• 23 Dic

     

     

     

    A. Introduzione

    Nel periodo post-conciliare abbiamo assistito ad un notevole rifiorire di attenzione alla Parola. Sono nati un po’ dovunque tentativi di «rimettere mano alla Parola»… ma quanta fatica!

    In qualche modo ci ritroviamo un po’ tutti nella situazione di dover imparare a metterci in ascolto di fronte alla Parola, per lasciare che la nostra vita ne sia trasformata. Spesso ci sentiamo proporre cammini in cui si «prega la Parola», si «contempla la Parola». Questo breve lavoro che condivido con gli altri amici di Qumran.net è una sintesi di un corso di iniziazione alla lectio che ho già avuto occasione di proporre a giovani, a religiosi in formazione e… alla mia comunità.

    «Appunti» perché ho pensato di proporre uno schema, pratico e snello, pur cercando di mantenere una certa completezza. In ogni caso trovate in appendice due bibliografie, una molto più ricca, aggiornata al 2002, e un’altra «essenziale», con indicazioni critiche per ogni testo.

    «Una»: non ho certo la pretesa di dira «la»! È “una” proposta che si fonda sulla tradizione, “testata”, ma rimane una proposta.

    «Iniziazione» e non introduzione: può sembrare una distinzione accademica, ma non lo è. Introduzione ha più il sapore di uno studio intellettuale, ma nella lectio divina è tutta la persona umana che è in gioco, perché è “preghiera”, è porci di fronte a Dio. «Iniziazione» dà più il senso di cammino, di un mettersi accanto ad un altro, fornirgli alcune indicazioni e poi lasciare che percorra la sua strada, come e dove lo Spirito lo condurrà.

    Quanto condivido con ciascuno di voi… è anche frutto di riflessione, di cammino comunitario. La lectio divina vissuta insieme (e poi darò alcune indicazioni in merito) ha decisamente favorito la crescita umana e spirituale mia e della mia comunità: un tale dono non poteva che essere condiviso.

     

     

    B. premesse generali

    1. Oggetto

    È la Scrittura «divina»: la Bibbia. Per essere “certi” di questa affermazione si può leggere la Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II.

     

    2. Finalità

    Dai testi conciliari, che parlano della lectio divina in termini tradizionali, emergono quattro finalità: teologale, cristologica, ecclesiale ed antropologica.

    1) Teologale: «perché avvenga il colloquio con Dio» (DV 25).

    2) Cristologica: «per ottenere la sovreminente conoscenza di Gesù Cristo» (Fil 3,8 citato in DV 25 e PC 6), per poter «vedere il Cristo in ogni uomo, vicino o estraneo» (AA 4).

    3) Ecclesiale: per «generare» (Gc 1,18; 1Pt 1,23; cf. At 2,37.42), «sostenere» (DV 21) e «far ringiovanire» (LG 4) una comunità cristiana (cf. PO 4) e religiosa (cf. PC 15 [a]). Questo scopo si ottiene tanto meglio quando la lectio privata si sviluppa nella forma comunitaria della collatio.

    4) Antropologica: «perché l’uomo di Dio sia perfetto, preparato per ogni opera buona» (2Tim 3,16). La Sacra Scrittura è la fonte da cui attingere i criteri per «giudicare rettamente le cose in ordine al fine dell’uomo» (AA 4). (Giurisato G., Lectio divina oggi, pp. 7-9).

     

    3. Condizioni richieste dalla qualità specifica del libro sacro

    1) La Bibbia è un libro ispirato da Dio: perciò «deve essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (DV 12).

    2) Nella Bibbia «Dio ha parlato per mezzo di uomini e alla loro maniera»: perciò «si deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi realmente hanno inteso dire e che cosa Dio ha voluto manifestare con le loro parole» (DV 12).

     

    4. Disposizioni soggettive del lettore

    – Pregare perché il Signore ci voglia «aprire la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45)

    Non ci mettiamo di fronte alla Scrittura come ad un altro libro. Riconosciamo che essa è stata ispirata dallo Spirito Santo e allora per comprenderla c’è sì tutto il nostro sforzo, una “santa fatica”, ma a ben poco potrebbe se lo stesso Spirito non ce ne dà una comprensione più profonda.

    Siamo così chiamati ad esplicitare la nostra professione di fede: «le Sacre Scritture sono veramente parola di Dio» (DV 24). Un atteggiamento di fondo di fede e umiltà.

    – Lettura assidua

    Quando un libro ci ha appassionato, rimane nella nostra mente, anzi spesso vi torniamo per rileggerlo. Ma la Bibbia usa un linguaggio lontano dalla nostra cultura, dal nostro quotidiano. Si tratta dunque  di acquisire una certa familiarità con il testo biblico, ma come fare? Diverse sono le possibilità. La prima è quella di cominciare a leggerla, anche se non si capisce tutto:  su Internet sono già stati pubblicati diversi schemi per leggere tutta la Bibbia in un anno. Esistono in commercio almeno due edizioni con un notevole apparato critico: la Bibbia di Gerusalemme (BJ) e la TOB che hanno una grande ricchezza di note e di rimandi. La seconda consiste nel “navigare” da un punto all’altro della Bibbia, seguendo queste note o rimandi. Non c’è la praticità del mouse o dei “clic” sui link, ma ne vale la pena… anche se all’inizio può essere un po’ faticoso. «La Scrittura spiega la Scrittura».

    – Imparare ad ascoltare la Parola

    Parlare di ascolto della Parola significa far riferimento immediato al silenzio, ma questa dimensione è comune ad ogni ascolto umano. L’ascolto esige silenzio, attenzione, presenza all’altro e quant’altro è necessario perché ci sia un reale dialogo. Il rischio in questo caso è di parlare noi… e lasciare la Parola estranea, così che al termine della lectio ce ne andiamo esattamente come eravamo arrivati.

     

    5. Circa il luogo, il tempo e la durata della lectio divina

    Il luogo dove svolgere la lectio deve essere tale da favorire un clima esterno di silenzio, di raccoglimento e di preghiera. Per questo va cercata una cappella o un ambiente adatto allo scopo, dove ci si trovi a proprio agio. Questo sarà il luogo della lotta di ognuno con il suo cuore, il vero deserto dove il Signore ci parla, ci converte, ci educa e ci attira a sé.

    Anche il tempo da riservare alla lectio riveste la sua importanza per l’assimilazione della parola di Dio: esso deve ritmare la vita del cristiano, senza mai stancarlo (cfr. Lc 18,1-8; 1Ts 5,17). Perché una lettura della Parola sia proficua si esige un tempo determinato di almeno mezz’ora, mentre il tempo dello svolgimento della lectio non è definibile: non si incontra mai un amico tenendo lo sguardo sull’orologio!

    È anche importante e necessario che non avvenga in modo sporadico o occasionale, ma quotidiano.

     

    6. Le difficoltà

    Oggi tendiamo a leggere velocemente; la civiltà moderna esige velocità nella stessa lettura, la quale è soprattutto “informativa”, tende a far sapere il maggior numero di cose nel minor tempo possibile: la lectio divina, invece, deve essere lenta. La lettura che cerca di acquistare nuove conoscenze lo vuole fare nella maniera più veloce: la lectio divina, al contrario, è a base di “ruminazione”, cioè della lenta assimilazione del testo letto.

    Si legge per agire, ci si documenta in vista dell’azione, la lettura guarda all’efficacia, all’efficienza: la lectio divina, invece, deve essere disinteressata.

    Infine, la lectio non è una lettura per distrarsi: è invece una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e direttamente coinvolto.

    Altra difficoltà: non dimentichiamo che la S. Scrittura non sempre è così facile o immediata; richiede una certa preparazione, studio, e quindi tempo.

    Aggiungiamo tutte le difficoltà per raccogliersi, per concentrarsi. Per riuscire in questo, ci vuole sforzo continuo, fatica, allenamento. C’è tutto il problema di una certa preparazione alla preghiera e alla lectio divina: una preparazione remota, che comprende tutta la vita, uno sforzo di coerenza alla propria vocazione, l’evitare una eccessiva agitazione e dissipazione nel lavoro o nella vita quotidiana; una preparazione prossima, per stabilire pace e silenzio in noi stessi, oltre che all’esterno…

     

     

    C. L’invocazione dello Spirito Santo

    Il perché di questa preghiera allo Spirito lo abbiamo già visto nelle premesse generali.

    Quale preghiera? Possiamo utilizzare un salmo, anche solo alcuni versetti: per esempio il salmo 118, che è il salmo per eccellenza dell’ascolto della Parola. Ma possiamo fare nostre altre invocazioni tratte dalla Scrittura, dalla Liturgia, dai Padri della Chiesa, ecc. È chiaro che può essere anche una “nostra” preghiera!

    Vari sono gli effetti di questa invocazione allo Spirito.

    La preghiera allo Spirito, anzitutto, ci preserva dal consumismo privatistico della Parola o da una sua interpretazione soggettiva ed arbitraria, che misconosce la realtà stessa della Parola nella Chiesa.

    Inoltre, in positivo, essa produce, in chi si pone in preghiera dinanzi alla Scrittura, il distacco da noi stessi, la purezza del cuore, la conversione alla Parola, la docilità, realtà che lo rendono libero per accogliere con amore il pensiero di Dio.

    Si determina così una consapevolezza di umiltà profonda, che fa andare incontro al testo con un senso del sacro, di riverente adorazione di fronte al mistero e di docilità, frutto di una collaborazione tra la volontà umana e l’azione dello Spirito.

     

     

    D. Lectio

    Studiare la Scrittura è stato per tante generazioni di cristiani (non solo monaci!) il vero e proprio impegno quotidiano. La fedeltà nel perseguire questo significato letterale della parola di Dio è una delle costanti necessarie alla autentica lectio divina. È una fatica, certo, ma non la si può evitare: il rischio è quello di fare delle “pie meditazioni”, “letture spirituali”, quando non le facciamo dire di tutto, anche quello che la Scrittura non dice!

     

    1. Ancora una piccola premessa

    Alla lectio, ma in un momento decisamente antecedente, si deve premettere la lettura di un commento esegetico al testo che sarà poi oggetto della lectio. Uno strumento molto buono, e semplice, potrebbe essere: AA.VV, I Vangeli, Cittadella editore.

    Con questo primo passo della lectio divina ci lasciamo liberare da una “tentazione”: soprattutto quando il testo è tratto dai vangeli questo è abbastanza conosciuto. Il rischio è di sentire (e non “ascoltare”) la prima frase e poi “disconnetterci” in quanto “sappiamo già come va a finire!”. Un esempio? Se sentiamo leggere «Un uomo scendeva da Gerusalemme» noi sappiamo già che si tratta della parabola del buon samaritano e rischiamo di non “ascoltare” salvo poi ricollegarci all’omelia…

     

    2. Che cosa leggere

    Senz’altro la Scrittura! Ma come? Quanta?

    La liturgia è senz’altro una buona “palestra” e ci dà – secondo la saggezza della Chiesa – il “cibo quotidiano”, ma… c’è un rischio. Se, necessariamente, la liturgia ci propone dei brevi brani, la lectio non può prescindere dal loro contesto.

    Detto questo, si può certo usare il lezionario liturgico della Messa [rapporto liturgia – LD] con particolare attenzione – per iniziare – al vangelo del giorno (non dimentichiamo – ad esempio – le “collette” proprie dei tempi forti, delle domeniche o delle solennità: sono teologicamente ricchissime e ci donano alcune piste di lettura), ma per passare in seguito alla lectio di un libro della Scrittura, iniziando sempre dal Nuovo Testamento.

    Non è mai, comunque, questione di “quantità”.

     

    3. Come leggere

    – Leggerlo attentamente più volte

     

    Ma come leggere?

    a) È bene leggere ripetutamente il testo e possibilmente farlo risuonare al nostro orecchio mediante una lettura ad alta voce. La lettura del Libro è in funzione dell’ascolto della Parola viva, propria della relazione interpersonale.

    b) Impariamo a leggere «con la matita in mano»: sia per sottolineare, ma anche per copiare.

    c) Facciamo anche la fatica di “sfruttare la fatica altrui”: sfruttiamo la fatica degli esegeti che hanno lavorato per fornirci di seri apparati critici (cfr. ancora BJ e TOB).

    d) La lectio divina suppone una conoscenza esatta del testo biblico, anche se non si ferma ad essa, ma la utilizza per la preghiera. Certamente si riferisce a questa serietà intellettuale la Dei Verbum, quando afferma che occorre accostarsi alla Sacra Scrittura «con uno studio accurato» (DV 25). È necessario ed utile utilizzare i risultati delle ricerche esegetiche. [Queste vanno lette prima della lectio, magari la sera prima, dopo aver letto il testo che ascolteremo il giorno dopo nella celebrazione eucaristica]

     

    Può esserci di aiuto:

           – impararlo a memoria

           – trascriverlo

     

    Personalmente consiglio molto quest’ultimo modo: la trascrizione ci aiuta a concentrarci meglio e a fissare l’attenzione sul testo.

     

    4. Analisi del testo

    – Facciamo molta attenzione ai vocaboli

                                                          ai verbi

    – può essere molto utile la conoscenza del greco o l’aver sottomano un’altra traduzione diversa da quella della CEI: questo ci permette di “appropriarci” meglio del testo e di cogliere sfumature che nella traduzione si sono perse.

     

    Impariamo a farci alcune domande:

    – quali sono i personaggi che troviamo nella pericope

    – dove si svolge l’azione

    – quando

    – che cosa fanno i personaggi

       verbi (atteggiamenti)

       avverbi (sentimenti)

       aggettivi (qualità)

     

    – cerchiamo quella che per noi è l’affermazione principale, la “parola chiave”, quello che per noi è «nucleo». Sarà questa che dovremo portarci nel cuore durante la giornata.

    E se il testo è tratto da una lettera di san Paolo? Dobbiamo conoscere, almeno discretamente, l’epistolario paolino e la struttura della lettera dalla quale è stato tratto il testo.

    Anche in questo caso possiamo porci delle domande:

    – a chi scrive Paolo e perché

    – in che momento della sua vita (cf. gli Atti)

    – qual è il nucleo del testo

     

     

    5. Il “nucleo”

    Durante e dopo la attenta lettura, emerge ai nostri occhi il “nucleo”, o – comunque – quella parola o quella frase che emergono come “centrali” per noi.

    Ora, si può dedicare più attenzione alle note e ai rimandi relativi al “nucleo”. Questa operazione permette di cogliere qualcosa in più del significato del testo biblico. In caso di necessità lo si può approfondire sul Dizionario di teologia biblica o sul Dizionario dei concetti biblici.

     

    6. Dalla lectio alla meditatio

    Ora, la frase o parola, il “nucleo”, può essere imparata a memoria. Questo è l’anello di congiunzione tra lectio e meditatio. La preghiera non è una serie di cassetti “a tenuta stagna”… Il passaggio dalla lectio alla meditatio, alla oratio può avvenire in modi e tempi diversi, secondo la nostra accoglienza e il dono dello Spirito.

     

    E. Meditatio

    1. Cos’è la meditatio?

    «Per gli antichi – ci ricorda J. Leclercq – meditare è leggere un testo e impararlo a memoria nel senso più forte di questo atto, cioè con tutto il proprio essere: con il corpo poiché la bocca lo pronuncia, con la memoria che lo fissa, con l’intelligenza che ne comprende il senso, con la volontà che desidera metterlo in pratica».

    Tale ripetizione è in funzione della memoria: «Ne deriva più che una memoria visiva delle parole scritte, una memoria muscolare delle parole pronunciate, una memoria uditiva delle parole ascoltate. La meditatio consiste nell’applicarsi attentamente a questo esercizio di memoria totale; essa è dunque inseparabile dalla lectio. Essa inscrive, per così dire, il testo sacro nel corpo e nello spirito».

     

    Ai nostri giorni quando si usa il termine “meditazione” si intende un processo di riflessione. Bisogna allora comprendere bene cosa si intende come meditatio nella lectio divina.

    Abbiamo visto che durante la lectio la nostra attenzione (il nostro cuore!) si è fermato su una frase, una parola e abbiamo fatto lo sforzo di memorizzarla. Se la lectio assomiglia a uno “scavo archeologico”, la meditatio avvicina e applica a noi il testo antico: la meditatio comporta l’assimilazione personale della parola di Dio, così da diventare in noi sorgente di preghiera e di contemplazione.

     

    Il ripetere dentro di noi la parola / la frase che è per noi “il nucleo”

    a) è dare realmente uno “spazio” alla Parola dentro di noi;

    b) aiuta a concentrarci lasciando che questo “nucleo” si arricchisca di altri passi che ci aiutano a comprenderlo sempre meglio e più profondamente;

    c) è preghiera.

    In questa “navigazione” è buona cosa rimanere all’interno del vangelo, della lettera (o dell’epistolario) o del libro dell’AT da cui è tratto il brano. Gli evangelisti, Paolo, Giovanni, si sono avvicinati al mistero di Dio in un modo complementare a quello degli altri. Prima di cercare i vari paralleli è importante rimanere all’interno degli scritti dell’autore per capirne meglio il pensiero.

     

    Stiamo inventando qualcosa di nuovo? No: si tratta di una antica tradizione antica, che troviamo anche nella Bibbia:

    «Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte»  (cf. Dt 6,6-9)

     

    Si tratta anzitutto di creare nell’intimo del cuore uno spazio elastico di risonanza, perché la Parola penetri nelle zone più profonde dello spirito e tocchi le fibre più intime: questo ci trasformerà, ci chiamerà continuamente a conversione, ci metterà in crisi. E forse ci metterà anche in crisi la continua novità di Dio e della sua Parola che ci conducono dove non avremmo mai pensato!

    Siamo e rimaniamo nella totale gratuità. Ma sia ben chiaro: la preghiera della Parola – proprio perché tale – non ci distacca dai fratelli. Piuttosto non ci permette di inabissarci nel turbinìo delle nostre fantasie, in balia degli alti e bassi degli umori.

     

    La meditatio all’inizio esige anche uno sforzo della volontà che deve trovare spazi di tempo e concentrazione per mettersi alla presenza della “parola”.

    Sarebbe opportuno meditare con penna e foglio… Tuttavia non è meditare scrivere per far leggere o per pubblicare. È meditazione lo scritto fatto in solitudine che genera ulteriore silenzio adorante in noi ed attorno a noi.

     

     

    F. Oratio

    Il testo conciliare, che invita «tutti i fedeli» a praticare la lectio divina, conclude dicendo:

    «Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché quando preghiamo parliamo con lui, lui ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini» (DV 25).

     

    Su questa citazione si devono fare tre rilievi.

    Primo: il termine «lettura» riassume i due momenti trattati fin qui della lectio e della meditatio, perché in fondo costituiscono un unico atteggiamento di ricezione: ascoltare Dio che parla.

    Secondo: la lettura «dev’essere accompagnata dalla preghiera», perché dopo l’ascolto è necessario dare una risposta.

    Terzo: solo quando si dà questa risposta si ottiene lo scopo della lectio divina, cioè che «possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo». Alla lectio divina manca una parte essenziale finché non si connette «Bibbia e preghiera», finché la Parola non è pregata. La frase finale del testo conciliare è una citazione di sant’Ambrogio, che riflette un pensiero tradizionale e mette in risalto i due tempi del colloquio con Dio.

     

    Tutta la lectio divina è preghiera. Allora, che cos’è l’oratio all’interno di essa?

    È il momento in cui dialoghiamo con Dio con la Parola che ci ha donato. Vogliamo un esempio? Pensiamo al Magnificat: Maria canta questo inno… “mosaico di Parola”. Come possiamo vedere nelle nostre Bibbie, vengono messe in evidenza, in corsivo, le citazioni dell’A.T.: ben poco rimane in tondo!

     

    È quindi un momento privilegiato di dialogo con Dio. Prima è stato Lui ad aver parlato attraverso la Sua Parola, noi abbiamo lasciato scendere nel profondo il suo richiamo mediante la meditazione di essa ed ora siamo pronti a “dire” la nostra fede e il nostro amore.

    È il grido dello Spirito in noi che può esprimersi in mille modi. È il nostro rivolgersi a Dio dopo aver colto il frutto dell’ascolto. La preghiera non si preoccupa, a questo punto, di farsi domanda o lode o ringraziamento o adorazione, ecc… È un unico movimento dell’anima che si apre a Dio; è il lasciar sgorgare dal profondo la ricchezza di ciò che vi si è raccolto stando davanti a Lui. Ciò che realmente conta è il desiderio di risposta ad un amore, quello di Dio, che è diventato propria esperienza nella fede, in relazione alla Parola letta, meditata, pregata.

     

    Anche in questo momento, possiamo scrivere le nostre preghiere tenendo ben presente quanto detto per la meditatio: è per noi e per Dio, non per divulgare o pubblicare.

    Rileggendo questi testi a distanza di tempo… avremo delle grandi sorprese.

     

     

    G. Contemplatio

    La lectio divina è riconosciuta come un cammino verso la contemplazione. Ancora una volta intenderci sui termini: contemplare non è meditare, non è riflettere, non è pregare… Ma che cos’è allora?

    Il mistero di Dio che si rivela esige umiltà nel parlarne. Per alcuni secoli fino alla prima metà del secolo scorso veniva accusato di arroganza ci desiderava contemplare Dio. Questo perché non si distinguevano quelle che la teologia chiama “grazie mistiche speciali”, in cui troviamo, per esempio, le visioni.

    La contemplazione è invece secondo i Padri il “normale” sviluppo della lectio perché il primo a volersi rivelare è proprio Dio!! Dunque, non è qualcosa che viene a sovrapporsi come dall’esterno, ma è come un frutto squisito che matura sul tronco stesso della lettura biblica. Frutto normale: a condizione che non si prenda il termine – mi ripeto!! – come l’espressione di grazie mistiche straordinarie. C’è infatti una contemplazione che è alla portata di tutti e che è il coronamento normale di un cristianesimo preso sul serio.

    Con queste premesse, è evidente che prima di tutto è dono, assoluto e gratuito dono di Dio che si fa conoscere da noi. Noi possiamo chiedere di contemplare il suo volto, ma poi… possiamo solo attendere e desiderare.

     

    Essendo dunque dono gratuito di Dio… non può esistere un manuale di istruzioni sul come fare. Possiamo però provare a dire qualcosa sul che cos’è la contemplazione.

    La sua fonte è biblica: è un «elevarsi dell’anima» che parte dalla lettura della parola di Dio. Il Concilio si esprime così:

    «Questa Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura dell’uno e dell’altro Testamento sono come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina sulla terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com’egli è» (DV 7).

    Perciò si distingue da qualsiasi speculazione filosofica e naturalistica.

    La Bibbia non usa i termini contemplazione e contemplare, ma preferisce i verbi conoscere, vedere e soprattutto ascoltare, che è il verbo più usato nell’AT.

    La contemplazione cristiana non è un’introspezione psicanalitica, né una capacità visionaria; ma attinge dal di fuori il suo oggetto che entra, più che per l’occhio, per l’orecchio: attraverso l’ascolto o la lettura della Parola.

     

    2) Il suo culmine è assaporare la rivelazione divina: «gustare le gioie della dolcezza eterna». Nella tradizione latina contemplare e sapere sono sinonimi. È contemplazione ogni volta che con la lampada della Parola (cf. Sal 119,105) si coglie il piano sapienziale di Dio, nel suo insieme o sotto qualche aspetto particolare.

     

    3) Il suo obiettivo è Dio: l’anima si eleva al di sopra di sé, «rimanendo come sospesa in Dio». Non si tratta di una conquista dal basso, affidata alle forze della ragione. Dio è al di là di ogni immaginazione umana. Nella pienezza dei tempi «ha deciso di entrare in modo nuovo e definitivo nella storia umana inviando a noi il suo Figlio» (AG 3), «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

     

    La contemplazione cristiana quindi non è speculazione o introspezione, ma apertura a una realtà oggettiva, storica. Uno dei testi più luminosi al riguardo sta nel prologo della prima lettera di Giovanni, dove l’esperienza contemplativa degli apostoli ha per oggetto la rivelazione storica della vita divina in Cristo (“ciò che”: 1Gv 1,1-3).

    Nella lectio divina la contemplazione consiste nel fissare lo sguardo e il cuore in Dio, quale si rivela nella storia, e nel vedere la storia alla luce della parola di Dio. La lectio divina diventa una scuola dove imparare a «pensare secondo Dio» (Mt 16,23), a interpretare ogni situazione secondo «il pensiero di Cristo» (1Cor 2,16). Con tale esercizio l’occhio è spinto a vedere sempre più tutte le cose nello stadio definitivo, secondo il compimento escatologico.

     

    Possiamo far riferimento al termine utilizzato in greco per indicare contemplazione: theoria, e significa vedere, andando dentro a ciò che si osserva. Ora il punto di riferimento di questo termine greco, theoria, è, nella tradizione cristiana, uno soltanto: il Cristo crocifisso. San Luca adopera per l’unica volta in tutto il Nuovo Testamento il termine theoria solo per indicare questa visione di Cristo crocifisso.

    Per i Padri antichi questo significa che colui che ha il dono della theoria, della contemplatio, è sempre uno che ha davanti a sé il mistero del Cristo crocifisso come asse portante della storia, come la Parola che tutta la storia ha rivelato e rivela. In questo caso il contemplativo sarebbe allora colui che guarda tutto a partire da questa visione del Cristo crocifisso, un uomo che vede in tutte le pieghe della storia umana e del mondo l’annunzio e la manifestazione del Cristo crocifisso.

    Anche in questo caso vediamo però che il cristiano contemplativo non è fuori dalla storia e non si riferisce a cose esterne alla storia, ma è colui che è nel cuore della storia, è colui che si riferisce al cuore stesso delle cose e degli avvenimenti.

    E là dove gli occhi dell’uomo vedono soltanto uno sfiguramento di volto umano, gli occhi della fede vedono la riconciliazione nel Signore, nel Figlio di Dio crocifisso per l’uomo. Quindi l’annunzio che porta il contemplativo è anche qui un annunzio di pace, è una bella notizia che parte come da fonte di grazia dal Cristo crocifisso.

    Ovviamente tutto questo in prospettiva della notte di pasqua. È questa la visione del contemplativo. Educato alla scuola della parola di Dio, egli sa benissimo che il Signore non permetterà che il suo santo veda la corruzione. Il Signore non permetterà che l’ultima parola sia detta dal male, dal peccato alla morte. Perché, proprio quando raggiunge la profondità dell’abisso del male, proprio lì il contemplativo sa che il Signore risponderà al grido d’aiuto che sente uscire dall’uomo.

     

    Alla radice della contemplazione, in tutte queste forme, c’è in concreto la trasfigurazione determinata nell’uomo dalla sua conformazione alla parola di Dio.

     

     

    H. Collatio

    1. Che cos’è

    La collatio è condivisione vitale di quanto Dio ci ha donato di vivere nella lectio.Non è dunque un’omelia o una dotta dissertazione sul testo… ma è consegnarci reciprocamente gli uni gli altri.

    È un momento molto delicato. È bene che ci sia qualcuno che aiuti il gruppo a rimanere in un clima di preghiera, di ascolto.

    S. Basilio (sec. IV, Epistola I, 2, 5, PG 32, 229), che doveva avere molta esperienza di vita comune, ci dona alcune note che mi sembrano utili per una collatio:

    «Parlare conoscendo l’argomento,

    interrogare senza voglia di litigare,

    rispondere senza arroganza,

    non interrompere chi parla se dice cose utili,

    non intervenire con ostentazione,

    essere misurati nel parlare e nell’ascoltare,

    imparare senza vergognarsene,

    insegnare senza prefiggersi alcun interesse,

    non nascondere ciò che si è imparato dagli altri»

      

     

    I. E al termine?

    Nella lectio comunitaria, chi ha guidato la collatio può spendere qualche minuto per sintetizzare – a beneficio di tutti – i significati principali emersi nella collatio stessa. Questa sintesi può essere proposta anche come preghiera finale. La conclusione può essere affidata ad un canto.

     

    Nell’esperienza personale, si può terminare con un salmo, con la preghiera sgorgata nella oratio. In ogni caso si faccia in modo che il ritorno alle occupazioni avvenga con calma.

  • 21 Dic

    Parola di Dio che fai l’universo,

    Parola di Dio, Parola di vita,

    Parola di Dio per l’uomo di oggi,

    parola di Dio, non stare lontano!

                Parola di Dio, divina alleanza,

                Parola di Dio che dici il perdono,

                Parola di Dio, messaggio di pace,

                Parola di Dio, rovescia la morte!

    Parola di Dio che fai ritornare,

    Parola di Dio che vinci ogni male,

    Parola di Dio che sei libertà,

    Parola di Dio, abbatti le sbarre!

                Parola di Dio che incendi la notte,

                Parola di Dio che indichi il Giorno,

                Parola di Dio, sul nostro cammino,

                Parola di Dio, tu aprici gli occhi!

    Parola di Dio che apri le acque,

    Parola di Dio che domini i venti,

    Parola di Dio più forte di tutto,

    Parola di Dio, tu  porta speranza.

                Parola di Dio fatta carne a sangue,

                Parola di Dio che l’uomo tocca e contempla

                Parola di Dio che cammini con noi
                trasformarci a immagine tua.

     

    Didier Rimaud

  • 18 Dic

    Il nome Yoseph  significa «Dio aggiunga»: nome ben augurante per un uomo che attende una prosperità numerosa. Sarà vero anche per il nostro Giuseppe?
    Il suo lavoro è quello comune di un buon carpentiere, mestiere che insegnerà al figlio Gesù, che sarà conosciuto come «il carpentiere» (Mc 6,3).
    Nel vangelo più antico, quello di Marco, Giuseppe non è mai nominato.
    Giovanni gli dedica solo due citazioni indirette (1,45; 6,42).
    Matteo e Luca non gli mettono in bocca una parola.
    Anche il suo appellativo più comune non è quello di «marito» di Maria, ma il più casto di «sposo».
    Anche e soprattutto nei riguardi della sua funzione di padre di Gesù la sua funzione è stata ridotta all’essere un padre semplicemente “putativo” ovvero “apparente”.
    Anche l’arte non ha fatto un servizio migliore: ce lo ha rappresentato come un buon vecchietto i cui ardori giovanili sono solo un ricordo, e con lo sguardo un po’ perso nel vuoto di chi non si raccapezza.
    Ci ritroviamo con un Giuseppe declassato in un’esistenza opaca: sposo senza moglie e padre senza figlio.
    Il testo a cui faremo riferimento per la nostra meditazione è quello relativo alla nascita di Gesù come viene narrata da Matteo.
    Il genere letterario del racconto è quello tipico degli “Annunci”.
    La figura centrale del racconto è appunto quella di Giuseppe, presentato nella sua fatica a discernere la volontà di Dio sulla sua vita. E’ la contropartita dell’annunciazione a Maria (cfr Lc 1,26-38). 

    v. 18:
    Nella legge giudaica con il fidanzamento, che avveniva dinanzi a testimoni, il contratto matrimoniale era già stipulato.
    La donna aveva generalmente dodici anni. L’uomo intorno ai diciotto.
    Il matrimonio avveniva in due fasi:  lo sposalizio e le nozze.
    Al termine della cerimonia dello sposalizio, che aveva come scopo il concordare la dote della sposa,  lo sposo pronunciava la formula: “Tu sei mia moglie”, e la donna rispondeva: “Tu sei mio marito”. Da quel momento erano effettivamente sposati pur continuando a vivere nelle rispettive case.
    La festa nuziale, con cui la sposa veniva introdotta nella casa del marito, intercorreva invece generalmente dopo un anno.  Nel caso nascesse un figlio nel periodo intermedio era considerato a tutti gli effetti figlio legittimo.
    E’ nel periodo intermedio tra lo sposalizio e le nozze che Maria si trova incinta “per opera dello Spirito santo”. Per Maria vi è un annuncio in cui viene chiarito il suo ruolo, e risolte le sue difficoltà. (cfr Lc 2).
    Come Giuseppe si sarà posto dinanzi alla gravidanza di Maria? Maria avrà parlato a Giuseppe, raccontandogli la sua esperienza? Probabilmente sì, ma come Giuseppe avrà reagito alle sue parole?
    Attraverso la contemplazione possiamo ipotizzarle: stupore? Preoccupazione? Ansietà? Dubbi? Perplessità? Gioia? Entusiasmo?…
    Possiamo intuire un cammino faticoso di Giuseppe nell’accoglienza di questo fatto: sarà passato da un sospetto iniziale, ad uno sconcerto, un disorientamento?
    Giuseppe vive la fatica di non riuscire a comprendere, a capire, non solo il fatto di Maria ma il senso della sua presenza in tutta questa faccenda.
    Quanto tempo sarà durato questa stato di cose incerto e sofferto?
    Noi cosa faremmo al posto di Giuseppe? Come reagiremmo? 

    v. 19:
    Il testo prosegue presentando un Giuseppe che tenta una soluzione. Come d’altronde tenta diverse soluzioni Abramo nei confronti dell’attualizzarsi della promessa. La sua quasi decisione è di farsi da parte in una situazione in cui non comprende il suo ruolo: questo comporta riconsegnare Maria al progetto che Dio ha su di lei.
    Matteo ci descrive Giuseppe che in questa decisione agisce nella sua qualità di uomo “giusto”.
    Ma di che giustizia si tratta?
    Non è la giustizia ossequiosa alla legge avrebbe prescritto a Giuseppe di ripudiare pubblicamente la moglie infedele. Non si tratta di una giustizia costituita solo da bontà, che detta un semplice atto misericordioso di ripudio segreto.
    Siamo forse di fronte ad una giustizia del tutto diversa: Giuseppe è l’uomo “giusto” timorato di Dio che di fronte al mistero che si sta compiendo nella sua sposa sente di non essere più al posto giusto, egli desidera mettersi in disparte.
    E’ giusto non perché stende un pietoso velo su Maria, ma perché non osa intromettersi in un mistero che lo sorpassa e che non riesce a comprendere.
    Si sente un “anawim”, egli ne fa parte, si sente piccolo, povero, timorato di Dio. E’ la giustizia degli “anawim”, di cui anche Zaccaria ed Elisabetta fanno parte (Lc 1,6).
    Egli pensa dunque di trarsi da parte, non vuole assolutamente attentare al vincolo matrimoniale.
    E neanche Maria può chiarirgli più di tanto il mistero in cui sono coinvolti, anch’essa vi entra come in un pellegrinaggio oscuro.
    La crisi di Giuseppe è tutta imperniata in funzione del chiarimento della sua missione.
    E’ qui che emerge Giuseppe in tutta la sua vera valenza! Un uomo che cerca, che si interroga, su quale è il suo compito nella vita. 

    v. 20:
    Matteo ci descrive dunque un Giuseppe che si interroga dolorosamente su cosa fare, per quale scelta optare. Non è soddisfatto della decisione che sta per prendere, ovvero di rimandare in segreto Maria: è perciò inquieto, rimugina nel sonno la sua difficile situazione.
    Matteo ci presenta un Giuseppe che viene raggiunto dalla Parola di Dio nel sonno, o meglio nel sogno. Il sogno nella cultura orientale è veicolo di trasmissione della rivelazione divina (cfr Gn 15,12; 37,5;…). Perché proprio nel sogno? Nella veglia ci si difende, censurando ciò che non si vuole. Nel sonno invece esce tutto in libertà. Il “giusto”, con il suo cuore libero, è aperto ai sogni di Dio: la sua parola può parlargli anche nel sonno delle altre parole. Il sogno come la nuce e il fuoco è elemento etereo che esprime più chiaramente la presenza di Dio.
    La parola raggiunge Giuseppe nel silenzio del suo ascolto.
    Il Signore sa che Giuseppe ha bisogno di una rassicurazione. L’angelo deve rassicurare infatti non solo Maria ma anche Giuseppe.
    Ecco allora la prima parola: “Non temere!”: il timore qui non è la paura, ma l’invito ad entrare nell’obbedienza della fede che domanda fiducia e collaborazione.
    Dopo questo invito il messaggero può aprire la mente e il cuore di Giuseppe al suo compito. Lo fa rivolgendosi a lui con un titolo solenne: “Giuseppe, figlio di Davide”.
    Così Giuseppe è introdotto nel grande contesto della storia della salvezza: nella promessa messianica che da Abramo, passa a Davide sino a giungere proprio a lui.
    Matteo infatti ha iniziato il suo vangelo con la geneologia che partendo da Abramo giunge appunto fino a Giuseppe. Secondo il ritmo del testo, in cui si ripete monotonamente il verbo “generare”, ci si attenderebbe che anche alla quarantesima volta si dicesse: “Giuseppe generò Gesù”. Invece, arrivato a Giuseppe, l’evangelista scrive: “Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale è generato Gesù” (1,16).
    Che ruolo dunque avrà dato che Giuseppe è escluso dalla generazione di Gesù?
    Ecco che le parole del messaggero non spiegano la condotta di Maria, ma il posto che spetta a Giuseppe Il messaggero tocca il mistero con accenni delicati e riverenti: non ci si perde in chiacchiere e indiscrezioni. Si da una sola spiegazione: “Per opera dello Spirito santo”: è lo stesso contenuto della rivelazione fatta dall’angelo Gabriele a Maria: “Lo Spirito santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà” (Lc 1,35).
    Ma non perché il concepimento di Maria è miracoloso ciò significa che Giuseppe debba trarsi da parte!
    Giuseppe diviene padre del Messia senza che anch’egli abbia parte alcuna al suo concepimento, come anche Maria diviene madre senza che abbia conosciuto uomo. 

    v. 21:
    Quale allora il compito di Giuseppe?
    Maria partorirà un figlio, e compito di Giuseppe sarà di imporgli il nome “Gesù” che significa “Jhwh è salvezza”.
    Per gli israeliti il nome indicava la natura e la missione di un individuo. L’imposizione del nome quindi era un atto per così dire creativo che apparteneva di diritto al padre. Il bambino non viene chiamato, secondo l’usanza, con il nome del padre o del nonno, o di qualche antenato
    Ma nel caso di Giuseppe questo diritto appare limitato: il nome è dato da Dio stesso, il figlio è dono di Dio che domanda di essere riconosciuto e accolto. Anche in questo si rivela in Gesù una creazione del tutto nuova dono dall’alto e non frutto dell’iniziativa umana. Egli non è il figlio della carne e del sangue (cfr Gv 1,13), ma frutto unicamente dello Spirito.
    Sia la paternità di Giuseppe che la verginità di Maria hanno una funzione eminentemente cristologica. La loro verginità mette in luce l’azione libera e creativa di Dio nella storia. 

    v. 22:
    viene portata dal messaggero un’ulteriore conferma profetica. Il testo è di Isaia e riguarda l’Emannuele, profezia fatta al re Acaz in un momento tragico della storia del popolo di Israele: “Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli darà nome Emmanuele” (Is 7,14). Il testo di Isaia è uno dei caposaldi del messianismo regale.
    Con questa citazione il messaggero conferma la discendenza davidica tramite la paternità di Giuseppe. Gesù sarà “figlio di Davide” perché figlio di Giuseppe. La promessa si attua attraverso la fondamentale mediazione di Giuseppe.
    Come Maria da la carne al figlio, così Giuseppe gli dà il nome, lo iscrive e lo inserisce nella storia della salvezza.

    v. 24:
    Giuseppe fa come gli è stato ordinato. Un’obbedienza pronta e fiduciosa, scandalosa agli occhi della sapienza umana, molto simile a quella di Abramo. Nel silenzio accoglie il mistero. Dicendo “sì” a Maria dice sì al dono di Dio che è in lei. Quale sarà stato il grado di conoscenza che Giuseppe ebbe del mistero riguardante suo figlio? Avrà dovuto anch’egli come Maria “pellegrinare nella fede”, attraverso la prova, il buio, la speranza.
    Come avrà vissuto il rapporto con Gesù?
    E Gesù che tipo di rapporto avrà vissuto con il padre Giuseppe?
    Una riflessione ulteriore ci dovrebbe spingere a considerare il ruolo educativo che Giuseppe come padre ebbe nei confronti del figlio. Gesù come ogni figlio non avrà preso a modello nella sua crescita il padre, non sarà stato lui un punto di riferimento essenziale?
    Giuseppe come colui che educa alla fede e alla preghiera Gesù…
    Giuseppe come colui che introduce Gesù nella fatica del vivere attraverso il proprio lavoro e l’assunzione delle proprie responsabilità….
    La vera paternità non si risolve solo e anzitutto nell’atto biologico del generare. Si è padre soprattutto nell’assumersi il compito di educare alla vita quel figlio che ho davanti.
    E ancora: quanto l’umanità di Cristo ha avuto bisogno della figura di Giuseppe per raggiungere la sua completezza, e questo a tutti i livelli?
    Da tutto questo emerge uno spessore straordinario di Giuseppe nella storia salvifica. Il suo nascondimento e il suo silenzio più che adombrarlo manifestano il suo ruolo, sì nascosto e silenzioso, ma non per questo non meno fondamentale del ruolo di Maria.

  • 18 Dic

    Nell’umanità del tuo Figlio, o Padre,

    hai ricreato l’uomo perché la morte
    non deformasse in lui
    la tua immagine viva.

    È grazia della tua pietà che ci salva:

    dalla carne di Adamo
    il peccato ci aveva dato la morte,

    dalla carne di Cristo
    il tuo amore ci ha riplasmato alla vita.

     

    Liturgia ambrosiana, Prefazio d’Avvento

     

  • 11 Dic

    Mentre il silenzio fasciava la terra
    e la notte era a metà del suo corso,
    tu sei disceso, o Verbo di Dio,
    in solitudine e più alto silenzio.
       La creazione ti grida in silenzio,
    la profezia da sempre ti annuncia,
    ma il mistero ha ora una voce,
    al tuo vagito il silenzio è più fondo.
       E pure noi facciamo silenzio,
    più che parole il silenzio lo canti,
    il cuore ascolti quest’unico Verbo
    che ora parla con voce di uomo.
       A te, Gesù, meraviglia del mondo,
    Dio che vivi nel cuore dell’uomo,
    Dio nascosto in carne mortale,
    a te l’amore che canta in silenzio.

    p. David Maria Turoldo

  • 08 Dic

     

    Preghiera iniziale

    Invochiamo il dono dello Spirito perché ci apra alla conoscenza e all’intelligenza della Parola vincendo in noi le tenebre e le chiusure che si frappongono all’ascolto

     

    Lettura

    Il testo è di Luca 2,8-18: L’annuncio ai pastori

     

    Lectio

    Il brano ascoltato nell’intento di Luca vuole offrire la chiave di lettura teologica del significato della nascita di Gesù.

    Vedremo che per Luca riveste particolare importanza e rilievo il tema dell’annuncio che da significato all’evento stesso. Il racconto rappresenta il terzo annuncio del vangelo dell’infanzia. (a Zaccaria, a Maria e appunto ai pastori)

    I pastori:non siamo nell’interno della casa grotta dove Maria, aiutata da Giuseppe, ha trovato riparo e riservatezza per dare al mondo il suo primogenito.

    La scena si sposta all’esterno nei campi limitrofi del villaggio di pastori che è Betlemme.

    Alcuni pastori stanno vegliando e custodendo i loro greggi.

    Il fatto avviene di notte; ed è da notare che nella storia della salvezza gli avvenimenti salvifici più importanti avvengono di notte (cfr. es. l’esodo)

    Come mai l’annuncio dell’avvenimento salvifico si rivolge in primo luogo a loro? Perché sono i migliori, i più bravi, i più santi? No!

    Tutt’altro. Dio rivela la nascita del suo Messia proprio ad una delle celassi più umili e biasimate del tempo a causa dell’ignoranza della legge e dello stato di continua impurità legale.

    I rabbini dicevano che i pastori con i pubblicani difficilmente potevano salvarsi a causa del loro stile di vita. E’ proprio a costoro che il messaggio è dato per primo.

    Questi pastori rappresentano il nuovo popolo di Israele costituito da poveri e peccatori.

    Sono costoro che attendono un salvatore. Giusti e pii credono di non averne bisogno

    Un angelo: Angelo significa: “Colui che annuncia”. E’ colui che da la buona notizia.

    E una buona notizia apporta con sé gioia.

    Perché una notizia così importante darla a così pochi e a persone così? E’ la scelta di Dio questa.

    La buona notizia è data a pochi, ma attraverso questi a tutto il mondo. E’ l’economia dell’incarnazione: l’universale è mediato dal singolare, la parte è sacramento del tutto.

    Il limite è superato nella trasmissione dell’annuncio che dilata lo spazio della comunità fino agli estremi confini dello spazio e del tempo.

    Oggi… un salvatore: la gioia è motivata. Ci è dato un salvatore. E’ questo il centro dell’annuncio. La salvezza del regno irrompe nel mondo con la nascita di Gesù denominato con tre importanti titoli: Salvatore, Cristo, Signore. L’annuncio non è un’idea, una salvezza astratta, ma è un salvatore: colui che è in grado di assumere su di sé la nostra umanità povera, ferita, ammalata destinata alla morte e restituirla alla bellezza e alla gioia della vita.

    Luca insiste su quell’”Oggi”. Un oggi che si ripete nel momento in cui ci si apre all’ascolto della parola.

    Un  segno: l’annuncio accompagnato da un segno è necessario perché l’adempimento della promessa di Dio non può essere dedotta da ragionamenti o sforzi umani. Con la ragione non cercherebbero il suo adempimento certamente nella direzione indicataci dall’angelo: andrebbero al tempio o ai palazzi del potere: cercherebbero un Dio forte, potente. Il dio dei nostri desideri e della nostra paura.

    L’annuncio indica una direzione diversa: a Betlemme! Un bambino in una stalla! Lì si presenta un Dio piccolo, tremante, bisognoso, impotente, che si offre come cibo nella mangiatoia delle bestie. Questa rivelazione è fatta ai pastori.

    “Dio ama parlare con i semplici” (Pr 3,23s), non si rivela ai prudenti e ai sapienti (10,21.nulla di straordinario o di meraviglioso. Il segno è quell’umanità così normale di un bambino. Il “bambino” è segno stesso di Dio. “Dio è colui del quale non si può pensare nulla di più piccolo”.

    Andiamo e vediamo: I pastori ascoltato l’annuncio intraprendono il cammino. “In fretta” non bisogna lasciare che il kairos sfugga, l’occasione di grazia potrebbe non presentarsi più.  E’ un itinerario di fede. Senza questa obbedienza non potrebbero mai verificare la verità dell’oggetto dell’annuncio.

    A questa obbedienza i pastori si incoraggiano vicendevolmente.

    C’è perciò un udire, un andare, un vedere… a cui seguirà un annunciare.

    Tale obbedienza non nasce dai loro  ragionamenti, sillogismi, deduzioni: ma solo da una fiducia che porta ad accogliere la parola “non quale parola di uomini, ma quale è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13).

    Videro e riferirono…: i pastori “vedono” la realtà di ciò che il Signore ha fatto loro conoscere.

    E quello che vedono non possono tenerlo per  sé: è troppo importante. Ha toccato il loro cuore.

    Ciò che gli angeli hanno fatto in cielo, ora i pastori iniziano a farlo sulla terra: diventano angeli, annunciatori, mediatori della Parola. Si profila così la dinamica missionaria della Chiesa.

    Tutti si stupirono: la prima reazione è la meraviglia, lo stupore. La meraviglia pone nel cuore una domanda che attende una risposta. E’ il primo passo per un cammino da intraprendere. Il cuore così si apre ad una  novità che appare di primo acchito incredibile.

     

    Meditatio

    I pastori: una comunità di poveri

    Nei pastori scorgiamo i primi destinatari e i primi ascoltatori della Parola che a loro volta si fanno annunciatori della buona notizia. In essi si profila già la comunità dei credenti: la chiesa. Questa nasce dall’annuncio. Ed è una chiesa fatta di poveri e di ultimi. Noi forse vorremmo comunità diverse: perfette, composte da gente benpensante, che non dia problemi… Ma “ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28) scrive san Paolo.

    In ascolto della Parola

    Senza annuncio non ci si apre alla fede. Senza ascolto non ci si mette in cammino.

    I pastori di Betlemme sono obbedienti all’ascolto, vi prestano fede. L’annuncio è efficace solo per chi ascolta. E’ solo l’obbedienza della fede che può aprirci alla constatazione della verità della Parola. Chi disobbedisce può sempre dire: “Vedi che non è vera la Parola!”.

    Non è facile quest’ascolto e questa obbedienza: in noi scattano molteplici resistenze che vorrebbero impedirci di abbandonarci alla fiducia! Queste resistenze rischiano di ritardare, ostacolare, bloccare l’incontro con la Parola che salva.

    Nella vita del credente e della comunità è essenziale che vi sia la dimensione dell’annuncio e dell’ascolto della Parola senza la quale non vi può essere iniziazione al cammino della fede.

    Il segno: alla ricerca del volto di Dio

    A Betlemme Dio rivela il suo volto e la sua scelta. Farsi piccolo, debole, bisognoso. Un Dio che per le attese religiose è deludente: noi ne vorremmo un altro che risolvesse immediatamente i nostri problemi. Dentro di noi coltiviamo volti e attese di Dio legate ai nostri sogni e al nostro immaginario dettati dalle nostre paure, desideri, insoddisfazioni, frustrazioni. Spesso ci creiamo un Dio che dovrebbe porre rimedio a tutto questo. Un Dio che  non incontreremo mai perché non esiste. L’annuncio di Betlemme ci chiede di metterci in cammino in una direzione diversa: a non cercare un Dio fatto a nostra immagine ma scoprire un Dio, che pur essendo nostra immagine, mi invita a scoprire il suo volto nella fragilità del bambino adagiato in un fienile per animali.

    Quale grandezza vi può essere a Betlemme e sul Calvario se non la grandezza dell’amore? Questa consiste nel farsi piccolo per lasciare spazio a tutti, cominciando proprio dai più piccoli.

    Quel bambino crescerà sempre più nell’ordine della piccolezza: sino al massimo livello che sarà la nudità della croce. . La sua grandezza si fa da noi abbracciare. Ecco il volto vero di Dio!

    Videro e riferirono: evangelizzati ed evangelizzatori

    Dopo aver ascoltato, messo in atto un cammino si può giungere a vedere, a toccare con mano. E quella verità che si è scoperta, che per noi è Gesù, non la possiamo tenere nascosta, solo per noi. La gioia è incontenibile, comanda di essere comunicata, annunciata a sua volta.

    “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi”. (1Gv 1,2-4).

    I pastori da evangelizzati si trasformano in evangelizzatori.

    Una comunità evangelizzata non può non divenire evangelizzatrice. Se non lo è non è forse perché non è sufficientemente evangelizzata?

      

    Oratio

    O Padre, noi ti ringraziamo per il dono di tuo Figlio.

    In lui è la tua mano che stendi,  nella notte,

    alla nostra umanità affinché si riapra alla speranza e alla vita.

    Ti ringraziamo perché anche oggi

    hai fatto risuonare ancora una volta l’annuncio di gioia:

    “Oggi è nato per voi un salvatore che è Cristo Signore”.

    Come i pastori ti chiediamo di aprire le orecchie del nostro cuore

    affinché si dischiudano con fiducia a questa Buona Notizia.

    Che i nostri cuori si aprano al tuo invito a porci in cammino,

    nonostante mille dubbi e fatiche,

    per vedere e toccare la fedeltà e l’adempimento della tua Promessa.

    O Padre la tua Parola in Gesù si adempie finalmente,

    ma questo adempimento ci lascia sbalorditi:

    rispondi in modo inaspettato, inatteso, forse scandaloso alle nostre attese.

    Vorremmo scoprirti potente, forte, glorioso

    e tu ci porti dinanzi a un Bambino tremante, debole, bisognoso.

    In lui vuoi rivelare al mondo il tuo vero volto:

    volto di un amore che si dona, inerme, disposto a lasciarsi ferire.

    Volto di un amore gratuito che nulla domanda se non d’essere accolto e abbracciato.

    Questa rivelazione, o Padre, si sconcerta, ci stupisce, forse ci delude

    ma nel medesimo tempo apre il cuore allo stupore,  alla meraviglia di un Dio diverso.

    Che questo stupore tocchi il nostro cuore.

    Che l’amore che rivela lo ferisca.

    E allora come potremo non annunciare quello che abbiamo udito, visto, toccato?

    In noi impellente sarà il bisogno di portare al mondo

    il dono che tu ci hai fatto. Amen.

     

    Actio

    Ciascuno a questo punto può liberamente davanti al Signore assumere un piccolo impegno che aiuti a concretizzare nel giorno di domani la Parola che abbiamo ascoltato.

     

  • 05 Dic

    È Natale, Signore.

    O è già subito Pasqua?

    Il legno del presepio è duro,

    come il legno della croce.

    Il freddo ti punge

    quasi corona di spine.

    L’odio dei potenti ti spia e ti teme.

    Fuga affannosa nella notte.

    Sangue innocente di coetanei,

    presagio del tuo sangue.

    Lamento di madri desolate,

    eco del pianto di tua Madre.

    Quanti segni di morte, Signore,

    in questa tua nascita.

    Comincia così

    il tuo cammino tra noi,

    la tua ostinata decisione

    di essere Dio, non di sembrarlo.

    Le pietre non diverranno pane.

    Non ti lancerai

    dalla dorata cima del tempio.

    Non conquisterai i regni dell’uomo.

    Costruirai la tua vita di ogni giorno

    raccogliendo con cura meticolosa,

    con paziente amore,

    tutto quello che noi scartiamo:

    gli stracci della nostra povertà,

    le piaghe del nostro dolore,

    i pesi che non sappiamo portare;

    le infamie che

    non vogliamo riconoscere.

    Grazie, Signore,

    per questa ostinazione,

    per questo sparire,

    per questo ritrarti,

    che schiude un libero spazio

    per la mia libera decisione

    di amarti.

    Dio che ti nascondi,

    Dio che non sembri Dio,

    Dio degli stracci e delle piaghe,

    Dio dei pesi e delle infamie,

    io ti amo.

    Non so come dirtelo,

    ho paura di dirtelo,

    perchè talvolta mi spavento

    e ritiro la parola;

    eppure sento che devo dirtelo:

    io ti amo.

    In questa possibilità di amarti,

    che la tua povertà mi schiude,

    divento veramente uomo.

    Amo gli stracci, le piaghe, i pesi

    di ogni fratello.

    Piango le infamie di tutto il mondo.

    Scopro di essere uomo,

    non di sembrarlo.

    Il tuo Natale è il mio natale.

    Nella gioia di questo nascere,

    nello stupore di poterti amare,

    nel dono immenso

    di vivere insieme,

    io accetto, io voglio, io chiedo

    che anche per me, Signore,

    sia subito Pasqua.

    Don Luigi Serentha

  • 04 Dic

    SANT’ANNA MADRE DELLA BEATA VEGINE MARIA

    Nonostante che di s. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente.

    Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata.. Il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome.

    La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori.

    Poiché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria.

    È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale.

    Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo. Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche errori dottrinali, hanno tuttavia influito sulla devozione e nella liturgia.

    Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”.

    Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili.

    L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni.

    Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio.

    Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”.

    Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì.

    Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”.

    Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele.

    Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia.

    L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche.

    I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio.

    Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù.

    Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna.

    L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494).

    Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio.

    Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti.

    Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo.

    Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino.

    La festa liturgica dei santi Anna e Gioacchino è celebrata il 26 luglio.

    Sant’Anna è invocata come protettrice delle donne incinte, che a lei si rivolgono per ottenere da Dio tre grandi favori: un parto felice, un figlio sano e latte sufficiente per poterlo allevare. È patrona di molti mestieri legati alle sue funzioni di madre, tra cui i lavandai e le ricamatrici. (Avvenire)

    Il suo emblema è il libro delle Sante Scritture.

  • 02 Dic

    Come vorrei che tu venissi

    Come vorrei che tu venissi tardi,

    per avere ancora tempo di annunciare

    e di portare la tua carità agli altri.

    Come vorrei che tu venissi presto,

    per conoscere subito, alla fonte, il calore della carità.

    Come vorrei che tu venissi tardi,

    per poter costruire nell’attesa,

    un regno di solidarietà, di attenzione ai poveri.

    Come vorrei che tu venissi presto,

    per essere subito in comunione piena e definitiva con te.

    Come vorrei che tu venissi tardi,

    per poter purificare nell’ascesi,

    nella penitenza, nella vita cristiana

    la mia povera esistenza.

    Come vorrei che tu venissi presto,

    per essere accolto, peccatore,

    nella tua infinita misericordia.

    Come vorrei che tu venissi tardi,

    perchè è bello vivere sapendo che tu ci affidi

    un compito di responsabilità.

    Come vorrei che tu venissi presto,

    per essere nella gioia piena.

    Signore, non so quello che voglio,

    ma di una cosa sono certo:

    il meglio è la tua volontà.

    Aiutami ad essere pronto a compiere

    in qualsiasi tempo e situazione

    la tua volontà d’amore per noi,

    adesso e al tempo della mia morte.

    Amen.

  • 02 Dic

    Eccomi sono la serva del Signore”

    Il racconto della vocazione di Maria:

    Luca 1,26-38

    Il racconto della vocazione di Maria (Lc 1,26-38), più noto co­me l’annunciazione a Maria, è di una ricchezza esorbitante. Si può in­fatti leggere la pericope sotto il profilo cristologico, appuntando l’attenzione sull’identità e sulla missione del Figlio annunciato a Maria, oppure si può appuntare maggiormente l’attenzione al volto di Dio che emerge da tale racconto.

    Infine – ed è quanto fa­remo qui – si può privilegiare la contemplazione della figura di Maria, dalla sua prima reazione all’annuncio dell’angelo alla ce­lebre domanda sulla modalità di quella gravidanza, fino alla sua totale e gioiosa accettazione del progetto divino.

    Un sorprendente saluto

    Innanzitutto sostiamo sul saluto angelico, causa del turbamen­to interiore di Maria, saluto che, nell’attuale traduzione liturgica, suona con un troppo neutro: «Ti saluto, o piena di grazia». Poiché Luca è l’evangelista della gioia, sembra preferibile tradurre l’e­spressione letterale del saluto, nel suo significato filologico di gioire‘. In tal modo, la frase suonerebbe così: «gioisci…»; diven­ta allora evidente il richiamo a quegli appelli alla gioia che i pro­feti del Primo Testamento rivolgono appassionatamente al popo­lo di Dio, affinchè non si lasci schiacciare dal dolore, ma accolga la consolazione divina. Maria è come la ‘figlia di Sion’, esortata a gioire per la presenza salvifica del Signore nella sua comunità.

    L’angelo, oltre che invitarla a gioire, non si rivolge a lei chia­mandola per nome, ma le conferisce un nome nuovo, carico di un’enorme promessa: «colei che viene riempita di grazia» (infat­ti in greco non c’è un aggettivo, ma il participio perfetto passivo del verbo charitóó = fare grazia). E infine, come nei testi di mis­sione dei grandi personaggi del Primo Testamento, Maria riceve l’esaltante assicurazione che il Signore è con lei.

    Ella, davanti a tutto ciò, non può non porsi domande, e non può non essere turbata da un saluto così sorprendente. Da ciò emerge implicitamente il ritratto dell’umiltà di Maria, la quale non si ritiene certo meritevole di tanta attenzione da parte di Dio. Lo sconvolgimento interiore di Maria non è soltanto emo­zionale, ma è un interrogarsi pieno di intelligenza spirituale, ed è proprio per tale intelligenza che essa avverte tutta la spropor­zione tra il proprio essere – quello che nel Magnificat dirà esse­re la sua ‘bassezza/infimità’ – e l’iniziativa di Dio verso di lei.

    L’a­scolto è una caratteristica della figura spirituale di Maria fin dal­l’inizio della presentazione che ne fa l’evangelista; ebbene, l’a­scolto è dare peso alle parole, coglierle nel loro spessore e nella loro eco. Si comprende allora che Maria, ascoltando queste pa­role dell’inviato divino, ne rimanga come sconvolta.

    Seguendo lo schema tradizionale dei racconti di vocazione/ missione, alla reazione umana corrisponde l’invito divino a non temere (cfr. Gen 15,1; Gdc 6,23; ecc.), come avviene appunto an­che in questa occasione. Ma le parole dell’angelo non rendono più leggero il saluto, anzi lo gravano di un significato ulteriore, perché dichiarando che lei, Maria, ha «trovato grazia presso Dio», indica una relazione personalissima e singolare di Dio con lei, relazione attribuita nel Primo Testamento ai grandi protagonisti della storia della salvezza.

    Il lettore, così, comprende con Maria quali possa­no essere i motivi profondi dell’iniziale invito alla gioia. Le ragio­ni di Maria per gioire non stanno certo nelle sue prospettive di promozione sociale mediante l’ormai prossimo matrimonio, né tanto meno nella condizione storica in cui versa il suo popolo, op­presso dai romani, ma è l’amore di Dio che si sta manifestando su di lei, come lascia intuire la parola angelica sul fatto che ella ha trovato grazia. In tal modo la figura di Maria si carica di una valenza simbolica, e lei diventa quasi l’icona della gioia, che è una dimensione intrinseca della fede del popolo di Dio,

    Subito dopo il messaggero di Dio le indica anche in che cosa consista la sua missione: avere un Figlio le cui caratteristiche sa­ranno di natura messianica, anzi divina. Infatti egli sarà l’erede delle promesse davidiche, sarà ‘grande’ in assoluto, sarà chiama­to ‘Figlio dell’Altissimo’ da Dio stesso, come suggerisce l’uso del passivo teologico.

    Le parole angeliche a riguardo del Figlio che Maria concepirà e partorirà richiederebbero un approfondimento fin nel minimo dettaglio filologico, ma qui ci limiteremo a riflettere sull’ulterio­re domanda di Maria, questa volta espressa e non trattenuta nel segreto del cuore.

    Come avverrà questo?

    Di fronte ad un annuncio tanto sbalorditivo – poiché si pro­spetta la nascita di un personaggio dalle caratteristiche regali, as­solutamente incomparabili con quelle dei re che Israele aveva conosciuto, e ancor più dalle caratteristiche divine, con una fi­gliolanza ineffabile nei confronti di Dio – , Maria non può fare a meno di porre una domanda. Purtroppo, come ben si sa, la tra­duzione CEI è davvero infelice e fuorviante, poiché rende Lc 1,34 con «Come è possibile? Non conosco uomo».

    In attesa di una traduzione più adeguata, ci limitiamo a segna­lare che una resa letterale della frase greca suona più convin­centemente: «Come avverrà questo?», traduzione che risolve già varie perplessità sorte nel lettore.

    Maria chiede spiegazioni, ma lo fa senza pretendere una pro­va o avanzare dubbi sulla veridicità della parola angelica, come ha fatto invece Zaccaria (cfr. Le 1,18). La domanda di Maria è le­gittima, poiché negli altri annunci biblici prospettanti la nascita prodigiosa di un bimbo viene sempre indicato in qualche modo il genitore del piccolo. Maria, attenta ascoltatrice della parola del Signore, nella sua domanda chiede pertanto quali siano le ulte­riori disposizioni del Signore verso di lei, visto che l’angelo non indica in alcun modo le modalità del concepimento.

    Va allora ribadito che la domanda di Maria non è affatto se­gno di incredulità o di dubbio, come era stato il riso di Sara, quando aveva udito, da parte dei tre visitatori, l’annunzio di una sua gravidanza (cfr. Gen 18,12ss.). Anche Abramo, il grande pa­dre nella fede, che pure aveva creduto in Dio, si era lasciato tra­scinare dalla logica umana, quando, dopo aver ricevuto la pro­messa divina, aveva cercato di adattare le cose secondo il crite­rio di possibilità. La faccenda sembrava a lui e a Sara abbastan­za chiara: non potendo avere da lei un figlio, lo avrebbe avuto dalla sua schiava (cfr. Gen 16); mostrava in tal modo di non aver capito fino in fondo che Dio è davvero il Signore dell’impossibi­le, e che il suo agire trascende le vie e le logiche umane.

    Al contrario Maria, da credente assolutamente integra nella sua fede, non persegue la propria logica, ma si affida totalmente alla volontà di Dio, chiedendo che Egli, attraverso il suo messag­gero, le manifesti le modalità del concepimento. La sua condi­zione di ragazza vergine, «che non conosce uomo», rende ancora più evidente l’affidarsi di Maria alle vie di Dio.

    Bisogna però chiedersi come si debba intendere questo «non conosco uomo». Tradizionalmente è inteso come indicazione della sua condizione verginale, del suo non aver rapporti con un uomo. Qualche autore cattolico si era spinto più in là, vedendo in questa affermazione un voto di verginità perpetua; così si esprimeva, ad esempio, il grande esegeta M. Zerwick: «Describit statum virginalem cum implicita voluntate retinendi eum». Que­sta lettura è oggi abbandonata, ma resta quella più diffusa per cui Maria segnala la sua condizione verginale all’angelo. Questo comunque suona un po’ strano, dal momento che tale precisa­zione risulta inutile, visto che il lettore già per due volte ha in­contrato il termine parthénos (vergine/giovane ragazza non spo­sata) e non si capisce perché Maria debba informare di ciò il mi­sterioso visitatore, che già la conosce così nel profondo, da sape­re qual è la sua condizione davanti a Dio.

    La domanda di Maria e la sua precisazione sul non conoscere uomo può essere forse meglio intesa alla luce del contesto. In­fatti, immediatamente prima l’angelo ha prospettato le qualità messianiche divine di quel bambino che lei avrebbe concepito, qualità così alte e così incomparabili che non possono derivare dall’uomo. In questo senso allora la sua domanda dice almeno due cose.

    La prima è che lei non vuole anticipare le proprie vie, ma si mette a disposizione della volontà del Signore, e resta in attesa delle sue indicazioni. La seconda è che la sua fede è davvero lu­cida, poiché sa bene che nessuna creatura umana è in grado di
    generare un figlio che abbia le qualità e la natura divina come
    l’angelo ha appena annunziato!

    Scenderà la potenza dell’Altissimo

    A questo punto l’angelo spiega a Maria come si verificherà la sua maternità e quale sarà l’origine del bambino. Qui il testo si ca­rica di grande densità teologica, poiché non solo indica le modali­tà ‘misteriose’ del concepimento, ma ribadisce l’origine ‘altra’ del Figlio che Maria avrà. Proprio in conseguenza di tale origine ‘san­ta’, il bambino «sarà chiamato figlio di Dio». Suggeriamo qui la preferenza per questa traduzione del testo evangelico: «quello che nascerà santo, sarà chiamato figlio di Dio» (CEI invece traduce: «Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio». In tal caso si intenderebbe dire che è l’origine santa, divina, di que­sto Figlio di Maria che indica, segnala la sua figliolanza divina).

    L’angelo poi afferma che sarà lo Spirito Santo ad agire in lei. La frase risulta composta di due parti parallele, di cui la seconda suona così: «la potenza dell’Altissimo stenderà la sua ombra su di te». Il verbo ‘stendere l’ombra’, in tutti i passi del Primo e del Nuovo Testamento in cui ricorre, indica sempre un’attività divi­na, il mistero dell’agire di Dio in una persona. L’espressione an­gelica richiama poi anche il celebre passo di Es 40,35, in cui vie­ne presentata la nube di Dio che ricopre la tenda, e la gloria del Signore che riempie la dimora. Orbene, Maria diventerà ‘dimora di Dio’, diventerà come il tempio nel quale Dio pone la sua pre­senza, fa riposare la sua gloria.

    È utile qui richiamare alcuni aspetti della ricchissima teologia del Primo Testamento sul tema del dimorare di Dio. Ebbene, nel Sal 132, che ha anche un chiaro colorito messianico, Dio è pre­sentato come inquieto, perché è alla ricerca di una Dimora in cui rimanere in modo stabile con il suo popolo. Alla luce di questa immagine Maria appare qui come la Dimora degna, tanto sospi­rata, come quel cuore in cui Dio può finalmente far riposare il suo Nome, per essere vicino non solo a lei ma all’intero suo popolo.

    Che in un certo senso il Signore trovi casa proprio presso Ma­ria lo si era già visto in quel misterioso «entrare dell’angelo del Signore da lei» (cfr. v. 28). Se per Zaccaria l’evangelista parla di un’apparizione di Gabriele, ora invece si realizza un incontro molto più profondo, coinvolgente, reso possibile dal fatto che la casa interiore di Maria è completamente ospitale.

    Le ultime parole dell’angelo si interessano poi al tema del ‘se­gno’, costituito dalla gravidanza di Elisabetta. Questo segno – elemento ricorrente nei racconti di vocazione, in quanto soste­gno per la fiducia del chiamato – non è preteso da Maria, ma da lei accolto con prontezza, senza esitazione, come si vedrà nella pericope successiva della visitazione ad Elisabetta. Esso serve a sottolineare il carattere eccezionale e reale del concepimento annunciato a Maria. Nella maternità di Elisabetta Maria riceve un segno per credere che «nessuna parola sarà impossibile a Dio» (questa è la traduzione letterale del versetto che la tradu­zione CEI rende impropriamente con «nulla è impossibile a Dio»). Maria crede non solo all’inattesa maternità di una donna anziana e sterile, ma a qualcosa di infinitamente più grande, e cioè che Dio voglia entrare in questa storia in modo così intimo e concreto da farsi ‘nato da donna’, da assumere la condizione umana. Questa è la parola che non sarà impossibile a Dio e che ella crede con tutta se stessa.

    La serva del Signore

    «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». Secondo quanto affermato in Lc 1,27, nella vita di questa vergine di Nazaret vi è il progetto di un matrimonio, or­mai prossimo. Ma, come credente, ella coltiva un sogno più gran­de, che trascende anche questi progetti personali: che il Signore compia prontamente le sue promesse e che nella sua vita possa vedere i giorni del Messia! È questa infatti la preghiera, il kaddish, che – come tanti altri credenti del suo popolo – ella recita quotidianamente per la santificazione del Nome, invocando di potere sperimentare nei giorni della propria esistenza il venire del Regno di Dio: «Sia proclamata la grandezza e la santità del Nome grande di Dio nel mondo che egli ha creato secondo la sua volontà, e stabilisca egli il suo Regno durante la nostra vita e nei nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele, presto, in tempo prossimo… ». Ora il sogno diventa realtà e Dio le chiede di prendere posizione, di dare il suo ‘sì!’.

    La promessa sposa di Giuseppe viene così associata alla schiera dei grandi protagoni­sti della storia della salvezza, come Abramo, Mosè, Isaia, uomini chiamati da Dio a collaborare al suo piano di salvezza per Israe­le e per le genti. Il passo biblico più vicino all’assenso di Maria alla parola di Dio, comunicatale dal messaggero divino, è però quello in cui, al Sinai, Israele accetta per la prima volta la pro­posta di un’alleanza da parte del Signore. Il popolo promette: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremol» (Es 19,8).

    Propriamente il Signore non ha ancora comandato qualcosa al popolo, ma ha soltanto chiesto se esso voglia acconsentire alla sua iniziativa di fare alleanza con Lui. Alla luce di questo passo biblico, si vede come il primo ‘sì’ da dire a Dio non sia tanto l’obbedienza ai suoi ordini e decreti, ma la fede nella sua promessa, l’adesione piena al suo progetto, che vuole il bene dell’uomo. Il ‘sì’ di Maria è come quello di Israele perché è un credere fermamente alla sua volontà di salvezza e fiorisce da un cuore vergine, abitato dal desiderare ciò che Dio stesso desidera e plasmato da una totale fiducia nel Signore.

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