• 02 Dic

    Sant’Andrea apostolo, il primo-chiamato

    Catechesi papa Benedetto XVI
    14 giugno 2006

    Cari fratelli e sorelle,
    nelle ultime due catechesi abbiamo parlato della figura di san Pietro. Adesso vogliamo, per quanto le fonti permettono, conoscere un po’ più da vicino anche gli altri undici Apostoli. Pertanto parliamo oggi del fratello di Simon Pietro, sant’Andrea, anch’egli uno dei Dodici. La prima caratteristica che colpisce in Andrea è il nome: non è ebraico, come ci si sarebbe aspettato, ma greco, segno non trascurabile di una certa apertura culturale della sua famiglia. Siamo in Galilea, dove la lingua e la cultura greche sono abbastanza presenti. Nelle liste dei Dodici, Andrea occupa il secondo posto, come in Matteo (10,1-4) e in Luca (6,13-16), oppure il quarto posto come in Marco (3,13-18) e negli Atti (1,13-14). In ogni caso, egli godeva sicuramente di grande prestigio all’interno delle prime comunità cristiane.
    Il legame di sangue tra Pietro e Andrea, come anche la comune chiamata rivolta loro da Gesù, emergono esplicitamente nei Vangeli. Vi si legge: “Mentre Gesù camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, perché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini»” (Mt 4,18-19; Mc 1,16-17). Dal Quarto Vangelo raccogliamo un altro particolare importante: in un primo momento, Andrea era discepolo di Giovanni Battista; e questo ci mostra che era un uomo che cercava, che condivideva la speranza d’Israele, che voleva conoscere più da vicino la parola del Signore, la realtà del Signore presente. Era veramente un uomo di fede e di speranza; e da Giovanni Battista un giorno sentì proclamare Gesù come “l’agnello di Dio” (Gv 1,36); egli allora si mosse e, insieme a un altro discepolo innominato, seguì Gesù, Colui che era chiamato da Giovanni “agnello di Dio”. L’evangelista riferisce: essi “videro dove dimorava e quel giorno dimorarono presso di lui” (Gv 1,37-39). Andrea quindi godette di preziosi momenti d’intimità con Gesù. Il racconto prosegue con un’annotazione significativa: “Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo», e lo condusse a Gesù” (Gv 1,40-43), dimostrando subito un non comune spirito apostolico. Andrea, dunque, fu il primo degli Apostoli ad essere chiamato a seguire Gesù. Proprio su questa base la liturgia della Chiesa Bizantina lo onora con l’appellativo di Protóklitos, che significa appunto “primo chiamato”. Ed è certo che anche per il rapporto fraterno tra Pietro e Andrea la Chiesa di Roma e la Chiesa di Costantinopoli si sentono tra loro in modo speciale Chiese sorelle. Per sottolineare questo rapporto, il mio predecessore Papa Paolo VI, nel 1964, restituì l’insigne reliquia di sant’Andrea, fino ad allora custodita nella Basilica Vaticana, al Vescovo metropolita ortodosso della città di Patrasso in Grecia, dove secondo la tradizione l’Apostolo fu crocifisso.
    Le tradizioni evangeliche rammentano particolarmente il nome di Andrea in altre tre occasioni che ci fanno conoscere un po’ di più quest’uomo. La prima è quella della moltiplicazione dei pani in Galilea. In quel frangente, fu Andrea a segnalare a Gesù la presenza di un ragazzo che aveva con sé cinque pani d’orzo e due pesci: ben poca cosa – egli rilevò – per tutta la gente convenuta in quel luogo (cfr Gv 6,8-9). Merita di essere sottolineato, nel caso, il realismo di Andrea: egli notò il ragazzo – quindi aveva già posto la domanda: “Ma che cos’è questo per tanta gente?” (ivi) – e si rese conto della insufficienza delle sue poche risorse. Gesù tuttavia seppe farle bastare per la moltitudine di persone venute ad ascoltarlo. La seconda occasione fu a Gerusalemme. Uscendo dalla città, un discepolo fece notare a Gesù lo spettacolo delle poderose mura che sorreggevano il Tempio. La risposta del Maestro fu sorprendente: disse che di quelle mura non sarebbe rimasta pietra su pietra. Andrea allora, insieme a Pietro, Giacomo e Giovanni, lo interrogò: “Dicci quando accadrà questo e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi” (Mc 13,1-4). Per rispondere a questa domanda Gesù pronunciò un importante discorso sulla distruzione di Gerusalemme e sulla fine del mondo, invitando i suoi discepoli a leggere con accortezza i segni del tempo e a restare sempre vigilanti. Dalla vicenda possiamo dedurre che non dobbiamo temere di porre domande a Gesù, ma al tempo stesso dobbiamo essere pronti ad accogliere gli insegnamenti, anche sorprendenti e difficili, che Egli ci offre.
    Nei Vangeli è, infine, registrata una terza iniziativa di Andrea. Lo scenario è ancora Gerusalemme, poco prima della Passione. Per la festa di Pasqua – racconta Giovanni – erano venuti nella città santa anche alcuni Greci, probabilmente proseliti o timorati di Dio, venuti per adorare il Dio di Israele nella festa della Pasqua. Andrea e Filippo, i due apostoli con nomi greci, servono come interpreti e mediatori di questo piccolo gruppo di Greci presso Gesù. La risposta del Signore alla loro domanda appare – come spesso nel Vangelo di Giovanni – enigmatica, ma proprio così si rivela ricca di significato. Gesù dice ai due discepoli e, per loro tramite, al mondo greco: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (12,23-24). Che cosa significano queste parole in questo contesto? Gesù vuole dire: Sì, l’incontro tra me ed i Greci avrà luogo, ma non come semplice e breve colloquio tra me ed alcune persone, spinte soprattutto dalla curiosità. Con la mia morte, paragonabile alla caduta in terra di un chicco di grano, giungerà l’ora della mia glorificazione. Dalla mia morte sulla croce verrà la grande fecondità: il “chicco di grano morto” – simbolo di me crocifisso – diventerà nella risurrezione pane di vita per il mondo; sarà luce per i popoli e le culture. Sì, l’incontro con l’anima greca, col mondo greco, si realizzerà a quella profondità a cui allude la vicenda del chicco di grano che attira a sé le forze della terra e del cielo e diventa pane. In altre parole, Gesù profetizza la Chiesa dei greci, la Chiesa dei pagani, la Chiesa del mondo come frutto della sua Pasqua.
    Tradizioni molto antiche vedono in Andrea, il quale ha trasmesso ai greci questa parola, non solo l’interprete di alcuni Greci nell’incontro con Gesù ora ricordato, ma lo considerano come apostolo dei Greci negli anni che succedettero alla Pentecoste; ci fanno sapere che nel resto della sua vita egli fu annunciatore e interprete di Gesù  per il mondo greco. Pietro, suo fratello, da Gerusalemme attraverso Antiochia giunse a Roma per esercitarvi la sua missione universale; Andrea fu invece l’apostolo del mondo greco: essi appaiono così in vita e in morte come veri fratelli – una fratellanza che si esprime simbolicamente nello speciale rapporto delle Sedi di Roma e di Costantinopoli, Chiese veramente sorelle.
    Una tradizione successiva, come si è accennato, racconta della morte di Andrea a Patrasso, ove anch’egli subì il supplizio della crocifissione. In quel momento supremo, però, in modo analogo al fratello Pietro, egli chiese di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù. Nel suo caso si trattò di una croce decussata, cioè a incrocio trasversale inclinato, che perciò venne detta “croce di sant’Andrea”. Ecco ciò che l’Apostolo avrebbe detto in quell’occasione, secondo un antico racconto (inizi del secolo VI) intitolato Passione di Andrea: “Salve, o Croce, inaugurata per mezzo del corpo di Cristo e divenuta adorna delle sue membra, come fossero perle preziose. Prima che il Signore salisse su di te, tu incutevi un timore terreno. Ora invece, dotata di un amore celeste, sei ricevuta come un dono. I credenti sanno, a tuo riguardo, quanta gioia tu possiedi, quanti regali tu tieni preparati. Sicuro dunque e pieno di gioia io vengo a te, perché anche tu mi riceva esultante come discepolo di colui che fu sospeso a te … O Croce beata, che ricevesti la maestà e la bellezza delle membra del Signore! … Prendimi e portami lontano dagli uomini e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva chi per te mi ha redento. Salve, o Croce; sì, salve davvero!”. Come si vede, c’è qui una profondissima spiritualità cristiana, che vede nella Croce non tanto uno strumento di tortura quanto piuttosto il mezzo incomparabile di una piena assimilazione al Redentore, al Chicco di grano caduto in terra. Noi dobbiamo imparare di qui una lezione molto importante: le nostre croci acquistano valore se considerate e accolte come parte della croce di Cristo, se raggiunte dal riverbero della sua luce. Soltanto da quella Croce anche le nostre sofferenze vengono nobilitate e acquistano il loro vero senso.
    L’apostolo Andrea, dunque, ci insegni a seguire Gesù con prontezza (cfr Mt 4,20; Mc 1,18), a parlare con entusiasmo di Lui a quanti incontriamo, e soprattutto a coltivare con Lui un rapporto di vera familiarità, ben coscienti che solo in Lui possiamo trovare il senso ultimo della nostra vita e della nostra morte.

  • 02 Dic

    Roberto non appartenne alla famiglia dei conti di Aurillac come si era sempre ritenuto secondo la tradizione, ma alla famiglia dei Turlande. Sembra che sua madre al momento del parto fu colta dalle doglie mentre si recava in un castello vicino, perciò si dovette fermare nei boschi, e qui dare alla luce Roberto: da questo evento alcuni predissero che sarebbe diventato un eremita. Un altro evento ricordato della sua infanzia è quando sua madre non poté più allattarlo e per questo lo affidò a due balie, dalle quali però il bambino non volle allattare: sembra che tali balie non conducessero una vita morigerata.
    Fu inviato per gli studi culturali e spirituali presso gli ecclesiastici di SaintJiulien, situato nell’alta Loira. Dimostrando ottime qualità fu ammesso alla vita ecclesiastica, divenendo canonico di San Giuliano. Si racconta che facesse molte veglie e preghiere notturne e di giorno si occupava di aiutare i poveri ed i malati, e che molti di essi furono guariti improvvisamente solo standogli nei pressi. Tale attaccamento per i più miseri si accrebbe con il tempo. A tale scopo fece edificare un ospedale a Brioude. Poco tempo dopo ottenne l’ordinazione a presbitero e cominciò a celebrare la s. Messa tutti i giorni.
    Andò poi nell’abbazia benedettina di Cluny, sede principale della spiritualità del suo tempo, e vi rimase per circa quaranta anni, seguendo la regola del suo santocompatriota abate Odilone.
    Tornato forzatamente a Brioude, ebbe in mente di fondare un nuovo ordine monastico e per tale motivo si apprestò a contattare e chiedere l’approvazione al papa Benedetto IX. Il Pontefice lo incoraggiò a ritirarsi con due suoi compagni in un posto boschivo a sud-est dell’Arvenia. Qui Roberto ed i suoi compagni costruirono un eremitaggio che chiamarono per l’appunto Casa di Dio (Chaise-Dieu).
    Rapidamente tale posto richiamò molti discepoli, e Roberto fu costretto a costruire nel 1050 un vero e proprio monastero nel quale fece applicare la regola di san Benedetto. Papa Leone IX eresse poco dopo tale monastero ad abbazia ed essa divenne in breve una delle più fiorenti sedi della cristinità  del tempo. Alla morte di Roberto nel 1067 essa contava circa 300 monaci ed aveva inviato in tutta la Francia altri monaci fondatori di monasteri analoghi.
    Roberto fondò anche il ramo femminile di tale ordine a Lavadieu presso Brioude. In coincidenza con l’elezione di Pierre Roger, monaco di Chaise-Dieu a papa con il nome di Clemente VI, l’abbazia raggiunse la sua massima fama. In essa fu custodito il corpo di san Roberto fino a quando gli Ugonotti lo bruciarono durante le guerre  di religione.  Infine l’abbazia fu quasi completamente distrutta durante la rivoluzione francese: rimangono solo la chiesa grande, il chiostro, la tomba  di Clemente VI e la torre clementina.
    La Chiesa cattolica ne celebra la memoria liturgica il 19 aprile.
    Il terzo successore di Robero fu l’abate Lantelmo il quale accetto l’invito del vescovo di Genova Ugone della Volta ad accettare il monastero di Borzone: i monaci de “La Chaise-Dieu” vi entrarono nel 1186 rimanendovi sino al 1536.

  • 02 Dic

    San Paolo della Croce

    Paolo Danei Massari nacque ad Ovada (AL), Italia, il 3 gennaio 1694; con la famiglia si trasferì a Castellazzo Bormida, non lontano dal suo luogo natale. La madre gli insegnò a trovare nella Passione di Cristo la forza per superare tutte le difficoltá. Innamorato di Gesù Crocifisso sin dall’infanzia, volle che tutta la sua vita fosse consacrata a Lui. durante una grave malattia, una visione dell’inferno lo terrorizzò. Ascoltando una predica di un sacerdote si sentì illuminato dal Signore all’amore per il Cristo Crocifisso: fu il momento che egli chiama della sua “conversione”.
    Verso il 1715-1716, desideroso di servire Cristo si recò a Venezia e si arruolò nell’esercito. Con l’ideale del crociato voleva lottare conto i Turchi che minacciavano l’Europa. Mentre faceva l’adorazione al Santissimo Sacramento in una chiesa, capì che non era quella la sua vocazione. Decise di abbandonare l’esercito, stette per qualche mese a servizio presso una famiglia e poi fece ritorno a casa. Anche se uno zio sacerdote gli aveva lasciato un’eredità perché si potesse sposare, egli vi rinunciò.
    Fare memoria del Crocifisso. Secondo una testimonianza, un’apparizione delle Vergine Maria gli fece conoscere l’abito, il segno e lo stile di vita, che avrebbe avuto sempre al centro Gesù Crocifisso. Il vescovo di Alessandria, mons. Gattinara, previo il giudizio di confessori prudenti, il 22 novembre 1720, lo rivestì dell’abito della Passione. Trascorse 40 giorni nella sacrestia della chiesa di S. Carlo a Castellazzo. Le sue esperienze e lo stato del suo spirito in quella “quaresima” sono illustrate nel cosiddetto “Diario Spirituale”. Compose le Regole per dei possibili compagni da lui chiamati “I Poveri di Gesù”. Suo fratello, Giovanni Battista che era andato a trovarlo chiese di unirsi a lui ma Paolo, per allora, non volle.
    Terminata questa esperienza, il vescovo lo autorizzò a vivere nel romitorio di S. Stefano, a Castellazzo ed a svolgere apostolato da laico. Nell’estate del 1721 si diresse a Roma con il desiderio di ottenere un’udienza dal Papa per esporre le ispirazioni avute sulla futura Congregazione. Gli ufficiali del Quirinale , dove risiedeva allora il Papa, non lo lasciarono passare credendolo un avventuriero.
    Il primo voto passionista. Accettò questa umiliazione che lo configurava a Gesù Crocifisso e, nella Basilica di S. Maria Maggiore, di fronte al quadro della Vergine “Salus Populi Romani”, fece il voto di consacrarsi a promuovere la memoria della Passione di Gesù Cristo.
    Facendo ritorno al suo paese si fermò per qualche tempo ad Orbetello, nel romitorio dell’Annunziata, sul Monte Argentario. A Castellazzo si unì a lui il fratello Giovanni Battista e partirono per dedicarsi alla vita eremitica sul Monte Argentario. Successivamente, invitati da mons. Pignatelli, furono nel romitorio della Madonna della Catena, a Gaeta. Mons. Cavalieri li accolse per un certo tempo a Troia. Successivamente fecero ritorno nella diocesi di Gaeta, presso il santuario della Vergine della Civita, ad Itri. I tentativi di fondare una comunità fallivano uno dopo l’altro. Per essere predicatori della Passione dovevano accedere al sacerdozio e per questa ragione si portarono a Roma, dove nell’ospedale di San Gallicano assistettero i malati di tigna, mentre frequentavano gli studi di teologia. Ebbero modo di incontrare il Papa mentre era in visita al Celio, alla chiesa detta “La Navicella” che permise ai due fratelli di fondare il primo convento sul Monte Argentario. Una volta ordinati sacerdoti, nel 1727 i due fratelli lasciarono Roma e si recarono sul Monte Argentario.
    Predicare la Passione di Cristo. Iniziarono il loro apostolato tra i pescatori, i boscaioli, i pastori. Si unirono ai due, il fratello Antonio alcuni compagni e sacerdoti ben preparati. I vescovi si rivolgevano loro per chiedere di tenere delle missioni nei paesi. Quando nella zona scoppiò la guerra dei Presidi, Paolo si dedicò a curare ed assistere i feriti nelle due zone nemiche ricevendo sempre buona accoglienza.
    Il primo ritiro, dedicato alla Presentazione, la cui prima pietra fu posta nel 1733, fu inaugurato nel 1737. Paolo presentò quindi a Roma le Regole della nascente Congregazione. Dopo alcune mitigazioni, Benedetto XIV le approvò nel 1741.
    Il fondatore fu contemporaneo di apostoli come S. Leonardo da Porto Maurizio e S. Alfonso M. de Liguori, che ebbe modo di conoscere. I tre Santi erano accomunati dal medesimo Amore a Gesù Crocifisso che li spingeva al ministero apostolico delle missioni.
    Anche se sin dal 1747 fu sempre Superiore Generale, non lasciò mai di predicare né di scrivere lettere di direzione spirituale. L’Istituto incontrò delle opposizioni in qualche settore della Chiesa e la fondazione di diversi conventi fu sospesa fino a quando una Commissione pontificia non ebbe dato un giudizio favorevole ai Passionisti.
    Paolo cercò sempre di alimentare lo spirito della solitudine, della povertà e della orazione con i consigli e con l’esempio del fratello Giovanni Battista. Quando, nel 1767, questi morì, Paolo si sentì orfano.
    Religiose passioniste. Una contadina, Lucia Burlini, aveva parlato a S. Paolo, delle “Colombe del Calvario”, immagine di alcune anime con lo stesso spirito contemplativo dei religiosi. Anche se impiegò quasi 40 anni per realizzare questa idea, nel 1771 nacquero a Corneto (Tarquinia), le Passioniste di clausura. Alla loro guida Paolo pose M. Crocifissa Costantini, benedettina, che con il permesso di Clemente XIV, era passata nel nuovo monastero.
    Dopo la soppressione della Compagnia di Gesù, Clemente XIV trasferì i Padri della Missione (Lazzaristi) nella chiesa di Sant’Andrea al Quirinale e donò a Paolo della Croce la casa e la basilica che essi avevano sul Celio: i SS. Giovanni e Paolo. In questo luogo, a due passi dal Colosseo, Paolo trascorse i due ultimi anni della sua vita e ricevette le visite di Clemente XIV il 26/06/1774 e di Pio VI nel marzo del 1775. Morì dopo qualche mese il 18 ottobre 1775. Le sue spoglie mortali si conservano nella cappella a lui dedicata, inaugurata nel 1880.

  • 02 Dic

    Catechesi di papa Benedetto XVI
    Mercoledì, 11 giugno 2008

    Cari fratelli e sorelle,
    oggi vorrei parlare del santo abate Colombano, l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo “europeo”, perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa. In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 ed indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione “totius Europae – di tutta l’Europa”, con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).
    Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda. Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel monastero di Bangor nel nord-est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.
    All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della “peregrinatio pro Christo”, del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Annegray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.
    A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum – per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto – disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza “tariffata” per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei Vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, “ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti – cosa più grave – sono disattese” (cfr Epistula II,1). Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV – come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) – per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).
    Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare ed imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.
    Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle della Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.
    Il messaggio di san Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da Lui ricevuti, ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: “Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo” (cfr Instr. XI). Queste parole, il Santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura –scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica – si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.

  • 02 Dic

    Catechesi di papa Benedetto XVI
    mercoledì 09 aprile 2008

    Cari fratelli e sorelle,
    vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.
    Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”.
    La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
    Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.
    Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
    All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.  Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.

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