• 27 Gen

    di p. attilio fabris 

    Vi è una contraddizione nel nostro pregare:

    da un lato avvertiamo il bisogno del dialogo con Dio

    dall’altro la preghiera suscita in noi innumerevoli resistenze.

    Alcune di queste resistenze potrebbero essere:

    – la mancanza di tempo

    – la stanchezza

    – la difficoltà.

    Potremmo fermarci a queste. Ma se abbiamo il coraggio di indagare poco più in profondità scopriamo in noi un’obiezione di fondo: “Forse la nostra preghiera è inutile?” Infatti: “Se Dio già conosce tutto, e per di più non ha bisogno delle mie preghiere, allora perché dovrei pregare?”.

     

    DIO SA TUTTO

     

    In effetti, dobbiamo confermarlo, la preghiera non “serve” a Dio: “Tu non hai bisogno della nostra lode” (Liturgia). Gesù stesso ci pone attentamente in guardia contro questa falsa presunzione:

    “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate” (Mt 6,7-8)

    Dunque Dio conosce meglio di noi ciò che ci serve. La preghiera non serve a lui, ma a noi.

     

     

    L’INTOLLERANZA DEL LIMITE

     

    Una delle esperienze più dure e dolorose che ciascuno, prima o poi, è chiamato a fare è la presa di coscienza del proprio limite.

    Solo chi è stato in grado di integrare questo limite nella sua esistenza può dirsi maturo umanamente; se ciò non accadesse la persona vivrebbe in un mondo illusorio, falsamente idealizzato, tipico dell’adolescente.

    Anche la preghiera è chiamata a farci prendere coscienza del nostro limite. Si tratta della pedagogia di Dio. In questo contesto possiamo collocare quella virtù tanto un tempo apprezzata che è l’umiltà, quella vera. Il CCC afferma a tal proposito:

    “L’umiltà è il fondamento della preghiera… è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera: ‘L’uomo è un mendicante di Dio’ (sant’Agostino)” (n. 2559)

    Il prendere coscienza del proprio limite, nell’umiltà, è una prova alla quale ogni uomo è soggetto e che attraversa in varie strade (malattia, sofferenza morale o psichica, morte di cari, esperienze “metafisiche”…): attraverso la prova egli giunge alla coscienza di essere creatura superando la tentazione di Adamo: l’onnipotenza! Essere Dio a se stessi.

    Naturalmente siamo portati a rifiutare il limite, a fuggirlo. Ecco allora la dis-trazione il di-vertimento. Ovvero lo sforzo di distoglierci dagli interrogativi che ci richiamano alla nostra vera realtà. L’uomo che fugge in mille modi e che ha paura di se stesso. La distrazione appare allora come l’opposto della preghiera, come una scappatoia dalla coscienza della nostra reale condizione, un’evasione da essa verso un’illusione, il sogno, il miraggio del “Sarete come Dio!” (Gn 2)

    Allora il primo passo verso la preghiera è l’umiltà, l’apprendere e il riconoscere il proprio limite di creatura.

    La preghiera ci riconduce, essa è pedagogia di Dio, a ciò di cui più autenticamente ha bisogno il nostro cuore limitato:

    “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessioni)

    Essa salvaguardia ciò di cui abbiamo più bisogno, ciò che in noi è più prezioso e autentico: il nostro desiderio di Dio.

    Il riconoscimento del proprio limite implica già di per se stesso una chiamata da parte di Dio. La preghiera appare come una risposta alla domanda che Dio pone nel segreto del nostro cuore: Essa è un incontro tra due desideri:

    “Se tu conoscessi il dono di Dio. La meraviglia della preghiera si rivela proprio là presso i pozzi dove andiamo a cercare acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete: la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o no, la preghiera è l’incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di Lui” (CCC 2560)

    Questa chiamata all’uomo nel contesto del limite nella Scrittura appare spesso in forma sconcertante: es: Agar e la gelosia di Sara, la sua fuga (Gn 21,8-21); Elia fuggitivo e perseguitato (1Re 19); l’esilio di Israele (Bar 2,30-3,8); il figlio prodigo (Lc 15).

    Dovremmo porci l’interrogativo: Che atteggiamento assumo io dinanzi alle esperienze del mio limite? Quali sono queste esperienze? Di fronte al limite mi accorgo di soccombere o esso mi spinge ad aprirmi alla scoperta dell’Altro?

    Quando Dio mi conduce allo spogliamento non è forse sempre in vista di una mia crescita?

    “Nella terra del loro esilio ritorneranno in sé, e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio. Darò loro un cuore e orecchi che ascoltano nella terra del loro esilio. Mi loderanno e si ricorderanno del mio nome” (Bar 2,26)

     

     

     

     

    DIO HA BISOGNO DEGLI UOMINI

     

    Dice Gesù nel vangelo di Giovanni: “La verità vi farà liberi”: ma questa verità, questa pedagogia di Dio, spesso è dura e dolorosa perché l’esperienza della nostra povertà ci sconcerta.

    La preghiera svolge un ruolo fondamentale: essa trasforma ciò che in noi è limite, pesantezza; essa cambia il nostro modo di guardare la nostra povertà.

    La preghiera dopo averci costretto ad accettare i nostri limiti ed averci insegnato il nostro vero bisogno, trasforma tutto questo in uno sguardo rivolto ad un Altro.

    Il nostro bisogno è in qualche modo indispensabile a Dio per instaurare la sua relazione con noi.

    La nostra povertà diviene il nostro tesoro. E rifiutare di essere poveri è rifiutare che Dio sia Dio per noi.

    Così Dio non ci donerà ciò di cui abbiamo bisogno anche se lo conosce bene, senza che noi glielo domandiamo.

    “Con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazione con Dio: in quanto creature non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine” (CFC 2629)

    Ogni giorno prendiamo atto della nostra povertà. Ogni giorno è necessario che la poniamo alla base della nostra preghiera.

    Scriveva s. Giovanni Crisostomo:

    “Se Dio tarda a rispondere è unicamente per trattenerci più lungamente presso di lui, proprio come i padri fanno con i figli che amano. Ma io sono indegno. La tua perseveranza a pregare ti renderà degno. Spesso Dio si fa attendere per mostrarsi poi più generoso”

    Posted by attilio @ 12:55

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