• 23 Gen

    di p. Attilio Fabris

    In cammino per allontanarsi

     

    Nello stesso giorno”: in Luca tutto l’evento pasquale si svolge nell’arco di un solo giorno. Siamo al “primo giorno dopo il sabato” nel pomeriggio.

     

    Sono “due di loro”, di cui uno di nome Cleopa e l’altro anonimo (ritroviamo il volto di tutti noi) i discepoli protagonisti del racconto.

    Hanno fatto parte del gruppo dei discepoli, hanno conosciuto e seguito Gesù di Nazaret, fino alla passione. Sono due di quelli che, con gli undici, ricevettero l’annunzio della resurrezione (v. 9).

     

    Stavano camminando”. L’uomo è sempre in cammino. Ognuno ha una direzione verso cui incamminarsi. Il verbo “camminare” non indica solo un moto fisico.

    A Gerusalemme la comunità dei discepoli in quel momento è radunata nel Cenacolo confrontandosi con quell’annuncio che ha disorientato tutti: il sepolcro è vuoto!

    I due discepoli stanno allontanandosi da Gerusalemme verso Emmus (una decina di chilometri).  Costoro si stanno allontanando da essa, si stanno distanziando dagli eventi di Gesù avvenuti nella città santa. Questo porre distanza sta a dire l’impossibilità ormai di un rapporto di appartenenza sia al Maestro come alla sua comunità.

    Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità dei discepoli pre-pasquale non ha futuro, il suo destino è la disgregazione, se non interviene l’esperienza della Buona Notizia.

     

    I due “conversavano” ( in greco “fare l’omelia”) tra loro di tutte queste cose “che erano accadute”, e “stavano dibattendo” (greco: cercare insieme, litigare).

    Questo cammino dunque è intessuto di scambi di opinioni, di risonanze, è un dialogo fitto, intenso. Ci dice che i due non hanno capito ma nello stesso tempo non possono dimenticare. Infatti si parla a lungo di ciò che sta a cuore, e sta a cuore ciò che si cerca, si cerca ciò che si ama. Sono ricurvi sul passato, e pur allontanandosi dalla comunità, il loro cuore è rimasto ancorato a quella realtà sconcertante della passione e morte del Maestro. Sono profondamente delusi a causa della crocifissione di quell’uomo. Essi commemorano un morto, uno, che pur avendo promesso tante cose, è rimasto vittima della cattiveria altrui e ha fatto la fine di un fallito o di un illuso. Hanno atteso fino al terzo giorno dopo la crocifissione ma inutilmente. Si tratta per loro di una ricerca difficile di interpretazione e comprensione di ciò che hanno sperimentato in quei giorni: quella passione e morte di Gesù così scandalosa e incomprensibile. Ma non ne riescono a venire a capo!

    Il dibattere dice che il ricordo del Signore non li unisce, ma li divide.

    Proviamo ad immaginarci i loro discorsi via facendo….

     

     

    Il viandante sconosciuto

     

    E’ a questa situazione di agonia della speranza che si rivolge la buona notizia. “Gesù si avvicinò in persona e camminava con loro”. E’ proprio lui “in persona” a farsi accanto, a camminare al loro fianco facendo la strada con loro. L’iniziativa è solo sua, come in ogni altro racconto delle apparizioni del risorto. E’ l’Amore Dono che continua ad offrirsi discretamente, senza imporsi, di propria volontà. Niente lo spinge a farlo se non l’avere a cuore il bene dell’uomo.

     

    Ma gli occhi dei due “sono incapaci di riconoscerlo”.

    Da dove nasce questa incapacità? Essa scaturisce dalla incomprensione degli avvenimenti e dalla non illuminazione di essi da parte della Scrittura. La sfiducia e la paura stendono un velo dinanzi ai nostri occhi, e essi vedono  la realtà non come essa è realmente ma attraverso i loro filtri oscuri. Il loro sguardo non ha luce sufficiente per comprendere l’uomo nuovo, il vincitore della morte che è lì, accanto a loro.

    Non si parla qui tanto di vederlo quanto di “riconoscerlo”. E’ importante questa sottolineatura perché ci dice che il Risorto ora è possibile solo riconoscerlo attraverso quell’atto di fede che solo può aprire gli occhi.

     

     

    Intessitura iniziale del dialogo

     

    E’ Gesù che prende l’iniziativa e apre il dialogo con loro: “Che sono questi discorsi che state facendo?”.

    Gesù vuole che si esprima la delusione dei discepoli, che si oggettivizzi. L’annuncio deve entrare in tutto il negativo dell’uomo e della sua storia. Esso vuole salvarci da questo. Ecco perché Gesù non impone la sua presenza immediatamente. E’ necessario che l’uomo si accosti alla fede attraversando tutte le sue controrisonanze. Eluderle non servirebbe a nulla! Il cuore rimarrebbe inalterato e dubbioso.

     

    La reazione è un fermarsi del cammino, un osservare “col volto triste”. Si fermano perché quella semplice domanda li riporta improvvisamente ancora all’inizio dei loro discorsi. Le controrisonanze che abitano nel loro cuore si oggettivizzano attraverso il loro sguardo colmo di tristezza: è delusione mista a dolore.

     

    La loro risposta: “Tu solo sei forestiero da non sapere ciò che è accaduto?”. Gesù è considerato uno straniero che non conosce i fatti! Possibile dato il rumore che hanno provocato a Gerusalemme?

     

    Quali?”. Gesù non impone la sua evidenza dopo questa risposta. Restando sconosciuto Egli desidera iniziare un dialogo, una condivisione con i due. Ne hanno bisogno!

    Si fa raccontare ciò che è accaduto, ovvero stimola a portare alla coscienza l’oggetto della loro discussione, a chiarire ciò che fa problema, a dire i sentimenti che li hanno accompagnati. Li interroga affinché esca tutta la loro amarezza.

    La fede non è elusione dei problemi ma la loro soluzione, perciò questi non vanno dribblati o rimossi. La pedagogia di Gesù è straordinaria: è la pedagogia del dialogo e della condivisione che deve accompagnare qualsiasi iniziazione alla fede.

     

    Il viandante interroga discretamente. E cosa fa? Ascolta e condivide, condivide e ascolta… A un certo punto comincia  a dir la sua. 

     

     

    Discorso dei pellegrini

     

    Ciò che emerge dalla loro risposta è che gli avvenimenti riguardanti Gesù di Nazaret non trovano composizione nella loro coscienza, essi appaiono troppo contraddittori: non ne riescono a cogliere il senso, li vivono con un atteggiamento fatto di delusione e di turbamento.

    Essi parlano di Gesù come di un “profeta potente in opere e in parole”, ossia rievocano l’esperienza entusiasmante e gioiosa del ministero di Gesù, la sua predicazione e i suoi miracoli: tutto ciò testimoniava la verità della sua missione e della sua identità di inviato di Dio..

    Ma ecco la contraddizione: come si concilia questa esperienza e certezza con lo scandalo della sua esecuzione da parte dei capi? Come conciliare la certezza del suo essere inviato da Dio e la sua condanna a morte? Perché Dio non l’ha riconosciuto e l’ha abbandonato? “Forse ci siamo ingannati: non era colui che credevamo, ma un impostore”. Oppure altra conclusione: “Dio stesso l’ha rifiutato come fece con Saul per qualche sua colpa a noi sconosciuta”.

    Rifiutano lo scandalo della croce.

    Essi sono rimasti scandalizzati dalla fine di questo profeta, sebbene continuino a credere che egli sia stato un grande profeta mandato da Dio, Egli ha subito la sorte di tanti altri profeti. Ma quanto al riconoscerlo Messia, per loro il discorso è chiuso. Un uomo che è stato crocifisso ed è morto non può presumere di essere il messia; da lui non ci si può attendere la pienezza della realizzazione delle promesse di Dio. Dio infatti non ha impedito la sua fine ingloriosa e non ha accreditato la sua testimonianza. La croce è uno scoglio insormontabile!

     

    Dai fatti i due discepoli passano agli stati d’animo: “Noi speravamo…”. Speranza che fosse proprio lui l’atteso, il messia che avrebbe liberato il suo popolo (probabilmente in senso nazionalistico) come promesso da Dio.

    La croce è letta come la fine di ogni speranza. Il pensiero dell’uomo resta chiuso (9,45; 18,34), anzi profondamente deluso, davanti al pensiero di Dio (Mc 8,31-33). Davanti alla croce si frantumano le nostre fragili speranze e attese.

    Quel “noi speravamo” sta a dire le attese religiose dell’uomo, così amaramente deluse dalla croce. E così questa speranza è stata sottoposta ad una dura e tragica delusione. “Sono già passati tre giorni…”. Ovvero è la fine di ogni speranza, tutto è finito definitivamente. E’ una constatazione di cui prendere dolorosamente atto. L’osservazione sul “terzo giorno” non è da collegare alla speranza della resurrezione, anzi vuole sottolineare che per loro la morte di Gesùè un fatto compiuto e irrevocabile. Secondo la concezione ebraica l’anima aleggia intorno al corpo per tre giorni dopo la morte; trascorso questo termine non è più possibile tornare in vita (Ernst).

     

    Ma i due discepoli aggiungono qualcosa d’altro. Sì qualcosa è successo di strano. Mediata da altri è giunta un’esperienza: “alcune donne….”. Ma come credere a questo stando il fatto che alcuni dei discepoli sono andati al sepolcro hanno visto ciò che le donne avevano detto ma…. Lui non l’hanno visto! Anche loro due non si sono presa la briga di andare a vedere.

    Le loro parole contengono già tutto il kerygma, ne è un’esposizione precisa.  Essi sono in possesso di tutti gli elementi del kerygma: ma tutto ciò non costituisce ancora per loro una buona notizia! Essi in verità possiedono tutto il bagaglio dell’Annuncio cristiano, ma non sono in grado di aprirsi ad esso, di comporlo, possiedono già un piccolo “Credo” ma manca la chiave di lettura. Non riescono da soli a ricomporre il senso della vicenda di Gesù.

    Il sepolcro vuoto per loro è solo un ulteriore motivo di disorientamento e ambiguità.

    Sia allora che adesso il problema è identico: senza l’annuncio della Buona Notizia l’esperienza di fede del Risorto è impossibile (Gv 4,42). Ma chi potrà fare questo annuncio della Buona Notizia se non un evangelizzatore? E chi è che può svolgere tale servizio in questo momento se non il solo Gesù?

     

     

    Discorso di Gesù

     

    Gesù non aggiunge altri dati riguardanti la sua vicenda, i due li conoscono fin troppo bene. Ma è necessario aiutare i due pellegrini ad interpretare la sua vicenda aprendo alla loro coscienza uno sguardo nuovo su di essa. Si appresta ad un vero servizio di evangelizzazione.

     

    O senza testa e tardi di cuore…”: E’ un rimprovero forte e autorevole che non è certamente quello di un estraneo o di un ignorante. La figura del viandante assume gradualmente un aspetto dignitoso e magisteriale. Da sempre l’uomo è “di dura cervice e di cuore incirconciso”. Una testa impermeabile alla verità di Dio, e il cuore (il luogo dell’interiorità, il luogo della valutazione, del giudizio e della decisione) appesantito dalla tristezza e dalla delusione. L’incredulità è prestare fede alla paura e alla menzogna: è il peccato. Il primo passo da fare è quello di prestare l’orecchio più alla Parola che alla nostra paura.

     

    Non era forse necessario… e cominciando da Mosè e da tutti i profeti…”. Gesù inizia con i due una condivisione della parola: è la parola che diventa luce, ed apre all’intelligenza del mistero. E’ solo alla luce della parola che la sua morte non è più un incidente di percorso, estraneo al progetto di Dio. Ciò che agli occhi dei due discepoli appare contraddizione, diviene ora evento “necessario” per l’adempiersi delle promesse.

    La croce “scandalo e stoltezza” per chi non crede alla luce della Parola condivisa si trasforma in luogo di rivelazione del peccato dell’uomo e del suo rifiuto e nello stesso tempo piena rivelazione dell’agire  e del volto di Dio. Non è la smentita di Dio sulla missione di Gesù e sulla sua identità, bensì il suo compimento.

    “Tutta la scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento” (Ugo di san Vittore).

    A che servirebbe incontrare Gesù risorto, esultare di gioia, se non si può spiegare questa morte che ha gettato il sospetto della coerenza del percorso? Perché è stato rigettato, perché i capi religiosi sono riusciti a farlo crocifiggere, come un malfattore? Forse egli non era così potente come si pensava se gli altri hanno prevalso su di lui! Tanti “perché” resterebbero inspiegati!

    La condivisione di Gesù co i due discepoli dice bene il processo del circuito dell’ascolto dalla “Traditio” alla “Redditio” e viceversa. E’ la “fractio verbi”.

     

    Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché se questo è il punto decisivo? Perché la comunità alla quale scrive questo contenuto è ben conosciuto e assimilato. L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

     

     

    “Rimani con noi”

     

    Si avvicinarono al luogo a cui erano diretti…”. Il cammino pare giungere alla sua conclusione e così il dialogo con quel viandante.

     

    Egli fece come se dovesse proseguire… ma essi insistettero (lo forzarono): Rimani con noi…”. In questa domanda/ preghiera non vi è solo e anzitutto il dovere dell’ospitalità, ma soprattutto il desiderio di non separarsi da una relazione che man mano, cammin facendo, si è rivelata importante, capace di scaldare nuovamente il cuore riaprendolo alla speranza attraverso un diverso modo di leggere gli avvenimenti. Nei due discepoli vi è così la disponibilità a comprendere in modo diverso la vicenda del loro Maestro.

    Cosa significa se non che la “fractio verbi” ha fatto scattare la “fractio vitæ”?

    Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli una relazione talmente importante che essi dal viandante non vogliono separarsi. Non è la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola creano relazioni nuove e significative? E’ una ulteriore richiesta di condivisione alla quale il Signore risponde ben volentieri e con gioia.

     

    Egli entrò e si mise a tavola con loro”: vi è una reciproca ospitalità, nella quale avviene una sempre maggior consegna dell’uno all’altro. “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Gesù si consegna ai due volentieri.

    La condivisione dell’essere fra i tre si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme alla mensa, Arriva il momento della “fractio panis”.

     

     

    Riconoscimento

     

    Quando fu a tavola con loro prese il pane, benedisse e spezzato lo dava (imperf.) loro…”: Lo spezzare il pane, azione compiuta da ogni capofamiglia, od ospite d’onore al momento del pasto, indica il gesto del servizio e di amore di Gesù, segno della comunione fraterna.

    Si usano espressioni che fanno riferimento all’istituzione eucaristica. L’abbondante mensa della parola che ha preceduta è servita a far desiderare e comprendere lo spezzare del pane. Tale segno unisce il passato, vissuto dai discepoli fino alla morte, al presente, all’evento nuovo della resurrezione. Esso rinvia non solo all’ultima cena, ma anche alla moltiplicazione dei pani. In questo modo i due sono consapevoli che è sempre lo stesso signore e che essi stessi sono quelli di sempre. Si afferma così la continuità della storia della salvezza che garantisce la concretezza e la realtà della visione di fede. Se non fosse avvenuto tale segno, poteva nascere il dubbio di un evento fantastico o puramente soggettivo.

    Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Il gesto dello spezzare il pane non causa il riconoscimento del Risorto da parte dei discepoli, ma ne è l’occasione. Se i loro occhi si aprono proprio in quel momento, allo spezzare del pane, è perché Gesù ha voluto così, egli, ha deciso dove, quando, come manifestarsi.

     

     

    Sono questi gesti ad “aprire loro gli occhi”. E’ difficile esplicitare la densità di questa esperienza. I gesti compiuti sono capaci di aprire al riconoscimento, gesti nei quali Gesù alla vigilia della sua morte aveva riassunto il significato di tutta la sua vita e della sua morte.

    Se il pane realizza quanto la parola promette, la parola permette di riconoscere il pane come realizzazione della promessa di Dio. Per questo Parola e Pane formano un unico sacramento indisgiungibile.

    Non si dice che lo vedono ma che lo riconoscono. Vengono così chiaramente indicati i limiti posti al vedere fisico per riconoscere il risorto. Il tempo che separa il “vedere” dal “riconoscere” permette la lezione di esegesi: i due uomini confesseranno poi (v. 32) che essa li ha trasformati. Capiranno allora perché Gesù non si è voluto far riconoscere subito da loro: il loro desiderio di vederlo era forte, ma ora sanno che la visione fisica non è più un assoluto; pur essendo invisibile ai loro occhi di carne, il Risorto resterà presente (Aletti).

     

    E’ un punto di svolta: ma questa apertura degli occhi non termina con la visione perché Gesù “scomparve alla loro vista”. Un’altra contraddizione? L’esperienza dell’apparizione del Risorto non è fine a se stessa, ma apre ad un al di là, ad un nuovo cammino da fare, a un’esperienza di fede diversa, ad una presenza diversa del risorto. (cfr Gv 20,29).

    Non scompare, ma diviene invisibile. Resta sempre e ci accompagna benché non visto. Non è più con noi ma in noi: la parola ce l’ha messo nel cuore e il pane nella vita.

    L’invisibilità non equivale all’assenza. L’improvvisa scomparsa di Gesù, dopo il riconoscimento, avrebbe potuto lasciarli tristi, interdetti, paralizzati. Invece neppure ne parlano, come se non li riguardasse o fosse cosa di nessun rilievo. In loro è avvenuto un cambiamento straordinario.

    Questo “sparire” di Gesù è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20).  E’ una promessa.

     

     

    Il ritorno

     

    Non è più notte perché nel cuore dei due vi è una luce sfolgorante: “Non ci fu giorno come quello né prima né dopo: stette il sole e non si affrettò a calare” (Gs 10,12-14).

    Riscaldati e saziati si può riprendere il cammino. Ecco il frutto della condivisione della parola e del pane: la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre la speranza.

     

    Due reazioni caratterizzano il loro frettoloso ritorno al Cenacolo.

     

    La prima consiste in una esternazione delle proprie risonanze interiori: si dicono l’un l’altro, si aprono il cuore reciprocamente. Si raccontano a vicenda come Cristo abbia mosso i loro sentimenti, come la sua parola che “apriva” la Scrittura abbia riscaldato il loro animo. Si stabilisce fra di essi una sincera e fraterna unione nel medesimo spirito di fede. I due discepoli ora fanno memoria: “non ci ardeva forse il cuore quando…”. Il cuore era stato aperto prima degli occhi, e questo attraverso l’ascolto e la condivisione della Parola.

    Dio non si rivela più all’esterno, ma nell’interno del cuore.

     

    La seconda reazione spinge i due a ritornare al gruppo dei discepoli che credono in preda all’amarezza e alla delusione per annunciare loro la vicenda vissuto con Gesù risorto. Non importa l’ora tarda: nel cuore c’è un fuoco incontenibile che non si può spegnere. Sono ormai annunciatori del kerigma. Questo “ardore” non può che non rimettere di nuovo in cammino, un cammino inverso, di ritorno. Ritorno a Gerusalemme luogo degli eventi, al Cenacolo incontro alla comunità lasciata: “Trovarono gli undici e gli altri, e dicevano: Davvero il Signore è risorto!”.

    Alla testimonianza di Pietro, degli undici e della comunità i due possono ora aggiungere la loro testimonianza.

     

     

    Conclusione

      

    In confronto con gli altri racconti evangelici di apparizioni questa pericope è del tutto singolare, al punto che ci si chiede se si può ancora parlare di “apparizione”. In fondo, i due discepoli, non hanno visto il risorto ma un viandante straniero, e poi, sul punto di riconoscerlo, non hanno visto più nessuno (Rossé). Ciò colloca il racconto più vicino all’epoca della Chiesa, quando i cristiani incontrano Gesù per mezzo della sua parola spiegata nell’assemblea e per mezzo della celebrazione eucaristica.

     

    Noi non abbiamo visto né Gesù né coloro che lo hanno visto. Siamo i cristiani della “terza” generazione. La nostra fede è fondata sulla parola dei testimoni. Come le donne e Pietro possiamo benissimo andare pellegrini al sepolcro per trovarlo vuoto. Ma come sperimentarlo Vivente accanto a noi?

    Il racconto ci apre una pista: come ai due discepoli Gesù si fa vicino a noi tutti. Fa i nostri stessi passi così spessi intrisi più di delusione che di speranza. Ci incontra nella nostra quotidianità a volte così grigia e pesante, associandosi al nostro cammino, e ovunque andiamo! Non si allontana anche quando noi ci allontaniamo. Il superamento di queste “empisse”  è possibile dalla presenza e dall’azione di Gesù.

    Anzitutto è lui stesso che ha attraversato queste situazioni di contraddizione e può quindi illuminarle dall’interno, aiutandoci così a non perderci ed aggrovigliarci in esse.

    Ma questo si attua nella nostra vita attraverso la disponibilità a lasciarci interrogare dalla vita e dalle sue contraddizioni. Il nostro pericolo più grave è quello di chiuderci in noi stessi, di smettere di interrogarci e di interrogare la fede. Se ciò accade il nostro prendere le distanze ci condanna al distacco definitivo dalla comunità, alla perdita dell’orizzonte della fede.

    E’ importante mantenere lucida la coscienza del vissuto della nostra coscienza, condividere i nostri interrogativi con i nostri compagni di viaggio, avere il coraggio di confrontarci su ciò che ci delude e rischia di farci perdere la speranza.

    La pedagogia di Gesù nel confronto dei due si sviluppa proprio in questa direzione.

    Possiamo cercare con disponibilità e accogliere come grande dono quei contesti di relazioni personali, di gruppo, di comunità in cui ci è permesso di esprimere i tratti problematici della nostra esperienza, gli aspetti contraddittori, le nostre fatiche a vivere la fede.

      

    Ma noi non lo riconosciamo. I nostri occhi sono chiusi. La nostra vita può scontrarsi con situazioni che difficilmente riusciamo ad integrare in una visione di fede, ci appaiono profondamente contraddittorie nei confronti di Dio.

    Il confronto con la vicenda dei due discepoli di Emmaus dunque ci può aiutare.

    Sono in molti, forse anche noi, a prendere le distanze a volte quasi inavvertitamente a volte in modo brusco, dall’appartenenza alla comunità cristiana e dal vivere la fede.

    A volte si tratta di un normale passaggio da una fede ricevuta ad una riappropriata attraverso un proprio cammino.

    Altre volte questo distanziamento è dato da esperienze problematiche e da interrogativi che hanno posto in grave crisi la fede fino a quel momento vissuta. Non sempre la fede oggettiva ricevuta corrisponde all’esperienza soggettiva.

    La vita stessa ci presenta situazioni si sofferenza, di delusione, di contraddizione, che rischiano di mettere in scacco la nostra comprensione abituale di fede.

     

    Come i due discepoli, anche noi possiamo conoscere bene il Signore e tutte le Scritture. Ma siamo evangelizzati a metà, e tutta la nostra vita è amarezza e delusione fino a quando la sua Parola non ci fa comprendere la croce e il suo pane non ce lo fa riconoscere vivo e operante in noi.

    Il Signore risorto accompagna il cammino dei suoi discepoli, portandoli a comprendere il significato della sua pasqua attraverso il circuito dell’ascolto della Parola e lo spezzare del pane.

    La nostra esperienza di vita dovrebbe portarci ad interrogare e condividere la Parola, ed essa alla luce della Pasqua, ci guiderà a comprendere con più verità la figura di Cristo, educando il nostro cuore ad entrare.

    L’ascolto e la condivisione della Parola è l’ambito in cui Gesù ci parla, ci illumina per spiegarci il senso del suo mistero e della nostra vita.

    Alla luce della Parola e dello spezzare il Pane eucaristico anche la nostra vita, nelle sue contraddizioni, si illumina di una nuova luce e di una nuova possibilità.

     

    Questa esperienza ci restituisce alla comunità, alla gioia di condividere insieme il dono ricevuto. Nel confronto comunitario con le Scritture e nell’eucarestia la fede compie il suo cammino di maturazione: può essere testimoniata agli altri non come qualcosa di esteriore, ma come esperienza vissuta.

    Posted by attilio @ 15:18

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