• 30 Apr

    IL VALORE DEL SILENZIO

     

    di Enzo Bianchi

     

    Viviamo in un’atmosfera di rumore assordante, non solo esteriore, ma anche interiore, i cui effetti ricadono su tutta la nostra vita, sempre più vuota, superficiale, impermeabile a ciò che richiede un ascolto e un’attenzione vigilante. Siamo saturi di informazioni come di pubblicità, eccitati da impressioni molteplici ed eterogenee, e così ci sembra che l’unica difesa sia diventare a poco a poco indifferenti quasi a tutto, se non cinici. Parole, suoni, rumori, immagini vogliono calamitare la nostra attenzione e cercano l’emozione, la novità, il sensazionale, la sorpresa.
    Viviamo sovrastimolati, con tanti “fornitori di contenuti” che si preoccupano dell’audience, mentre “l’ascolto” è atteggiamento sempre più raro. E il silenzio, che all’ascolto è indispensabile, ci inquieta perché è percepito come una forma di passività, una patologia, una zona della nostra esistenza spiacevole ed estranea, nella quale ci capita magari di finire, ma dalla quale vogliamo uscire al più presto, come dal buio, dal vuoto, dal nulla.
    Poi accade che dei media potenzialmente e abitualmente “rumorosi” – il cinema e la televisione – presentino due documentari che narrano il silenzio, ed ecco l’inatteso: migliaia di spettatori, stupiti, seguono per 160 minuti le scene girate durante sei mesi dal regista tedesco Philip Groning alla Grande Chartreuse di Grenoble, con solo due brevissimi dialoghi, l’ultimo dei quali sigilla la pellicola con un anziano monaco cieco che esclama: “Sì, siamo felici”; analogo successo di spettatori lo ottiene la BBC con una serie dal titolo “The Monastery”, trasmessa in prima serata, girata nell’abazia benedettina di Worth: nessun reality show, semplicemente la vita fatta di preghiera, lavoro, pasti, letture di un ventina di monaci avvolti in un clima di silenzio e quiete.
    Cosa c’è dietro questi sorprendenti successi mediatici? Curiosità per una vita altra? Fascino dell’esoterico per un occidente secolarizzato? Bisogno di indagare su una vita di cui ormai si conosce a malapena l’esistenza? Sì, ci possono essere queste e altre ragioni, ma forse la principale è proprio l’abilità dei registi nell’aver saputo ascoltare, rappresentare, far percepire il silenzio, il grande assente nella nostra vita quotidiana: “l’uomo è diventato un appendice del rumore”, osserva Picard, e di fatto la nostra parola è agonizzante per mancanza di silenzio. Già Pascal aveva intuito che la più grande disgrazia per gli uomini deriva dal loro non saper stare in silenzio e in solitudine per un’ora: il silenzio, infatti, è il principio da cui è generata la parola, ciò che le conferisce forza e autorevolezza. Eppure oggi questa esigenza antropologica è offesa e contraddetta più che mai, si ha paura del silenzio: in casa e in auto si tende a evacuarlo con radio, televisione o stereo accesi, in aeroporti, stazioni e negozi lo si allontana con un’onnipresente musica di sottofondo. Così, perfino l’ascolto musicale è diventato un semplice riempitivo che crea un’atmosfera in cui la musica non è più una bellezza che ascoltiamo ma una sorta di basso continuo che inganna le nostre ansie. Siamo colti da fastidio quando dobbiamo attraversare spazi silenziosi, per cui accettiamo passivamente quella condizione di non-silenzio, di non-pausa che la società ci impone, senza renderci conto che, così facendo, smarriamo la nostra capacità di ascoltare e, con essa, quella di parlare.
    Il silenzio, infatti, non è un atteggiamento aristocratico, non è un elemento esclusivo della mistica, né un esercizio di nobile interiorità, ma appartiene all’arte della comunicazione, consente di vivere in modo fecondo la solitudine, favorisce l’ascolto attento, affina le nostre facoltà discriminatorie e percettive, induce alla creatività. Antidoto ai pensieri ossessivi che affollano la nostra mente, il silenzio ci aiuta a frenare le nostre passioni e aggressività e a impedire loro di produrre violenze e sopraffazioni.
    Ma proprio per imparare a vivere con fecondità il silenzio è anche necessario essere consapevoli delle ambiguità che porta con sé. Vi è, infatti, un silenzio chiuso, impermeabile alla comunicazione, gestito come ostilità, usato come strumento per creare distanza: in questo caso il silenzio diventa un muro, una fortezza che respinge tutto quanto incontra. Sì, il silenzio è un “linguaggio” – come i due documentari hanno saputo testimoniare – e come ogni linguaggio ha delle risorse nascoste che possono essere messe al servizio della comunicazione come della chiusura all’altro. Il mutismo non è silenzio: silenzio è, invece, non lasciarsi distrarre, saper restare sempre in comunione con le cose, con l’altro, con la realtà. Questa sua ambiguità fa sì che molti concepiscano il silenzio come condanna imposta loro dagli altri che si rifiutano di ascoltarli, che li escludono con il non prestar loro attenzione. Allora il silenzio può divenire luogo di disperazione, mancanza di elementi vitali: si può morire di silenzio come si muore di fame, di sete, di fatica, di dolore. Chi infatti è solo, isolato e vive nell’angoscia, diviene avido di rumore, brama il suono di una voce conosciuta, insegue tutto ciò che rompe la monotonia della giornata.
    A volte chiamiamo silenzio il mutismo di chi si trincera dietro il rifiuto di comunicare, la chiusura di chi non può o non vuole parlare della propria sofferenza, il quotidiano negarsi all’altro anche nell’intimità familiare, il progressivo smarrimento della fiducia reciproca: sono i piccoli e grandi silenzi di morte. Ma non è certo di questo silenzio che abbiamo bisogno, non è questo il tesoro perduto di cui abbiamo nostalgia: no, il silenzio cui aneliamo è lo spazio in cui ridestiamo la nostra personalità, è la condizione per porre a noi stessi le domande più essenziali, per trovare le risposte da cui dipende il senso della vita, quello che possiamo sperare. Alle domande “Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?” possiamo tentare di rispondere solo imparando il silenzio, custodendo una vita interiore autentica, perché esistono verità inespresse e inesprimibili che solo nel silenzio possiamo percepire. E nel silenzio impariamo anche l’arte della comunicazione non solo verbale, riscopriamo il linguaggio dello sguardo, l’espressività del corpo… Stare insieme, accanto a un altro nel silenzio è una delle esperienze più forti che permettono al dialogo verbale l’approfondimento e la scoperta di altre dimensioni. Del resto, ciascuno sa per averlo sperimentato che nelle relazioni umane più intense, come quelle tra amanti o tra amici, proprio il silenzio garantisce la percezione dell’alterità, del mistero dell’altro.
    Forse quanti hanno visto scorrere sugli schermi le esigenti ma rappacificanti giornate dei monaci hanno intuito qualcosa dei tesori che il silenzio sa elargire anche a chi monaco non è: la vigilanza e l’attenzione contro l’intontimento spirituale; la possibilità di ascoltare ciò che arde nel profondo di se stessi e degli altri; la capacità di portare – e quindi anche di sopportare – l’altro nella sua sofferenza; la resistenza contro il prevalere di atteggiamenti di inimicizia; in una parola: la pace interiore.
    Una prospettiva che concerne solo i monaci? Un esercizio che riguarda solo i cristiani? No, un tesoro a disposizione di ogni essere umano che sia disposto a scavare nella propria interiorità per poterlo dissotterrare, come sapientemente invitava a fare il poeta Kavafis: “E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo / per quanto sta in te: / non sciuparla / nel futile commercio con la gente, / vane parole in un viavai / frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano / gioco balordo degli incontri e degli inviti, / fino a farne una stucchevole estranea”.

  • 28 Apr

    PARLARE DI DIO OGGI: COME?

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quando ci si pone la domanda di “quale Dio” vogliamo parlare, se ne forma implicitamente un’altra:” esiste quel Dio di cui vogliamo parlare?

    Le due domande sono inseparabili, esse sono tra loro strettamente interdipendenti. Perché?

    La ragione è che alla domanda dell’esistenza di Dio  si risponde (positivamente o negativamente) in base all’immagine di Dio che si possiede.

    Questa constatazione è importante anche per chi è chiamato ad annunciare.

    E’ esperienza costante la fatica del dire Dio, e questo quasi sicuramente perché di lui si hanno immagini troppo sbiadite, frastagliate, annebbiate, forse minacciose. Penso che occorra prendere in esame serio le proprie immagini di Dio, perché il più delle volte esse contengono elementi troppo eterogenei e magari contrastanti: ne risulta un Dio enigmatico che risulta poco amabile.

    Immagini che di conseguenza certamente non affascinano l’annunciatore per primo e di conseguenza gli uditori.

    Venendo meno la spinta a parlare di Dio, ci si ripiega allora ad accontentarsi di un parlare del “‘sacro’ oggettivo e generico: parola di Dio, sacramenti, nuovissimi, comandamenti, morale…

    Eppure di Dio si deve parlare. Ma come?

    Gli uditori infatti attendono una parola che dia vitalità al loro credere, che spinga non a confrontarsi con idee o con verità, ma ad incontrarsi con una persona.

    Per noi cristiani questo è possibile, non è un’utopia, perché Dio si è rivelato. Cristo è l’ ‘esegesi’ del Padre. Una rivelazione questa nella quale siamo invitati ad entrare e a penetrare sempre più, perché è Lui, Dio, che ci invita a conoscerlo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi…” (Ebr 1,1).

    Partire dalla fede

    La fede donata è il punto di appoggio dal quale è necessario partire per intraprendere la conoscenza di Dio.

    Fede intesa come luce che illumina ed è illuminata dal mistero: “Dio vi conceda uno spirito di sapienza e di rivelazione per una conoscenza più profonda di lui” (Ef 1,17).

    Lo Spirito che scruta il mistero di Dio è lo Spirito che ci è stato donato, colui che immette il dinamismo nella nostra fede il quale ci spinge ad avanzare sempre più in là nella conoscenza di Dio, senza arrestarci dinanzi alle prime immagini acquisite di lui.

    E’ questa una esperienza da attuare. Ora nell’annunciatore non si può prescindere da questa sua soggettiva esperienza, non si può dare un annunzio esclusivamente del dato oggettivo rivelato. La fede è comunicata attraverso una testimonianza.

    Esiste quindi una circolarità fra credo confessato e vissuto: circolo ermeneutico tra rivelazione storica fatta a tutti e rivelazione individuale.

    Vero annunciatore di Dio è colui che ha ascoltato e risponde alla parola che poi dovrà annunciare.

    PARTIRE DALL’ESPERIENZA

    La conoscenza oggettiva è a disposizione di chiunque, non quella soggettiva. Essa rientra nel dinamismo della grazia.

    Ma è questa esperienza che vivifica la conoscenza oggettiva (fides quae et qua creditur).

    E sulla base di questa simbiosi l’annuncio si riveste di determinate caratteristiche: a ciascuno è dato di conoscere e testimoniare un dato particolare del mistero, egli renderà esplicito un aspetto di una totalità che nella sua infinitezza rimane in-comprensibile.

    Questa differenza va accolta come dono dello Spirito nella sua varietà di espressioni di un unico mistero

    E’ DIO CHE SI RIVELA

    Ovviamente l’annuncio non è ridotto a comunicazione di esperienze soggettive.

    La religione ebraico-cristiana crede in un Dio che, nel suo amore, ha voluto parlarci di se stesso.

    E’ questa verità di fede che sorregge l’annuncio e l’esperienza. Se ciò non fosse esso sarebbe ridotto a comunicazione di dati teorici oppure di un ventaglio di esperienze perlopiù contraddittorie.

    In base a ciò riteniamo fondamentale che l’annuncio ritorni continuamente alla rivelazione che Dio ha fatto di sé. Allora la predicazione diviene testimonianza di questa passione del Dio che si comunica alle creature

    Alcuni dati rivelati appaiono particolarmente fondamentali in questo senso.

    L’Incarnazione

    Affermiamo nella fede che il Figlio di Dio, la seconda persona della ss. Trinità, si è fatto uomo.

    Questo fatto lo riceviamo dalla testimonianza dell’autocoscienza di Gesù di Nazaret.

    Se questa coscienza è vera, come afferma la fede, allora la persona di Gesù è la fonte della conoscenza di Dio. Allora non è più possibile parlare di Dio prescindendo da Gesù.

    Il vangelo non può essere accostato come “‘prontuario’ di verità o di predicabili, ma come fonte che ci permette di accostarci all’umanità di Gesù rivelatrice di Dio. E’ la sua umanità l’ ‘immagine visibile’ del Dio invisibile. Ogni atto della vicenda di Gesù di Nazaret è rivelazione del mistero divino. ‘Se il soggetto di ogni azione di Gesù di Nazaret è il Figlio eterno, allora ogni atto di quest’uomo è rivelazione del mistero divino. In Gesù di Nazaret… si offre il volto umano di Dio… L’umano è pienamente assunto e radicalmente valorizzato nella storia del Figlio dell’uomo”’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    Dio si rivela nell’umano: ed è la novità della rivelazione cristiana.

    Gesù è anche il Rabbi, il Maestro, che ci parla di Dio. Il suo annuncio si riassume nel proclamare il “‘Regnare di Dio’, nell’affermare la vittoria di Dio sulle potenze del male.

    Il suo è un evangelo di una liberazione definitiva ed universale. Il Regno che con lui già possiede l’inizio e che attende alla fine dei tempi il suo pieno compimento.

    Gesù ci rivela anche che questo Dio che regna, ha un nome nuovo: Abbà. Un Dio che ama paternamente ogni uomo, soprattutto il povero e il peccatore. I cieli con Gesù si aprono su un Dio che non incute più paura, ma che accoglie l’umanità in un abbraccio di misericordia e di comunione di vita.

    La Trinità

    Alla nostra predicazione manca una vera prospettiva trinitaria. Secondo il teologo Moltmann il nostro annuncio è ancora troppo costituito da ‘un monoteismo solo debolmente cristianizzato… che Dio sia uno e trino sembra irrilevante tanto per la dogmatica che per l’etica… In realtà i cristiani vivono quasi fossero soltanto monoteisti’.

    In effetti spesso si pensa Dio in termini di uno e quindi solo. Si parla anche linguisticamente più di Dio che di Trinità.

    E’ facile comprendere come un’esperienza di Dio Trinità verrebbe moltissimo in aiuto a recuperare un giusto rapporto con il divino, facendoci superare la paura.

    Infatti un Dio solo ci appare temibile, enigmatico, chiuso in se stesso, estraneo alla nostra esperienza più determinante che è quella del dialogo e della relazione. L’annuncio trinitario viene a rompere definitivamente questa immagine della divinità; essa invece ci rivela un Dio che è comunione, relazione, dialogo, eterno gioioso di tre persone. In Dio vi è un Io, un Tu, un Noi.

    Importante per l’uomo è che davanti a tale rivelazione egli non si sente più estraneo, schiacciato, estraneo, ma anzi chiamato per vocazione ad entrare e a partecipare di questo flusso eterno di amore.

    Un ulteriore aspetto di tale discorso è la necessità di recuperare la dimensione trinitaria nella vicenda terrena di Gesù. Se vi è Trinità, allora in questa storia è implicata sempre la relazione col Padre e lo Spirito. Essi la vivono con Gesù. Padre e Spirito ‘non sono spettatori estranei della storia del Verbo fatto carne: essi la vivono con lui… Tutta la storia di Gesù è rivelazione della storia trinitaria di Dio… In Gesù si rivela contemporaneamente il volto trinitario di Dio e il rapporto del mondo al Padre’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    La Croce

    La croce assume tutto il suo scandalo se si accetta che essa sia toccata a Dio, e quindi all’intera Trinità. Essa è ‘passione’ di Dio.

    Di solito nella predicazione la lettura viene fatta dal basso: la via crucis dell’innocente che sale il Calvario per offrire il suo sacrificio a Dio: il padre ne resta fuori commosso o adirato a seconda delle teologie.

    Ora, in una visione trinitaria della storia di Gesù, si considera la via crucis del Padre che scende sul Calvario per offrire, attraverso il Figlio crocifisso, il suo perdono e la sua comunione di vita all’uomo peccatore.

    L’apostolo Paolo associa sempre la sua predicazione della croce alla rivelazione di Dio, e pensa la croce in riferimento al Padre: “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8); “Lui, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo diede in sacrificio per tutti noi, come non ci darà in dono insieme a lui tutte le cose?” (Rm 8,32)..

    Dio si rivela nell’impotenza, nel suo prender parte alla sorte degli ultimi; ed è quindi un Dio che si lascia coinvolgere nella sofferenza dell’uomo.

    L’evangelo della grazia

    La predicazione dovrebbe testimoniare ‘l’evangelo della grazia’” (At 20,24).

    Questa grazia, che lungo il corso della storia è stata fatta oggetto di interminabili diatribe e dispute teologiche, ha perso nella predicazione il suo carattere di annuncio gioioso.

    Essa è stata circondata dalle siepi spinose e precauzionali dei se e dei come, che finiscono solo per inaridire l’annuncio di un Dio folle di amore, di un Dio che si dona subito, totalmente, eternamente, gratuitamente..

    Il nostro discorso sulla grazia ha dato adito all’immagine di un Dio che bisogna comprare (anche se a prezzi stracciatissimi… e siamo ben lontani dalla “grazia a caro prezzo di D. Bonhoffer!), e quindi di un Dio banale e umiliato.

    La sovranità di Dio si manifesta nel suo dono che attende il dono, la grazia, dell’uomo: una risposta di fede amorosa e gratuita, mai comprata!

    In questa risposta l’uomo è assolutamente libero da costrizioni, in quanto Dio stesso lo pone in uno spazio di piena libertà.

    Purtroppo per tanti credenti il fatto, o la pratica religiosa, consiste in un ‘ dare qualcosa a Dio ‘, un ‘fare qualcosa per Dio’ al fine di avere ricompensa. Al discorso della grazia si è sostituito un discorso mercenario: in quanto Dio stabilisce le regole del gioco senza coinvolgersi, e sta all’uomo il decidere sul da farsi.

    Certo, non si tratta di negare il premio al bene, ma di sganciarlo dalla pretesa di diritto di comprare nei confronti di Dio la salvezza.

    Il Dio rivelato da Gesù è un Dio che salva. Il suo agire nella storia è sempre e soltanto salvifico: ‘Piacque a Dio buono e sapiente rivelare se stesso e far conoscere il disegno della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo… e nello Spirito santo hanno accesso al Padre… Con questa rivelazione il Dio invisibile, nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici” ‘ (DV 2).

    ALCUNE PISTE

    Riferimento alla sacra Scrittura

    Il ritorno alla Bibbia invocato dal Concilio Vaticano II a poco servirebbe se non contribuisse a far rivedere l’immagine di Dio.

    Preghiera, prassi sacramentale, predicazione, devono continuamente rifondarsi su quel Dio che si rivela nella storia descritta nelle pagine della Scrittura.

    Si ha l’impressione che la predicazione e la prassi liturgica viaggino piuttosto in senso perlopiù orizzontale, o tuttalpiù tentino qualche sporadico slancio verso l’alto ma senza convinzione ed entusiasmo.

    Si è forse incapaci di scorgere la presenza di Dio nella storia, e non si possiedono i parametri per leggere l’esperienza di Dio in noi.

    Oltre il moralismo

    Sembra prevalere ancora il ‘Cosa devo fare?’, ovvero l’interesse operativo nel fattore religioso. Il discorso morale ha ancora, nonostante tutti gli sforzi, la predominanza, questo dando sempre per scontato che chi si accosta al discorso religioso il vangelo sia già noto.

    Occorre sempre ricordare che l’aspetto morale è importante, ma sempre subordinato al discorso della grazia, questo affinché non si rischi di restare ancora senza il vangelo della grazia di Cristo.

    Nella predicazione bisogna tornare all’annuncio di questo evangelo.

    Parlare di Dio da credenti

    La fede in Cristo ci presenta il Dio di cui parlare. Ma come parlarne?

    Anzitutto occorre parlarne da credenti: ‘Ho creduto perciò ho parlato’ (Sal 116,10); ‘Anche noi crediamo e perciò parliamo’ (“2Cor 4,13).

    Come Chiesa e come annunciatori si parla di Dio non solo perché ‘si sa’, ma perché questo ‘sapere’ scaturisce e si fonde sulla e nella fede.

    La parola che viene annunciata ad altri è anzitutto una parola rivolta prima a se stessi. Io sono il primo destinatario e il primo uditore della parola che annuncio agli altri.

    E la fede di chi annuncia si alimenta del rapporto con Dio nella preghiera. E’ lì che si radica la missione. Un annuncio privo di questo dinamismo interiore si riduce a comunicazione di dati oggettivi, privi del sostegno fondamentale della testimonianza.

    Raccontare Dio

    La passata predicazione si dilungava a parlare di Dio attraverso i suoi attributi (onnipotenza, eternità, giustizia, onnipresenza…). Ma questo approccio al discorso su Dio, benché giusto filosoficamente, è tuttavia insufficiente. Il Dio della scrittura è colui che si rivela nelle sue opere salvifiche.

    Nella bibbia non si parla in modo astratto degli attributi di Dio, essi emergono lungo la storia e sono da questa raccontati.

    Teniamo presente che la traduzione in storia degli attributi di Dio è operazione che egli stesso ha già compiuto.

    Questa metodologia di Dio dovrebbe essere seguita dalla predicazione. L’uomo si domanda se Dio esiste, se è amato da lui: la sacra scrittura risponde più volentieri al passato, raccontando. Il regno di Dio lo si racconta perché esso consiste nel suo operare.

    Evangelizzare Dio

    Forse sarebbe il caso di domandarsi sinceramente se la nostra predicazione riguardante Dio suscita lode e ringraziamento (ovvero è ‘buona notizia’), oppure lascia ancora adito all’inquietudine e al disagio.

    E’ un dato di fatto che da un lato Dio è predicato nello stesso tempo come bontà e giustizia, perdono e punizione, colui che distribuisce grazie ma anche disgrazie, colui che è presente ma anche assente… Se le cose stanno così è chiaro che l’uditorio finisca col trovarsi dinanzi ad un Dio imprevedibile ed inaffidabile.

    Nel profondo viene avvertito come essere ambiguo.

    Riconosciamo che questo sospetto  e questa diffidenza è uno dei frutti del peccato. La colpa originaria ha distorto l’immagine di Dio. Ma la grazia dell’evangelo dovrebbe farci recuperare in Cristo la sua giusta immagine.

    L’annuncio di Dio deve essere sempre ‘buona notizia’. Dio è Abba’, ed è solo questo e non un’altra cosa contemporaneamente.

    “Per un uomo religioso è insopportabile un Dio che non sia innanzitutto colui che ricompensa e castiga… L’inclinazione naturale dell’uomo è quella di non credere in un Dio come quello rivelato da Gesù, la cui giustizia e potenza sono soltanto di amare” (Six).

    Dio prova pietà e sofferenza per il peccatore, non desiderio di punirlo. La punizione del peccato è già racchiusa  nella sua natura di assenza di bene.

    Conclusione

    L’immagine di Dio in noi è sempre in mutamento. E’ immagine viva, chiamata a crescere ( o destinata per vari motivi a deformarsi sempre più sino ad essere rigettata).

    Sarà importante tenere presenti due aspetti.

    Il primo è che in quest’opera di riscoperta dell’immagine di Dio non siamo solo noi ad operare, ma anzitutto la grazia dello Spirito di Cristo che ci insegna le cose di Dio.

    Il secondo è che la nostra immagine è guida al nostro rapporto con Dio, ci fa strada nella preghiera e nell’azione.

    E proprio nella preghiera e nei sacramenti tale immagine viene incessantemente elaborata e rielaborata.

    Colui che parla veramente di Dio parla di ciò che ha ricevuto come dato di fede  e che ha accolto e assimilato nella propria esperienza.

  • 27 Apr

    Una speranza impossibile?

    La visione delle ossa aride: Ezechiele 36


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    Durante l’esilio di Babilonia il popolo di Israele vive l’esperienza angosciosa della disperazione e del proprio fallimento. E’ un’esperienza di “morte” che conduce ad un “vuoto di speranza”, ad una rassegnazione che allontana dal Dio della Promessa.  Il profeta Ezechiele è inviato ad annunciare una “buona notizia” umanamente impossibile: Dio può suscitare vita e futuro dove l’uomo non sperimenta che disperazione e morte.

    Nel 597, dopo una ribellione del re di Giuda Ioakim, l’esercito di Babilonia marciò su Gerusalemme e assediò la città.  Questa dovette arrendersi.  Il re di Giuda venne fatto prigioniero e deportato a Babilonia con parte delle classi dominanti, dell’esercito e degli artigiani.  Tra questi deportati c’era pure Ezechiele, che attorno al 593 in esilio venne chiamato alla profezia. Sedecia, l’ultimo re di Giuda (597-586), dopo alcuni anni di tregua tentò nuovamente di conquistare l’indipendenza.  Non si voleva assolutamente credere alla fine del regno di Giuda. Geremia ed Ezechiele combatterono questa speranza, ma le loro parole restarono senza un’eco sensibile. Il sogno di una restaurazione politica e di un avvenire di salvezza si infranse improvvisamente quando le truppe babilonesi occuparono il territorio di Giuda e assediarono la città. La città venne affamata e cadde nell’estate del 586.  Con la caduta di Gerusalemme erano crollate definitivamente anche le attese di salvezza degli esiliati del 597.  Rassegnazione e disperazione dilagarono.  Si diffuse una crisi di fede: Dio aveva ripudiato il suo popolo?  Valeva ancora la spesa sperare o era meglio rassegnarsi alla fine? È in questo contesto di “di-sperazione” che Ezechiele è raggiunto dalla profezia narrata nel cap. 37.

    La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite.

    La pianura piena di ossa è una metafora, che si riferisce alla situazione storica concreta alla quale il profeta è mandato: è la realtà dell’esilio di Babilonia. La cosa risulta chiara dalla seguente affermazione: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», qui viene detto esplicitamente che cosa sono le ossa dei morti, esse rappresentano la fine irrevocabile di Israele!  Prende voce la consapevolezza degli esuli di essere ormai in una situazione senza via di uscita.  Si insinua in essi una piatta rassegnazione, un terribile vuoto di speranza segno di morte.  Essi continuano a vivere sì fisicamente, ma non vale più per essi il «dum spiro spero», «fin che c’è vita c’è speranza».  Una possibilità di speranza appare impossibile. Ma sarà proprio una speranza “impossibile” l’oggetto della profezia di Ezechiele.

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore».

    Il profeta si vede interrogato da Dio stesso circa la situazione degli esiliati: la loro prospettiva di disperazione e di morte è l’unica?  Effettivamente secondo i criteri umani di giudizio la realtà appare già decisa (cfr v.11). Tuttavia Ezechiele non ha il coraggio di esprimere una decisione definitiva.  Egli conosce l’impotenza umana, ma sa anche che essa non esaurisce le possibilità sul versante di Dio.   Egli saggiamente affida la risposta alla potenza del Signore: «Signore Dio, tu lo sai» (v. 3).  E’ una risposta che riconosce sì l’impotenza umana ma nello stesso tempo riconosce l’onnipotenza divina: in essa prendono voce a un tempo la rassegnazione umana e l’apertura a Dio.  Ezechiele non decide sul futuro degli esiliati che credono di non avere più futuro ma lo mette nelle mani di Dio.

    Alla risposta di Ezechiele risponde ancora Dio stesso – e come potrebbe essere altrimenti? Lo fa mediante la visione che renderà il profeta atto ad annunciare in maniera credibile  e sicura una speranza impossibile (vv. 12-14).

    Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.

    Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano».

    Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.

    Riscontriamo in questo passo importanti paralleli col racconto della creazione (Gn 2). Anche lì la creazione dell’uomo avviene in due fasi. Come il respiro di Dio, il suo soffio vitale, fa dell’uomo-Adamo ancora forma inerte di terra plasmata un essere vivente (cfr Gn 2,7), così anche in Ezechiele: “ma non c’era spirito in loro…lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi” (vv.8-10). Al Dio che all’origine ha infuso la vita al non vivente è possibile anche una nuova creazione: ciò che egli ha fatto all’origine può ripeterlo ora!

    Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.

    Ma vi è un  aspetto importante da prendere in considerazione. Al v. 14 si dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. In queste parole lo spirito inviato viene chiamato espressamente «il mio spirito». Ora lo “spirito di Dio” a cui qui si fa riferimento non si identifica con il soffio vitale dato a tutto ciò che vive sulla faccia della terra: animali e piante. E’ un dono più alto, ovvero quello dello “Spirito-soffio vitale” stesso di Dio che rende l’uomo partecipe della sua stessa vita divina. Questo dono straordinario crea un uomo nuovo capace di accogliere finalmente il dono dell’Alleanza con Dio rimanendovi fedele, e questo proprio in virtù della presenza dello “Spirito di Dio” che dimora in lui (cfr Rm 7,6; 8,2).

    Dio per bocca di Ezechiele non preannuncia dunque unicamente una rianimazione esterna del suo popolo, ma mediante l’effusione del “suo spirito”, JHWH vuole operare soprattutto un cambiamento  profondo e interiore. Senza questo cambiamento, il popolo presto o tardi ricadrebbe nel peccato, e si ripeterebbe l’esperienza della perdizione che lo ha condotto all’esilio.

    Viene fatto anche accenno alla presenza di sepolcri: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele”.  Questa nuova immagine esprime quanto ampia e definitiva sarà l’azione di Dio: essa spezzerà anche la prigionia del sepolcro, luogo emblematico che esprime la definitività della morte, e risveglierà a nuova vita anche quelli che sono irrimediabilmente “perduti” (cfr. v. 11).

    Ma quale la ragione di questo straordinario intervento divino? La ragione è che Israele deve imparare a “conoscere” il suo Dio:  “Riconoscerete che io sono il Signore”. Il Signore si dimostrerà fedele e la sua azione salvifica sarà la sua stessa manifestazione: Israele conoscerà chi è veramente il suo Dio! Israele non ha certamente meritato né di rivivere in una seconda creazione né di essere interiormente trasformato e abilitato dal dono dello stesso “Spirito di Dio” ad essere il popolo dell’Alleanza. Tutto è dono di Dio che solo rimane fedele a se stesso, e che per la propria gloria e per amore del suo popolo agirà restituendo speranza e vita.

    La visione termina con la più assoluta garanzia che ciò che è stato annunciato avverrà: «Io sono il Signore: l’ho detto e lo farò». Dio offre come garanzia unicamente la sua Parola che non mente.

    Nella visione di Ezechiele  il Signore appare come colui che può infrangere le catene della morte, come un Dio a cui nulla è impossibile.

    Nella morte e resurrezione di Cristo Gesù la promessa ha trovato il suo compimento inatteso e definitivo. Dal sepolcro sigillato del venerdì santo è rifiorita la speranza e la vita. Dopo la risurrezione di Gesù non c’è più alcun capolinea dell’attesa umana della vita.  La passione, la morte e la resurrezione di Gesù mostrano che il fallimento non è ancora la fine. Dio è potente; egli è in grado di suscitare vita dove l’uomo non vede che morte.

    Per noi che ascoltiamo, alla luce del mistero della morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, si prospetta una domanda: c’è allora un vuoto umano di speranza che non possa sentirsi espresso nell’immagine delle ossa dei morti di Ezechiele?  Sui nostri campi di morte non giacciono infatti soltanto le speranze, i desideri, le attese e le promesse degli esiliati a Babilonia ma anche tutte le nostre.  Ogni nostro vuoto di speranza, ogni nostra rassegnazione e disperazione trovano qui la loro immagine, e possono legittimamente riferirsi ad essa. Il messaggio di Ezechiele parla anche al nostro tempo così bisognoso di speranza!

    Per la riflessione

    La nostra epoca fa sì che spesso sperimentiamo“vuoti di speranza” nei quali tutto sembra perduto, dove tutto sembra non aver più significato e futuro. In queste situazioni la profezia di Ezechiele, alla luce del mistero pasquale, si fa riudire in tutta la sua potenza capace di riaprire nel nostro cuore le porte ad una speranza impossibile.

    In quale misura la speranza è virtù ancora tipicamente cristiana? Possiamo affermare di testimoniarla avendo fatta nostra, mediante l’ascolto della Parola, la Buona Notizia della Morte e Resurrezione del Signore Gesù?

    Preghiera conclusiva

    Signore, tu sei la mia vita,

    senza di te il vivere non è vivere.

    Con te, Signore, oltre le cose,

    noi vediamo la vita,

    anzi, la sorgente della vita.

    Tu sarai la nostra vita anche nella morte;

    con te la vita è già in noi per sempre:

    tu sei per noi sorgente

    che zampilla nella vita eterna.

    Signore, tu sei la mia verità,

    sei la verità dell’uomo.

    Tu, o Padre del Cristo,

    ti sei fatto la mia verità

    e nello Spirito, ogni giorno,

    sei verità in me.

    Se tu vieni meno, se tu ti allontani,

    io non sono neppure uomo,

    sono come un relitto,

    come un naufrago che cerca salvezza e non la trova,

    un naufrago vicino alla morte.

    Signore, la tua grazia,

    la tua verità,

    la tua luce mi fanno uomo,

    e sono la mia grazia,

    la mia verità e la mia luce.

    (Card. C.M. Martini)

  • 25 Apr

    Una nuova Alleanza infrangibile

    la legge scritta nel cuore:

    Gr 31, 31-34


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’amore di Dio non opera solo un perdono nei confronti dell’uomo peccatore lasciandolo tale e quale ma promette una vera e propria ricreazione del suo stesso cuore.

    Geremia pronuncia questo oracolo al tempo del re Giosia, re esemplare per la sua rettitudine e fede. Era nipote del re Manasse il cui regno fu invece tra i più tragici in Israele, segnato da una grande corruzione religiosa e decadenza morale.

    Quando Giosia sale al trono è solo un bimbetto di otto anni, ma provvidenzialmente cresce ed è educato nel migliore dei modi: appena è in grado di governare egli mette tutto il suo impegno nell’attuare una delle più grandi riforme religiose, politiche e sociali che la storia di Israele ricordi. È evidente che un regno di tal sorta faccia rinascere grandi speranze al disfatto popolo di Israele. Geremia naturalmente approva le riforme del giovane sovrano.

    E’ a questi anni che risalgono i cosiddetti “Oracoli di consolazione” (cc 31-33) ai quali appartiene il brano che mediteremo.

    Al popolo che per lunghi anni ha sopportato grandi ingiustizie e decadenza religiosa e morale Geremia rivolge un invito colmo di speranza:

    Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno dal paese nemico (Gr 31,16).

    E’ la buona notizia dell’imminente ritorno degli israeliti che furono deportati a Ninive dagli Assiri nel 722. Dio dunque non si è dimenticato di Israele, gli ridona speranza e futuro.

    Ascoltiamo ora un brano che rappresenta uno dei punti cardini, se non il centrale, di tutto il ministero profetico di Geremia:

    «Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.(31,31-32)

    Dio denuncia il peccato commesso da Israele che gli ha attirato solo distruzione e morte, esso costituisce il tradimento dell’Alleanza “che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore”.

    Dobbiamo riandare per capire quest’espressione all’esodo, immediatamente dopo l’uscita dall’Egitto, quando JHWH “prendendo per mano il suo popolo lo conduce al Sinai dove conclude con esso una solenne Alleanza (Es 24). Questa Alleanza consiste essenzialmente in una promessa da parte di Dio di comunione, condivisione di vita e protezione: “Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (cfr Gr 11,14). La risposta di Israele è immediata ed entusiasta.

    Ma la storia successiva fu un susseguirsi di tradimenti, dimenticanze, di “prostituzioni” ad altre divinità. Israele dimostra una costante e radicale incapacità di obbedienza alla Parola e quindi di fedeltà all’Alleanza del Sinai:

    Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio; ognuno seguì la caparbietà del suo cuore malvagio” (11,8).

    Dio se ne lamenta attraverso le labbra di Geremia:

    il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua” (Gr 2,13).

    Si ripropone perciò il dilemma presentato già da Isaia e Osea: che farà il Signore dinanzi all’irrimediabile tradimento della sua Alleanza? Abbandonerà il suo popolo per sempre oppure gli offrirà una nuova e insperata opportunità? Umanamente la risposta sarebbe solo  di condanna definitiva: ad un male radicale non vi può essere alcuna prospettiva di salvezza!

    A questo punto il ruolo del profeta è essenziale. Dalle labbra di Geremia scaturisce ancora una volta una Buona Notizia insperata: Dio farà una “nuova alleanzaNon come l’alleanza che egli ha conclusa con i nostri padri”. Ma in che consisterà questa “nuova alleanza”? In che cosa sarà nuova e diversa? Ascoltiamo:

    Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato (vv. 33-34)

    Sul monte Sinai Dio aveva “scritto” le “dieci parole” sulla pietra: ma queste “leggi” esterne non avevano in sé la forza per spingere-convincere il cuore dell’uomo. L’obbedienza alla “Legge” pur giusta e santissima è risultata disastrosa. Paolo apostolo leggerà quest’esperienza fallimentare nell’ottica della pedagogia di Dio il quale in tal modo “convince” il cuore dell’uomo ad aprirsi ad una giustizia diversa non più fondata sulle opere della Legge ma sulla fiducia accordata all’amore di Dio: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato” (Rm 3,20) e ancora: “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!” (Rm 11,32).

    E’ per tal motivo che risulta indispensabile una nuova alleanza nella quale all’uomo sia data la possibilità di sperimentare la comunione e l’amicizia con Dio impossibile da raggiungere attraverso le “opere della legge. La diversità della nuova Alleanza non sta nei contenuti ma nel fatto che essa non sarà più “scritta” su tavole di pietra ma direttamente nel cuore dell’uomo: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore”. La nuova legge non è più “catapultata” sull’uomo dall’esterno come un insieme di precetti, divieti, ingiunzioni, ma inscritta da Dio stesso nel cuore consisterà essenzialmente in un “dinamismo interiore”, in una spinta interiore. Comprendiamo il significato della promessa di JHWH: “Darò loro un cuore capace di essermi fedele” (24,7; cfr Ez 36,26). A questo punto tutte le norme, i comandi, i divieti e le ingiunzioni diverranno in un certo senso superflui perché  “tutti mi conosceranno più piccolo al più grande.

    Per mettere in atto questa “nuova alleanza” la condizione essenziale è anzitutto un perdono incondizionato da parte di Dio e non qualche merito particolare acquisito dall’uomo: “poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato”. La forma verbale è all’imperfetto: si tratta di un’azione continuata, protratta nel tempo il che sta a dire come l’uomo avrà bisogno di essere sempre perdonato.

    Ma come e quando tutto questo avverrà? Ciò che è prospettato non è forse solo un ideale stupendo ma irrealizzabile? Chi di noi può dire di aver sperimentato in pienezza questo “cuore nuovo” che gli permette di entrare con docilità nella “nuova alleanza” con una fiducia e obbedienza spontanea e gioiosa? L’esperienza ci dice infatti che il più delle volte avvertiamo ancora la “Legge divina” come un peso “di pietra” che ci schiaccia e ci rende ribelli. Ci può venir incontro la parola illuminante dell’apostolo Giovanni:

    Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui e non può peccare perché è nato da Dio” (1Gv 3,9).

    La “nuova alleanza”, che è il kerygma della morte e resurrezione di Gesù, è posta nel cuore di ciascuno di noi come un “germe divino” nel momento del nostro battesimo che ci fatto “nascere da Dio” rendendoci figli. È lo Spirito che opera la semina nel cuore di questo germe, ma la sua crescita, che corrisponde a una progressiva iscrizione della Parola-Legge nel nostro cuore  non si opera in un momento. Essa esige un processo lungo e faticoso, un cammino progressivo di apertura e docilità all’ascolto e accoglienza della Parola la quale deve vincere in noi mille resistenze, ribellioni e paure. Nella Chiesa questo cammino si chiama “catecumenato”.

    Per il discepolo c’è una certezza: nel momento stesso nel quale l’uomo si pone nel cammino dell’ascolto della Parola il cambiamento  del cuore diviene un processo inarrestabile: è un seme, un “germe divino” che innesca la crescita nel cuore della “nuova alleanza”.

    Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga (Mc 4,26-28).

    Per la riflessione

    La Legge  che lo Spirito vuole scrivere, col sangue di Cristo, nel nostro cuore è la legge dell’amore,  che scaturisce dalla buona notizia della morte del Signore Gesù. La pedagogia di Dio a tale scopo offre la sua Parola, il memoriale della nuova alleanza stipulata nel sangue di Cristo sulla croce e sempre ripresentata nell’Eucaristia, l’esperienza di un cuore sempre nuovo rinnovato nel sacramento della riconciliazione…

    Preghiera conclusiva

    Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza:

    tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore.

    A tua immagine hai formato l’uomo,

    alle sue mani operose hai affidato l’universo

    perché nell’obbedienza a te, suo creatore,

    esercitasse il dominio su tutto il creato.

    E quando, per la disobbedienza,

    l’uomo perse la tua amicizia,

    tu non l’hai abbandonato in potere della morte,

    ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro,

    perché coloro che ti cercano ti possano trovare.

    Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza,

    e per mezzo dei profeti

    hai insegnato a sperare nella salvezza.

    Padre santo, hai tanto amato il mondo

    Da mandare a noi, nella pienezza dei tempi,

    il tuo unico Figlio come salvatore.

    Egli si è fatto uomo per opera dello Spirito santo

    Ed è nato dalla Vergine Maria:

    ha condiviso in tutto, eccetto il peccato,

    la nostra condizione umana.

    Ai poveri annunziò il vangelo di salvezza,

    la libertà ai prigionieri, agli afflitti la gioia.

    Per attuare il tuo disegno di redenzione

    Si consegnò volontariamente alla morte,

    e risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita.

    E perché non viviamo più per noi stessi

    ma per lui che è morto e risorto per noi,

    ha mandato, o Padre, lo Spirito santo,

    primo dono ai credenti,

    a perfezionare la sua opera nel mondo

    e compiere ogni santificazione. (Dalla Liturgia)

  • 24 Apr

    Amore che mai s’arrende

    Un’infedeltà scandalosamente perdonata:

    Osea 11,7-9;14,2-9

     

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    L’ultima parola sulla storia non sarà quella dell’uomo contrassegnata da ripetute infedeltà.  Essa sarà unicamente quella di Dio il quale, nella sua gratuità, rimane instancabilmente fedele alla sua Promessa di Alleanza con l’uomo.

    Dinanzi all’insistente infedeltà da parte dell’uomo, Dio risponde “scandalosamente” stendendo sempre per primo la mano e offrendo la riconciliazione. Questa rivelazione viene ci viene data attraverso il ministero profetico di Osea.

    Osea si è sposato su indicazione di Dio stesso (cfr 3,1) con Ghomer, una prostituta molto attraente e leggera, la quale forte del suo fascino non esita, anche dopo il suo matrimonio, a concedere i suoi favori ai suoi innumerevoli amanti. Questa donna infine non trova di meglio che abbandonare il povero marito Osea dandosi nuovamente alla sua attività precedente.  Osea rimane solo, abbandonato, umiliato nella sua dignità di uomo e di marito.

    Al suo dramma di uomo si aggiunge, per lui, anche il dramma del profeta: Dio tace. Passano gli anni e anche l’affascinante Gomer invecchia, la sua bellezza decade, i suoi successi amorosi iniziano a declinare. Ella inizia a ripensare agli anni trascorsi con il marito Osea (cfr 2,9) e a valutare la prospettiva di un ritorno a lui; pensa tra sé: “Ritornerò al mio marito di prima  perché ero più felice di ora (cfr Lc 15,18). Così decide di riprendere i contatti col suo vecchio marito.  Osea è nel contempo contento e turbato: esitante tra un amore che sussiste ancora e un amore offeso e ferito. E’ proprio in questa situazione che Dio finalmente gli rivolge la sua parola:  la richiesta del Signore è sconcertante: “Riprendi Gomer con te e amala nuovamente!”. Il che sta a significare in altre parole: “Vedi Osea se mi si dimentica quando tutto va bene e non ci si ricorda di me che nei momenti difficili, credi tu che io possa accettare questo? Credi che io non ne soffra? Eppure guarda: ogni volta io riaccolgo il mio popolo: Dunque anche tu Osea, abbi il coraggio di riprendere con te la tua donna, proprio quella che ti ha tradito! Questo sarà un segno per Israele del mio amore che rimane fedele nonostante le sue ripetute infedeltà e abbandoni”.

    Il testo che ora ascolteremo ci presentano delle parole, pronunciate da Dio, che aprono uno spiraglio preziosissimo nel mistero insondabile sul suo cuore: in esse risuona una sbalorditiva e appassionata dichiarazione d’amore per il “suo” popolo, un amore che giunge a lasciarsi ferire e uccidere pur di non venir mai meno alla promessa:

    Il mio popolo è duro a convertirsi:

    chiamato a guardare in alto

    nessuno sa sollevare lo sguardo.

    Come potrei abbandonarti, Efraim,

    come consegnarti ad altri, Israele?

    Come potrei trattarti al pari di Admà,

    ridurti allo stato di Zeboìm?

    Il mio cuore si commuove dentro di me,

    il mio intimo freme di compassione.

    Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

    non tornerò a distruggere Efraim,

    perché sono Dio e non uomo;

    sono il Santo in mezzo a te

    e non verrò nella mia ira. (11,7-9)

    Di fronte al tradimento dell’alleanza da parte dell’uomo la sentenza di condanna sarebbe di per sé già inappellabile. Eppure al tradimento Dio non risponde con la vendetta ma con una sconcertante disponibilità ad offrire un perdono incondizionato di cui lui solo è protagonista. Un uomo o una donna cederebbero naturalmente alla collera dinanzi ad un tradimento ripetuto della persona amata appassionatamente; eppure Dio reagisce in modo diverso: “Non sfogherò – come sarebbe “normale” umanamente – il bollore della mia ira”.

    Israele allontanatosi da Dio “prostituendosi” ad altre divinità si ritrova  ora in una situazione di fallimento: le false speranze e attese riposte altrove si sono rivelate illusorie e inconsistenti. La reazione di Dio lascia allibiti: “Come abbandonarti?….Come?”: egli si rivolge al suo popolo in termini di tenerezza e dolcezza misti a dolore. Egli non può distruggere ( come fece con le città di Zeboim e Adma: cfr. Gn 19,25) ciò che con tanto amore ha creato e amorosamente fatto crescere; non lo può fare perché il suo cuore “si commuove” cosicché l’amore prevale sulla punizione: “Il mio intimo freme di compassione”. Questo intimo sono le viscere materne  di Dio, quelle stesse a cui i vangeli faranno riferimento parlando della compassione di Gesù per l’umanità ferita che lo circonda (cfr Mc 1,41; Mt 9,36).

    Sorge spontanea la domanda: tutto questo perché? Infatti Israele non ha alcun “merito” da rivendicare presso Dio. Il motivo dell’intervento salvifico  di Dio sta unicamente nella sua “santità”: “Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te”. Affermare la “triplice santità” di Dio è affermare la sua essenziale diversità dall’uomo, e questa si rivela eminentemente nell’amore a fondo perduto, incondizionato e gratuito che è unicamente suo. Paolo apostolo un giorno ribadirà questa certezza nella fedeltà dell’amore del Padre: se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13).

    A questo punto Osea può rivolgere il suo accorato invito al popolo perché abbandoni le strade che lo conducono lontano dal suo Signore e sposo, ritorni a JHWH che da sempre lo ha amato e perdonato:

    Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,

    poiché hai inciampato nella tua iniquità.

    Preparate le parole da dire

    e tornate al Signore;

    ditegli: «Togli ogni iniquità:

    accetta ciò che è bene

    e ti offriremo il frutto delle nostre labbra.

    Assur non ci salverà,

    non cavalcheremo più su cavalli,

    né chiameremo più dio nostro

    l’opera delle nostre mani,

    poiché presso di te l’orfano trova misericordia»

    (14,1-4)

    Ritornare” è il verbo tipico della conversione; si tratta di un volgersi indietro prendendo atto di aver smarrito la strada: “Tu ritorna al tuo Dio, osserva la bontà e la giustizia e nel tuo Dio poni la tua speranza, sempre” (12,7).  Il tornare a Dio implica evidentemente un riconoscere il proprio errore attraverso un pentimento sincero che fuoriesca non solo delle labbra bensì del cuore: “Preparate le parole da dire” (cfr Lc 15,18).  In questo cammino interiore di “ritorno” non saranno sufficienti solo alcuni atti di culto esterni che non intaccano la durezza del cuore: “Sia il tuo sacrificio a Dio la confessione del tuo peccato… confessare il peccato è il sacrificio che mi onora” (Sal 50,14.23; cfr Is 1,11).

    Dopo tale invito generale Osea porta alcuni esempi concreti di questi atti di pentimento: anzitutto il rifiuto di ricercare sicurezze all’infuori di Dio: “Assur non ci salverà, non cavalcheremo più cavalli”. Soprattutto Israele dovrà riconoscere la stoltezza e l’abominio del suo essersi prostituito facendosi schiavo di altri dei: “non chiameremo più Dio nostro l’opera delle nostre mani”.

    A questa umile confessione di pentimento e ai seri propositi di emendamento risponde ora Dio sempre  per bocca del profeta:

    Io li guarirò dalla loro infedeltà,

    li amerò di vero cuore,

    poiché la mia ira si è allontanata da loro.

    Sarò come rugiada per Israele;

    esso fiorirà come un giglio

    e metterà radici come un albero del Libano,

    si spanderanno i suoi germogli

    e avrà la bellezza dell’olivo

    e la fragranza del Libano.

    Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,

    faranno rivivere il grano, coltiveranno le vigne,

    famose come il vino del Libano (14,5-8).

    Israele ha portato dinanzi al Signore l’unico frutto che poteva offrire: l’umile confessione della propria infedeltà che è malattia incurabile  causata da una insanabile durezza di orecchio e di cuore resi incapaci di ascolto della Parola e di affidamento alla Promessa. Da questa malattia si può essere tuttavia guariti solo dalla mano di Dio: “Io li guarirò dalla loro infedeltà”, e questa azione “terapeutica” è frutto di un amore che prende da se stesso l’iniziativa: “li amerò di vero cuore”.

    E’ un amore straordinario quello di Dio, capace di ricreare una nuova vita (si parla di: “rugiada… fiorire… mettere radici… germogli….”). La sposa infedele sentendosi amata, senza alcun suo merito, di un amore eterno può ora ravveduta riposare tranquilla all’ombra dello sposo. La festa può aver inizio (cfr Lc 15,23):

    Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21-22).

    Per la riflessione

    Osea ci annuncia un Dio appassionato e pazzamente innamorato della sua creatura, nonostante i ripetuti tradimenti. Ma il suo è un amore che non vacilla perché non si misura in base alla nostra risposta, che non vive di contraccambio: un amore che si lascia ferire, e uccidere pur di non distruggere l’oggetto della sua benevolenza.

    E’ un annuncio che ci prepara ad accogliere la stoltezza dell’amore crocifisso: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito… Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,6.8).

    Preghiera conclusiva

    Voglio ricordare le mie passate sozzure,

    le oscurità della mia anima,

    non perché le ami, ma per amare te,  Dio mio.

    Lo faccio per amore del tuo amore,

    rievocando le mie vecchie strade perverse.

    Il ricordo è amaro, ma spero che mi riesca dolce tu,

    dolcezza che non inganna, dolcezza felice e sicura.

    E per amore del tuo amore,

    tendo a raccogliere me stesso

    dalla dispersione in cui mi trovai,

    frantumato in mille pezzi,

    quando, allontanandomi da te,

    che sei l’Uno, mi ridussi a un nulla,

    sperdendomi nei molti. (Agostino di Ippona, Confessioni)

     

     

     

     

     

     

     

  • 23 Apr

    Tradimento inaspettato

    Il canto della vigna: Isaia 5,1-7


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

    All’incommensurabile dono dell’Alleanza che Dio prepara e offre al suo popolo, Israele risponde in modo deludente. Siamo messi duramente dinanzi al dramma del nostro peccato, ovvero del nostro rifiuto di entrare nel progetto di Dio con la conseguente incapacità di “compiere la sua volontà”.

    Il messaggio dei profeti è una denuncia costante del peccato di Israele. Questo peccato consiste nella pretesa dell’uomo di far a meno di Dio: ma quest’atteggiamento porta sempre con sé solo sterilità, rovina e distruzione. Il peccato infatti non attenta solo ai diritti di Dio ma colpisce l’uomo stesso innescando nel suo cuore un virus di morte.

    Nel brano che ascolteremo il profeta Isaia utilizza il genere letterario della parabola utilizzando la ricca simbologia della vigna. Possiamo leggere la parabola di Isaia a tre diversi livelli: ad un primo livello essa racconta un’amara esperienza di un viticolture laborioso. Ad un secondo livello, in trasparenza, intravediamo il canto di un amante che narra il suo fallimento amoroso, infine ad un terzo livello, il più profondo, essa annuncia il fallimento della risposta d’amore del popolo eletto nei confronti del suo Signore.

    Canterò per il mio diletto

    il mio cantico d’amore per la sua vigna.

    Il mio diletto possedeva una vigna

    sopra un fertile colle.

    Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi

    e vi aveva piantato scelte viti;

    vi aveva costruito in mezzo una torre

    e scavato anche un tino.

    Si tratta di una “ballata” sullo stile di quelle cantate dai contadini durante il tempo della vendemmia. Viene narrata la cura e l’amore con cui il nostro contadino si è apprestato a coltivare la sua vigna.  Il  “diletto” – è il titolo col quale il profeta indica il Signore – si è apprestato ad un lavoro paziente e faticoso. Anzitutto ha preparato il terreno, ha innalzato al centro della vigna un torchio da utilizzare per spremere l’uva, e una torre da cui vigilare contro i ladri e gli animali.  È stato un lavoro immane! Alla fine la vite è piantata: si tratta di una vite scelta fra innumerevoli altre.

    Il suo amore per la vigna è autentico, non ha lesinato nulla per giungere al suo scopo, è in tutto simile alle cure con cui l’innamorato corteggia la sua donna. Ma vogliamo sapere il resto del racconto?

    Egli aspettò che producesse uva,

    ma essa fece uva selvatica

    Nonostante tutte le premure del “diletto”, la vigna disgraziatamente non ha prodotto frutti buoni, ma uva selvatica dura e aspra, inutilizzabile. Il risultato è amaro, la delusione è cocente. Non meraviglia che l’amore si trasformi in disappunto, in stizza, risentimento.

    Or dunque, abitanti di Gerusalemme

    e uomini di Giuda,

    siate voi giudici fra me e la mia vigna.

    Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna

    che io non abbia fatto?

    Perché, mentre attendevo che producesse uva,

    essa ha fatto uva selvatica?

    La canzone d’amore si trasforma in un libello d’accusa: l’agricoltore intenta un processo contro la sua vigna. Repentinamente il profeta si rivolge al pubblico in qualità di testimone invitandolo a dare un responso. La conclusione del processo è già scontata: senza ombra di dubbio sarà di condanna.

    Ora voglio farvi conoscere

    ciò che sto per fare alla mia vigna:

    toglierò la sua siepe

    e si trasformerà in pascolo;

    demolirò il suo muro di cinta

    e verrà calpestata.

    La renderò un deserto,

    non sarà potata né vangata

    e vi cresceranno rovi e pruni;

    alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.

    Un terribile castigo viene prospettato: la vigna viene “condannata” all’abbandono:“La renderò un deserto”. L’immagine dell’abbattimento del muro di cinta sta a significare il venir meno d’ogni protezione di cui fino a quel momento la vigna si era potuta avvantaggiare Il giardino curato si ritrasforma in arida terra di sterpi e di rovi.

    Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti

    è la casa di Israele;

    gli abitanti di Giuda

    la sua piantagione preferita.

    Egli si aspettava giustizia

    ed ecco spargimento di sangue,

    attendeva rettitudine

    ed ecco grida di oppressi

    Al termine della parabola la simbologia della vigna viene finalmente rivelata dal profeta ai suoi ascoltatori: la vigna è il popolo di Israele, il contadino premuroso è YHWH stesso. All’amore di predilezione di Dio nei suoi confronti, Israele ha risposto con l’infedeltà all’alleanza.

    Questo rifiuto si manifesta nell’ingiustizia e nel sopruso del debole, in una religione falsa che non implica un autentico ascolto della Parola. Dio aspettava dal suo popolo il “diritto” – ovvero un retto rapporto con Lui – ed ecco solo “delitto”, attendeva “giustizia” – ovvero un retto rapporto con gli altri – e ecco “grida di oppressi.

    La situazione sarebbe realmente drammatica se non apparisse, sempre per bocca di Isaia, una promessa da parte di Dio che un giorno la vigna fiorirà nuovamente e fruttificherà sotto la sua custodia vigilante:

    In quel giorno si dirà: “La vigna deliziosa: cantate di lei!». Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che venga danneggiata, io ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, io muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. O, meglio, si stringa alla mia protezione, faccia la pace con me, con me faccia la pace! Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti.” (27,2-6).

    E’ Dio stesso che preparerà una nuova vite “scelta” capace di dare finalmente quei frutti invano attesi dal suo popolo.

    Nel vangelo di Giovanni, Gesù  presenterà se stesso come questa vera vigna a cui tutti dovranno innestarsi per essere capaci a loro volta di “fare frutti” buoni:

    Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto… Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,1-6).

    Gesù darà il suo frutto obbedendo al Padre “sino alla fine” e dando la propria vita per noi (Gv 15,9.13).Vera vite è Cristo ma lo siamo anche noi se siamo innestati in lui nel battesimo e vivificati dall’Eucaristia. Senza questa comunione con lui noi non potremmo fare nulla, nessun frutto riuscirebbe a maturare in noi.

    Per la riflessione

    Siamo “vigna del Signore”: la nostra esperienza ci dice che come Israele, spesso manchiamo anche noi di dare quei frutti che dovrebbero scaturire da un’autentica fede e carità. Questi fallimenti, invece di deprimerci, dovrebbero aiutarci a prendere consapevolezza della necessità di essere sempre più innestati in Cristo vera vite, attraverso la Parola e i Sacramenti, affinché ci sia data la capacità di “fruttificare” autenticamente.

    Preghiera conclusiva

    Dal Salmo 80: Pianto di un popolo distrutto

    Pastore d’Israele, ascolta!

    Guidi il tuo popolo come un gregge

    e siedi in trono sopra i cherubini:

    manifesta la tua potenza!

    Dall’Egitto hai sradicato una vite,

    hai cacciato via gli altri popoli

    per trapiantarla nella loro terra.

    Davanti ad essa hai ripulito il terreno;

    ha messo radici profonde e ha occupato tutto il paese.

    Con la sua ombra ha coperto i monti;

    più alti dei grandi cedri erano i suoi rami.

    Ha disteso i suoi tralci fino al mare

    e i suoi germogli fino all’Eufrate.

    Perché hai demolito il suo muro di cinta?

    Ogni passante ruba i suoi grappoli.

    Viene il cinghiale dal bosco e la devasta,

    vi pascolano dentro bestie selvatiche.

    Ritorna, Dio dell’universo,

    guarda dall’alto del cielo,

    vedi quello che accade,

    salva questa tua vigna.

    Proteggi ciò che tu stesso hai piantato,

    Mai più ti abbandoneremo;

    ridonaci la vita e invocheremo il tuo nome.

    Rialzaci, Signore, Dio dell’universo,

    mostra sereno il tuo volto e noi saremo salvi.

  • 20 Apr

    INTRODUZIONE


    SIAMO VIANDANTI SULLA VIA DELLA VITA


    di p. attilio franco fabris

     


    La vita: un cammino, un viaggio, una ricerca… Sono tante le simbologie adottate per dire una verità sola fondamentale: nella vita vi ci siamo trovati. E la vita stessa ci chiede di essere vissuta sino in fondo con tutta la sua fatica, i suoi rischi, la sua conclusione. E’ la vita stessa a porci in cammino.

    Vi può essere il desiderio, la paura, le reticenze, l’entusiasmo di questo porsi in viaggio… “Ricominciare ogni giorno come fosse il primo” direbbero i padri del deserto.

    Ciò talvolta è faticoso e talvolta doloroso, il cammino appare così misero, così sofferto, annoiato. Il mettersi in viaggio ti richiede di abbandonare tante cose che vorresti portare con te ma non puoi: “Nell’andare se ne va e piange portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo portando i suoi covoni” (Sl 126,6). E’ spesso fai l’esperienza di  “portare” solo “semente da gettare”, ovvero di vivere, giorno dopo giorno, in perdita, senza nessun conforto e sicurezza.

    A tutti il cammino della vita chiede di gettare qualcosa e un giorno tutto. E allora il metterti ogni giorno in cammino, il ricominciare a gettare quella semente diviene un atto di speranza nella possibilità di  tornare un giorno nella gioia carichi di frutti insperati.

    Il porsi  in  cammino comporta l’accettazione della sfida del cambiamento; in un viaggio tante cose cambiano,  imprevisti, incontri, contrattempi, ritardi…: e questo accettare il cambiamento è faticoso, talvolta sofferto perché significa l’abbandonare  una realtà posseduta per una ricercata e creduta nella speranza.

    In questi giorni mi sembra importante il risvegliare in te la coscienza di essere persona in cammino, il saperti interrogare, e lasciare che la vita stessa ti interroghi. A livello personale il porti delle precise domande: in questo cammino della mia vita dove mi trovo? Lascia che il Dio della vita ti interroghi: Dove ti trovi? E’ la domanda che JHWH rivolge ad Adamo nascosto: “Dove sei?”.

    E’ dalla conoscenza del “dove mi trovo” che scopro una via, quella già percorsa e quella ancora da percorrere: il cammino della mia vita.

    Si tratta cioè di non lasciarti vivere, ma di imparare con umiltà e pazienza a rivedere e a riprendere in mano la tua storia, a ripossedere questo tempo che ti è stato dato in dono.

    Come credente la tua fede si basa su un Dio che con la sua creazione ha dato inizio ad una storia, che non è una storia ciclica, condannata ad un eterno ripetersi (il mito dell’eterno ritorno di Ulisse), ma una storia, come quella lineare di Abramo, che ha in Lui un avvio e una meta.

    Ti sentirai dunque viandante come Abramo verso la terra promessa, come Israele nel deserto, come Gesù nel cammino verso Gerusalemme, come la Chiesa verso il Regno.

    “ ”Via” è chiamata la vita, poiché ciascun uomo cammina verso una meta. Come coloro che durante la navigazione dormono o sono condotti spontaneamente dal vento in porto, anche se non se ne accorgono, (perché la corrente li spinge al compimento del loro viaggio), così anche noi, mentre il tempo della nostra vita scorre, ci affrettiamo, ciascuno verso il proprio fine, con il corso insensibile della nostra vita, come un movimento continuo e inesausto. Ad esempio, dormi e il tempo ti passa inosservato; vegli e sei irrequieto. Tuttavia, la via si consuma, anche se sfugge alla nostra percezione. Tutti noi uomini, dunque, corriamo una sorta di corsa, ciascuno affrettandoci verso il nostro fine. Perciò siamo in via. Così potresti intendere il significato di “via”. In questa via sei un viandante. Tutto tu oltrepassi, tutto resta dietro di te. Hai visto sulla strada un germoglio o dell’erba, o dell’acqua o qualunque altra cosa degna di essere osservata. Ne hai goduto un attimo, sei passato oltre” (Basilio, Om. sul Sal.1).

     

  • 18 Apr

    Dall’amore di sé al servizio all’altro

    Jean Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book


    Una comunità non è tale che quando la maggioranza dei membri sta facendo il passaggio da “la comunità per me” a “io per la comunità”, cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo ad ogni membro, senza escludere nessuno. E’ il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla morte alla resurrezione: è la Pasqua, il passaggio del Signore, ma anche il passaggio da una terra di schiavitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore.

    La comunità non è coabitazione, perché questo è una caserma o un albergo. Non è una squadra di lavoro e ancor meno un nido di vipere! E’ quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la maggioranza (bisogna essere realisti!), sta emergendo dalle tenebre dell’egocentrismo alla luce dell’amore vero. “Non concedete nulla allo spirito di partito, nulla alla vanagloria, ma ognuno per umiltà stimi gli altri superiori a sé; nessuno ricerchi i propri interessi, ma piuttosto ognuno pensi a quelli degli altri” (Fil 2,3-4).

    L’amore non è né sentimentale né un’emozione passeggera; è una attenzione all’altro che a poco a poco diviene impegno, riconoscimento di un legame, di un’apparenza vicendevole; è ascoltare l’altro, mettersi al suo posto, capirlo, interessarsene; è rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi; è compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra. Amare vuol dire anche essere felici quando l’altro è lì, tristi quando è assente; è restare vicendevolmente uno nell’altro, prendendo rifugio uno nell’altro. “L’amore è una potenza unificatrice” dice Dionigi l’Areopagita.

    Se l’amore è essere teso uno verso l’altro, è anche e soprattutto tendere entrambi verso le stesse realtà; è sperare e volere le stesse cose; partecipare della stessa visione, dello stesso ideale. E, con questo, è volere che l’altro si realizzi pienamente secondo le vie di Dio e al servizio degli altri; è volere che sia fedele alla sua chiamata, libero di amare in tutte le dimensioni dell’essere suo.

    Abbiamo qui i due poli della comunità: un senso di appartenenza gli uni agli altri ma anche un desiderio che l’altro vada oltre nel suo dono a Dio e agli altri, che sia più luminoso, più profondamente nella verità e nella pace. “L’amore è longanime; l’amore è servizievole; non è invidioso; l’amore non si gonfia, non si vanta; non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si irrita, non tiene conto del male ricevuto, ma mette la sua gioia nella verità. Scusa tutto, crede tutto, sopporta tutto” (1Cor 13,4-7).

    Perché un cuore faccia questo passo dall’egoismo all’amore, dalla “comunità per me” a “io per la comunità”, e la comunità per Dio e per quelli che sono nel bisogno, occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove risurrezioni. Per amare, bisogna incessantemente morire alle proprie idee, alle proprie suscettibilità, alle proprie comodità. La via dell’amore è tessuta di sacrifici.

  • 17 Apr

    L’amore: il mistero più alto

    da J. Vanier, La comunità luogo di festa e di perdono, Jaka Book

    “Amare” è una parola sconvolgente.

    “amare” è interessarsi veramente a qualcuno, essere attenti a lui; è rispettarlo così come è, con le sue ferite, le sue tenebre e la sua povertà, ma anche con le sue potenzialità, con i suoi doni forse nascosti; è credere in lui, nella sua capacità di crescere, è volere che lui progredisca; è nutrire verso di lui una speranza folle: “non sei perduto; sei capace di crescere e di fare delle belle cose; ho fiducia in te”; è gioire della sua presenza e della bellezza del suo cuore, anche se resta ancora nascosta; è accettare di creare con lui dei legami profondi e duraturi, malgrado le sue debolezze e la sua vulnerabilità, la sua attitudine alla ribellione e alla depressione.

    Assai spesso non m’interesso di qualcuno se non quando ho la percezione di fargli del bene e quando sento di essere io il bene. Attraverso quella persona, io amo me stesso. È un’immagine di me stesso che io ricerco. Ma se la persona comincia a disturbarmi, a chiamarmi in causa, allora costruisco barriere per proteggermi. È facile amare qualcuno quando mi asseconda o mi dà la sensazione di essere utile, di riuscire.

    “Amare” è tutt’altra cosa. Significa spogliarmi di me stesso al punto che il mio cuore possa battere al ritmo dell’altro, perché la sua sofferenza diventi la mia sofferenza. È com-patire.

    L’amore: mito o realtà, esperienza vera o illusione? L’amore, scopo reale di una vita o scappatoia… L’amore dai molti visi, come si presenta in televisione, al cinema, alla radio? Attrazione effimera tra l’uomo e la donna, tradotta in atti sessuali che non sono più che giochi, passatempi, rischi, avventure, desiderio di dominare o di sedurre? O meglio, realtà umana, anche divina, vetta dell’amicizia, che implica un dono e un’esperienza fuori dal tempo e una fedeltà nel tempo?

    L’amore è il mistero più alto e più profondo dell’universo, alla fonte e alla fine di ogni cosa. Implica una forza di carattere, una fedeltà interiore, un’intelligenza perspicace, una delicatezza del cuore e soprattutto un ascolto, un’accettazione, una disponibilità verso l’altro, attitudini rare nella nostra società.

    Ma le cose rare sono spesso le più belle: si tratta di orientare su di esse lo sguardo, il cuore e lo spirito degli uomini del giorno d’oggi. È solo questo tesoro incomparabile dell’amore e dell’unione che può donare all’uomo la felicità.

  • 16 Apr

    L’incontro vivo con Gesù vivo

    L’emmoroissa: Mc 5,21-34


    PRESENTAZIONE

    L’incontro con il Vangelo è sempre un incontro con una Parola raccontata, trasmessa, vissuta. Questa Parola è una persona: Gesù Cristo.

    Don Paolo[1], con un’espressione intuitiva e sintetica, ma densa di significato, diceva che l’incontro con il Vangelo è “Incontro vivo con Gesù vivo”.

    L’accostarmi al Vangelo diventa così un incontro vivo, personale con Gesù, persona viva. Un incontro che mi prende e coinvolge tutta la mia persona. Un incontro che diventa vita ed esperienza.

    Diceva ancora don Paolo: “Dal momento che Dio si è fatto Uomo, niente mi interessa di tutto il resto. Mi voglio incontrare con quest’Uomo. Gli voglio parlare. Lo voglio ascoltare”.

    È l’inizio di un’avventura, di cui sai il principio, e che arriva dove il Signore ti vuole condurre, se ti fidi di Lui.

    Senti il bisogno di conoscerLo a fondo, di studiare la Sua meravigliosa personalità; e il Vangelo studiato, scrutato, amato, diventa l’occupazione più deliziosa; e Gesù ti sorge sempre più vivo al fianco, sempre più conosciuto, sempre più sperimentato, sempre più familiare.

    E nasce il colloquio incessante con Lui. E Lui dentro cresce…

    Don Paolo aggiungeva: “…e ti brucia sempre più con il Suo amore, e ti fa sentire l’amore infinito del Padre che ti ha dato tutto, che ti dona tutto, che ti aspetta a casa”.

    L’incontro vivo con Gesù vivo è un’esperienza ed è il punto di partenza del “Movimento Fac”. Per il Fac, il fare è il traboccare dell’interiorità: il mistero di Cristo dentro di noi incontrato e amato, che diventa vita.

    L’incontro vivo con Gesù vivo punta al cuore, all’essenza dell’esperienza cristiana: l’incontro con Gesù salvatore nella Chiesa e nella storia. Richiede quindi alcuni atteggiamenti di fondo: immersione nella fede, silenzio interiore, umiltà.

    Nella prima parte del fascicolo sono riportate alcune indicazioni che don Paolo ci ha lasciato, le quali costituiscono un metodo, ormai collaudato dall’esperienza di molte persone, per giungere all’incontro vivo con Gesù vivo.

    Nelle pagine che seguono è riportato un “incontro vivo” fatto da don Paolo. Avvicinarsi direttamente attraverso le sue parole è il modo migliore per cogliere la sua intuizione e la sua passione per Gesù, Dio fatto uomo.

    È un’esperienza diretta, da provare.

    COME LEGGERE IL VANGELO

    “L’incontro vivo con Gesù vivo nel Vangelo” è una nota caratteristica dei Corsi Fac, momento privilegiato all’inizio di ogni giornata.

    Il metodo è semplice, ma profondo. Suggerito da Don Paolo, è stato ed è per tanti una via di luce per attuare il proprio incontro personale con il Dio fatto Uomo.

    Il Vangelo si legge (o si ascolta) portandosi con tutto il proprio essere davanti a Gesù vivo che parla.

    Bisogna uscire dalle piccole strettoie tempo-spazio per portarsi lì, tra la folla che è attorno a Gesù.

    E questo bisogna farlo lasciandosi attirare dal Padre. “Nessuno  può venire a me, se non lo attira il Padre …” (Gv 6,44).

    È allora, e solo allora, che si compie il grande prodigio: l’incontro di te vivo con Gesù vivo.

    Chiudi un momento gli occhi e contempla con la mente questa realtà.

    Ecco Gesù. È seduto e parla alle folle. Sono giudei, samaritani, galilei.

    Ma osserva attentamente, guarda!

    Tutti questi sono come in prima fila. Dietro a loro, in seconda fila, stanno gli uomini della generazione seguente, e nella terza fila quelli della generazione appresso; poi via via altre generazioni… fino alla tua.

    Gesù parla a tutti, a ciascuno.

    Al centro della storia, attende che tu giunga finalmente a Lui.

    I CINQUE GRADI DI CONOSCENZA DEL VANGELO

    Questo modo di avvicinare il Vangelo passa per cinque diversi gradi di conoscenza.

    1 –  Conoscenza “orizzontale” o “in superficie”.

    Si afferra il senso del brano evangelico, ci si rende conto di ciò che realmente Gesù intende dire; di ciò che questo o quel fatto significano.

    Questa prima conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, trovandosi ad ascoltare in una delle più lontane file, si alza in punta di piedi, tende bene l’orecchio, segue il discorso attentamente e capisce.

    2 –  Conoscenza “verticale” o “in profondità”.

    E’ quella che, oltre al senso generale del testo, permette di afferrarne l’anima e di scendere in profondità.

    Qui chi legge ne scruta attentamente le divine ricchezze. Ne ricerca le connessioni con le pagine che precedono e che seguono; le relazioni dei fatti con l’ambiente, i costumi, e le persone.  Si tratta in pratica di studio che può essere sempre più profondo, attraverso testi con note accurate, commenti, monografie.

    Questa seconda conoscenza la potremmo raffigurare in colui che, dopo essersi alzato in punta di piedi per ben intendere Gesù, viene portato dalla intensità della sua attenzione a spostarsi lentamente dalle più lontane file, fino a sedersi nella prima fila, ai piedi del Maestro.

    Questi primi due gradi di conoscenza del Vangelo distano però dal terzo grado, e dai seguenti, quanto la terra dal cielo.

    Sono due gradi di studio: il primo per capire; il secondo per approfondire. Ma in nessuno di essi si ha l’autentico incontro vivo con Gesù vivo.

    Questo avviene nel terzo grado, e nei due seguenti.

    3 –  Conoscenza “personale”.

    La persona, percorso il primo e secondo grado della conoscenza del Vangelo, si trova come faccia a faccia con Gesù.

    E’ qui che ha il primo brivido dell’incontro col Figlio di Dio.

    Quasi senza avvedersene, venutasi a sedere (sempre attratta dal Padre) in prima fila davanti a Gesù, ad un certo momento si trova sola con Lui.

    Sì, sola, perché in quel momento l’anima s’incontra con la realtà di Gesù che parlando, dicendo il suo Vangelo a tutti, lo vuole dire a ciascuno.

    L’anima è sola con Lui: faccia a faccia, respiro a respiro.

    Gesù parla: sono le stesse identiche parole di prima, quelle scritte su quella pagina, già studiate a fondo, con quel preciso senso… ma ora applicate da Lui a me.

    L’incontro vivo e vitale è avvenuto.

    Gesù mi guarda e parla, è Lui che dice quella pagina di Vangelo a me, per me, per i miei bisogni.

    E Lui mi conosce tutto: presente, passato, futuro. Lui mi esaurisce con la sua conoscenza, perché mi ha fatto, anzi mi fa continuamente, mi sostiene, mi conduce misteriosamente.

    Allora Gesù parla a lungo, e dice cose misteriose, ed applica quelle cose divine a me, per i miei bisogni vivi, brucianti.

    Gesù che parla è realmente dentro… perché in me, vivo di vita divina, c’è il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo.

    ……

    È così che il Vangelo diventa mia vita.

    È da questa terza conoscenza coltivata con costanza e con amore che nasce l’’amicizia intima personale con Gesù, l’Uomo più vivo, l’Amico senza del quale non si può vivere.

    È qui che scocca il “Sì” dell’anima e diventa sempre più profondo, sempre più intenso, sempre più frequente, sempre più caldo fino a diventare respiro, vita…

    E’ proprio qui, in questa conoscenza personale, che si inizia quella che noi chiamiamo, perdonatemi l’espressione insolita, la “malattia di Gesù”: malattia grave che non perdona.

    Mentre Lui dentro, cresce, cresce sempre più, fino ad occupare tutto: è il punto in cui l’anima sente la verità gioiosa del “Per me… il vivere è Cristo …” (Fil 1, 21); “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

    È in questa terza conoscenza che l’anima si può perdere in un solo versetto di Vangelo e rimanere a lungo, anche per ore, a colloquio con il suo Amico, con il suo Tutto.

    E questo terzo grado di conoscenza è di natura sua strettamente unito al quarto, è fatto per il quarto.

    4 –  Conoscenza “vitale”.

    È la conoscenza che viene dal Vangelo tradotto nella propria vita, accolto in sé.

    Spieghiamoci con un esempio. Un chimico, di un bicchiere d’acqua vi dirà tante cose. Vi darà la formula dell’acqua: H2O; vi parlerà delle sue proprietà, dei suoi contenuti organici e inorganici, ecc.

    Ma se avendo sete berrà quell’acqua, ne avrà una cognizione nuova, “vitale”; conoscerà la preziosità provvidenziale di quel liquido. Sperimenterà in sé benefici: alcuni avvertiti, altri meno, ma che sente vanno a giocare tra le componenti della propria vita e del proprio benessere.

    Così è di colui che, dopo essere passato per la prima, seconda e terza conoscenza di una pagina di Vangelo, si decide a tradurla nella propria vita.

    5 –  Conoscenza “vitale totale, o integrale”.

    Mentre la conoscenza personale e la vitale approfondiscono ed intensificano il loro ritmo, proprio per natura loro, portano alla grande, gioiosa, luminosissima scoperta del Cristo Totale: il mistero del Corpo Mistico.

    Così la persona si trova davanti al Gesù tutto intero, in cui sono presenti tutti i fratelli di tutti i tempi con tutti i loro bisogni, fusi nell’unità della reale persona mistica di Gesù, con i quali e per i quali noi operiamo, soffriamo, gioiamo. Usciamo allora da un quadro troppo ristretto, ancora egoistico ed iniziale: Lui-io, per entrare nel quadro dell’incontro col Cristo Totale: Lui capo, Lui corpo e io.

    Giunta a questo punto la persona ad imitazione di Gesù, è tutta tesa verso i fratelli, totalmente donata agli altri.

    … Per la redenzione di tutti.

    Ha allora la conoscenza più piena che di Gesù si possa avere quaggiù.

    È questa cognizione che fa i Santi.

    I Santi sono appunto coloro che hanno accolto Gesù nel modo più pieno, eroico, perfetto. In una parola “più dinamico”.

    Sono così diventati Vangelo vivo. Gesù vivo che passa attraverso il mondo di oggi. Ecco perché il mondo si commuove e crede. Essi sono Gesù che passa, ora, tra noi.

    Perché è di Gesù solo che ha bisogno il mondo. Gesù solo è il Salvatore.

    Chi accetta il Vangelo e lo rende vita, converte il mondo, perché in lui pesa e opera Gesù vivo.

    E questa realtà opera sempre, e tanto più quanto più l’accettazione è profonda, piena, eroica.

    LA SIGNORA BERENICE S’INCONTRÒ CON GESÙ

    “Essendo passato di nuovo Gesù all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava  lungo il mare. Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza: “La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva”. Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita”. E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male. Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: “Chi mi ha toccato il mantello?”. I discepoli gli dissero: “Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?”. Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Gesù rispose: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.” (Mc 5,21-34)

    Preghiamo!

    “Vieni, o Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del tuo  amore…”

    E rivolgiamoci alla nostra celeste Mamma e invochiamola  perché ci venga in aiuto. “Ave, o Maria…”

    Prima conoscenza di questa pagina di Vangelo: conoscenza “orizzontale”.

    Entriamo anche noi in mezzo alla folla che sta aspettando Gesù.

    Dimentichiamo per un momento il nostro ambiente, le nostre cose, i nostri affari, e tuffiamoci nella luce viva della fede, per incontrarci vitalmente con Gesù.

    Leggiamo adagio, e con pace.

    Seguiamo attentamente il  fatto  per capire.

    Ricordiamoci ben bene di rimanere in mezzo alla folla, tuffati in fede viva.

    Seconda conoscenza, e cioè in profondità.

    Riprendiamo il brano di Vangelo. Scrutiamolo. Per prima cosa, inquadriamo il fatto.

    Gesù, qualche giorno prima, aveva attraversato il lago (e fu proprio in questa circostanza che accadde il grande miracolo della tempesta sedata). Da Cafarnao, giunse presso Kursi, nel paese dei Geraseni.

    Qui era avvenuta la guarigione dell’indemoniato di Gerasa. Il miracolo, veramente drammatico, è narrato dai tre evangelisti Matteo, Marco e Luca, con particolari ricchi ed interessanti.

    Da Gerasa, Gesù, riattraversando il lago, puntò nuovamente su Cafarnao dove capitarono i fatti che noi mediteremo.

    Ed ora approfondiamo.

    “Essendo passato di nuovo Gesù in barca all’altra riva, gli si radunò attorno  molta folla, ed egli stava lungo il mare” (Mc 5,21).

    Non vi saprei dire quanti giorni sia stato assente Gesù da Cafarnao, forse solo un paio di giorni, ma, per quella gente, quei giorni erano sembrati interminabili.

    La folla però era rimasta ad aspettare sulla riva: “Al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui” (Lc 8,40).

    Vieni, giriamo anche noi tra questa folla e osserviamo attentamente. La gran massa è composta di gente del popolo, assetata della divina parola di Gesù. Ci sono gli entusiasti guariti dal Maestro da varie malattie; attorno ad essi i loro parenti; poi i curiosi che mai finiscono di fare domande. Poi… gruppi di magnati: dottori, scribi, … gente dallo sguardo altero, racchiusi nei propri ricchi mantelli e sempre un po’ in disparte.

    E poi gente e gente, di tutte le età, classi e condizioni.

    Tutti aspettano Gesù.

    Tra tutti però, due persone, in modo tutto particolare, aspettano il Maestro: la signora Berenice[2] e… Mons. Giairo (perdonate se lo chiamo Monsignore: ma era il capo religioso della città).

    La signora Berenice era ammalata, e per di più di una malattia che, a quei tempi, rendeva legalmente impuri

    Poverina, da ben dodici anni soffriva di noiose e dolorose perdite di sangue.

    Aveva tentato tutto il tentabile per guarire; aveva consultato tutte le celebrità del tempo, ma invece di stare meglio era andata sempre peggiorando, e ormai aveva quasi dato fondo a tutte le sue sostanze.

    Ed ora lasciate che vi ricostruisca al vivo ciò che dovette essere capitato a questa signora nei giorni immediatamente antecedenti a quello in cui si confuse tra la folla che attendeva Gesù.

    Capitò così, o pressappoco, o anche meglio di così.

    Ammalata, (…si sa, tutti i malati fanno così!) non appena trovava una persona dal cuore compassionevole, si apriva in confidenze e raccontava tutti i suoi malanni: come si era ammalata, le cure fatte, le celebrità consultate, i miglioramenti, i peggioramenti, le speranze, le delusioni. Ed ora speranze non ne aveva proprio più…

    Ma un giorno Berenice sentì una notizia sorprendente che le diede un violento tuffo al cuore. Ciò che aveva saputo era meraviglioso, quasi incredibile.

    Stava dunque un giorno raccontando i suoi malanni… a chi?

    Questo non ve lo saprei proprio dire davvero, ma a qualcuno sì. A qualcuno che ai suoi lamenti e alla sua desolata sfiducia aveva contrapposto improvvisamente una speranza luminosissima, tanto luminosa da sembrarle assoluta certezza.

    Immagino questo dialogo.

    “Signora, ricorra anche lei al Rabbi! ”

    “Al Rabbi? E chi è questo Rabbi?”

    “Rabbi Jehoshuà di Nazareth! ”

    “Un medico?”

    “E che medico!! ”

    E l’interlocutore a narrare…

    Erano guarigioni…, miracoli…; poi la descrizione della bontà del Maestro, poi le sue parole tanto dolci e misericordiose, poi: “Pensi, è solo qualche mese che non molto distante da qui, a Nain, il Rabbi risuscitò perfino un giovanetto che veniva portato alla sepoltura! Dicono poi che guarisce tutti, tutti. Non si sa di nessuno che gli abbia chiesto di guarire e non l’abbia guarito!”

    Berenice se ne stava ad ascoltare col fiato sospeso, gli occhi sbarrati. Non perdeva una sillaba, un particolare.

    Cominciò quindi a fare domande e domande. Un vero fuoco di fila. “E dov’è?” – “E come si può parlargli?” – “E ascolta tutti?”

    Intanto nel cuore della poveretta la speranza, accesasi di colpo al primo racconto, si era andata dilatando, irrobustendo, fino a diventare assoluta certezza.

    Gesù! Ecco il nome che per Berenice era ormai diventato l’ancora della salvezza.

    E venne il giorno in cui corse voce che il Rabbi di Nazareth stava per giungere in città, e gran folla si era riversata verso la spiaggia.

    Berenice, superando le mille sue perplessità (era donna, e donna ammalata… di quel male…) si immerse tra la folla che correva, giunse alla spiaggia e attese.

    Attese a lungo la grande venuta, fermissimamente decisa a porre in atto un piano lungamente meditato.

    …..

    Intanto in un altro punto della città, in una casa signorile, una bimba di dodici anni stava agonizzando. Era la figlia unica di Giairo, il responsabile della Sinagoga di Cafarnao.

    Lasciamo per un istante la nostra Berenice ed entriamo in punta di piedi in questa stanzetta. Le finestre sono socchiuse, è gran silenzio, si ode solo il lieve rantolo della piccola ormai morente. Di tanto in tanto scoppi di pianto, poi invocazioni, sospiri… è la mamma! Il padre non c’è.

    Più volte da quella casa gruppi di parenti e amici erano partiti in cerca affannosa di Gesù, ma nessuno era stato capace di rintracciarlo; ora era partito il padre in persona con alcuni servi.

    Mentre la nostra Berenice, da ore, attendeva sulla spiaggia, Giairo girava affannosamente cercando Colui che solo poteva fare il miracolo.

    “Dov’è il Rabbi?” domandava di tanto in tanto ai passanti.

    “Di là dal lago! Così dicono.” “Tre giorni fa era alla spiaggia!” erano le risposte.

    “Sapete dove si trova il Rabbi di Nazareth?” domandò ad un certo punto a della gente che correva verso l’imbarcadero.

    “Corriamo anche noi al lago. Dicono che sia arrivato da Gerasa!” gli fu risposto.

    Giairo, di corsa, infilò la via del porto, deciso a tutto per portare il taumaturgo Maestro dalla sua piccola che stava morendo.

    Gesù era veramente arrivato da poco, ma già era stato circondato da gran folla che lo stringeva da ogni lato.

    Camminando alquanto lungo la riva del lago, era giunto ad un piccolo rialzo, e qui, seduto, aveva incominciato a parlare.

    “Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale vedutolo, gli  si gettò ai piedi e lo pregava con insistenza : “La mia figlioletta è agli estremi; vieni ad imporle le mani perché sia guarita e viva” ” (Mc 5,22-23).

    “Largo, largo!” fa qualcuno. Ed ecco Giairo si butta ai piedi di Gesù e scoppia in dirotto pianto. La folla ammutolisce; si fa gran silenzio. Poi il pover’uomo, alzando il viso solcato di lacrime verso il Maestro, lo supplica, con frasi tronche, “ di venire! ”.

    La sua piccola, di dodici anni, l’unica, stava morendo.

    Sono presente a questa scena straziante, vi partecipo vivamente.

    Il pianto di un uomo… la compassione più profonda dipinta su tutti i volti… il rispetto del popolo per quel maestro venerato…

    Ma io guardo Gesù.

    Ecco, lo vedo subito alzarsi, sollevare affettuosamente da terra quel poveretto, e: “Vengo!”

    La folla si muove, lentamente punta verso una di quelle viuzze orientali tutte strettoie e sghimbesci, e preme, preme.

    Senti? Non ti senti premuto da ogni lato? La folla ci porta.

    Ma ho sempre tenuto d’occhio anche Berenice, ed ho visto il lampo dei suoi occhi quando il Maestro, in un gesto di sconfinata bontà e premura, è balzato in piedi dicendo: “Eccomi, vengo!”

    Proprio come fa un servo davanti al suo padrone!

    Sì, perché Lui è venuto a servire, Lui Dio (… e tu?).

    Pietro e i Dodici circondano ora il Maestro, che ha vicino Giairo, e lo difendono in tanto pigia pigia.

    “Largo! Largo! Un po’ di educazione! Lasciate passare il Maestro”, mi pare di sentire gridare Pietro. Il caro Simone è infatti tutto compreso della sua responsabilità di capo dei Dodici. Con la sua forza da torello, trattiene la folla che continuamente preme, urta, minaccia di travolgere. Tutti vorrebbero stare vicini al Maestro, vederlo, toccarlo, dirgli una parola; … vedere bene cosa capiterà.

    Le viuzze sono strette, e la folla cresce continuamente.

    Il piccolo gruppetto dei Dodici che attornia il Maestro, è ora sospinto, ora trattenuto, e sempre da ogni parte incalzato, pressato.

    È il momento giusto: gran trambusto, gran pigia-pigia.

    Berenice, confusa nella folla, alle spalle di Gesù, si fa animo. Preme, lavora di braccia, e a gran fatica, una dopo l’altra, espugna le fitte file di schiene che la separano dal Maestro.

    È trafelata, rossa in viso, stanca, ma… ormai è quasi giunta!

    Il piano l’aveva architettato da tanti giorni: confondersi tra la folla, arrivare fino alle spalle del Maestro, toccargli anche solo il fiocco del mantello, SAREBBE GUARITA! Aveva infatti sentito dire tante volte che da Lui usciva una virtù risanatrice.

    Sono gli ultimi sforzi.

    Eccola, Berenice, rossa in volto, vivamente emozionata, affannata, ma traboccante di fede viva, ha superato ormai l’ultimo ostacolo: una ondata della folla che minacciava di risucchiarla in un vortice dopo tante fatiche! Ecco, ora si fa piccola piccola, ora si sommerge, scompare tra la folla; allunga il braccio in uno sforzo supremo verso il Maestro, laggiù in basso verso il fiocco del mantello che vede oscillare…

    Eccolo! CIAK!… Lo ha finalmente afferrato; Lo ha toccato!

    Un brivido la percorre tutta, poi un grande benessere.

    È guarita!

    Felice, beata! lascia quel fiocco benedetto, si ritira.

    “Nessuno mi ha scorto!” stava sospirando.

    Ma d’un tratto quella grande marea incalzante si fermò; di botto.

    “Chi mi ha toccato!?” chiese solenne e pacata la voce del Maestro che si era improvvisamente arrestato.

    “Chi mi ha toccato?”

    (A questo punto sarebbe veramente delizioso meditare sui tre Vangeli sinottici, passando dall’uno all’altro per coglierne le interessantissime varianti, che concordate, darebbero una scena viva, di estremo interesse.)

    Pietro, grondante sudore e trafelato per tanta fatica nel trattenere la gente che da ogni parte pareva volesse soffocare il Maestro, alle parole di Gesù, rimane trasecolato: “Chi mi ha toccato?… Ma Maestro, vedi bene che tutti ti pigiano, ti stringono da ogni parte e tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Ma Gesù, serio, e girando attorno lo sguardo, continuava a chiedere: “Chi mi ha toccato?”

    Questo gesto di girare attorno gli occhi, fissando con lo sguardo, è riferito da Marco che, come tutti sappiamo, riporta nel suo Vangelo la predicazione di Pietro. Marco infatti fu a Roma, per lunghi anni, il segretario di Pietro.

    In questa paginetta, ed in quella che verrà, raccontata da Marco, noi possiamo riascoltare l’eco della predicazione viva, pittorica di Pietro, testimone oculare.

    “Chi mi ha toccato? ” continuava a chiedere Gesù. E, man mano che Gesù si volgeva intorno chiedendo, la gente a rispondere: “Io no! io no!”.

    E a me pare di sentire anche Mons. Giairo rispondere: “Io no, Maestro!”… ed era vero!

    Allora Gesù soggiunse: “Qualcuno mi ha toccato, perché ho sentito che una forza è uscita da me.”

    Ormai Gesù, guardando fisso, e sempre chiedendo: “Chi mi ha toccato?” si era voltato verso coloro che gli stavano alle spalle.

    Berenice, che nella sua felicità già si era ritratta di qualche passo tra la folla, al fermarsi di botto del Maestro, al sentire quelle tremende parole, era rimasta come di sasso. D’altronde la morsa della folla la teneva lì stretta e ferma a soli pochi metri da quegli occhi divini che ora, non aveva alcun dubbio, stavano per posarsi su di lei.

    Gettando un lamento, la poverina si fece avanti, cadde bocconi ai piedi del Maestro, e tremante… “disse tutta la verità”.

    Sentiamola da Marco:

    “…. da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera  di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello.

    Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita.”

    E all’istante le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.” ( Mc 5, 25-29).

    Se andaste a vedere lo stesso racconto in Luca, a proposito del male di questa poveretta e di tutto ciò che aveva dovuto soffrire a causa dei medici (ed è per questo che in Marco, nel brano riportato, noi abbiamo sottolineato alcuni versetti), voi trovereste un racconto molto succinto e sbrigativo. Luca è medico, e si comprende perciò la sua delicatezza verso… i colleghi che avevano curato Berenice. Salta perciò dei particolari che è pur interessante sapere, e che Pietro nella sua predicazione non tralasciava mai.

    “Gesù le disse: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace, e sii guarita dal tuo male””. (Mc 5,34)

    Il volto di Gesù si era aperto ad un luminoso sorriso; aveva potuto mostrare al suo popolo una donna in cui aveva trovato tanta fede.

    “La tua fede ti ha salvata!”

    Fede! Fede!

    Ecco ciò che ci vuole perché succedano i miracoli.

    Terza conoscenza: personale.

    E questa si fa personalmente.

    Non la posso fare io per te.

    Ed è qui che il Vangelo esplode in meraviglie. Rileggi il brano da capo. Sta in silenzio. Senti Gesù che applica quelle verità a te.

    Al solito, io mi sforzerò di darti un aiuto dall’esterno. Ti darò una mano indicandoti dei passaggi. Ma poi dovrai continuare tu.

    Non temere. Ti condurranno gli Angeli.

    PONTI PER PASSARE AD UN INCONTRO VIVO CON GESU’ VIVO

    *       “ Lo accolse la folla perché tutti lo stavano aspettando ” (Lc 8, 40).

    Sono qui sulla spiaggia. Tutti aspettano Gesù.

    Tutti. Anch’io. Gesù verrà.

    Ci sarà chi, dopo averlo atteso, si esaurirà in sterile curiosità: vedere cosa farà Gesù.

    Ci sarà chi, vistolo, crollerà le spalle e se ne andrà.

    Ci saranno tanti che lo pigeranno e premeranno, ma senza toccarlo.

    E ci saranno coloro che lo toccheranno e sentiranno che da Lui erompe forza e vita.

    Chi lo ha toccato, tornerà a ritoccarlo per avere sempre più luce, più forza, più vita. Una volta infatti che uno ha veramente trovato Gesù, da Lui non può più separarsi e solo bramerà quell‘innesto-contatto prolungato che è il segreto generatore di vita divina.

    E chi, avendo incontrato Gesù, non lo ha conosciuto e perciò non lo ha toccato, continuerà ugualmente a cercarlo  affannosamente. Perché TUTTI hanno bisogno di Gesù.

    Ecco, arriva Gesù. Bisogna che IO lo tocchi.

    *       Toccare e stringere.

    Leggiamo attentamente e notiamo:

    – v. 24 “molta folla gli si stringeva intorno”

    – v. 31 “ … la folla ti si stringe attorno”

    … ma da Gesù non usciva forza alcuna.

    – v. 27 “… gli toccò il mantello”

    – v. 28 “… se riuscirò… a toccare

    – v. 30 “… chi mi ha toccato il mantello?

    – v. 31 “… chi mi ha toccato?

    … e da Gesù uscì forza divina.

    Si può pestare i piedi a Gesù; lo si può schiacciare… senza toccarlo.

    …..

    Si tocca Gesù ogniqualvolta lo si incontra nella luce della fede, ma fede*. vera, quella “ teologale ”, perciò fede-vita.

    Gli si pestano i piedi, lo si urta e schiaccia, quando “si sa” di Lui; “si dice, si discute, si tratta” di Lui, anche molto dottamente, ma rimanendo sul piano della fede… scientifica, che non è fede-vita.

    Qui, l’anima, che pure intimamente ha fame di Gesù, non si incontra con Lui, perché rimane sul piano puramente umano.

    Di più. È qui che avviene il grande inganno di credere di avere fede, quando si hanno solo delle nozioni…

    E il danno di questo abbaglio è gravissimo.

    Che direste di un imprenditore che avesse costruito la più perfetta delle fabbriche, ma si fosse dimenticato di fare l’allacciamento dei fili della propria cabina ai cavi che attingono energia dalla centrale?

    Qualora costui non si decidesse a stabilire quel necessario contatto, dovrebbe rassegnarsi a vedere vano e pazzia tutto il lavoro fatto.

    Tutta la sua fatica, senza quel contatto con una sorgente di energia, si risolverebbe in un grande e faticoso fallimento.

    Come prete, rimango meditabondo davanti alla meraviglia del primo Papa: “Maestro, tutti ti urtano e Tu chiedi: Chi mi ha toccato?”.

    Pietro non sapeva che si può urtare e pestare i piedi a Gesù, senza toccarLo…

    Ma lo imparò!

    Io posso non toccare Gesù, pur celebrando la S. Messa; stringendo l’Ostia tra le mani; donando Gesù agli altri…

    E tu, quando partecipi alla Messa, quando vai in Chiesa, quando ricevi Gesù, tocchi Gesù… o solo gli pesti i piedi?

    Solo se lo toccherai, sentirai che da Lui esce vita e gioia divina.

    * “La tua FEDE ti ha salvata”.

    Gesù con te ragionerà a fondo dei casi della tua vita. Forse ti dirà così:

    “Non i tuoi sforzi (anche quelli ci vogliono, e falli tutti), ma la Fede, quella vera, ti salverà.

    Lavora, lavora, lavora… e poi?

    Accumula, accumula, accumula… e poi?

    Perché tutto ciò che hai fatto e fai, quello che hai guadagnato e pensi di guadagnare, si muti in luce, diventi gioia e sia vero guadagno per te e per i fratelli, deve essere costantemente fatto e visto nella luce della fede! Questa, e questa sola ti salverà.

    E la fede è vedere con gli occhi di Dio.

    Ti muovi tu costantemente in questa luce?

    Sappi che qui sta il segreto della felicità vera.

    Altrove non la troverai”.


    [1] Don Paolo Arnaboldi (1914/1998), iniziatore del Movimento Fac.

    [2] Pare, da antiche tradizioni, che questo fosse il nome della donna guarita da Gesù. Noi la chiameremo così.

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