• 15 Apr


    Il Signore è in mezzo a te!

    Un grido di giubilo inaspettato:

    Sofonia 3,1-2; 7-8; 14-18

    di p. Attilio Franco Fabris

    Messaggio centrale

    Se il profeta annuncia il “Giorno di JHWH” come il giorno del giudizio e della condanna, contemporaneamente annuncia il kerigma della salvezza: Dio sarà re e salvatore, il suo amore rinnoverà Gerusalemme. Ne scaturisce un invito alla gioia e all’esultanza: non scoraggiarti “il Signore è in mezzo a te”.

    Sofonia svolge il suo ministero dopo la fine del governo tirannico del re Manasse e prima della riforma di Giosia. Siamo verso il 700 a.C. Siamo in uno dei momenti più difficili della storia di Israele: la corruzione e l’ingiustizia dilagano, si assiste da parte del popolo ad un progressivo abbandono della fede, dilaga una grave forma di sincretismo che vede un culto rivolto agli idoli pagani Baal e Astante. Non a caso il terzo capitolo del libro di Sofonia inizia con una violenta requisitoria contro Gerusalemme e tutti i suoi capi:

    1 Guai alla città ribelle e contaminata,

    alla città prepotente!

    2 Non ha ascoltato la voce,

    non ha accettato la correzione.

    Non ha confidato nel Signore,

    non si è rivolta al suo Dio.

    7 Io pensavo: «Almeno ora mi temerà!

    Accoglierà la correzione.

    Non si cancelleranno dai suoi occhi

    tutte le punizioni che le ho inflitte».

    Ma invece si sono affrettati

    a pervertire di nuovo ogni loro azione.

    E’ una constatazione amara di un allontanamento, di un tradimento dell’alleanza nonostante ripetuti inviti e correzione: il popolo è infatti di “dura cervice” (cfr Es 32,9). Che fare in questa situazione? Che prospettive si presentano per il futuro?

    Il profeta si fa annunciatore di catastrofi: esse appaiono inevitabili a causa del male dilagante, il male è castigo a se stesso, è fautore di morte, divisione, distruzione. Le prime parole che Dio pronuncia nel libro profetico lo testimoniano drammaticamente: “Tutto farò sparire dalla terra. Distruggerò uomini e bestie. Sterminerò l’uomo dalla terra” (1,1-3).

    Sofonia annuncia imminente la venuta di JHWH come giudice tremendo (Gr 11,20) e il suo giudizio sarà un castigo inevitabile: “Giorno d’ira, d’angoscia e d’afflizione, di rovina, di sterminio, di tenebre, di caligine, di nubi, di oscurità, di squilli di tromba e di allarmi” (1,15-16: sequenza “Dies irae”). Si tratta di un castigo universale: esso non colpisce solo Gerusalemme, ma anche tutti i popoli del mondo:

    8 Perciò aspettatemi – parola del Signore –

    quando mi leverò per accusare,

    perché ho decretato di adunare le genti,

    di convocare i regni,

    per riversare su di essi la mia collera,

    tutta la mia ira ardente:

    poiché dal fuoco della mia gelosia

    sarà consumata tutta la terra.

    Ma il discorso prende inspiegabilmente una direzione sconcertante, dall’annuncio di questa “ira ardente” improvviso si affaccia inspiegabile un invito alla gioia. È come il bagliore di un raggio di sole che squarcia inaspettato le tenebre riaprendo il cuore alla speranza:

    14 Gioisci, figlia di Sion,

    esulta, Israele,

    e rallegrati con tutto il cuore,

    figlia di Gerusalemme!

    15 Il Signore ha revocato la tua condanna,

    ha disperso il tuo nemico.

    Sofonia definisce il “resto di Israele[1]con l’immagine della Figlia di Sion (3,14-18): una piccola comunità che si affida unicamente alla fedeltà di Dio, che è sicura della presenza del suo Dio, e i cui occhi sono a questo punto illuminati dalla fede e dalla sicurezza nella vittoria di Dio; questa è l’immagine che Sofonia dà del “resto”, dell’Israele delle sue speranze.

    Gioisci…esulta…rallegrati!” (cfr Is 12,6; 49,13; 65,14; Zc 2,14; 9,9; Gr 31,7). Il cambiamento di tono è improvviso, e sembrerebbe, come detto, a prima vista inspiegabile. Come è possibile passare dalle minacce di un castigo incombente ad un annuncio improvviso di gioia e di speranza, a una “revoca della condanna”? Cos’è accaduto? Forse che Israele si è convertito, ha cambiato vita facendo penitenza dei suoi peccati? Ma questo non è accaduto e il profeta lo sa! Quindi la ragione deve stare da un’altra parte.

    Dio promette gratuitamente salvezza: egli eliminerà i suoi rivali per restare solo lui unicamente come re e come sposo che ama la sua sposa. Egli non può rinnegare la sua parola, e l’alleanza stipulata con Israele. Questa revoca ha solo un motivo: la fedeltà dell’amore di Dio che non si arrende dinanzi a nessun tradimento e infedeltà dell’uomo, ma sempre si ripropone come Dio fedele: “unica roccia di salvezza” (Sal 61,3)

    Re d’Israele è il Signore in mezzo a te,

    tu non vedrai più la sventura.

    Dio riafferma la sua ferma volontà di prendere lui stesso in mano sua le sorti del suo popolo:  “Re d’Israele è il Signore in mezzo a te” (v.14; cfr v.17). la sua presenza doveva essere simbolizzata dal Tempio dove JWHW manifestava la sua Gloria (1Re 8,12-19) e dall’istituto regale con la sua funzione di luogotenenza di Dio, ma, per i profeti, queste due realtà hanno mancato a questo obiettivo: al culto non corrispondeva una fedeltà vitale all’alleanza, la regalità si era pervertita nella ricerca di se stessa e del suo potere. È per questo che la gloria di Dio viene vista allontanarsi da Gerusalemme da Ezechiele (10,18), ma già dopo il primo peccato (originale) di idolatria ai piedi del Sinai la tenda del convegno dovette essere posta “fuori dell’accampamento”(Es 33,7). Questa triste situazione invocava presso i “poveri di JHWH-resto di Israele” un intervento decisivo e personale di Dio a favore del suo popolo (cfr Is 63,19). Ecco Sofonia annunciare che finalmente è giunto questo momento in cui Dio, sterminati tutti i nemici, personalmente instaurerà il suo regno eterno, egli sarà “Re d’Israele” (cfr Lc 1,32).

    16 In quel giorno si dirà a Gerusalemme:

    «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia!

    17 Il Signore tuo Dio in mezzo a te

    è un salvatore potente.

    Esulterà di gioia per te,

    ti rinnoverà con il suo amore,

    si rallegrerà per te con grida di gioia,

    18 come nei giorni di festa».

    La profezia si tramuta in canto nuziale per un connubio ritrovato. La città-sposa tornerà ad essere bella, diverrà nuovamente la delizia per il suo sposo: “esulterà di gioia… si rallegrerà con grida di gioia come nei giorni di festa” (vv. 17-18). Gerusalemme diverrà realmente “Città della Pace”.

    La gioia di Gerusalemme scaturisce  dalla ritrovata relazione sponsale con JHWH: se il Signore gioisce con lei e per lei essa allora non ha da temere più nulla, non può più “lasciarsi cadere le braccia” in un atteggiamento di di-sperazione. Dio si presenta come re che lotta per la liberazione del suo popolo: “è un salvatore potente in mezzo a te”, è lui il primo soldato (cfr Is 9,5; 10,21) è “un guerriero che salva” mettendosi in prima fila; un’immagine questa frequente nei salmi di lamentazione (Sal 7,13-14; 10,15;) e nei profeti (cfr Is 9,6; 42,13; Gr 14,9; 20,11).

    Ritorna la bellezza e la gioia dell’amore antico e il piacere di un matrimonio rinnovato e se ne celebra nel giubilo la festa. Lo sposo non allontanerà più la sua sposa da sé, anzi, sarà lui stesso “a rinnovarla nel suo amore”, da se stessa infatti ne sarebbe incapace!

    Il protagonista di tutto sarà solo il Signore Dio!

    E quanto ai castighi minacciati, e al giorno dell’ira e del giudizio? Il “Giorno di JHWH” non appare più come il momento terribile della punizione, del castigo implacabile che si abbatte sul popolo peccatore: esso si trasforma invece nel giorno in cui finalmente il Signore riesce a far trionfare il suo amore sul male del mondo. Dio infatti vuole solo compiere opere di salvezza! L’ira di Dio è rivolta contro il peccato non contro il peccatore. La paura del castigo ben venga se essa viene a richiamare alla coscienza di Israele gli effetti disastrosi che il male produce con i suoi frutti di morte (cfr Is 3,11).

    Il piccolo “resto di Israele” trova in Maria “serva e sposa” la sua immagine emblematica. Non per nulla la vergine di Nazaret viene salutata con le stesse parole con cui il profeta si rivolge alla città santa: “Gioisci, non temere, il Signore è in te”. Per Luca la profezia trova dunque compimento in quell’istante: in Gesù discendente del trono di Davide, Dio stesso prende dimora in mezzo al suo popolo (cfr Gv 1,14), instaurando il suo regno eterno.

    In Cristo, Dio metterà in atto il “Giorno di vendetta”: si compirà nel giorno del venerdì santo, giorno di tenebre e caligine, in cui Dio opera un giudizio finale sul peccato dell’uomo e offre a tutti in Cristo la sua vittoria sul male.

    La gioia sarà grande: Dio è in mezzo al suo popolo (cfr Gv 20,19-20).

    Per la riflessione

    La paura del castigo accompagna l’esperienza religiosa di Israele e nostra: il nostro peccato non potrebbe attirare se non questo. Eppure proprio in questa amara constatazione la Parola ci invita alla gioia: essa è donata dal fatto che Dio “ci rinnova nel suo amore”, egli “è in mezzo a noi” come “salvatore potente”. Nessun male può permettere al credente di “lasciargli cadere le braccia”.

    Preghiera

    Ci si appoggia alla roccia,

    ma non serve:

    si sgretola la roccia.

    Ci si appoggia a un tronco,

    ma non serve:

    imputridisce e cade.

    Sostegno inalterabile,

    tu solo,

    padrone di tutte le cose.

    Tu solo ascolti la nostra preghiera.

    Tu che, solo, ci salvi,

    o Creatore!

    (Preghiera malgascia)


    [1] Dio promette ad Abramo una discendenza “numerosa come le stelle del cielo” (Gn 15,5), e Dio, per bocca di Amos, avverte Israele: “Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così saranno salvati i figli di Israele” (Am 3,12). Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvi” (1Tm 2,4) ed annunzia che, al tempo della grande tribolazione, “se a motivo degli eletti, i giorni tristi non fossero abbreviati, nessuno avrebbe salva la vita” (Mt 24,22). Questo resto, risparmiato dal passaggio del giudizio, costituisce un elemento essenziale della speranza biblica. L’idea si collega all’esperienza delle guerre e dei loro massacri. L’annientamento del vinto praticato così spesso, poneva ad Israele il problema della sua sopravvivenza, e quindi del valore delle promesse divine. Secondo il contesto, la parola può caratterizzare l’ampiezza della catastrofe: “Non sopravvive che un resto” (Is 10,22), oppure evocare la speranza che sussiste con la sopravvivenza di un resto (il nostro caso).

  • 14 Apr

    La grazia a caro prezzo

    Dietrich Bonhoeffer, Sequela


    La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della no­stra Chiesa.

    Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo.

    Grazia a buon prezzo è grazia considerata materiale da scarto, perdono sprecato, consolazione sprecata, sa­cramento sprecato; grazia considerata magazzino ine­sauribile della Chiesa, da cui si dispensano i beni a pie­ne mani, a cuor leggero, senza limiti; grazia senza prez­zo, senza spese. L’essenza della grazia, così si dice, è ap­punto questo, che il conto è stato pagato in anticipo, per tutti i tempi. E così, se il conto è stato saldato, si può avere tutto gratis. Le spese sostenute sono infinita­mente grandi, immensa è quindi anche la possibilità di uso e di spreco. Che senso avrebbe una grazia che non fosse grazia a buon prezzo?

    Grazia a buon prezzo è grazia intesa come dottrina, come principio, come sistema; è perdono dei peccati inteso come verità generale, come concetto cristiano di Dio. Chi la accetta, ha già ottenuto il perdono dei pec­cati. La Chiesa che annunzia questa grazia, in base a questo suo insegnamento è già partecipe della grazia. In questa Chiesa il mondo vede cancellati, per poco prezzo, i peccati di cui non si pente e dai quali tanto meno desidera essere liberato.

    Grazia a buon prezzo, perciò, è rinnegamento della Parola vivente di Dio, rinnegamento dell’incarnazione della Parola di Dio.

    Grazia, a buon prezzo è giustificazione non del pecca­tore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. «È inutile che ci diamo da fare». Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori «anche nella migliore delle vite». Perciò anche il cristiano viva come vive il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo — a scanso di essere accusato dell’eresia di fanatismo — di condurre,   sotto  la  grazia, una  vita  diversa  da   quella che conduceva sotto il peccato.  Si guardi bene dall’in­fierire  contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon prezzo, dall’erigere una nuova schiavitù del-l’interpretazione letterale,  tentando di condurre una vi­ta  in  obbedienza  ai comandamenti  di  Gesù Cristo!   Il mondo è giustificato per grazia, e perciò — in nome del­la serietà di questa grazia per non opporsi a questa in­sostituibile graziai — il cristiano viva come vive il resto del mondo!

    Certo, il cristiano desidererebbe fare qualco­sa di straordinario; è senza dubbio la rinuncia più diffi­cile quella di non farlo, ma di dover vivere come il mon­do! Ma il cristiano deve accettare questo sacrificio, es­sere pronto a rinunciare a se stesso e a non distinguersi, nel suo modo di vivere, dal mondo. Deve lasciare che la grazia sia veramente grazia, in modo da non distruggere la fede del mondo in questa grazia a buon prezzo. Il cri­stiano sia, nella sua vita secolare, in questo sacrificio ine­vitabile che deve compiere per il mondo — anzi, per la grazia! — tranquillo e sicuro nel possesso di questa gra­zia che fa tutto da sé. Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia.

    Questa grazia a buon prezzo, che è giustificazione del peccato, e non giustifica­zione del peccatore penitente che si libera dal suo peccato e torna indietro; non perdono del peccato che separa dal peccato. Grazia a buon prezzo è quella grazia che noi concediamo a noi stessi.

    Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è gra­zia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.

    Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commercian­te da tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.

    Grazia a caro prezzo è l’Èvangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo pic­chiare.

    È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia, perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara, perché condanna il peccato, è grazia, perché giusti­fica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo — «siete stati comperati a caro prezzo» — e perché per noi non può valere poco ciò che a Dio è costato caro. È soprattutto grazie., perché Dio non ha ri­tenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio.

    Grazia a caro prezzo è la grazia ritenuta cosa sacra a Dio, che deve essere protetta di fronte al mondo, che non deve essere gettata ai cani; è grazia perché Parola viven­te, Parola di Dio, che lui stesso pronuncia come gli piace. Essa ci viene incontro come misericordioso invito a segui­re Gesù, raggiunge lo spirito umiliato ed il cuore contrito come parola di perdono. La grazia è a caro prezzo perché aggioga l’uomo costringendolo a seguire Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù ci dice: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero».

    Due volte è stata rivolta a Pietro la chiamata: Seguimi! È stata la prima e l’ultima parola di Gesù al suo disce­polo (Me. 1,17; Gv. 21,22). Tutta la vita di questo è po­sta tra queste due chiamate. La prima volta Pietro ha sentito l’invito di Gesù sul lago di Genezaret ed ha ab­bandonato le sue reti, la sua professione, e lo ha letteral­mente seguito. L’ultima volta il Risorto lo trova di nuovo nella sua professione di prima, sul lago di Gene­zaret, ed ancora una volta gli dice: Seguimi! Frammezzo c’era stata tutta una vita di discepolato al seguito di Cristo; al centro la sua professione di fede in Gesù come il Cristo (l’unto) di Dio. Tre volte a Pietro fu annunziata la stessa cosa: al principio e alla fine a Cesarea di Filippo, che, cioè, Cristo è il suo Dio e il suo Signo­re. È la stessa grazia di Dio che lo chiama: Seguimi! e che si manifesta nella sua professione di fede nel Figlio di Dio.

    Per tre volte la grazia si è fermata sulla via di Pie­tro: una grazia annunziata tre volte in maniera diversa; e così fu la grazia di Cristo stesso, e non certo una gra­zia che il discepolo si annunziava da se stesso. Fu la stessa grazia di Cristo che vinse il discepolo e lo indus­se ad abbandonare tutto per seguirlo, la stessa che ope­rò in lui la professione di fede, che a tutto il mondo doveva apparire una blasfemia, la stessa che richiamò l’infedele Pietro alla comunione del martirio e gli per­donò così tutti i peccati. Grazia e seguire Cristo, nella vita di Pietro, sono indissolubilmente legati. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo.

    …. Se la grazia è il ‘risultato’ di una vita cristiana, donato da Cristo stes­so, questa vita non è dispensata nemmeno un attimo dal seguirlo. Se la grazia è, invece, presupposto per prin­cipio della mia vita cristiana, allora i peccati che com­metto durante la mia vita in terra sono giustificati in partenza. E allora in base a questa grazia posso pec­care, dato che il mondo, per principio, è giustificato per grazia. Io, allora, continuo a vivere la mia vita secolare-borghese; nulla cambia nella mia esistenza, ep­pure sono sicuro di essere coperto dalla grazia divina. Tutto il mondo, sotto questa grazia, è divenuto ‘cri­stiano’, ma il cristianesimo, sotto questa grazia, è di­venuto mondo come mai in precedenza. La vita cristiana consiste appunto nel fatto che io vivo nel mondo come il mondo, che non mi distinguo in nulla da esso, anzi, non devo nem­meno — per amore della grazia! — distinguermi da esso, ma che al momento opportuno dall’ambiente ‘mon­do’ mi reco nell’ambiente ‘chiesa’ per ricevervi l’assi­curazione del perdono dei peccati.

    Sono dispensato dal­la necessità di seguire Cristo mediante la grazia a buon prezzo, che deve essere il nemico più accanito della volontà di seguirlo, che deve odiare e disprezzare l’im­pegno a seguirlo veramente. La grazia come presupposto è una grazia di nessun valore; la grazia come risultato è una grazia a caro prezzo. È terribile riconoscere quan­to è importante il modo con cui una verità evangelica viene espressa e messa in atto. È la stessa parola che esprime la giustificazione per sola grazia, eppure l’uso errato della stessa frase porta alla distruzione totale del­la sua essenza.

    Se Faust, alla fine della sua vita spesa nello sforzo di conoscere, dice: «Riconosco che non possiamo sa­pere nulla», questo è un risultato ed ha un senso ben diverso che se uno studente di primo anno si arroga tale frase per giustificare con essa la sua pigrizia (Kierkegaard). Come risultato l’affermazione è vera, come presupposto è un autoinganno. Il che significa che non si può separare ciò che è stato riconosciuto dall’esisten­za che ha portato a tale constatazione. Solo chi si trova al seguito di Gesù, dopo aver rinunciato a tutto ciò che aveva, può affermare di essere giustificato per sola grazia. Egli riconosce nell’invito stesso a seguire Gesù la grazia, e nella grazia questo invito. Chi, però, pensa di essere dispensato per via della grazia dal seguirlo inganna se stesso.

    Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese isti­tuzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo bas­so; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribui­vano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. Dove restava ciò che aveva riconosciuto la Chiesa primitiva la quale, durante il catecumenato, vigilava tanto attenta­mente sulle frontiere tra Chiesa e mondo, sulla grazia cara? Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio? Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di ani­me uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammo­nimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica.

    E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disob-bedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? Quale senso poteva avere per noi questa parola se non quello di un ri­chiamo ad una sobrietà assai umana, inteso a fermare il nostro cammino, a soffocare in noi il piacere di seguire Gesù, con l’affermazione che questa era una via scelta solo da noi stessi, un impiego di forze, una fatica e una disciplina non solo inutili, ma addirittura dannosi? Infatti nella grazia tutto era già pronto e compiuto! Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessa­riamente lasciava la via alla quale era chiamato da Ge­sù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di ricono­scere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diver­samente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la gra­zia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente for­te, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbe­dire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque co­mandamento di buone opere.

    Non possiamo più, oggi, eludere il problema. Diviene sempre più evidente che la difficoltà della no­stra chiesa sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani.

    Beati coloro che si trovano già alla fine del cam­mino che noi vogliamo percorrere, e che comprendono, pieni di meraviglia, quello che veramente non pare comprensibile, cioè che la grazia è a caro prezzo pro­prio perché è grazia pura, perché è grazia di Dio in Gesù Cristo. Beati coloro che, seguendo semplicemente Gesù Cristo, sono vinti da questa grazia, così che pos­sono lodare con cuore umile la grazia di Cristo che sola agisce. Beati coloro che, avendo conosciuto questa gra­zia, possono vivere nel mondo senza perdersi in esso, che, seguendo Gesù Cristo, hanno acquistato una tale certezza della loro patria celeste, che sono veramente liberi per la vita in questo mondo. Beati coloro, per i quali seguire Gesù Cristo non ha altro significato che vivere della grazia, e per i quali grazia non ha altro significato che seguire Gesù Cristo. Beati coloro che so­no divenuti cristiani in questo senso, coloro dei quali la grazia ha avuto misericordia.

  • 13 Apr

    Giairo e l’emoroissa

    Mc 5, 21-43

    di p. Attilio Franco Fabris

    L’episodio precedente è il miracolo della liberazione dell’indemoniato di Gerasa, prigionieri di satana nei sepolcri: 5,1-20.

    Qui Gesù appare come liberatore anche dalla morte, ultimo risultato del male e nemico ultimo: Rm 6,23; 1Cor 15,26.

    I due miracoli si commentano vicendevolmente incentrandosi su un unico messaggio.

    Essi sono legati dalle parole: “Salvare”, “Credere”, “Toccare”.

    Vi sono due donne

    Vi sono in comune “12 anni”

    Una è povera, segregata e paurosa

    L’altra una figlia di un capo della sinagoga.

    L’intento di Marco è di indicare Gesù come colui che suscita la fede.

    La fede di Giairo e della donna fanno sì che Gesù possa manifestare la sua potenza.

    L’incontro con Cristo fa scaturire la vita per l’una e per l’altra.

    Il brano evangelico è una catechesi sul cammino della fede in tre tappe:

    1.      una fede incipiente: quella che vede solo il proprio bisogno e limite, e guarda all’onnipotenza divina come ad una soluzione

    2.      un secondo livello è dato dallo sguardo di Gesù che cerca un dialogo, un rapporto. Da questo dialogo sgorga una parola che riapre alla speranza e alla vita al di là di quello che si poteva sperare di ottenere : “Va’ in pace!”.

    La fede ottiene così non solo un dono di guarigione fisica, ma diviene salvezza per la totalità dell’uomo. E’ esperienza del regno di Dio già presente ed operante in Cristo. Non siamo guariti solo dalla nostra miseria, ma dall’amore di Cristo ci viene dischiuso il limite stesso nel quale eravamo bloccati.

    3.      Un terzo livello ancora più alto è la fede che Gesù domanda a Giairo. Egli richiede una fiducia totale, che va al di là di ogni evidenza umana. E’ un invito a “sperare contro ogni speranza”. “Credi tu questo?” (Gv 11,26).

    Brani paralleli:

    Sap 1,13-15; 2,23

    Sal 30

    1Re 17,17-24

    2Re 4,8-37; 13,20

    Gv 11

    A. AMBIENTAZIONE: UNA RIVA DEL LAGO DI TIBERIADE E LA FOLLA

    21

    Il lago: è il luogo abituale in cui Gesù svolge la sua predicazione

    Siamo sul litoraneo di Cafarnao: il paese dove abita Gesù.

    Tutti lo conoscono: è un loro conterraneo.

    La folla:

    lo segue… i motivi?

    per curiosità, con varie attese, vi è forse devozione.

    Certamente una buona dose di fanatismo.

    Ricerca di qualche esperienza straordinaria: non è uno che fa miracoli?

    Spera di ottenerne qualche tornaconto.

    Perché ne hanno sentito parlare.

    Lo segue perché percepisce una parola diversa, detta “con autorità”.

    …………

    Se dovessi analizzare i motivi per cui ritengo di seguire Cristo quali elencherei?

    Provare ad enuclearli (in percentuale 100%)

    B. GIAIRO E LA SUA SUPPLICA

    22

    Ogni sinagoga aveva un responsabile coadiuvato da un piccolo consiglio (da tre a sette persone). Non è chiaro se Giairo sia il capo o uno del consiglio.

    Il capo della sinagoga dirige il servizio divino, conferisce le varie funzioni, cura la manutenzione dell’edificio.

    Giairo: dall’ebraico Jar (Risplenda la divinità, ma che può essere inteso anche come “Egli, Dio, risusciterà”). Un nome che indica la promessa.

    Egli sta cercando affannosamente Gesù.

    Chi tipo di persona è Giairo?

    La sua famiglia

    Il suo ruolo sociale

    La sua religiosità

    I suoi sentimenti in questo momento,

    le sue attese e le sue paure.

    La sua relazione con Gesù… come l’ha conosciuto?

    Che idea avrà di lui?

    Il gesto di gettarsi ai piedi indica la sua supplica, ma anche la sua disperazione, e l’urgenza della sua preghiera.

    Con questo gesto si riconosce un’autorità a cui si deve ascolto e obbedienza.

    Valore e significato del gesto di “cadere ai piedi”

    23

    Una preghiera di supplica che nasce dal profondo dell’angoscia

    Una situazione disperata: la “figlioletta” è agli estremi

    Un invito: vieni

    Una speranza: perché sia “salva” e “viva

    Egli prega in nome di sua figlia.

    Quale valore ha questa preghiera, come l’abbiamo sperimentata?

    il gesto di imporre le mani è abituale nella cultura semitica e sottolinea momenti importanti.

    Significa il conferimento/passaggio di un potere per un compito da svolgere o una guarigione.

    La ragazza deve essere “salvata”: quindi non si tratta di una semplice guarigione, ma di una salvezza da domandare. Una vita nuova da richiedere.

    24

    Gesù si avvia con Giairo e la folla.

    In questo cammino analizzare sentimenti, speranze, attese di Gesù, di Giairo e della folla.

    Una folla che “schiaccia” Gesù.

    Siamo sulla strada.

    C. L’EMOROISSA

    25

    L’emoraggia è la secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. E’ una radicale malattia e debolezza. Solo un intervento divino può liberare da una tale situazione.

    La donna perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la rende impura, immonda. Di per se rende impura ogni cosa che tocca.

    Non può entrare nel tempio, né partecipare alle feste religiose (es. la pasqua). Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana.

    Immaginiamo questa donna.

    Chi è? (La tradizione l’ha identificata con la Veronica che asciugherà il sangue sul volto di Cristo, ella avrebbe anche eretto un monumento in memoria del miracolo nella sua città di Banias (Eusebio).

    Da dove viene?

    Come vive la sua malattia?

    Che tipo di relazione ha con gli altri?

    Con i medici…

    Che tipo di religiosità?

    L’uomo tenta di accapparrarsi la potenza divina, di dominarla, di appropriarsene. Il Dio della rivelazione si è sempre sottratto a questa pretesa perché è lui che vuole donare la sua vita all’uomo e ne prende l’iniziativa: è il mistero della sua accondiscendenza.

    Solo in quest’ottica di accondiscendenza il limite diviene luogo di incontro e di comunione.

    Qui si riallaccia tutto il discorso sui sacramenti:

    come azioni di Cristo che nuovamente ci tocca e salva.

    Come vivere questo aspetto sacramentale?

    Ma anche si può riallacciare il tema del valore di tutta la realtà che ci circonda, che porta in sé la presenza divina. Questa realtà ci tocca continuamente. Tutte le nostre esperienze sono eventi attraverso i quali Dio ci tocca. Si tratta di esperienze che vengono derise dall’incredulo forte solo dei parametri della sua ristretta intelligenza.

    Occorre far uso della “memoria” per pregare gli avvenimenti della nostra vita. Essi non sono vuoti, ma carichi di una reale potenzialità di incontro con Dio. “Ogni avvenimento è un “oremus””.

    26

    Molti medici! E’ l’ansia della vita, la paura di perderla che costringe l’uomo a tentare tutte le vie ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Ha dilapidato le sue sostanze.

    27-28

    Avendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi?

    Con quali risonanze?

    E’ convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita.

    Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30).

    Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Cosa significa e comporta questo? Quali risonanze?

    Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56

    Il verbo “toccare” è nel brano molto importante (4 x): esso esprime con un’immagine materiale la fede che è un venire a contatto con Gesù. La donna e Giairo sono convinti che il contatto fisico con Gesù è salvezza.

    Contro ogni ideologia è il “toccare” Cristo che salva (cfr. 1Gv 1,1ss).

    Il toccare nella fede è particolare perché fa sprigionare la potenza di Cristo.

    Ma vi è anche un altro toccare, quello della folla, che solo opprime e non produce nulla.

    Vi è un “toccare” interiore ed esteriore.

    C’è un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi, ed una invece che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità.

    I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!

    Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca.

    Non vuole scoprirsi nella sua povertà.

    Non vuole esporsi: è immonda.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    E’ superstizione? Il vangelo sottolinea la disperazione e la sconfinata fede di questa donna a cui Gesù risponde con la guarigione e il dialogo intessuto con lui: la parola suscita e suggella il miracolo. La fede dunque non è solo esperienza soggettiva ma è incontro spirituale e personale con Dio.

    Qui si interseca il discorso circa il ruolo del bisogno nella dinamica della fede.

    29

    la guarigione è immediata. (non viene qui perseguita una dinamica cristologica!). La prospettiva è solo quella del contesto storico dell’attività di Gesù.

    30

    La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Non è il contatto fisico che guarisce (=magia) ma la fede che è rapporto personale. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. E’ Gesù che in verità “tocca” la donna, come farà con la piccola morta.

    Dal costato uscirà abbondante sangue, fino all’ultima stilla.

    E’ importante il passaggio dalle spalle al volto.

    Gesù si volta… (risonanze)

    31

    I discepoli non comprendono la domanda. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    32

    Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio.

    L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Analizzare l’esperienza vissuta dello sguardo di Dio su di noi: le risonanze che provoca

    33-34

    Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. Essa si attende che Gesù assorba la sua malattia senza venirne contagiato: è una fede che comprende e trascende anche ciò che è illegittimo e equivoco.

    La donna ha infranto i limiti imposti dal tabù, e da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei un misto di gioia esplosiva e di paura (il suo gesto è equivoco e carico di risonanze negative: il contatto con donne mestruanti è comunque sempre negativo)

    La fede è certezza che Dio agisce attraverso Gesù, perché ama l’uomo ed invita ad intrattenersi con lui in un’esperienza d’accoglienza e di amore

    Cfr. 2,5; 4,40; 5,36; 9,23; 10,52.

    Questo incontro col volto di Cristo la libera da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.

    Perché? La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffatta di gioia, si sente libera dal suo incubo.

    “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio.

    Gesù non propone un conflitto tra fede e magia, ma trasporta le concezioni magiche della donna nella fede. Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” sarà il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio e che toglie all’uomo i suoi tormenti.

    D. VERSO LA CASA DI GIAIRO

    35

    “Finché c’è vita c’è speranza” ma ora? La “figlioletta” è morta prima che il taumaturgo arrivasse.

    La morte è il caso estremo di malattia.

    La morte avviene “nel frattempo” dell’incontro con l’emoroissa.

    36

    Non cedere nella fede, neppure di fronte all’evidenza della sua apparente inutilità.

    E’ la fede che salva, chiamata a confrontarsi con la morte.

    “La tua fede ti ha salvata” (v 34).

    Gesù non si ferma a discutere, ma continua a procedere calmo e sicuro come nulla avesse sentito.

    37

    siamo nella linea del “segreto messianico”. E’ il primo miracolo che avviene lontano dalla folla.

    I tre apostoli prescelti sono coloro che assistono anche alla trasfigurazione e alla preghiera nel Getsemani ovvero tutti e tre gli episodi sono collegati dal tema della pasqua di morte e risurrezione.

    38

    sono i riti per esorcizzare la paura della morte.

    39

    Una domanda paradossale e apparentemente stolta. Come è stata quella ai discepoli nel mare: “Perché siete così paurosi?”. Gesù mette in discussione le cose più ovvie.

    La morte è un sonno.

    Si esprime la fiducia nel Dio più potente della morte.

    Ma su questo si apre un divario forte tra Gesù e i presenti.

    40

    non dei parenti ma degli altri intervenuti.

    41

    In aramaico. E’ potenza misteriosa?

    Si usano due verbi:

    –          svegliati

    –          alzati

    sono i verbi classici indicanti la risurrezione: 14,28; 16,6; 8,31; 9,9-10

    “Alzati amica mia, mia bella e vieni” (Ct 2,10)

    Non sono parole magiche di cui si servivano taumaturghi o maghi: la parola di Gesù è chiara ed esprime apertamente la sua volontà.

    42

    Vi è grande stupore.

    Chi è Gesù?

    Si è di fronte a qualcosa di inspiegabile che interpella la coscienza dell’uomo.

    Uno stupore simile a quello delle donne dinanzi al sepolcro vuoto (16,8).

    L’ultimo ordine appare paradossale!

    In realtà quello che si esige è nella linea del segreto messianico.

    43

    12 anni ha la fanciulla: l’età dell’amore, del fidanzamento.

    Un gesto di delicatezza da parte di Gesù.

    Ma anche un sottile preannuncio della sezione dei pani (6,6-8,30).

    Cristo è il pane della vita: Gv 6

    Appendice

    Il segreto messianico

    Esso assume il significato di una progressiva rivelazione del mistero di Cristo. Ovvero si tratta di un “metodo formativo” usato da Gesù stesso.

    Il suo era e resta sempre un mistero troppo arduo per essere compreso e accolto pienamente da tutti: è indispensabile la fede che viene dall’alto.

    Ed è attraverso la predicazione kerigmatica della Chiesa che vi si può accedere pienamente.

  • 12 Apr

    Un pellegrinaggio a dodici anni

    (Lc 2, 41-52).

    Poniamo attenzione soltanto alle prime battute del brano. Un brano molto ricco che contiene l’ordito della nostra vita. Anzitutto vediamo gli elementi che vengono descritti: i personaggi (i genitori e Gesù dodicenne), il contesto sociale (l’usanza del pellegrinaggio al tempio), il contesto geografico (Gerusalemme), il contesto religioso liturgico (la Pasqua, che è una festa). Di ogni elemento cercheremo di comprendere il valore e  di cogliere il messaggio per la nostra vita.

    1- “ I suoi genitori .   Sono presentati come osservanti, religiosi, devoti.  Il fatto che entrambi siano religiosi e osservanti, consenzienti ad andare in pellegrinaggio a Gerusalemme ogni anno, non è indifferente. In fondo Gesù viene qui definito a partire anzitutto da quell’atmosfera di serenità,   di fedeltà alla legge, che creano intorno a lui i suoi genitori.

    Questa grande grazia di avere il padre e la madre saldamente concordi sull’educazione profonda da impartire al proprio figlio, l’hanno anche molti di noi. Tuttavia c’è chi ha soltanto uno dei due; e addirittura c’è chi non ha nessuno dei genitori ad aiutarlo nella fede.

    – La riflessione si fa subito personale. E io come mi trovo in proposito? Quale apprezzamento ho dei miei genitori rispetto al mio credere, alla mia tensione morale e spirituale?

    la preghiera: “Ti ringrazio, Signore, per i doni che mi hai fatto attraverso la mia famiglia, i nonni, le persone che in qualche maniera hanno contribuito alla mia formazione Signore, so che tu disponi ogni cosa per il meglio, so che anche quello che a prima vista non mi è gradito, ha un significato salvifico per la mia vita. Fa’ dunque che io comprenda il senso delle grazie e il senso delle prove”.

    2. L’età di Gesù –   “ Quando egli ebbe dodici anni”.

    C’è poi il secondo personaggio che è il “fanciullo Gesù”colto non in un momento qualunque della sua vita, ma in un’età di passaggio perché questo dei dodici anni è un passaggio importante, è simbolo di un passaggio di vita che Gesù compie come uomo, come israelita, come figlio

    Gesù lo compie anzitutto come uomo E’ quel momento in cui una persona capisce che deve diventare uomo, cioè che comincia a prendere in mano la sua vita: quindi incomincia quella percezione che io devo decidere ciò che voglio fare di me nella vita; una percezione lenta, graduale che alla fine termina con la scelta dello stato di vita, della professione  E’ un’età di cambio esistenziale profondo, misterioso,

    *Egli compie questo passaggio anche come israelita, come figlio del suo popolo perché era l’età in cui uno si preparava a diventare “bar mitzwah” cioè “figlio della legge, del precetto”  Quindi un’età in cui uno comincia ad assumere in proprio i doveri religiosi come membro cosciente- responsabile del suo popolo.

    *E l’età in cui uno compie un forte passaggio anche come figlio di famiglia: è l’età in cui uno incomincia a ridefinire chiaramente il suo modo di essere figlio, fino a quel momento in cui Gesù si rivela rispetto al Padre suo nei cieli. Tutte le famiglie si accorgono che questo passaggio esiste. Mentre prima l’obbedienza andava quasi da sé, da quel momento si inizia a decidere quale rapporto tenere verso i genitori. Se è un rapporto accettato come rapporto di amore, di ubbidienza allora diventa cosciente, personale, vissuto.

    Come sintetizzo il messaggio delle prime parole: “il fanciullo Gesù ebbe dodici anni”?. E’ l’età dei grandi cambiamenti! * fisicamente, ma non ci si accorge che i figli cambiano come persone. acquisti un’altra fisionomia. Io ho I’impressione che molti genitori colgono solo quest’aspetto prevalente che poi comporta la ginnastica,

    Cosa vuol dire che cambiano come persone?

    Cambiano perché anzitutto sorge in essi una coscienza morale, che prima esisteva come ubbidienza o disubbidienza ai genitori, ma è a quest’età che una coscienza morale comincia davvero a essere qualcosa dentro. Una coscienza morale che è percepita come una coscienza del male come qualcosa di facile, di gratificante; e una coscienza del bene come qualcosa di necessario, ma di difficile e arduo. Uno allora comincia davvero a fare delle scelte, capisce che fare il bene è qualcosa di bello, di giusto, di necessario, di difficile e arduo. E fare il male è qualcosa che non si deve fare, ma è più facile anche sotto le forme della pigrizia, del lasciarsi andare, del fare tutte le proprie comodità, del non prendersi mai a cuore niente, del lasciare che i genitori provvedano a tutto, del non rendersi responsabile. E’ più facile lasciarsi servire in tutto, esigere sempre nuovi divertimenti e svaghi.

    Qui sorge il problema morale: io che cosa scelgo? Che cosa faccio? Faccio qualcosa di serio, di deciso? Accetto i sacrifici della vita oppure mi lascio andare a qualunque cosa? Ciascuno in questo momento sperimenta la propria libertà, la sperimenta come libertà di lasciarsi andare al male magari vissuto nelle piccole e semplici cose, che poi diventano complicate quando uno fa sempre i suoi comodi. Da qui nascono le pretese, le prepotenze, il lamentarsi per qualunque cosa … Oppure la sperimenta come libertà di fare il bene, il tenersi in mano, il sapersi sacrificare, il capire i bisogni degli altri … Con il problema morale della libertà nasce inoltre un problema che potremmo dire esistenziale: uno comincia, anche senza accorgersi, a interrogarsi: cosa faccio nella mia vita?

    Sono domande molto importanti, che non possono essere banalizzate, non sono più sogni di bambini. Certo c’è sempre molto sogno e molta fantasia in tutto quello che facciamo; grazie a Dio noi per tutta la vita siamo capaci di sognare e di fantasticare. Ciascuno di noi è una creatura un po’ artista che sogna e che si entusiasma. Però dietro queste cose c’è il bisogno di definirsi di fronte al proprio avvenire, di fronte agli altri, agli stessi genitori.

    3. Luogo fondamentale è certamente Gerusalemme, menzionato due volte: “si recavano tutti gli anni a Gerusalemme”, “il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme”.

    Ed è menzionata Gerusalemme non solo in maniera statica come città che è là, ma è la città che è meta di un pellegrinaggio verso la quale si va. Quindi come elemento di luogo è menzionato anche il fare pellegrinaggio, cioè compiere un gesto sacro altamente simbolico che consiste nell’avviarsi verso un luogo sacro, indicando un primato di Dio nella propria vita. Fare pellegrinaggio è segno di adesione sacra ad un mistero di Dio, manifestato in maniera privilegiata in questo luogo.

    Anche qui ci sarebbe tanto da dire perché noi sappiamo di quali significati è piena anche la menzione di Gerusalemme per un ebreo: Gerusalemme città di Dio, città Santa, città storica, capitale civile, luogo nella quale si rivela la gloria di Dio, luogo del tempio, della preghiera, della gioia, della festa, luogo nel quale soltanto si celebrano i sacrifici e le grandi feste di Israele.

    Un pellegrinaggio a un santuario è simbolo del pellegrinaggio della vita: l’incontro con Dio. Quest’anno più di un milione di giovani sono in cammino verso Colonia. Per festeggiare proprio quanto stiamo meditando.

    I tempi

    Il tempo viene indicato come Pasqua, anzi come la festa di Pasqua, meglio specificato con “i giorni della festa di Pasqua”: quindi è la Pasqua intesa come festa prolungata, festa di una settimana.

    Noi sappiamo quali evocazioni straordinarie ha la Pasqua per una famiglia ebraica per un fanciullo che ha sentito raccontare delle vicende di Mosè, dell’Esodo, dell’uscita dall’Egitto, dell’Agnello immolato il cui sangue era messo sugli stipiti delle porte perché l’angelo sterminatore risparmiasse gli Ebrei, del passaggio del Mar Rosso, del Sinai.

    La Pasqua è tutto questo; è una grande serie di simboli che ricordano il proprio passato, la propria storia e religione; è un po’ la sintesi di tutti i valori: “Dio si è chinato su di noi, si è ricordato del suo popolo mentre eravamo schiavi in Egitto, ci ha liberati, ci ha reso un popolo degno, unito ci ha dato una legge, una costituzione. Ci ha dato dignità, libertà …”

    Tutto ciò è collegato con questa Pasqua ed è anche un momento di gioia, festa.

    Quale signifcato ha per me la DOMENICA?  Noi non possiamo vivere senza la domenica”(sine dominica non possumus esse) “Sì, sono andata all’assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana”. Pronunciate dai Martiri di Abitine queste parole manifestano quale importanza i cristiani abbiano dato, fin dai primi secoli, alla partecipazione all’Eucaristia domenicale. L’hanno considerata come un’esigenza irrinunciabile.

  • 08 Apr

    La morte dell’uomo vecchio

    da p. Amedeo Cencini

    Per costruire un autentico rapporto con Dio occorre essere disposti ad un’opera di smantellamento dell’uomo vecchio, se non vogliamo accontentarci di mettere vino nuovo in otri vecchi e continuare a rammendare tutta la vita abiti logori.

    Di quale opera di smantellamento? Si tratta di liberarci anzitutto dalle false immagini di Dio che ci sono state proposte nell’arco della vita e/o che da noi stessi ci siamo costruiti.

    Teniamo presente che ad un’immagine di Dio corrisponde un itinerario spirituale preciso. Ad una falsa immagine di Dio corrisponde un falso itinerario spirituale.

    Le illusioni

    E’ per questo che è facile  correre il rischio di cadere in pericolose illusioni.

    Gesù nel vangelo ci dona un criterio di discernimento per il nostro itinerario spirituale: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze” (Mc 12,30).

    Per fare un’esperienza autentica di Dio occorre tutto l’uomo: cuore, mente, volontà.

    La globalità del nostro essere, la totalità dei nostri dinamismi in esso insiti.

    Se Dio è Dio egli è tutto o niente.

    L’illusione sentimentale

    Il sentimentale crede che per conoscere Dio occorre che io ne “senta” l’emozione, lo sperimenti sentimentalmente.

    Dio è ridotto ad un’emozione piacevole, il mio essere è considerato solo un fascio di sensazioni.

    Una impostazione di cammino spirituale di questo genere risulterà: instabile, illusorio, contraddittorio.

    Instabile: la nostra emotività è instabile. All’entusiasmo succede la freddezza, il disinteresse. (Soprattutto questo nell’ambito della preghiera).

    Illusoria: l’emozione rimane fine a se stessa e non porta ad un reale cambiamento e conversione: “Si cercano le consolazioni di Dio ,e non il Dio delle consolazioni).

    Contraddittorio: non ci si compromette realmente in una relazione amorosa con Dio che è richiesta in un autentico rapporto. L’attenzione è ancora centrata su di sé.

    Deviazioni possibili: la superstizione, la disperazione, lo spiritualismo, il devozionalismo, l’intimismo pietistico.

    Dio è il Dio della vita, non un oggetto di consumo per la ricerca di “esperienze spirituali”.

    L’illusione morale

    La volontà qui è assolutizzata. Per fare esperienza di Dio devo fare determinate cose, devo osservare un determinato codice morale, devo impormi una determinata ascesi.

    Come il giovane ricco diremo: “Che cosa mi manca?… Cosa devo fare?” (cf Mt 19,20).

    L’affettività sottostante è prevalentemente idealizzante. Fa da traino alla vita un alto ideale di sé, solitamente con funzione compensativa.

    Ma l’esperienza di Dio è prendere atto che è Lui a cercare l’uomo, a chinarsi su di lui: l’esperienza di Dio è puro suo dono. L’uomo può solo disporsi alla sua azione.

    Il volontarista:

    non sa dire grazie: Tutto è frutto delle sue fatiche. E’ lui che si acquista i meriti per la salvezza. Si vanta davanti a Dio come il fariseo della parabola. Dio è colui che premia o castiga: è giusto ed esigente padrone. Non è certo il padre del figliol prodigo, o il padrone degli operai dell’ultima ora.

    Non riconosce il suo limite: il limite stona, non è sopportato, non ci deve essere. Occorre in qualche modo negarlo. (Complesso della statua o del sughero!)

    La propria povertà non è occasione di grazia, del sentirsi accolto, amato, redento ma causa invece di deprezzamento di sé, di disistima. Il volontarista preferisce essere contato tra le file dei 99 giusti e non certo fra i peccatori di cui il paradiso fa festa.

    E’ un perfezionista-legalista: la legge gli dà sicurezza. Per cui è rigido con se stesso e con gli altri. Il v. Fatica ad amare perché la sua energia è tutta impiegata nel poter raggiungere la sua impossibile perfezione.

    Notiamo che alla lunga è molto difficile, se non impossibile, che uno regga nel cammino spirituale facendo leva solo sulla forza di volontà. Non ci si può chiedere di fare cose alla lunga solo perché si devono o si vogliono fare.

    L’illusione intellettuale

    C’è il tipo tutto testa. Ritiene egli che conoscere Dio sia azione prevalentemente speculativa. Il suo credere equivale ad una formula.

    Si tratta di una strumentalizzazione di Dio per i propri scopo di rassicurazione.

    Non ha il senso della trascendenza e del mistero: presume di sapere tutto, conoscere tutto, spiegare tutto. E’ il tipo che non ha nessun tipo di problemi in quanto riduce tutto ai propri schemi di pensiero. Dio è incasellato.

    Non è capace di silenzio adorante: vuole capire e programmare; gli risulta difficilissimo abbandonarsi. La propria vita è tenuta stretta tra le mani,

    Dio viene ridotto ad una funzione di certezza teorica.

    Conclusione

    Siamo contaminati tutti da queste illusioni.

    Il rendersene conto non è un dramma ma l’inizio della liberazione.

    “Illudere” è etimologicamente “predenrsi gioco”: e nessuna vuol prendersi gioco né di Dio né di se stessi.

    Non vi fate illusioni, non ci si può prendere gioco di Dio” (Gal 6,7).

  • 08 Apr

    DEL VENIR MENO DELLA FEDE NELLA NOSTRA SOCIETA’

    E’ un momento storico che vede una fede difficile da vivere, una fede che viene scossa continuamente.

    Convinzioni semplici e familiari sono messe ormai apertamente in discussione: la società è ormai un cantiere febbrile. Non ci si riconosce più. E’ una prova dolorosa, un momento critico, che per chi sa leggere in profondità, diviene occasione per un autentica esperienza spirituale.

    L’illusione che il cristiano possa installarsi comodamente nella sua fede sta per essere smascherata. E questo cammino è maestro di purificazione.

    Sì, si parla della prova della fede, ma la vera prova non è quella prevista, programmata, letta sui libri. Quella vera  giunge all’improvviso, spietata. E’ quella che toglie la terra sotto i piedi.

    La mistica parla di purificazione, notte, come di quel momento in cui l’uomo è gettato a terra, il naso nella polvere con una preghiera ormai impraticabile, in un’angoscia senza fondo.

    La prova della fede nella cultura moderna

    Possiamo chiederci se oggi, molti cristiani non siano condotti per queste acque oscure. A volte nell’incapacità di scorgervi un’occasione di crescita spirituale.

    E’ un dato di fatto che il cristianesimo nel nostro occidente è andato incontro ad una usura culturale.

    Questo è un fattore di crisi culturale che si interseca con l’altro più individuale: la purificazione come fase  critica conosciuta nella dottrina spirituale.

    Una purificazione dall’illusione religiosa

    La prova della fede è una purificazione. Di che cosa?

    Fondamentalmente dell’illusione religiosa stessa: la sua funzione essenziale è quella di farmi passare dal mio Dio al Dio della rivelazione. E’ il momento della morte di quel Dio specchio che mi restituisce l’immagine ideale di me e /o delle mia paure.

    Nel momento della prova lo specchio s’infrange (sette anni di guai!): si è frantumata l’illusione. Cosa resta?

    Non resta più niente: il mio precedente cammino spirituale appare in tutta la sua fragilità, inconsistenza (pur nella sua necessità del portarmi fino a quel punto).

    Mi ritrovo sbattuto a terra, cieco, come Paolo folgorato sulla via di Damasco.

    La reazione illusoria è di credere che la purificazione si superi a sforzi di volontà: basta rimettersi più vigorosamente sulla giusta strada. Quello che il lavoro di purificazione mette giustamente in causa è questa pretesa di gestire secondo noi stessi, a nostro modo e sotto il nostro controllo, quel grande, profondo, irresistibile distacco al quale si deve pur arrivare da ciò che noi avevamo fatto di Dio.

    Quando la fede non dispone più di un linguaggio

    Dove va a finire questo passaggio  attraverso il fuoco della purificazione?

    Ci si aspetterebbe che esso venisse a rinverdire e riscaldare tutto il precedente linguaggio della fede. Ma il suo aspetto più temibile è che essa passi dentro tutto questo linguaggio distruggendolo: il linguaggio “cristiano” appare inabitabile.

    Da cosa dipende ciò?

    Dal fatto effettivo che la purificazione viene ad iscriversi in una cultura che fa apparire desueto, impraticabile, impossibile ciò che si riferisce al cristiano: scienza, politica, economia, filosofia, storia, etnologia, psicanalisi hanno questo effetto.

    Chi attraversa la purificazione viene a trovarsi assolutamente senza appoggio dalla parte della fede manifesta; e ciò può venire a confondersi, per la coscienza, con la scomparsa di ogni fede. E’ il buio totale dell’anima.

    Chi è nella prova vede una certa qual decomposizione del proprio cristianesimo: ed è questione di verità, perché pretendere diversamente sarebbe mentire, fare “come se…” sarebbe recitare, generosamente certo e con tutta la buona volontà, il personaggio che era il loro sul teatro della fede. Ma è venuto il vento a strappare tutti gli scenari, tutti i costumi e a lasciarli spogli sulla pubblica piazza.

    Credenti che si sentono del tutto soli

    Sarebbe necessario per chi attraversa la prova trovare un punto di riferimento e di dialogo.

    Capita piuttosto che l’ambiente cristiano sia pronto a lasciare che questa gente si allontani, quando addirittura non la spinga fuori. Basta infatti presupporre che “noi siamo cristiani”, facendo funzionare alla bene meglio il buon vecchio linguaggio perché gli altri siano esclusi. C’è la tentazione da parte nostra di accusare o di scusare, evitando così un autentico ascolto.

    Il fuoco della purificazione è anche la solitudine.

    Nella notte del Sabato santo

    Il primo effetto del “passare il fuoco” è senza dubbio quello di ricondurre duramente l’uomo che credeva di credere alla condizione umana. Tutte le sicurezze che non poggiavano su nulla crollano.

    Non è una crisi religiosa passeggera che lascia tutto il resto intatto, come quando si cambia l’impiego. La prova sta molto più alla radice, alla base dell’essere umano. La Parola coinvolge la totalità dell’uomo, non solo una parte. Non può esistere zona di ripiegamento, una zona franca in cui rifugiarsi per mettersi al sicuro.

    Una via di passaggio è indispensabile perché ne va della  propria salvezza.

    “Voglio aprire una porta. Questo voglio. Questo desidero. Invoco. Grido. Piango. Desidero.” (P. Neruda).

    E’ vivere con Cristo la spiritualità del grande silenzio del Sabato santo: “Rovina del Tempio, Sabato della de-creazione: è in sospeso la nascita dell’uomo. E’ solo se la croce ha questa forza (di distruzione, di morte), che l’altro versante, la vita, potrà essere l’amore senza misura e non la cosa pia alla quale sono tanto attaccati i cristiani” (Bellet)

    E’ facile cadere nel nulla: è importante cadere ai piedi del crocifisso disceso negli inferi, identificarsi col Cristo agonizzante: Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Padre nelle tue mani rimetto la mia anima!

    La posta in gioco è la genesi dell’uomo

    E’ un immenso lavoro sotterraneo, nascosto, una gestazione lenta opera della grazia. Per il momento non si ha da vivere che giorni grigi, uno dopo l’altro.

    Tutto è ridotto all’essenziale: all’avere il coraggio della verità, al non affermare di più di quel che non si possa e neppure di meno, lasciare davanti a sé le cose che non si comprendono più, aver cura degli altri, farsi prossimo. Non schiacciare gli altri sotto il peso delle nostre infelicità, non cadere nel lamento, nel risentimento, nell’asprezza.

    Un Vangelo in presa diretta, che va all’essenziale

    La fase della purificazione permette che si apra dolosamente un luogo in cui il Vangelo si ponga a contatto con la vita. Gesù, nei confronti della pratica religiosa sterile e asettica è stato quanto mai duro: ha spinto i suoi uditori fuori dal recinto religioso  del tempio rassicurante: “Pagate la decima della mente e del comino e dimenticate l’essenziale: la giustizia, la misericordia”.

    Chi è nella prova non è lontano dalla fede, è vicino alla sua essenziale e vitale posta in gioco. Avviene infatti una semplificazione estrema del messaggio evangelico: forse potrebbe apparire un impoverimento rispetto a tutto il contenuto di dottrina, costumi, riti… Ma ciò è necessario per ritrovare il nocciolo: che non è fatto di rigidezza e chiarezza che si attenderebbe, può darsi anzi che sia semplicissimo, balbuziente, parziale, momentaneo.

    Allora lungi da ridurre la Paola a quel che noi ne diciamo, si resta in ascolto, disposti a che avvenga in noi il cammino che non più noi costruiamo.

    Questo rapporto è l’essenziale: perdiamo ad un tempo la nostra bella “soggettività” individuale, chiusa in se stessa e in quel che crede e il bell’ordine oggettivo sempre completo, immobile e in verità disponibile al nostro controllo.

    Il luogo della fede non è più la soggettività o l’oggettività (così complici): ma è la relazione stessa, la fede come tale. E’ vuoto e ricerca nello stesso tempo.

    La lunga pazienza delle gestazioni

    Che occorre fare? Aderire alle cose cristiane così come sono, riprendere il linguaggio comune e abituale, ritornare alle pratiche, ritornare all’ambiente cristiano?

    Tanti lo faranno, tanti altri no. Per questi la morte della cultura cristiana è in essi: si sono resi conto che il rianimare un cadavere non è affatto il risveglio della resurrezione.

    Sarà indispensabile per loro imparare la pazienza: forse fino ad accettare di non vedere nella loro vita mortale prender forma questo stile di pensiero, di pratica di poetica e di comunità, che è il loro voto più profondo.

    Spesso agli altri cristiani questa pazienza manca: si vuole una soluzione immediata, scordando che la gestazione, la nascita non si fanno per decreto, non basta nemmeno obbedire.

    Attenzione! Per quel che sa di prova e crocifissione, si può essere tentati di respingere questa esperienza, in cui la fede è come bruciata al fuoco di una esigenza implacabile di verità, senza che si sia padroni di quel che ne uscirà. Si può respingerla in sé, respingerla negli altri… E sarebbe, naturalmente in nome della fede, per mantenerla, difenderla, confortarla presso i deboli, farla parlare alto e forte. Ma la rigidezza di questa fede così sicura di se stessa, la sua intolleranza, la sua durezza verso coloro che sono nella prova del fuoco, danno da pensare alla segreta paura che l’abita. Credo di vedere o capire, qui o là, una sicurezza di questa specie; temo che prepari solo duri risvegli; nel frattempo pratica con vivacità l’ingiustizia verso coloro che dovrebbe aiutare, poiché la fede senza amore è una fede morta.

  • 04 Apr

    Emergenza educativa e tracce di percorsi educativi

    Dal DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

    Conferenza Episcopale Italiana

    61a ASSEMBLEA GENERALE

    Roma, 24 -28 maggio 2010

    Corroborati dallo Spirito, in continuità con il cammino indicato dal Concilio Vaticano II, e in particolare con gli orientamenti pastorali del decennio appena concluso, avete scelto di assumere l’educazione quale tema portante per i prossimi dieci anni.

    Tale orizzonte temporale è  proporzionato alla radicalità e all’ampiezza della domanda educativa.  E mi sembra necessario  andare fino alle radici profonde di questa emergenza per trovare anche le risposte adeguate a questa sfida.

    Io ne vedo soprattutto due.

    Una radice essenziale consiste -mi sembra -in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.

    In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo  dall’altro, l’”io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la  comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’”io” a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo “tu” e “noi” nel quale si apre l’”io” a se stesso.

    Quindi un primo punto mi sembra questo: superare questa falsa idea di autonomia dell’uomo, come un “io” completo in se stesso, mentre diventa  “io” anche nell’incontro collettivo con il “tu” e con il “noi”.

    L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano.

    La prima fonte dovrebbe essere la natura seconda la Rivelazione.

    Ma la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso.

    La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o -si dice -forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni.

    E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro.

    Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri.

    E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare.

    Così, in questo “concerto” – per così dire – tra creazione decifrata nella Rivelazione, concretizzata nella storia culturale che sempre va avanti e nella quale noi ritroviamo sempre più il linguaggio di Dio, si aprono anche le indicazioni per un’educazione che non è imposizione, ma realmente apertura dell’”io” al “tu”, al “noi” e al “Tu” di Dio.

    Quindi le difficoltà sono grandi: ritrovare le fonti, il linguaggio delle fonti, ma, pur  consapevoli del peso di queste difficoltà, non possiamo cedere alla sfiducia e alla rassegnazione.  Educare non è mai stato facile, ma non dobbiamo arrenderci: verremmo meno al mandato che il  Signore stesso ci ha affidato, chiamandoci a pascere con amore il suo gregge.

    Risvegliamo piuttosto nelle nostre comunità quella passione educativa, che è una passione dell’”io” per il “tu”, per il “noi”, per Dio, e che non si risolve in una didattica, in un insieme di tecniche e nemmeno nella trasmissione di principi aridi.

    Educare è formare le nuove generazioni, perché sappiano entrare in rapporto con il mondo, forti di una memoria significativa che non è solo occasionale, ma accresciuta dal linguaggio di Dio che troviamo nella natura e nella Rivelazione, di un patrimonio interiore condiviso, della vera sapienza che, mentre riconosce il fine trascendente della vita, orienta il pensiero, gli affetti e il giudizio.

    I giovani portano una sete nel loro cuore, e questa sete è una domanda di significato e di rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita. È desiderio di un futuro, reso meno incerto da una compagnia sicura e affidabile, che si accosta a ciascuno con delicatezza e rispetto, proponendo valori saldi a partire dai quali crescere verso traguardi alti, ma raggiungibili.

    La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II, “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”  (Gaudium et spes, 41).

    L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi  sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.

    Il compito educativo, che avete assunto come prioritario, valorizza segni e tradizioni, di  cui l’Italia è così ricca. Necessita di luoghi credibili: anzitutto la famiglia, con il suo ruolo peculiare e irrinunciabile; la scuola, orizzonte comune al di là delle opzioni ideologiche; la parrocchia, “fontana del villaggio”, luogo ed esperienza che inizia alla fede nel tessuto delle relazioni quotidiane.

    In ognuno di questi ambiti resta decisiva la qualità della testimonianza, via privilegiata della missione ecclesiale. L’accoglienza della proposta cristiana passa, infatti, attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia. In un tempo nel quale la grande tradizione del passato rischia di rimanere lettera morta, siamo chiamati ad affiancarci a ciascuno con disponibilità sempre nuova, accompagnandolo nel cammino di scoperta e assimilazione personale della verità. E facendo questo anche noi possiamo riscoprire in modo nuovo le realtà  fondamentali.

    La volontà di promuovere una rinnovata stagione di evangelizzazione non nasconde le  ferite da cui la comunità ecclesiale è segnata, per la debolezza e il peccato di alcuni suoi membri.  Questa umile e dolorosa ammissione non deve, però, far dimenticare il servizio gratuito e appassionato di tanti credenti, a partire dai sacerdoti. L’anno speciale a loro dedicato ha voluto costituire un’opportunità per promuoverne il rinnovamento interiore, quale condizione per un più  incisivo impegno evangelico e ministeriale. Nel contempo, ci aiuta anche a riconoscere la testimonianza di santità di quanti – sull’esempio del Curato d’Ars – si spendono senza riserve per educare alla speranza, alla fede e alla carità. In questa luce, ciò che è motivo di scandalo,  deve tradursi per noi in richiamo a un “profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione, di imparare da una parte il perdono, ma anche la necessità della giustizia”  (Benedetto XVI, Intervista ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010).

    Cari Fratelli, vi incoraggio a percorrere senza esitazioni la strada dell’impegno educativo. Lo Spirito Santo vi aiuti a non perdere mai la fiducia nei giovani, vi spinga ad andare loro incontro, vi porti a frequentarne gli ambienti di vita, compreso quello costituito dalle nuove tecnologie di comunicazione, che ormai permeano la cultura in ogni sua espressione. Non si tratta di adeguare il Vangelo al mondo, ma di attingere dal Vangelo quella perenne novità, che consente in ogni tempo di trovare le forme adatte per annunciare la Parola che non passa, fecondando e servendo l’umana esistenza. Torniamo, dunque, a proporre ai giovani la misura alta e trascendente della vita, intesa come vocazione: chiamati alla vita consacrata, al sacerdozio, al  matrimonio, sappiano rispondere con generosità all’appello del Signore, perché solo così  potranno cogliere ciò che è essenziale per ciascuno.

    La frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni non può, infatti, che stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.  Anche in Italia la presente stagione è marcata da un’incertezza sui valori, evidente nella fatica di tanti adulti a tener fede agli impegni assunti: ciò è indice di una crisi culturale e spirituale, altrettanto seria di quella economica. Sarebbe illusorio – questo vorrei sottolinearlo – pensare di contrastare l’una, ignorando l’altra.  Per questa ragione, mentre rinnovo l’appello ai responsabili della cosa pubblica e agli imprenditori a fare quanto è nelle loro possibilità per  attutire gli effetti della crisi occupazionale, esorto tutti a riflettere sui presupposti di una vita buona e significativa, che fondano quell’autorevolezza che sola educa e ritorna alle vere fonti dei valori. Alla Chiesa, infatti, sta a cuore il bene comune, che ci impegna a condividere risorse economiche e intellettuali, morali e spirituali, imparando ad affrontare insieme, in un contesto di reciprocità, i problemi e le sfide del Paese.

  • 03 Apr

    LA DECISIONE DI METTERSI IN CAMMINO:

    LA CONVERSIONE

    Se nel mio cuore desidero incontrare Dio devo mettermi nella disponibilità a lasciare, a cambiare ciò che ingombra, appesantisce, ostacola: in una parola a convertirmi.

    Conversione è processo lento, discreto, faticoso che ha luogo lungo il nostro cammino verso Dio, scoperto sempre più come realtà trascendente.

    Conversione dunque è cammino, condizione abituale: non può essere ridotto ad un momento singolo e limitato nel tempo. “Disse un anziano: C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!” (Detti).

    Si tratta di conservare nel cammino la spinta alla fedeltà e alla costanza, superando le facili tentazioni dell’arrestarsi nella comodità di una determinata situazione, o in quella che gli antichi definivano come aurea mediocritas.

    (Nella teologia si parla di una duplice conversione:

    una prima è data dal proposito di dedicarsi al servizio di Dio

    una seconda è data dal donarsi interamente incamminandosi nella via della santità.

    Molti si fermano solo alla prima)

    Perché è difficile convertirsi? Perché è facile subito riternersi nella categoria dei giusti che non più necessitano di conversione? Quali sono le componenti della conversione?

    Conversione e trascendenza

    Impegnati come siamo a divenire sempre più esperti sulle cose di Dio, va a finire che ci abituiamo ad esse: non siamo più capaci di meravigliarci per ciò che Dio compie in noi e attorno a noi.

    Facciamo l’abitudine alla sua Parola di modo che essa non ci provoca più. Non sentiamo perciò il bisogno di cambiare.

    Abbiamo ridotto Dio a nostra misura, in modo che Egli non possa avanzare più di tante pretese.

    La vera conversione smantella questa presunzione. Il cammino di chi si converte inizia con la scoperta che Dio è al di là delle cose, è più grande dei nostri progetti e ideali. E’ radicalmente diverso dalle immagini che ci siamo fatti di lui. Egli ci trascende infinitamente: “Le mie vie non sono le vostre vie, i miei pensieri non sono i vostri pensieri” (Is).

    Quando si percepisce realmente Dio come il Totalmente Altro questo di conseguenza modifica il nostro cammino, l’idea di noi stessi, del nostro rapporto con Dio. Di fronte a questo Dio trascendente si scopre che l’unica risposta vera è la trascendenza di sé stessi e del proprio mondo. Ossia la conversione: un processo di trasformazione della propria storia.

    “Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per lui: Dio è così grande, c’è una tale differenza tra Dio e tutto ciò che non è lui” (Ch de Foucauld)

    “Tutto io reputo una perdita…”

    La trascendenza divina illumina la vacuità e inconsistenza e i propri dei del passato:

    criteri di azione,

    gerarchie di valori

    interpretazione della realtà

    attaccamenti

    ….

    Tutto può funzionare nella nostra vita come idolo!

    Quanto più entriamo in contatto con il vero Dio, tanto più diventiamo sensibili a tutto ciò che da lui in qualche modo ci allontana ( è questa l’esperienza di tutti i santi: più entravano nel mistero più avevano coscienza del proprio peccato e del bisogno di conversione)

    Non si tratta qui di perfezionismo morale, Né di sforzi di volontà. E’ conseguenza logica dell’esperienza di Dio nella propria vita.

    Quando Dio si rivela tutto il resto perde valore o assume un valore nuovo.

    E’ l’esperienza travolgente di Saulo: “Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura…” (Fil 3,7-8).

    C’è un momento del nostro cammino in cui “le cose di prima” devono sembrarci spazzatura: se questo non avviene corriamo il rischio di non convertirci mai, e di non rinascere a nuova vera vita.

    Perché le cose di prima devono essere considerate “spazzatura”? “A motivo di Gesù Cristo” risponde Paolo.

    A questo motivo fondamentale potremmo aggiungerne un altro più terra: perché una falsa impostazione del proprio cammino alla fine risulta frustrante anche nei riguardi della gratificazione dei nostri bisogni.

    Quando si vive in funzione dei propri bisogni scatta inevitabilmente un conflitto, la gratificazione di certi bisogni è un pozzo senza fondo: non sazia la fame anzi l’aumenta.

    Continuando a vivere in questa direzione ci si fa del male, si vive in modo sconclusionato: è importante arrivare a questa constatazione.

    Quando ci si sente traditi da ciò che sembrava prometterci felicità, si perde il gusto per quanto prima attraeva irresistibilmente, si comincia a provare nausea e disprezzo per le vecchie abitudini: le cose di prima diventano spazzatura; un tempo desiderate ora sono considerate nullità. “La trasformazione non è solo un sentimento morale di colpa, ma la consapevolezza del nostro desiderio insaziabile, di quel desiderio che è in noi come un vuoto che diviene richiamo, come l’incavo di una pienezza sconosciuta” (O. Clement).

    Conversione è sentire ormai impellente il bisogno di sbarazzarsi di una falsa struttura di impostazione del proprio cammino.

    La provocazione del Trascendente e l’esperienza fallimentare di un certo stile di vita hanno creato una esigenza profonda di cambiamento. “Il pentimento – la metanoia – nel suo senso più forte deve essere portato alle radici di tutte le facoltà mentali, volitive ed affettive, fino al centro dell’essere intero: corpo e anima. Si tratta di una seconda nascita” (P. Evdokimov)

    E’ una fase certamente negativa, ma d’altra parte il cammino di conversione non è una cura di bellezza spirituale, un leifting, non è un riaggiustamento alla bene meglio, ma è trasformazione, rinascita che comporta inevitabilmente una morte: “distrugge una vita e ne produce un’altra… noi lasciamo la tunica di pelle per rivestire un mantello regale” (N. Cabasilas)

  • 01 Apr

    «BEATA TE CHE HAI CREDUTO ALLA PAROLA »

    Maria, la piena di fede


    La lettura della lettera vivente che è Maria aiuta a scoprire anche qual è lo « stile » di Dio.  Ella è l’esempio vivente del modo di agire di Dio nella storia della salvezza. «Non c’è nulla – scriveva Tertulliano – che sconcerti tanto la mente umana, quanto la semplicità delle opere divine che si vedono in azione, paragonata alla magnificenza degli effetti che in esse si ottengono… Meschina incredulità umana, che nega a Dio le sue proprietà, che sono semplicità e potenza!» Egli alludeva alla grandiosità degli effetti del battesimo e alla semplicità dei mezzi e dei segni esterni, che si riducono a un poco di acqua e ad alcune parole. Al contrario – notava egli – di ciò che avviene nelle imprese umane e idolatriche, dove più grande è il risultato che si vuole ottenere e l’impressione che si vuole fare, più deve essere grande l’apparato, la messa in scena e la spesa.

    Cosi è stato di Maria e della venuta nel mondo del Salvatore: Maria è l’esempio di questa sproporzione divina tra ciò che si vede all’estemo e ciò che avviene dentro.  Che cos’era Maria all’esterno, nel suo villaggio?  Niente di appariscente.  Probabilmente, per i suoi parenti e compaesani, ella era semplicemente «la Maria», una fanciulla modesta, tanto a modo ma niente di eccezionale.  Bisogna ricordarsi a ogni istante di questa verità per non correre il rischio di volatizzare la figura di Maria, proiettandola – come hanno fatto spesso l’iconografia e la pietà popolari – in una dimensione eterea e disincarnata, proprio lei che è la madre del Verbo incarnato!  Bisogna tenere sempre presenti, parlando di lei, le due caratteristiche dello stile di Dio che sono, abbiamo visto, semplicità e magnificenza.  In Maria, la magnificenza della grazia e della vocazione, convive con la più assoluta semplicità e concretezza.

    « Eccomi, sono la serva dei Signore… »

    Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l’accolse con grande gioia e, «piena di Spirito Santo», esclamò: Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc 1, 45).  L’evangelista san Luca si serve dell’episodio della Visitazione come di un mezzo per portare alla luce ciò che si era compiuto nel segreto di Nazaret e che solo nel dialogo con un’ínterlocutrice poteva essere manifestato e assumere un carattere oggettivo e pubblico.

    La cosa grande che è avvenuta a Nazaret, dopo il saluto dell’angelo, è che Maria «ha creduto» ed è diventata cosi «Madre del Signore».  Non c’è dubbio che questo aver creduto si riferisce alla risposta di Maria all’angelo: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto (Lc 1,38).  Con queste poche e semplici parole si è consumato il più grande e decisivo atto di fede nella storia del mondo.  Questa parola di Maria rappresenta « il vertice di ogni comportamento religioso davanti a Dio, poiché essa esprime, nella maniera più elevata, la passiva disponibilità unita all’attiva prontezza, il vuoto più profondo che si accompagna alla più grande pienezza». Con questa sua risposta – scrive Origene – è come se Maria dicesse a Dio: « Eccomi, sono una tavoletta da scrivere: lo Scrittore scriva ciò che vuole, faccia di me ciò che vuole il Signore di tutto ». Egli paragona Maria alla tavoletta cerata che si usava, al suo tempo, per scrivere.  Maria, diremmo noi oggi, si offre a Dio come una pagina bianca, sulla quale egli può scrivere tutto ciò che vuole.

    Anche Maria pose una domanda all’angelo: Come è possibile?  Non conosco uomo (Lc 1, 34), ma con uno spirito ben diverso da Zaccaria.  Ella non chiede una spiegazione per capire, ma per sapere come eseguire la volontà di Dio.  Chiede come dovrà comportarsi, che cosa dovrà fare, visto che ancora non conosce uomo.  In tal modo ci mostra che, in certi casi, non è lecito voler capire a tutti i costi la volontà di Dio, o il perché di certe situazioni apparentemente assurde, ma che è lecito invece chiedere a Dio la luce e l’aiuto per compiere tale volontà.

    Il « fiat » di Maria resta dunque pieno e incondizionato.  Viene spontaneo mettere a confronto questo « fiat » pronunziato da Maria, con il « fiat » che risuona in altri momenti cruciali della storia della salvezza: con il « fiat » di Dio, all’inizio della creazione, e il « fiat » di Gesù nella redenzione.  Tutti e tre esprimono un atto di volontà, una decisione.  Il primo, cioè « Fiat lux! » è il « sì» divino di un Dio: divino nella natura, divino nella persona che lo pronuncia; il secondo, il « fiat » di Gesù nel Getsemani, è l’atto umano di un Dio: umano perché pronunciato secondo la volontà umana, divino perché tale volontà appartiene alla persona del Verbo; il « fiat » di Maria è il « sì » umano di una creatura umana.  In esso tutto prende valore dalla grazia.  Prima del «Sì» decisivo di Cristo, tutto quello che c’è di consenso umano all’opera della redenzione è espresso da questo « fiat » di Maria. «In un istante che non tramonta mai più e che resta valido per tutta l’eternità, la parola di Maria fu la parola dell’umanità e il suo “sì”, l’amen di tutta la creazione al “sì” di Dio» (K.  Rahner).  In lei è come se Dio interpellasse di nuovo la libertà creata, offrendole una possibilità di riscatto. E’ questo il senso profondo del parallelismo: Eva-Maria, caro ai Padri e a tutta la tradizione. « Eva, quand’era ancora vergine, accolse la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte.  Maria, invece, la Vergine, accogliendo con fede e gioia il lieto annuncio recato dall’angelo Gabriele, rispose: Si faccia di me secondo la tua parola» «Ciò che Eva aveva legato con la sua incredulità, Maria l’ha sciolto con la sua fede».

    Dalle parole di Elisabetta: «Beata colei che ha creduto», si vede come già nel Vangelo, la maternità divina di Maria non è intesa soltanto come maternità fisica, ma molto più come maternità spirituale, fondata sulla fede.  Su ciò si basa sant’Agostino quando scrive: « La Vergine Maria partorì credendo, quel che aveva concepito credendo… Dopo che l’angelo ebbe parlato, ella, piena di fede (fide piena), concependo Cristo prima nel cuore che nel grembo, rispose: Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola».  Alla pienezza di grazia da parte di Dio, corrisponde la pienezza della fede da parte di Maria; al « gratia plena », il «fide plena ».

    Sola con Dio

    A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e perfino scontato.  Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia!  Non era quello che ogni fanciulla ebrea sognava di essere?  Ma questo è un modo di ragionare assai umano e canale.

    La vera fede non è mai un privilegio o un onore, ma è sempre un po’ un morire, e così fu soprattutto la fede di Maria in questo momento.  Anzitutto, Dio non inganna mai, non strappa mai alle creature dei consensi surrettiziamente, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro.  Lo vediamo in tutte le grandi chiamate di Dio.  A Geremia preannuncía: Ti muoveranno guerra (Ger 1, 19) e di Saulo, dice ad Anania: Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome (At 9, 16).  Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente?  Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, ella ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sarebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati.  Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l’anima.

    Ma già sul piano semplicemente umano, Maria viene a trovarsi in una totale solitudine.  A chi può spiegare ciò che è avvenuto in lei?  Chi la crederà quando dirà che il bimbo che porta nel grembo è «opera dello Spirito Santo»?  Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.  Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all’ingresso della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s).

    Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò ‘ il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio realel Carlo Carretto, nel suo libretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria.  Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell’accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane.  Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria.  Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: «E stata sgozzata».  Si era scoperta incinta prima del matrimonio e l’onore della famiglia esigeva quella fine.  Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazaret, agli ammiccamentí, capi la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede.

    Se credere è «inoltrarsi per quella strada dove tutti i cartelli indicatori dicono: «Indietro, indietro! »; se è come « venirsi a trovare in mare aperto, là dove ci sono settanta stadi di profondità sotto di te»; se credere è «compiere un atto tale che per esso uno si viene a trovare completamente gettato in braccio all’Assoluto » (sono tutte irnmagini del filosofo Kierkegaard), allora non c’è dubbio che Maria è stata la credente per eccellenza, di cui non ci potrà essere mai l’eguale.  Ella si è venuta a trovare davvero gettata completamente in braccio all’Assoluto.  Ella è l’unica ad aver creduto « in situazione di contemporaneità », cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia.  Ha creduto in totale solitudine.  Gesù disse a Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.

    Maria, d’altra parte, ha creduto subito, all’istante; non ha esitato, non ha sospeso il giudizio.  Al contrario, ha impegnato subito tutta se stessa.  Ha creduto che avrebbe concepito un figlio per opera dello Spirito Santo.  Non ha detto tra sé: «Bene, ora stiamo a vedere cosa succederà; il tempo dirà se questa strana promessa è vera e se viene da Dio»; non ha detto tra sé: «Se son rose fioriranno… ». Questo è ciò che ogni persona avrebbe detto, se avesse dato ascolto al buon senso e alla ragione.  Maria no; Maria credette.  Ché se non avesse creduto, il Verbo non si sarebbe fatto carne in lei ed ella, di lì a poco, non sarebbe stata al terzo mese, né Elisabetta avrebbe salutato in lei «la Madre del Signore».

    Di Abramo, in una situazione simile, quando anche a lui fu promesso un figlio benché in tarda età, la Scrittura dice, quasi con aria di trionfo e di stupore: Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia (Gn 15, 6). Maria ebbe fede in Dio e ciò le fu accreditato come giustizia.

    San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo «sì» con gioia.  Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con «fiat» o con « si faccia», nell’originale, è all’ottativo (génoito); esso non esprime una semplice rassegnata accettazione, ma vivo desiderio.  Come se dicesse: «Desidero anch’io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole».  Davvero, come diceva sant’Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.

    Ma Maria non disse «fiat» che è parola latina; non disse neppure « génoito » che è parola greca.  Che cosa disse allora?  Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più da vicino a questa espressione?  Cosa diceva un ebreo quando voleva dire « così sia »? Diceva «amen! » Se è lecito cercare di risalire, con pia riflessione, all’’ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria – o almeno alla parola che c’era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, questa deve essere stata proprio la parola « amen ». Amen – parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza – era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio.  Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si legge « fiat, fiat » (nella versione dei Settanta: génoito, génoito), l’originale ebraico, conosciuto da Maria, porta: Amen, amen! Con I’« amen » si riconosce quel che è stato detto come parola ferma, stabile, valida e vincolante.  La sua traduzione esatta quando è risposta alla parola di Dio, è questa: «Così è e così sia!».  Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette.

    In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: « Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te … » (cf Mt 11, 26).  Egli anzi è l’Amen personificato: Così parla l’Amen… (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro « amen » pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor 1, 20).  Come il « fiat » di Maria precorre quello di Gesù nel Getsemani, così il suo « amen » precorre quello del Figlio.  Anche Maria è un « amen » personificato a Dio.

    Un sì nuziale

    La bellezza dell’atto di fede di Maria sta nel fatto che esso è il « si » nuziale della sposa allo sposo, pronunciato in totale libertà.  Maria è il segno e la primizia di quelle nozze tra Dio e il suo popolo, che i profeti avevano preannunciato dicendo: E avverrà in quel giorno… A lei si applicano perciò le parole del profeta: Ti farò mia sposa per sempreTi fidanzerò con me nella fedeltà (Os 2, 21 s).  La fede è l’anello nuziale di queste nozze e ad essa corrisponde, da parte di Dio, la fedeltà.

    Il « sì» di Maria non è un atto solo umano, ma anche divino, perché suscitato, nelle profondità dell’anirna di Maria, dallo Spirito Santo stesso.  Di Gesù è scritto che «con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio» (cf Eb 9, 14).  Anche Maria offrì se stessa a Dio nello Spirito Santo, cioè mossa da lui.  Lo Spirito Santo che le è promesso dafl’angelo, con le parole: Lo Spirito Santo scenderà su di te…. non le è promesso solo per concepire Cristo nel suo corpo, ma anche per concepirlo, per  fede, nel suo cuore.  Se ella è stata « ricolmata di grazia», lo è stata anzitutto per questo: per poter accogliere con fede il messaggio che stava per ricevere.  Se senza lo Spirito Santo non possiamo neppure dire: Gesù è il Signore! (cf 1 Cor 12, 3), che pensare di questo « fiat » di Maria dal quale dipendeva, in un certo senso, il farsi uomo del Verbo e l’esistenza stessa del Signore?  Così si compiono sempre le grandi obbedienze, a partire da quella di Cristo: Dio infonde, mediante lo Spirito Santo, nel cuore della creatura, la carità, e la carità spinge la creatura a fare ciò che Dio vuole.  La carità diventa legge, la legge dello Spirito, Dio non impone la sua volontà, ma dona la carità. È stato detto a ragione che l’amore « a nullo amato amar perdona» (Dante Ahghieri), cioè non permette, a chi è amato, di non riamare a sua volta.  Questo spiega l’arrendersi di Maria; ella si sente amata da Dio ed è questo amore che la spinge a darsi a Dio con tutto il suo essere.  Un’esperienza simile troviamo nella vita di santa Teresa del Bambin Gesù, nel momento di offrirsi a Dio per sempre: « Fu – scrive – un bacio d’amore: mi sentivo amata e dicevo: Ti amo, mi do a te per sempre».

    Eppure il « fiat » di Maria fu un atto libero, anzi il primo atto di vera libertà che ci sia stato nella storia del mondo, poiché vera libertà non è quella di fare o non fare il bene, ma quella di fare liberamente il bene; libertà di obbedire liberamente, non libertà di obbedire o non obbedire a Dio. «Non ci fu forse una libera volontà in Cristo e non fu essa tanto più libera quanto meno poteva servire al peccato?».

    Mossa da Spirito Santo, parlò Maria e disse « si» a Dio.  Per questo, anche il suo «si» è un atto divino e umano insieme; umano per natura, divino per grazia. La fede di Maria è dunque un atto d’amore e di docilità, libero anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l’incontro tra la grazia e la libertà.

    È questa la vera grandezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cristo stesso.  Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo.  La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Ehsabetta la proclama invece beata perché ha creduto (pisteúsasa). La donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: Beati piuttosto – risponde – coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano.  Gesù aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la vera grandezza di sua Madre.  Chi è infatti che «custodiva» le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che «custodiva tutte le parole nel suo cuore»? (cf Lc 2, 19.51).

    Non dovremmo però concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l’impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna.  Ci sfuggirebbe così l’essenziale.  Le opere di Dio seguono una logica molto diversa da quella che noi siamo soliti immaginare.  Non si impiantano stabilmente in un soggetto libero e sottoposto al divenire e alla fede, in modo meccanico, una volta per sempre, con una promessa iniziale, dopo la quale tutto diventa semplice e chiaro.  Quello che era chiaro in un istante all’inizio, perché lo Spirito lo rendeva tale, può non esserlo più in seguito; la fede può essere messa alla prova dal dubbio; non dal dubbio su Dio, ma su di sé: «Avrò capito bene?  Non avrò frainteso?  E se mi fossi ingannata?  E se non fosse stato Dio a parlare? ». La misteriosità dell’agire di Dio resta tale e prima di rassegnarci a vivere nel mistero, quanta agonia bisogna passare!

    Quante volte, in seguito afl’Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall’apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell’Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia!  Quante volte dovette essere Giuseppe – proprio lui! – a rassicurarla e tranquillizzarla, dicendole che non aveva peccato, che non c’era colpa in lei, che era innocente e non si era ingannata; a ripeterle, insomma, quello che lui stesso aveva appreso dall’angelo in sogno: « Non temere… quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1, 20).

    Il Concilio Vaticano Il ci ha fatto un grande dono, affermando che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha «progredito» nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa.  Camminare nella fede, per Maria, come vediamo, in piccolo, in certe anime che Dio chiama per vie speciali, comporta questo martirio della coscienza di non avere altra difesa contro l’evidenza, che la parola di Dio una volta ascoltata dentro e in seguito risuscitata solo dall’esterno, tramite intermediari umani.  Giuseppe svolse con Maria, in certi momenti, un ruolo simile a quello che deve svolgere, in questi casi, il direttore di coscienza, o semplicemente un buon papà spirituale, che è quello di custodire e ripetere, a ogni crisi, la certezza donatagli un tempo da Dio, credendo e sperando, anche lui, contro ogni evidenza.

    Se Gesù fu tentato, sarebbe veramente strano che Maria che gli è stata così vicina in tutto – non lo sia stata.  La fede, dice san Pietro, si prova nel crogiolo (cf 1 Pt 1 7) e l’Apocalisse dice che « il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire » e che «si avventò contro la donna che aveva partorito» (cf Ap 12, 4.13). E’ vero che qui la donna che viene assalita dal drago direttamente indica la Chiesa.  Ma come potrebbe Maria dirsi ancora « figura della Chiesa», se non avesse sperimentato in alcun modo, lei per prima, questo aspetto così rilevante nella vita della Chiesa che è la lotta e la tentazione da parte del Maligno?  Anche Maria, come Cristo, è stata «provata in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4, 15).  Escluso solo il peccato!

    II

    Nella scia di Maria

    Come la scia di un bel vascello va allargandosi fino a sparire e a perdersi all’orizzonte, ma comincia con una punta, che è la punta stessa del vascello, così è dell’immensa scia dei credenti che formano la Chiesa.  Essa comincia con una punta e questa punta è la fede di Maria, il suo « fiat ». In tutte le altre cose nella preghiera, nella sofferenza, nell’umiltà, nella stessa carità la punta o l’inizio non può essere che Gesù Cristo, che è la primizia e il capo da cui tutto il corpo si sviluppa.  Quando si risale il grande fiume della preghiera che scorre nella Chiesa, chi troviamo, giunti alle sue sorgenti?  Troviamo Gesù che prega, Gesù che affida ai discepoli la sua preghiera con il «Padre nostro ». Non così quando si risale l’altro grande fiume che è la fede.  Prima ancora della fede degli apostoli, ci fu la fede di Maria.

    Per il solo fatto di credere, noi ci troviamo dunque nella scia di Maria e vogliamo ora approfondire cosa significa seguire davvero la sua scia.  Nel leggere ciò che riguarda la Madonna nella Bibbia, la Chiesa ha seguito, fin dal tempo dei Padri, un criterio che si può esprimere cosi: «Maria, vel Ecdesia, vel anima», Maria, ossia la Chiesa, ossia l’anima.  Il senso è che quello che nella Scrittura si dice specialmente di Maria, va inteso universalmente della Chiesa e ciò che si dice universalmente della Chiesa va inteso singolarmente per ogni anima credente.  Attenendoci anche noi a questo principio, vediamo ora ciò che la fede di Maria ha da dire prima alla Chiesa nel suo insieme e poi a ciascuno di noi, cioè a ogni singola anima.  Come abbiamo fatto anche per la grazia, mettiamo in luce prima le implicazioni ecclesiali o teologiche della fede di Maria e poi quelle personali o ascetiche.  In questo modo, la vita della Madonna non serve solo ad accrescere la nostra privata devozione, ma anche la nostra comprensione profonda della Parola di Dio e dei problemi della Chiesa e questo deve fare accettare con gioia anche la difficoltà che si può incontrare in questa prima applicazione.

    Anzitutto Maria ci parla dell’importanza della fede.  Non c’è suono, né musica là dove non c’è un orecchio capace di ascoltare, per quanto risuonino nell’aria melodie e accordi sublimi. Non c’è grazia, o almeno la grazia non può operare, se non trova la fede ad accoglierla.  Come la pioggia non può far germogliare nulla finché non trova una terra che l’accoglie, così la grazia se non trova la fede. E’ per la fede che noi siamo « sensibili » alla grazia.  La fede è la base di tutto; è la prima e la più «buona » delle opere da compiere.  Opera di Dio è questa, dice Gesù: che crediate (cf Gv 6, 29).  La fede è così importante perché è l’unica che mantiene alla grazia la sua gratuità.  Non cerca di invertire le parti, facendo di Dio un debitore e dell’uomo un creditore.  Per questo essa è tanto cara a Dio che fa dipendere dalla fede praticamente tutto, nei suoi rapporti con l’uomo.

    Grazia e fede: sono posti, in tal modo, i due pilastri della salvezza; sono dati afl’uomo i due piedi per camminare o le due ali per volare.  Non si tratta però di due cose parallele, quasi che da Dio venisse la grazia e da noi la fede, e la salvezza dipendesse così, in parti eguali, da Dio e da noi, dalla grazia e dalla libertà.  Guai se uno pensasse: la grazia dipende da Dio, ma la fede dipende da me; insieme, io e Dio facciamo la salvezza!  Avremmo fatto di nuovo, di Dio, un debitore, uno che dipende in qualche modo da noi, e che deve condividere con noi il merito e la gloria.  San Paolo toglie ogni dubbio quando dice: Per grazia siete salvi mediante la fede e ciò (cioè il credere, o, più globalmente, l’essere salvi per grazia mediante la fede, che è la stessa cosa) non viene da voi ma è dono di Dio perché nessuno possa vantarsene (Ef 2, 8 s).  Anche in Maria, abbiamo visto, l’atto di fede fu suscitato dalla grazia dello Spirito Santo.

    L’accento è sul fatto di credere, più che sulle cose credute.  Ma la fede di Maria è anche quanto mai oggettiva, comunitaria.  Ella crede al Dio dei Padri, al Dio del suo popolo. Riconosce nel Dio che le si rivela, il Dio delle promesse, il Dio di Abramo e della sua discendenza.  Ella si inserisce umanamente nella schiera dei credenti, diventa la prima credente della nuova alleanza, come Abramo era stato il primo credente dell’antica alleanza.  Il Magnificat è tutto pieno di questa fede basata sulle Scritture e di riferimenti alla storia del suo popolo.  Il Dio di Maria è un Dio dai tratti squisitamente biblici: Signore, Potente, Santo, Salvatore.  Maria non avrebbe creduto all’angelo, se le avesse rivelato un Dio diverso, che ella non avesse potuto riconoscere come il Dio del suo popolo Israele.  Anche esternamente, Maria si adegua a questa fede.  Si assoggetta infatti a tutte le prescrizioni della legge; fa circoncidere il Bambino, lo presenta al tempio, si sottopone lei stessa al rito della purificazione, sale a Gerusalemme per la Pasqua.

    Ora tutto questo è per noi di grande insegnamento.  Anche la fede, come la grazia, è andata soggetta, lungo i secoli, a un fenomeno di analisi e di frantumazione, per cui si hanno ínnumerevoli specie e sottospecie di fede. I fratelli protestanti, per esempio, valorizzano di più quel primo aspetto, soggettivo e personale, della fede. « Fede – scrive Lutero – è una fiducia viva e audace nella grazia di Dio»; è una «ferma fiducia».   In alcune correnti del protestantesimo, come nel Pietismo, dove questa tendenza è portata all’estremo, i dogmi e le cosiddette verità di fede non hanno quasi alcuna rilevanza.  L’atteggiamento interiore, personale, verso Dio è la cosa più importante e quasi esclusiva.

    Nella tradizione cattolica e ortodossa ha avuto invece, fin dall’antichità, un’importanza grandissima il problema della retta fede o dell’ortodossia.  Il problema delle cose da credere prese, ben presto, il sopravvento sull’aspetto soggettivo e personale del credere, cioè sull’atto di fede. I trattati dei Padri, intitolati « Sulla fede» (De fide) non accennano nemmeno alla fede come atto soggettivo, come fiducia e abbandono, ma si preoccupano di stabilire quali sono le verità da credere in comunione con tutta la Chiesa, in polemica contro gli eretici.  In seguito alla Riforma, in reazione all’accentuazione unilaterale della fede-fiducia, questa tendenza si è accentuata nella Chiesa cattolica.  Credere significa principalmente aderire al credo della Chiesa.  San Paolo diceva che « con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di fede» (cf Rm 1 0, 1 0): la «professione» della retta fede ha preso spesso il sopravvento sul «credere con il cuore».

    Maria ci spinge a ritrovare, anche in questo campo, «l’intero» che è tanto più ricco e più bello di ogni singola parte.  Non basta avere una fede solo soggettiva, una fede che sia un abbandonarsi a Dio nell’intimo della propria coscienza.  È tanto facile, per questa strada, rimpicciolire Dio alla propria misura.  Questo avviene quando ci si fa una propria idea di Dio, basata su una propria interpretazione personale della Bibbia, o sull’interpretazione del proprio ristretto gruppo, e poi si aderisce ad essa con tutte le forze, magari anche con fanatismo, senza accorgersi che ormai si sta credendo in se stessi più che in Dio e che tutta quella incrollabile fiducia in Dio, altro non è che una incrollabile fiducia in se stessi.

    Non basta però neppure una fede solo oggettiva e dommatica, se questa non realizza l’intimo, personale contatto, da io a tu, con Dio.  Essa diventa facilmente una fede morta, un credere per interposta persona o per interposta istituzione, che crolla non appena entra in crisi, per qualsiasi ragione, il proprio rapporto con l’istituzione che è la Chiesa. È facile, in questo modo, che un cristiano arrivi alla fine della vita, senza aver mai fatto un atto di fede libero e personale, che è l’unico che giustifichi il nome di « credente ».

    Bisogna dunque credere personalmente, ma nella Chiesa; credere nella Chiesa, ma personalmente.  La fede dommatíca della Chiesa non mortifica l’atto personale e la spontaneità del credere, ma anzi lo preserva e permette di conoscere e abbracciare un Dio irnmensamente più grande di quello della mia povera esperienza.  Nessuna creatura infatti è capace di abbracciare, con il suo atto di fede, tutto quello che, di Dio, si può conoscere.

    La fede della Chiesa è come il grande angolare che permette di cogliere e fotografare, di un panorama, una porzione molto più vasta del semplice obiettivo; Nell’unirmi alla fede della Chiesa, io faccio mia la fede di tutti quelli che mi hanno preceduto: degli apostoli, dei martiri, dei dottori. I Santi, non potendo portare con sé in cielo la fede – dove essa non serve più -, l’hanno lasciata in eredità alla Chiesa.

    C’è una potenza incredibile racchiusa in quelle parole: «lo credo in Dio Padre Onnipotente… ». Il mio piccolo «io», unito e fuso con quello grande di tutto il corpo mistico di Cristo, passato e presente, forma un grido più potente del fragore del mare che fa tremare dalle fondamenta il regno delle tenebre.

    Crediamo anche noi!

    Passiamo ora a considerare le implicazioni personali e ascetiche che scaturiscono dalla fede di Maria.  Sant’Agostino, dopo aver affermato, nel testo citato sopra, che Maria «piena di fede, partorì credendo quel che aveva concepito credendo», trae da questo un’applicazione pratica dicendo: «Maria credette e in lei quel che credette si avverò.  Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi».

    Crediamo anche noi!  La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono in Dio.

    Noi siamo l’edificio di Dio, il tempio di Dio.  L’impresa della nostra santificazione è come la « costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2, 5); noi veniamo «edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito » (Ef 2, 22). Ma chi costruirebbe un edificio su un terreno, se questo terreno non gli è stato prima liberamente ceduto e se non gli appartiene?  Sappiamo che un palazzo costruito, in queste condizioni, diventa automaticamente del proprietario del terreno, non di chi l’ha costruito.  Dio non può costruire in noi il suo tempio, non ci può costruire come edificio santo, se prima noi non gli abbiamo liberamente ceduto la proprietà del «terreno» e questo avviene quando diamo a Dio la nostra libertà, con un atto di fede e di consenso, con un «sì» pieno e totale.

    Il terreno infatti è proprio la nostra libertà, un terreno che dovrà essere prima aperto, rivoltato, scavato… Di qui l’importanza decisiva di dire a Dio, una volta nella vita, un «si faccia, fiat », come quello di Maria.  Quando questo avviene, esso è un atto avvolto nel mistero perché coinvolge insieme grazia e libertà; è una specie di concepimento.

    La creatura non può farlo da sola; Dio perciò l’aiuta senza toglierle la sua libertà.

    Che si deve dunque fare?  E semplice: dopo averci pregato, perché non sia una cosa superficiale, dire a Dio con le parole stesse di Maria: « Eccomi, sono il servo, o la serva, del Signore: si faccia di me secondo la tua parola! ». Dico amen, sì, mio Dio, a tutto il tuo progetto, ti cedo me stesso!

    Ho ricordato all’inizío i tre grandi « fiat » che si incontrano nella storia della salvezza: quello di Dio nella Creazione, quello di Maria nell’lncarnazione e quello di Gesù nel Mistero pasquale. C’è un quarto « fiat » nella storia della salvezza che sarà pronunciato ogni giorno, fino alla fine del mondo, ed è il « fiat » della Chiesa e dei credenti che, nel «Padre nostro», dicono a Dio: « Fiat voluntas tua: sia fatta la tua volontà! ». Dicendo questo « fiat », noi ci uniamo, seguendo Maria, al grande « fiat » di Cristo che nel Getsemani disse al Padre le stesse parole: «Si faccia la tua volontà » (cf Lc 22, 42).

    Dobbiamo però ricordarci che Maria disse il suo « fiat » all’ottativo, con desiderio e gioia.  Quante volte noi ripetiamo quelle parole in uno stato d’anirno di mal celata rassegnazione, come chi, chinando la testa, dice a denti stretti: « Se proprio non si può farne a meno, ebbene si faccia la tua volontà! ». Maria ci insegna a dirlo diversamente.  Sapendo che la volontà di Dio a nostro riguardo è infinitamente più bella e più ricca di promesse, di ogni nostro progetto; sapendo che Dio è amore infinito e che nutre per noi «progetti di pace e non di afflizione» (cf Ger 29, 1 1), noi diciamo, pieni di desiderio e quasi con impazienza, come Maria: « Si compia presto su di me, o Dio, la tua volontà di amore e di pace! ».

    Con ciò si realizza il senso della vita umana e la sua più grande dignità.  Dire « si », «amen », a Dio non umilia la dignità dell’uomo, come pensa talvolta l’uomo d’oggi, ma la esalta.  Del resto, qual è l’alternativa a questo « amen » detto a Dio?  Proprio il pensiero contemporaneo che ha fatto dell’analisi dell’esistenza il suo oggetto primario, ha dimostrato chiaramente che dire « amen » bisogna e se non si dice a Dio che è amore, lo si deve dire a qualcos’altro che è solo fredda e paralizzante necessità: al destino, al fato.  L’alternativa filosofica alla fede è il fatalismo.  Il più noto filosofo di questo secolo, dopo aver messo in luce, in una fase del suo pensiero, che l’unica possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile che resta all’uomo è la morte e che la sua stessa esistenza altro non è che un « vivere-per-la-morte», assegna all’uomo, come unico mezzo per rendere autentica la propria esistenza, quello di accettare il suo destino.  La libertà dell’uomo consiste qui nel fare di necessità virtù: nello scegliere e nell’accettare come propria, la situazione di fatto in cui si è gettati e nel rimanerle fedeli.  Il destino dell’uomo è fissato dalla storia e dalla comunità cui egli appartiene e non potrà essere che quello di ripetere ciò che è già stato.  L’uomo raggiunge la sua completezza nell’amore del fato (amor fati), accettando, e anzi amando ciò che è accaduto e che inevitabilmente accadrà.  Questo è un ritorno a quella specie di «mistica del consenso» a cui era giunto, con Cleante, la religiosità pagana prima di Cristo; con essa ci si abbandona, senza riserve, al fato e alla necessità di tutte le cose.  Questa non è la voce di un filosofo isolato; tutto il pensiero esistenzialista ateo, o comunque che si colloca fuori della prospettiva cristiana come per esempio quello di Jaspers e di Sartre – approda a questo ideale terribile dell’amore del fato.  La libertà che si voleva salvaguardare è diventata pura accettazione della necessità.  Si è realizzata in pieno la parola di Gesù: «Chi vuol salvare ‘ la propria vita la perderà» (cf Mc 8, 35); chi vuol salvare la propria libertà, la perderà.

    L’uomo, dicevo, non può vivere e realizzarsi senza dire « amen » « sì » a qualcuno e a qualcosa.  Ma come è diverso e opprimente questo « amen » pagano, rispetto all’«amen » cristiano, detto a uno che ti ha creato, che non è fredda e cieca necessità, ma amore.  Come è diverso l’abbandono al fato, dall’abbandono al Padre espresso in questa preghiera di Ch. de Foucauld: «Padre mio mi abbandono a te.  Fa’ di me ciò che ti piace.  Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio.  Sono pronto a tutto, accetto tutto, perché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature.  Non desidero altro, mio Dio.  Rimetto la mia anima nelle tue mani.  Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo.  Ed è per me un’esigenza d’amore il donarrni e il rimettermi nelle tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché tu sei il Padre Mio».

    “ Il mio giusto vivrà di fede »

    Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo particolare deve farlo il sacerdote e chiunque è chiamato, in qualche modo, a trasmettere ad altri la fede e la Parola. «E mio giusto – dice Dio – vivrà di fede» (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote: Il mio sacerdote – dice Dio – vivrà di fede.  Egli è l’uomo della fede. Il peso specifico di un sacerdote è dato dalla sua fede.  Egli inciderà nelle anime nella misura della sua fede.  Il compito del sacerdote o del pastore in mezzo al popolo, non è solo quello di distributore di sacramenti e di servizi, ma anche quello di suscitatore e testimone della fede.  Egli sarà veramente uno che guida, che trascina, nella misura con cui crederà e avrà ceduto la sua libertà a Dio, come Maria.

    Il grande essenziale segno, ciò che i fedeli colgono immediatamente in un sacerdote e in un pastore, è se «ci crede»: se crede in ciò che dice e in ciò che celebra.  Chi dal sacerdote cerca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al passo coi tempi, mentre, in realtà, è anche lui, come si diceva nel capitolo precedente, un uomo «vuoto».  Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subito la differenza.  Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma la semplice fede.  La fede è contagiosa.  Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.

    La forza di un servitore di Dio è proporzionata alla forza della sua fede.  A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente.  Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un povero ragazzo ma senza riuscirvi.  Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in disparte e gli chiesero: Perché noi non Abbiamo potuto scacci . arlo?  E Gesù rispose: Per la vostra poca fede (Mt 17, 19-20).  Ogni volta che, dinanzi a un insuccesso pastorale o a un’anima che si allontanava da me senza essere riuscito ad aiutarla, ho sentito affiorare in me quella domanda degli apostoli: « Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo? », ho sentito rispondermi anch’io nell’intimo:«Per la tua poca fede! ». E ho taciuto.

    Il mondo, abbiamo detto, è solcato, come il mare, dalla scia di un bel vascello, che è la scia di fede aperta da Maria.  Entriamo in questa scia.  Crediamo anche noi perché quel che si avverò in lei si avveri anche in noi.  Invochiamo la Madonna con il dolce titolo di Virgo fidefis: Vergine credente, prega per noi!

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