché io possa insegnare che c’è una strada a coloro che ritengono non ci sia più niente da fare. Apri sempre, Signore, la mia bocca soprattutto di fronte alle situazioni difficili nelle quali mi accade di rimanere muto, di non sapere cosa dire e addirittura mi sembra che davvero non ci sia speranza!

    L’esperienza della Samaritana

    Il Vangelo secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si apre alla testimonianza convinta e convincente: la donna samaritana.

    È un brano che si potrebbe commentare ripercorrendo, in qualche maniera, le tappe che hanno segnato i nostri incontri, perché anch’esso indica un cammino penitenziale, un momento in cui la persona giunge alla verità di se stessa di fronte a Cristo e alla verità di Cristo come salvatore e come amico.

    E alla fine del cammino, ritroviamo l’apertura del cuore e delle labbra: « La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».

    Notiamo la finezza del particolare: « lasciò la brocca ». Questa donna era venuta per attingere acqua, la brocca era la sua ricchezza, ad essa era legata la sua vita quotidiana: eppure in questo momento tutto è dimenticato e la brocca slabbrata, abbandonata sul ciglio del pozzo, è come il segno di una esistenza da cui la donna è ormai uscita, è il segno di un incubo che ha lasciato dietro di sé. A somiglianza dei due discepoli di Emmaus, che interrompono la cena a metà, si alzano e corrono verso Gerusalemme, la Samaritana rifà la strada, corre in città e va ad annunciare quello che le è accaduto. Lo annuncia con parole piuttosto maldestre, in verità: «Che sia forse il Messia? ».

    Di per sé non è un annuncio molto efficace, almeno da un punto di vista teologico. Eppure queste parole sono una testimonianza efficacissima perché derivano da una esperienza vissuta. La gente ha davanti una persona che non parla con parole imparate, che non ripete una lezione, ma che parla quasi smozzicando le frasi e però con il cuore e l’affanno di chi ha avuto un’esperienza formidabile, che a fatica si può comunicare. Alla Samaritana si sono aperte le labbra, si è sciolta la lingua e, in una esplosione di gioia, parla con semplicità e con verità della misericordia di Dio verso di lei.

    Proclamare la misericordia

    Di fronte all’esperienza del salmista e della donna samaritana, noi dobbiamo domandarci quale sia la nostra testimonianza missionaria di misericordia. A noi, infatti, è chiesto di testimoniare quella grazia che ci ha attratto nel cammino penitenziale fatto insieme in questi esercizi.

    Nell’enciclica « Dives in misericordia », Giovanni Paolo II esprime questo dovere, che ci compete, in due momenti.

    In un primo momento parla del dovere generale della testimonianza:

    Occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua missione, sulle orme della tradizione dell’antica e della nuova Alleanza e, soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi apostoli (Dives in misericordia, VII).

    Testimoniare la misericordia è dunque un dovere del nostro tempo. Il Papa sembra quasi avere l’impressione che la Chiesa abbia bisogno di essere esortata, soprattutto oggi, a prendere coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio.

    In un secondo momento indica come si deve dare testimonianza e sottolinea tre modi:

    Professandola in primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita coerente con la fede.

    Cercando di introdurla e di incarnarla nella vita, sia dei suoi fedeli, sia, per quanto è possibile, in quella di tutti gli uomini di buona volontà. I

    Infine la Chiesa… ha il diritto e il dovere di richiamarsi alla misericordia di Dio, implorandola nella preghiera (ibidem).

    È facile comprendere come noi possiamo rendere testimonianza alla misericordia di Dio professandola.

    Ogni volta, infatti, che ci accostiamo al Sacramento della Riconciliazione, noi facciamo anche una «confessio fidei », cioè proclamiamo che Dio è Signore della nostra vita, è più grande del nostro peccato, che la sua misericordia trionfa sulla fragilità dell’esistenza umana e sul buio dell’uomo: confessiamo quindi e proclamiamo la misericordia di Dio.

    Incarnare la misericordia

    Il secondo modo suggerito dal Papa per testimoniare la misericordia divina è più difficile. Non è cosa da poco incarnare nella vita la misericordia di Dio. Anzi, è talmente difficile che talora ci lascia perplessi e sgomenti, ci lascia davvero senza parole e senza capacità di muoverci in questo cammino di missione e di testimonianza. D’altra parte, se non riusciamo a dare testimonianza della misericordia di Dio, ne va della credibilità della Chiesa e della nostra vita di cristiani.

    Vorrei fare capire questa difficoltà riflettendo su tre situazioni nelle quali possiamo trovarci.

    a) Situazioni o casi ordinari. Che cosa vuol dire introdurre, incarnare la testimonianza della misericordia? Concretamente vuol dire mettere in pratica la domanda del « Padre nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Vuol dire saper perdonare, saper comprendere, saper capire, voler perdonare settanta volte sette.
    E questo è già difficile, per tanti motivi che conosciamo bene. È così difficile che spesso noi lo emarginiamo, questo impegno di perdonare, anche dal nostro orizzonte morale e rimane quindi come qualcosa di inadempiuto a cui non guardiamo in faccia. Eppure è testimonianza necessaria, quotidiana, della misericordia ricevuta da Dio: «Se non perdonerete a chi vi ha fatto del male, neppure il Padre vostro perdonerà a voi» (cfr. Mt. 6, 15).

    b) Situazioni o casi più complessi. Sono i casi nei quali c’è in gioco la reciprocità. Dove, cioè, non basta perdonare, quasi fossimo noi soltanto a concedere il favore ad un altro, ma bisogna farsi perdonare, chiedere perdono, assumere l’atteggiamento di chi riconosce che se, è stato offeso ne ha però dato- occasione, che se è stato oggetto di qualche ingiustizia, anche lui però si è comportato in maniera non pienamente giusta. Tutto questo è molto difficile.

    C’è un altro caso di reciprocità assai difficile nella vita quotidiana ma che è assolutamente necessario pèrché forma, per così dire, il tessuto della vita. Ne abbiamo già accennato in un precedente incontro. Non basta cioè perdonare, ma bisogna saper camminare con un altro, bisogna saper correggere. La correzione fraterna, così importante per la comunità cristiana, e praticata nella Chiesa primitiva, richiede molto amore e molta umiltà. Tuttavia spesso noi la eliminiamo dal nostro orizzonte di agire perché ci appare troppo rischiosa, impossibile, inefficace e in tal modo non diamo sufficiente testimonianza alla misericordia di Dio.

    Vorrei che ciascuno, a partire da me, si interrogasse sinceramente: come viviamo queste occasioni di dare testimonianza, con i fatti, con le opere e non solo con le parole, alla misericordia di Colui che ci ha amato, che ci riabilita, che ci accoglie, che ci rifà dall’interno, che ha fiducia in noi?

    c)            Ci sono, infine, le situazioni o i casi conflittuali. Intendo per casi conflittuali quelli in cui ci sembra che la misericordia esiga un certo comportamento mentre l’ordine e la giustizia ne esigono un altro.

    Sono certamente situazioni estremamente difficili e non sempre riusciamo a trovare la soluzione soddisfacente: sono situazioni che causano nella Chiesa, nella società, ,nelle famiglie delle grandi sofferenze. Cercando di vivere la misericordia si arriva addirittura a temere di, fare torto o danno ad altri o al bene comune: nasce allora un conflitto tra i valori, almeno apparente, che ci costringe, nella nostra povertà storica; a non saper scegliere oppure a scegliere qualcosa che risulta insoddisfacente, in un caso o nell’altro.
    Chiunque vive in mezzo a delle responsabilità si imbatte in molti di questi casi che fanno soffrire nella misura in cui ci accorgiamo di quanto siamo lontani dall’essere lungimiranti e veri nella nostra misericordia. Questa sofferenza dobbiamo offrirla a Dio perché è la sola cosa che possiamo fare.

    Ci sono poi dei casi in cui il compiere un atto di misericordia comporta un uscire da quel minimo di possesso di noi, che pure è necessario, e allora non lo compiamo. Quante volte persone generose arrivano ad un limite e riconoscono di non poter andare oltre, di non potere fare di più! È il limite intrinseco alla nostra fragilità umana che addolora moltissimo. Andare oltre un certo limite equivarrebbe a spossessarsi di sé e si cadrebbe nell’opposto di quello che si, vorrebbe fare. Questa misura di prudenza necessaria ci fa cogliere come sia difficile dare storicamente una testimonianza pienamente luminosa della misericordia. Non ci resta allora che soffrire e implorare, per noi e per gli altri.

    Implorare la misericordia

    Il Papa, infatti, nella « Dives in misericordia », dopo aver detto di cercare di introdurre e di incarnare nella vita la misericordia, aggiunge che bisogna « implorarla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea ». Dobbiamo essere certi che questa implorazione è resistenza attiva e vera al male e che dispiace profondamente al nemico di Dio.
    Mi ha molto colpito un brano di Simone Weil là dove scriveva:

    Non è così difficile rinunciare a un piacere, pur inebriante, o sottomettersi a un dolore, pur violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere, esporsi a una semplicissima pena solo per Dio; per il vero Dio, per colui che è nei cieli e non altrove. Poiché, quando lo si fa, non si va alla sofferenza ma alla morte. Una morte più radicale della morte carnale e che fa orrore alla natura stessa.

    Invece, è proprio questo il momento di vincere il male: credere, cioè, al valore di una implorazione che non ha un’efficacia immediata connessa col suo esercizio. La nostra preghiera di implorazione, soprattutto nei casi-limite nei quali ci pare di non potere fare altro, è un vero modo di resistere al male. Non dobbiamo dunque avere paura della sterilità e abbandonare la preghiera, come spesso siamo tentati di fare, perché non ci riesce di scuotere immediatamente il male. È per questa nostra implorazione sofferta, che talora ci angoscia fino alle lacrime, che Dio ci darà modo di vedere come usare, anche in quei casi, la misericordia e l’amore e come aiutare veramente coloro che possiamo assistere con il dono di noi stessi.

    Conclusione

    Ecco che cosa significa e che cosa comporta nella vita essere testimoni della misericordia divina: « Insegnerò agli erranti le tue vie ». Riconoscendo che siamo tutti molto lontani da questa testimonianza seria della misericordia, dobbiamo ritornare alla preghiera creativa del Salmo 50:

    « Crea in me, o Dio, un cuore puro» perché non l’ho e tu devi crearlo in me come cosa nuova;

    « Rinnova in me uno spirito saldo» là dove il mio spirito si adagia nella fatica e nella paura;

    « Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito pronto» a essere testimone della tua misericordia di fronte a tanti miei fratelli e sorelle che aspettano questa testimonianza di Te, Padre misericordioso, che mi hai amato e mi hai chiamato, che mi hai fatto camminare quest’anno insieme a molti altri in un cammino di conversione e di misericordia.

    Vorrei concludere con le parole di Charles de Foucauld che nel primo incontro abbiamo ripetuto facendole nostre. Dopo aver indicato il Miserere come preghiera in cui l’esperienza dell’uomo è spiegata a se stessa, preghiera quotidiana che innalza l’uomo verso Dio, diceva:

    [Questa preghiera] parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini. È dunque una preghiera universale da cui nessuno è escluso e da cui la storia umana, nella sua verità, riceve un coinvolgimento e una presenza degli uni negli altri. In questa preghiera, cioè, noi ci ricordiamo, ci perdoniamo, ci aiutiamo, ci sosteniamo nel cammino difficile della conversione evangelica, nella strada faticosa di chi vuol dare un volto storico credibile a Cristo. Recitando il Salmo 50 noi viviamo questa fatica e insieme la gioia immensa dello Spirito che si riversa nella nostra esistenza e cresciamo verso l’unità misteriosa di Dio, del Cristo nella storia.

    Chiedo al Signore che attraverso la recita del Salmo 50, attraverso il ricordo di questo Salmo che ciascuno di noi conserverà nel cuore, noi possiamo conservare anche la memoria dei momenti meravigliosi che abbiamo vissuto, di questa fraternità nella fede, di questa umiltà nella richiesta di perdono, della fiducia che Lui, il Signore, ci fa camminare illuminati dallo splendore del suo volto e sostenuti dalla grazia del suo Spirito.

  • 10 Gen

    San Romualdo: l’«esicasta d’occidente»

    La «solitudine aurea» e l’hesychia nella tradizione

    dei Padri del deserto

    Centro Studi Avellaniti: San Romualdo: Storia, agiografia e spiritualità

     


    Nella sua attività di riforma monastica, Romualdo riformò e fondò sia eremi che monasteri; ma è innegabile che le sue preferenze furono rivolte agli eremi. Tuttavia, egli non fu l’innovatore dell’ideale eremitico, giacché da secoli tale vita era praticata in misura notevole anche in Occidente. La sua specifica funzione fu quella di dare una regola ai vari eremiti isolati, i quali, vivendo senza controllo, quasi sempre finivano per giungere a degli eccessi nelle loro forme di ascesi. Perciò Romualdo venne chiamato «il padre degli eremiti razionali che vivono secondo una regola».

    La regola che egli proponeva ai suoi discepoli era prima di tutto la  Regola di Benedetto. Ma, per fortuna, Bruno ci ha anche lasciato una «piccola regola» che Giovanni ha ricevuto dal maestro Romualdo come guida della sua vita. Trovo una condensazione dell’ideale della «solitudine aurea», ossia il secondo bene del carisma romualdino, in tale «piccola regola»:

    Siedi nella tua cella come nel paradiso.
    Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle.
    Fa’ attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci.
    L’unica via per te si trova nei Salmi, non lasciarla mai.
    Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore
    non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là,
    di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente.
    Quando ti viene qualche distrazione,
    non smettere di leggere; torna in fretta al testo
    e applica di nuovo l’intelligenza.
    Anzitutto mettiti alla presenza di Dio
    come un uomo che sta davanti all’imperatore.
    Svuotati di te stesso
    e siedi come una piccola creatura,
    contenta della grazia di Dio;
    se come una madre Dio non te la donerà,
    non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare.

    La «piccola regola» di Romualdo è da studiare insieme al capitolo  della “Vita del Beato Romualdo”, dove s. Pier Damiano racconta l’episodio nel quale Romualdo ricevette il dono delle lacrime, della scienza spirituale, e della preghiera mistica. La “piccola regola” e il capitolo 31 della sua vita, io credo, situano saldamente Romualdo e i suoi discepoli nell’antica tradizione della “spiritualità esicasta”.

    Il termine «esicasmo» è da comprendere nel senso primitivo, che trova la sua origine presso i Padri del deserto ed è giunto al vertice nella spiritualità del monte Sinai, specialmente negli scritti diGiovanni Climaco  e di Esichio.

    È mia intenzione commentare la «piccola regola» e il capitolo 31, collocandoli nel contesto della spiritualità del deserto, specialmente attraverso gli scritti di Giovanni Climaco e di Cassiano.
    Mentre sappiamo che Romualdo leggeva il libro delle  Vite dei Padri e seguiva gli insegnamenti delle loro Conferenze trasmesse da Cassiano, non voglio affermare che Romualdo avesse letto gli scritti di Giovanni Climaco. Tuttavia, essendo La Scala del Paradiso di Giovanni Climaco un manuale di noviziato per i monaci orientali, è molto probabile che Romualdo avesse conosciuto indirettamente gli insegnamenti del maestro sinaitico grazie a contatti con monaci della tradizione greca.

    Il termine greco hesychia significa lo stato di silenzio, di quiete, e di tranquillità, che è il risultato della cessazione del disturbo e dell’agitazione, esterni e interni. L’espressione «purità di cuore» di Cassiano contiene l’aspetto di «tranquillità dell’anima» (tranquillitas mentis), e, perciò, l’idea di hesychia. Inoltre, il termine indica anche solitudine e ritiro. In quanto valore essenziale della vita monastica, l’hesychia è cercata sia dagli anacoreti che dai monaci cenobitici. Tuttavia, nelle fonti più antiche, il termine «esicasta» normalmente significa un monaco che vive nella solitudine, ossia un eremita, diversamente da un monaco cenobita, come osserva Kallistos Ware, uno studioso monaco ortodosso.

    Siedi nella tua cella

    La frase iniziale della «piccola regola» di Romualdo, «siedi nella tua cella», è un’indicazione fondamentale per gli esicasti che abitano nelle celle. Così il padre Mosè disse ad un fratello che si recò a Scete per chiedergli una parola: «Va’, rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». Il padre Rufo diede la seguente spiegazione del senso dell’hesychia: «L’hesychia è il rimanere in cella con timore e conoscenza di Dio, tenendosi lontano dal ricordo delle offese e dalla superbia». Il legame stretto fra l’hesychia e la cella si trova anche in un detto famoso di Antonio il Grande: “Come i pesci muoiono se restano all’asciutto, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono fra i mondani, snervano il vigore dell’unione con Dio. Come dunque il pesce al mare, così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro”.

    L’idea della cella come paradiso può ritrovarsi in Girolamo, che disse al monaco Rustico: «Fin quando rimani nel tuo paese, prendi la tua cella come paradiso». Nella tradizione del deserto, la cella è considerata luogo di riposo, casa di preghiera, e abitazione di Dio.

    Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle

    Prosegue la «piccola regola»: «Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle». La spiritualità esicasta distingue tra hesychia esteriore e interiore. Mentre l’hesychia esteriore si riferisce a un luogo remoto e quieto, in particolare la cella di un eremita, l‘hesychia interiore indica la calma interiore di un esicasta. L’hesychia esteriore serve come condizione favorevole per coltivare il silenzio interiore che è l’obiettivo cercato.  Perciò non basta rimanere nella propria cella; occorre coltivare la cella del cuore. A questo riguardo, Giovanni Climaco esorta gli esicasti a chiudere tre porte una dopo l’altra: «Chiudi fisicamente la porta della cella per il tuo corpo, ferma la porta alla lingua perché non parli, sbarra la porta dal di dentro contro gli spiriti».

    L‘hesychia interiore può essere disturbata dall’attaccamento agli uomini o alle cose di questo mondo, o dalle preoccupazioni per gli affari terreni. Nella tradizione del deserto, l’amerimnia, che significa libertà dalle preoccupazioni, è intimamente connessa all‘hesychia interiore. Sulla scia di tale tradizione Giovanni Climaco dichiara: «E’ proprio dell’hesychia il dono dell’amerimnia che guida tutte le nostre azioni in qualunque affare spirituale o materiale: poiché la preoccupazione per il primo conduce a quella per il secondo». L’ingiunzione categorica della «piccola regola» a dimenticare il mondo appartiene chiaramente a tale tradizione. Il motivo è che, mentre sta nella cella fisicamente, il monaco deve evitare di vagare per il mondo con la mente. Questo è anche il significato della descrizione classica che Giovanni Climaco fa di un esicasta: «L’esicasta è colui che lotta per circoscrivere dentro il corporeo l’incorporeo, cosa veramente straordinaria», ossia l’esicasta è colui che conserva lo spirito dentro il proprio corpo.

    Fà attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci

    La «piccola regola» continua: «Fà attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci». Per raggiungere e mantenere 1‘hesychia e l‘amerimnia, altri due termini sono usati dalla tradizione del deserto: nepsis (la vigilanza) e prosochè (l’attenzione).

    Secondo Giovanni Climaco, l‘hesychia e la vigilanza si trovano sempre insieme: «Ama l’hesychia il pensiero vigoroso e conciso, sempre vigile alla porta del cuore per eliminare o respingere quelli che dall’esterno vorrebbero in esso irrompere». E’ interessante notare che, prima di Romualdo, Giovanni Climaco aveva già usato l’immagine del pescatore a proposito della vigilanza: «Il monaco che veglia è come un buon pescatore che ripesca i pensieri della mente perché nella tranquillità della notte li può più facilmente recuperare».

    L’oggetto della vigilanza, per Romualdo come per Giovanni Climaco, sono i «pensieri» (logismoi), che sono le passioni viziose. A questo riguardo, Giovanni Climaco dimostra una dipendenza creativa dalla trattazione classica di Evagrio riguardo agli Otto «pensieri».

    L’hesychia non è un fine in sé, bensì è coltivata come un mezzo per ottenere un obiettivo nobile: la contemplazione o la preghiera incessante. Nella tradizione monastica, la preghiera e la contemplazione nascono come risposta alla parola di Dio.

    «L’unica via per te si trova nei Salmi – non lasciarla mai»

    Perciò, dopo l’esortazione a vigilare sui pensieri, la «piccola regola» spiega qual’è il lavoro principale del monaco quando dimora nella propria cella: «L’unica via per te si trova nei Salmi – non lasciarla mai». nei Salmi. Poiché i Padri, Atanasio e Cassiano in particolare, vedono i Salmi come la condensazione di tutta la Bibbia, la via dei Salmi si riferisce alla Bibbia tutta intera, e, in modo particolare, al Salterio come compendio della Bibbia. L’unica via indicata dalla «piccola regola» è

    La «piccola regola» continua a dare istruzioni sulla via dei Salmi: Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente. Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l’intelligenza.

    Qui la “piccola regola” ci presenta una visione integrale di come leggere e pregare i Salmi. Lectio, meditatio, oratio sono i diversi momenti di un’unica continua attività spirituale nella quale uno può passare liberamente da un momento all’altro senza seguire un ordine fisso. Anche se la parola non si trova, l’idea di «meditazione» (melete), nel senso antico di recitare un testo ripetutamente per capirne meglio il significato e per memorizzarlo, è sicuramente contenuta in questo brano.

    Esiste un intimo legame fra l‘hesychia, o il silenzio interiore, e l’assidua meditazione della parola di Dio. Secondo la «piccola regola», per poter seguire la via dei Salmi il monaco deve dimenticare il mondo e vigilare costantemente sui propri pensieri, cioè coltivare il silenzio interiore. A loro volta, la lettura e la meditazione assidua della Parola di Dio servono come strumenti che aiutano a mantenere ferma l’attenzione di una mente vagante: «Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l’intelligenza.».  Quindi il silenzio interiore e l’assidua meditazione della Parola di Dio sono due elementi essenziali della spiritualità della cella, reciprocamente indispensabili.

    Un simile approccio già si trova in Cassiano, secondo il quale è impossibile dedicarsi alla lettura spirituale senza conservare il silenzio interiore o la purezza di cuore: Pertanto, se volete innalzare nel vostro cuore il tabernacolo santo della scienza spirituale, purificatevi dalla bruttura di tutti i vizi, spogliatevi di tutte le preoccupazioni di questo mondo. E’ impossibile che un’anima, anche moderatamente occupata nelle faccende del mondo, meriti il dono della scienza, o sia feconda nell’intelligenza spirituale, o ritenga fermamente le sante letture che ha fatto.

    D’altra parte, secondo Cassiano, la lettura e la meditazione sono i mezzi più efficaci per custodire la mente dai pensieri dannosi, nutrendo le sante  memorie e i pii sentimenti. La necessità di coniugare i due aspetti, silenzio e meditazione, è stata splendidamente formulata nelle Eremiticae Regulae del Beato Rodolfo, quarto Priore del sacro Eremo di Camaldoli: Seguono per ultimo il silenzio e la meditazione. Queste due cose, la regola del tacere e la vigile occupazione dei meditare, sono così unite indissolubilmente che nessuna senza l’altra è valevole a salute; poiché il silenzio senza la meditazione è morte e quasi tomba di un sepolto vivo; la meditazione senza il silenzio non viene a capo di nulla ed è come lo smaniare di un infelice chiuso in un sepolcro. Uniti in spirituale connubio, sono gran quiete dell’anima e culmine di contemplazione.

    Se seguiamo la suddivisione delle due tappe della vita spirituale: praktike e  theorìa, ossia ascesi e contemplazione, la via dei Salmi si trova in tutte e due le tappe, in quanto la lettura e la meditazione assidua conducono all’hesychia e aprono la porta alla contemplazione. Per questa ragione Cassiano colloca la lettura e la meditazione fra le pratiche ascetiche che conducono alla purezza di cuore. Allo stesso tempo la lettura e la meditazione portano il frutto della «scienza spirituale». ossia la contemplazione: Poi, dopo aver allontanato da voi stessi tutte le preoccupazioni e le ansietà terrestri, sforzatevi con tutte le forze di applicarvi assiduamente, anzi continuamente, alla lettura sacra, cosicché questa meditazione continua pervada la vostra anima e la formi, poi così dire, a sua immagine… La lettura allora farà dell’anima vostra una nuova arca dell’alleanza, che conserva in sé le due tavole di pietra, vale a dire l’eterna fermezza dell’uno e dell’altro Testamento. Farà di voi una nuova urna d’oro, simbolo d’una memoria pura e sincera, che conserva per sempre il tesoro nascosto dalla manna, vale a dire l’eterna e celeste dolcezza del senso spirituale e del pane degli angeli.

    Cassiano insiste sull’intima connessione fra ascesi, meditazione e scienza spirituale, ossia contemplazione. Questi elementi sono così inseparabili tra loro che il monaco li deve coltivare lungo l’intero cammino spirituale.

    L’esperienza di san Romualdo

    La  «piccola regola» di Romualdo contiene una breve sintesi di questi elementi. La via dei Salmi presuppone l’ascesi attraverso la vigilanza sui pensieri e allo stesso tempo prepara la strada alla contemplazione. Poiché la «piccola regola» è scritta per i principianti nel cammino monastico, parla poco della contemplazione, ma giustamente esorta i discepoli ad aspettare pazientemente la grazia di Dio. Per avere un’idea della grazia promessa nella «piccola regola», bisognerebbe rivolgersi alla Vita del Beato Romualdo. Nel capitolo 31, S. Pier Damiano racconta l’episodio nel quale Romualdo ricevette per la prima volta il dono delle lacrime della compunzione. Qui la compunctio va oltre il significato usuale di dolore penitenziale ed indica ogni esperienza estatica di gioia e di esultanza che si ha durante la preghiera. Insieme al dono delle lacrime fu concesso a Romualdo un altro dono importante, cioè la conoscenza spirituale, o la comprensione del senso nascosto delle Sacre Scritture. Così scrive Pier Damiano: Un giorno, mentre stava in cella a salmodiare, si imbatté in questo versetto: ‘Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su dite, ti darò consiglio (Sal 31, 8). Gli sopraggiunse improvvisamente una così larga effusione di lacrime, e la sua mente fu talmente illuminata nella comprensione delle Scritture divine, che da quel giorno in poi, finché visse, ogni volta che lo voleva, poteva versare con facilità lacrime abbondanti e il senso spirituale delle Scritture non gli era più nascosto.

    Secondo l’agiografo, in questa occasione Dio innalzò Romualdo al culmine della perfezione, tanto che, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, Romualdo poté prevedere alcuni eventi futuri e penetrare con intelligenza molti misteri nascosti delle Scritture. Nello stesso capitolo leggiamo che tale esperienza mistica non restò un caso isolato nella vita di Romualdo, ma ebbe un effetto permanente su di lui. Da quel momento in poi le lacrime quasi sempre accompagnavano la sua preghiera estatica: Sovente, rimaneva così rapito nella contemplazione di Dio che si scioglieva quasi interamente in lacrime e bruciando di fervore indicibile per l’amore divino, usciva in esclamazioni come queste: ‘Caro Gesù, caro! Mio dolce miele, desiderio inesprimibile, dol­cezza dei santi, soavità degli angeli!’ Parole che, sotto il dettato dello Spirito santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani. Era come dice l’Apostolo: ‘Noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8, 26).

    Le lacrime: «orazione infuocata»

    Le descrizioni di lacrime, di fervore ardente, e di giubilo che accompagnavano le preghiere estatiche di Romualdo ricordano la oratio ignita spesso menzionata da Cassiano. Nelle preghiere estatiche di Romualdo, che andavano oltre le immagini e le parole per sfociare in gemiti inesprimibili, si trova quasi un’eco dell’ «orazione infuocata» descritta da Cassiano:
    La preghiera di cui stiamo parlando non si fissa su qualche immagine, anzi non s’esprime neppure attraverso parole: nasce di balzo, da una mente infuocata, da un rapimento indicibile, da una insaziabile alacrità di spirito. L’anima, trasportata fuori dei sensi e delle cose visibili, si offre a Dio tra sospiri e gemiti inenarrabili.

    Cassiano adopera varie espressioni per descrivere la preghiera estatica: essa è infuocata, ardente, pura, ineffabile, esprimibile solo attraverso i gemiti e non con le parole… ecc.  Anche le lacrime sono segno della preghiera estatica. Mentre sia Evagrio che Cassiano parlano dell’ «orazione pura» che va oltre le immagini e le parole, è la presenza delle lacrime, del fuoco, e dei gemiti che distingue la descrizione di Cassiano da quella di Evagrio. Come Diadoco di Foticea, secondo Columba Stewart, Cassiano ha effettuato una sintesi fra l’approccio intellettuale di Evagrio e il misticismo affettuoso dello Pseudo-Macario nella sua presentazione dell’orazione pura.

    In modo simile, le lacrime di compunzione costituiscono un tema importante per Giovanni Climaco, anche se questi accentua di più la compunzione intesa come dolore e pentimento. Nel  capitolo sulla preghiera, Climaco raccomanda la semplicità della “preghiera con una sola espressione” (preghiera monologistos) per evitare le distrazioni. Inoltre, insegna che, quando uno è arrivato a possedere la presenza del Signore nel suo cuore, non deve più preoccuparsi di intessere la sua orazione con parole, perché allora lo Spirito intercederà per lui e in lui con gemiti inenarrabili. Ugualmente Giovanni Climaco esorta a tener lontana dalla mente ogni immagine sensibile che potrebbe turbare il nostro raccoglimento. In modo particolare dà grande importanza alla presenza del fuoco dello Spirito che «inabitante nel cuore del monaco orante, innalzando l’anima nella preghiera, ne sollecita lo slancio fino al cielo, rinnovando la sua discesa nel cenacolo dell’anima».  In tutti questi aspetti si percepisce una chiara consonanza con le esperienze delle preghiere estatiche di Romualdo così come sono presentate nel capitolo 31 della sua Vita.

    E’ molto significativo che Romualdo abbia ottenuto il dono delle lacrime, la scienza spirituale e l’esperienza della preghiera estatica, mentre stava recitando un Salmo. È quasi una conferma alla validità della  «via dei Salmi» indicata dalla «piccola regola» come l’unica via da seguire. Se ci volgiamo alla «piccola regola» e leggiamo le parole: «Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti…», dobbiamo ricordare il capitolo più bello della Vita di S. Romualdo e possiamo consolarci con la convinzione che la grazia promessa dalla «piccola regola» sarà concessa a coloro che perseverano sulla via dei Salmi.

    Mettiti alla presenza di Dio

    Continuiamo la nostra riflessione sulla «piccola regola»: «Anzitutto mettiti alla presenza di Dio come un uomo che sta davanti all’imperatore». L’esortazione ad avere la consapevolezza della presenza di Dio è presente nella Regola di S. Benedetto. Il primo gradino dell’umiltà si basa sulla consapevolezza di essere sempre e ovunque sotto lo sguardo di Dio (RB 7, 10-30). Inoltre, la memoria della presenza di Dio deve ispirare il nostro comportamento soprattutto durante la preghiera comunitaria (RB 19,I 2.).

    La vigilanza (nepsis) e l’attenzione (prosoche) sono due aspetti indispensabili per l’hesychia: la vigilanza ci libera dall’agitazione dei pensieri perché possiamo conservare l’attenzione continua alla presenza di Dio. Nel capitolo sulla vigilanza Giovanni Climaco parla di stare costantemente in preghiera davanti a Dio nostro Re. Nel capitolo sull’hesychia si trova il famoso testo che invita ad unire il ricordo continuo di Gesù al proprio respiro: L’esichia consiste nello stare in continua adorazione del Signore, sempre alla sua presenza, con il ricordo di Gesù aderente al proprio respiro, allora potrai toccare con mano i vantaggi dell’hesychia.

    Svuotati di te stesso

    Finalmente, giungiamo all’ultimo paragrafo della «piccola regola»: «Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare».

    Per potersi sedere pazientemente in attesa della visita della grazia di Dio, senza agire di propria iniziativa, è necessario svuotarsi completamente. L’intero paragrafo ci ricorda il Salmo 131 che, con soli tre versetti, è uno dei più bei salmi di fiducia nel Signore. L’immagine di un pulcino in attesa di essere nutrito dalla mamma richiama il bimbo in braccio a sua madre del secondo versetto del Salmo: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia».

    L’ingiunzione a svuotarsi completamente, invece, corrisponde al primo versetto del Salmo: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze».

    Tutti e due i versetti sono citati nel capitolo sull’umiltà della Regola di S. Benedetto, come introduzione ai vari gradini dell’umiltà (RB 7, 3-4).

  • 07 Gen

    Elementi per una spiritualità del lavoro

    Enc. “Laborem exsercens”, di Giovanni Paolo II

    24. Particolare compito della Chiesa

    Conviene dedicare l’ultima parte delle presenti riflessioni sul tema del lavoro umano, collegate col 90° anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum, alla spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione. Dato che il lavoro nella sua dimensione soggettiva è sempre un’azione personale, actus personae, ne segue che ad esso partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che sia un lavoro manuale o intellettuale. All’uomo intero è pure indirizzata la Parola del Dio vivo, il messaggio evangelico della salvezza, nel quale troviamo molti contenuti – come luci particolari – dedicati al lavoro umano. Ora, è necessaria un’adeguata assimilazione di questi contenuti; occorre lo sforzo interiore dello spirito umano, guidato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, per dare al lavoro dell’uomo concreto, con l’aiuto di questi contenuti, quel significato che esso ha agli occhi di Dio, e mediante il quale esso entra nell’opera della salvezza al pari delle sue trame e componenti ordinarie e, al tempo stesso, particolarmente importanti.

    Se la Chiesa considera come suo dovere pronunciarsi a proposito del lavoro dal punto di vista del suo valore umano e dell’ordine morale, in cui esso rientra, in ciò ravvisando un suo compito importante nel servizio che rende all’intero messaggio evangelico, contemporaneamente essa vede un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede una viva partecipazione alla sua triplice missione: di Sacerdote, di Profeta e di Re, così come insegna con espressioni mirabili il Concilio Vaticano II.

    25. Il lavoro come partecipazione all’opera del Creatore

    Come dice il Concilio Vaticano II, «per i credenti una cosa è certa: l’attività umana individuale e collettiva, ossia quell’ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L’uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l’universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all’uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra».

    Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all’inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l’opera stessa della creazione è presentata nella forma di un «lavoro» compiuto da Dio durante i «sei giorni», per «riposare» il settimo giorno. D’altronde, ancora l’ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l’opera che Dio ha compiuto mediante il suo «lavoro» creativo, quando proclama: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente», analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con l’affermazione: «E Dio vide che era una cosa buona».

    Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo stesso, in un certo senso il primo «Vangelo del lavoro». Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l’uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé – egli solo – il singolare elemento della somiglianza con lui. L’uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest’opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: «Il Padre mio opera sempre…»: opera con la forza creatrice, sostenendo nell’esistenza il mondo che ha chiamato all’essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall’inizio ha destinato al «riposo» in unione con se stesso, nella «casa del Padre». Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni «settimo giorno», ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell’azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l’uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel «riposo» che il Signore riserva ai suoi servi ed amici.

    La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all’opera di Dio, deve permeare – come insegna il Concilio – anche «le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l’opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia».

    Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell’epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: «I cristiani, dunque, non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell’ingegno e della potenza dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva… Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante».

    La consapevolezza che mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: «I fedeli perciò – leggiamo nella Costituzione Lumen Gentium – devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari, affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace… Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura».

    26. Cristo, l’uomo del lavoro

    Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera di Dio stesso suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo – quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth «rimanevano stupiti e dicevano: Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? … Non è costui il carpentiere?». Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l’opera il «Vangelo» a lui affidato, la parola dell’eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il «Vangelo del lavoro», perché colui che lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth. E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare – piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l’esistenza -, però, al tempo stesso, l’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al «mondo del lavoro», ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: «il Padre mio è il vignaiolo …», trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell’Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi?

    Nei libri dell’Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall’uomo: così per es. al medico, al farmacista, all’artigiano-artista, al fabbro – si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d’oggi -, al vasaio, all’agricoltore, allo studioso, al navigatore, all’edile, al musicista, al pastore, al pescatore. Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne. Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano: al lavoro del pastore, dell’agricoltore, del medico, del seminatore, del padrone di casa, del servo, dell’amministratore, del pescatore, del mercante, dell’operaio. Parla pure dei diversi lavori delle donne. Presenta l’apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori o dei pescatori. Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi.

    Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull’esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un’eco particolarmente viva nell’insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende), e grazie a ciò poteva pure come apostolo guadagnarsi da solo il pane. «Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi». Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: «A questi … ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace», così scrive ai Tessalonicesi. Infatti, rilevando che «alcuni» vivono disordinatamente, senza far nulla, l’Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» . In un altro passo invece incoraggia: «Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che quale ricompensa riceverete dal Signore l’eredità».

    Gli insegnamenti dell’Apostolo delle Genti hanno, come si vede, un’importanza-chiave per la morale e la spiritualità del lavoro umano. Essi sono un importante complemento a questo grande, anche se discreto, Vangelo del lavoro, che troviamo nella vita di Cristo e nelle sue parabole, in ciò che Gesù «fece e insegnò».

    In base a queste luci emananti dalla Sorgente stessa, la Chiesa sempre ha proclamato ciò di cui troviamo l’espressione contemporanea nell’insegnamento del Vaticano II: «L’attività umana, invero, come deriva dall’uomo, così è ordinata all’uomo. L’uomo, infatti, quando lavora, non soltanto modifica le cose e la società, ma perfeziona anche se stesso. Apprende molte cose, sviluppa le sue facoltà, è portato a uscire da sé e a superarsi. Tale sviluppo, se è ben compreso, vale più delle ricchezze esteriori che si possono accumulare … Pertanto, questa è la norma dell’attività umana: che secondo il disegno e la volontà di Dio essa corrisponda al vero bene dell’umanità, e permetta all’uomo singolo o come membro della società di coltivare e di attuare la sua integrale vocazione».

    Nel contesto di una tale visione dei valori del lavoro umano, ossia di una tale spiritualità del lavoro, si spiega pienamente ciò che nello stesso punto della Costituzione pastorale del Concilio leggiamo sul tema del giusto significato del progresso: «L’uomo vale più per quello che è che per quello che ha. Parimente tutto ciò che gli uomini fanno per conseguire una maggiore giustizia, una più estesa fraternità e un ordine più umano nei rapporti sociali, ha più valore dei progressi in campo tecnico. Questi, infatti, possono fornire, per così dire, la materia alla promozione umana, ma da soli non valgono in nessun modo ad effettuarla».

    Tale dottrina sul problema del progresso e dello sviluppo – tema così dominante nella mentalità moderna – può essere intesa solamente come frutto di una provata spiritualità del lavoro umano, e solamente in base a una tale spiritualità essa può essere realizzata e messa in pratica. Questa è la dottrina, ed insieme il programma, che affonda le sue radici nel «Vangelo del lavoro».

    27. Il lavoro umano alla luce della Croce e della Risurrezione di Cristo

    C’è ancora un aspetto del lavoro umano, una sua dimensione essenziale, nella quale la spiritualità fondata sul Vangelo penetra profondamente. Ogni lavorosia esso manuale o intellettuale – va congiunto inevitabilmente con la fatica. Il Libro della Genesi lo esprime in modo veramente penetrante, contrapponendo a quella originaria benedizione del lavoro, contenuta nel mistero stesso della creazione, ed unita all’elevazione dell’uomo come immagine di Dio, la maledizione che il peccato ha portato con sé: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita». Questo dolore unito al lavoro segna la strada della vita umana sulla terra e costituisce l’annuncio della morte: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto …». Quasi come un’eco di queste parole, si esprime l’autore di uno dei libri sapienziali. «Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle …». Non c’è un uomo sulla terra che non potrebbe far proprie queste espressioni.

    Il Vangelo pronuncia, in un certo senso, la sua ultima parola anche a questo riguardo nel mistero pasquale di Gesù Cristo. E qui occorre cercare la risposta a questi problemi cosi importanti per la spiritualità del lavoro umano. Nel mistero pasquale è contenuta la croce di Cristo, la sua obbedienza fino alla morte, che l’Apostolo contrappone a quella disubbidienza, che ha gravato sin dall’inizio la storia dell’uomo sulla terra. È contenuta in esso anche l’elevazione di Cristo, il quale mediante la morte di croce ritorna ai suoi discepoli con la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione.

    Il sudore e la fatica, che il lavoro necessariamente comporta nella condizione presente dell’umanità, offrono al cristiano e ad ogni uomo, che è chiamato a seguire Cristo, la possibilità di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere. Quest’opera di salvezza è avvenuta per mezzo della sofferenza e della morte di croce. Sopportando la fatica del lavoro in unione con Cristo crocifisso per noi, l’uomo collabora in qualche modo col Figlio di Dio alla redenzione dell’umanità. Egli si dimostra vero discepolo di Gesù, portando a sua volta la croce ogni giorno nell’attività che è chiamato a compiere.

    Cristo, «sopportando la morte per noi tutti peccatori, ci insegna col suo esempio che è necessario anche portare la croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano la pace e la giustizia»; però, al tempo stesso, «con la sua risurrezione costituito Signore, egli, il Cristo, a cui è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, opera ormai nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito, … purificando e fortificando quei generosi propositi, con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra».

    Nel lavoro umano il cristiano ritrova una piccola parte della croce di Cristo e l’accetta nello stesso spirito di redenzione, nel quale il Cristo ha accettato per noi la sua croce. Nel lavoro, grazie alla luce che dalla risurrezione di Cristo penetra dentro di noi, troviamo sempre un barlume della vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei «nuovi cieli e di una terra nuova», i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo. Mediante la fatica – e mai senza di essa. Questo conferma, da una parte, l’indispensabilità della croce nella spiritualità del lavoro umano; d’altra parte, però, si svela in questa croce e fatica un bene nuovo, il quale prende inizio dal lavoro stesso: dal lavoro inteso in profondità e sotto tutti gli aspetti – e mai senza di esso.

    È già questo nuovo bene – frutto del lavoro umano – una piccola parte di quella «terra nuova», dove abita la giustizia? In quale rapporto sta esso con la risurrezione di Cristo, se è vero che la molteplice fatica del lavoro dell’uomo è una piccola parte della croce di Cristo? Anche a questa domanda cerca di rispondere il Concilio, attingendo la luce dalle fonti stesse della Parola rivelata: «Certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo, ma perde se stesso (cfr. Lc 9, 25). Tuttavia, l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì stimolare piuttosto la sollecitudine a coltivare questa terra, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza per il Regno di Dio».

    Abbiamo cercato, nelle presenti riflessioni dedicate al lavoro umano, di mettere in rilievo tutto ciò che sembrava indispensabile, dato che mediante esso devono moltiplicarsi sulla terra non solo «i frutti della nostra operosità», ma anche «la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà». Il cristiano che sta in ascolto della parola del Dio vivo, unendo il lavoro alla preghiera, sappia quale posto occupa il suo lavoro non solo nel progresso terreno, ma anche nello sviluppo del Regno di Dio, al quale siamo tutti chiamati con la potenza dello Spirito Santo e con la parola del Vangelo.

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