• 24 Feb

    Quant’è oscuro il mio abisso

     

    Mio Dio, mi hai ferito d’amore
    e ancora aperta è la ferita.
    Immergimi nei flutti del tuo Vino,
    impastami nel Pane della tua mensa.
    La fronte che non sa arrossire
    sarà sgabello dei tuoi piedi santi.
    Il mio cuore batte solo per le cose vane,
    vorrei che palpitasse
    per le spine del Calvario.
    Ecco i miei piedi, viandanti frivoli
    che non hanno corso all’appello della Grazia.
    Ecco la mia voce, menzognera
    e sorda al tuo richiamo per una vita di penitenza.
    Ecco i miei occhi, lampade d’errore,
    che si sono negati al pianto e alla preghiera.
    Dio di tremore e Dio di santità,
    quant’è oscuro l’abisso della mia colpa!
    Tu, Dio di pace, di gioia e di vita,
    io gorgo di paure e di ignoranza.
    Tutti tu ci conosci, a uno a uno,
    e nessuno, tu lo sai, è più di me bisognoso.
    Ma quel che ho, mio Dio, io te lo dono. 

                                                                   Paul Verlaine

  • 23 Feb

    Messaggio centrale

     L’azione di salvezza realizzatasi nella Pasqua di Gesù è il giudizio di Dio che smaschera ogni falsa immagine di lui e dona ai credenti  di partecipare della sua vittoria sulla morte.
    Con il cantico di Ap 11,17-18; 12,10-12, proposto dalla liturgia del vespero ogni giovedì, siamo condotti al centro dell’Apocalisse.
    I capitoli 4 e 5 riportano infatti una visione: l’Agnello che prende il libro sigillato dalla destra di colui che è seduto sul trono, che rappresenta la lettura in profondità di ciò che la liturgia celebra (la storia della salvezza).�
    Il simbolo dell’Agnello immolato e ritto in piedi (Ap 5,6) è molto significativo: mentre ritrae la condizione paradossale del Crocifisso-Risorto, rivela solennemente che è proprio lui a guidare la storia, perché ne anticipa il senso ultimo consentendoci di comprenderla a fondo.
    Ora, nel cantico dei capitoli 11 e 12, viene festosamente proclamato l’esito felice dell’azione del Signore Gesù, che nella Pasqua ha fatto della sua vita un dono per tutti.
    Possiamo raccogliere il messaggio dell’inno situandolo rapidamente nel contesto e fermando poi l’attenzione sul testo del cantico, così come la Liturgia delle Ore lo ha assunto.

    Contesto

    Con il suono della settima tromba (Ap 11,15) viene introdotto il compimento del disegno di Dio, già chiaramente preparato in Ap 10,7: «nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio, come egli aveva annunziato ai suoi servi, i profeti».�
    Certo la storia umana non è abolita e la certezza del risultato non toglie la fatica della lotta.  Infatti il segno della donna e del dragone (Ap 12,1-9), che sta tra la prima e la seconda strofa dell’inno, richiama ancora una volta i tratti drammatici che caratterizzano la storia degli uomini: essa è inesorabilmente segnata dal permanere del conflitto con le forze del male, ma anche dall’effettiva offerta della salvezza, che consente un esito vittorioso quando incontra accoglienza.�
    La liturgia che la Chiesa celebra, e di cui gli inni dell’Apocalisse sono eco, non evade pertanto dalla storia, ma ne apre l’interpretazione profonda, quella che scaturisce dall’esito finale costituito dalla Pasqua di Gesù.
    La liturgia consente di leggere il presente della Chiesa alla luce del passato e del futuro, di riconoscerlo come il momento in cui il compimento è offerto e va maturando in noi.

     Struttura del testo

     La prima strofa del cantico dà voce all’adorazione dei ventiquattro vegliardi, come indicava Ap 11,16: «seduti sui loro seggi al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo … ». Essi appartengono stabilmente al coro che sta attorno al trono di Dio (cf.  Ap 4,4; 5,8-9).  Il loro numero, dodici, evoca probabilmente il popolo di Dio nella sua condizione di maturità, di pienezza (le dodici tribù d’Israele e i dodici apostoli).
    Al coro dei vegliardi risponde, a modo di solenne conferma, una grande voce nel cielo (Ap 12,10), con la quale inizia la seconda parte dell’inno. Il rendimento di grazie che apre la prima strofa viene così ratificato dall’autorevole invito alla gioia che conclude la seconda.�
    In tal modo le due parti risultano ben connesse tra di loro. La prima esprime il grazie e ne indica la motivazione nella «ricompensa»;la seconda racconta tale ricompensa come «salvezza compiuta».

     Spiegazione

     Il giudizio: gratitudine e motivazione (Ap 11,17-18)

    Noi ti rendiamo grazie,
    Signore Dio onnipotente,
    che sei e che eri,
    perché hai messo mano alla tua grande potenza, e hai instaurato il tuo regno.
    Le genti ne fremettero,
    ma è giunta l’ora della tua ira, il tempo di giudicare i morti,
    di dare la ricompensa ai tuoi servi, ai profeti e ai santi
    e a quanti temono il tuo nome, piccoli e grandi.


    L’adorazione dei vegliardi dice insieme lo stupore e la gioia per l’impresa di Dio, davvero sorprendente per i nostri modi correnti di vedere le cose.  Essa trova espressione adeguata attraverso il rendimento di grazie.�
    Il soggetto di questa azione di grazie («noi») indica il popolo di Dio, che si riconosce espresso nella riconoscenza a Dio.  Si tratta qui del «Signore Dio Onnipotente» che raccoglie il passato («che eri») in un presente compiuto («che sei»).  Non è più, cioè, il Dio nel suo essere veniente (cf.  Ap 1,8: «Colui che è, che era e che viene»), perché tutto ormai è da lui raccolto e portato a compimento nel presente.�
    Il «grazie» è divenuto possibile per questa «compiutezza», la quale mostra a sua volta come Dio non sia diventato rinunciatario, non abbia cioè abdicato alla sua azione di salvezza, nonostante gli ostacoli che la nostra storia gli ha opposto.  Se nel corso degli avvenimenti Dio poteva. sembrare indifferente, persino assente, ora finalmente la sua assoluta non indifferenza, il suo coinvolgimento nella storia, la sua presa di posizione forte o, per dirla con il linguaggio biblico la sua ira, è venuta del tutto allo scoperto.  L’«ira di Dio» nell’Antico Testamento significava proprio questa reazione suscitata dall’agire dell’uomo infedele, questa irriducibile opposizione al male, che è l’altra faccia di un amore reale, perché Dio non è un Dio dell’ira ma il Dio della misericordia.  Essa ha una funzione pedagogica, per cui non paralizza il peccatore terrorizzandolo, ma lo invita a convertirsi all’amore.  Per questo Israele prega di essere liberato dall’ira, particolarmente da quella che caratterizza i giorni della fine, il «giorno del Signore».  Ciò è avvenuto definitivamente con Gesù (1Ts 1,10; 5,9).  Nella sua morte egli ha anticipato l’ira della fine dei tempi per liberarne per sempre chiunque crede in lui, in attesa della vittoria finale di Dio.  La sua «ira» viene espressa nel cantico con tre azioni, indicate con tre verbi all’infinito: giudicare, dare la ricompensa ai servi, annientare i distruttori.  Il terzo verbo (Ap 11,18b: «e di annientare coloro che distruggono la terra») è lasciato cadere dalla recensione liturgica del cantico, probabilmente per rendere il testo di preghiera più immediatamente comprensibile, perdendo però un po’ del rilievo dato alla drammaticità del conflitto tra bene e male nella storia.
    Il giudizio di Dio ristabilisce la giustizia e mostra l’inconsistenza di ciò che contrasta il suo amore espresso nella Pasqua di Gesù, ove Dio ha realizzato la sua singolarissima regalità.  L’essersi coinvolti nel suo disegno di salvezza (i servi), testimoniandone i tempi e i modi di attuazione (i profeti), l’aver riconosciuto solo a Dio il posto di Dio (i santi), tutto questo mostra ora la sua fecondità (la ricompensa).  Non si tratta di una sorta di rivincita, di rovesciamento delle parti, ma dell’esperienza della costruttività, della forza maturante del servizio del Signore, degli atteggiamenti e delle azioni che esso suscita.  Il lasciarsi coinvolgere dal suo modo di guidare la storia, espresso e attuato definitivamente nella Pasqua di Gesù, mentre può esporre alle prove, umanizza, conduce a maturità, a piena realizzazione.

    Il risultato: salvezza e gioia (Ap 12,10-12)

    Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo,
    poiché è stato precipitato l’accusatore dei nostri fratelli,
    colui che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte.
    Ma essi lo hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello
    e grazie alla testimonianza del loro martirio;
    poiché hanno disprezzato la vita fino a morire.
    Esultate, dunque, o cieli, rallegratevi e gioite,voi che abitate in essi.

     Dio non è indifferente rispetto alla storia umana, rispetto al male che la aggredisce, e pertanto interviene decisamente in essa.  La sua azione regale produce la salvezza ed essa raggiunge il suo compimento.
    I termini salvezza, forza, regno, potere, come già il contrapporsi dei popoli e dell’ira di Dio nella prima strofa (cfr  Ap 11,18), si ispirano al Salmo 2, letto in chiave messianica dalle prime comunità cristiane (cf.  At 4,25-26).
    uesto risultato viene ora esplicitato prima in negativo e poi in positivo.
    In negativo, l’accusatore dei fratelli è messo fuori gioco, «è stato precipitato» (v. 10).  Il termine «accusatore» qualifica la suggestione tipica del male (cf.  Gb 1,6-12; 2,1-7; Zc 3,1; Gen 3), che tende a creare contrasto tra noi e Dio insinuando che non è conforme a Dio preoccuparsi di noi (siamo troppo piccoli, irrilevanti per lui!), oppure che non è bene per noi un Dio troppo grande, che rischia di opprimerci con la sua grandezza (un Dio tanto grande non ci conviene!).  L’azione pasquale del Signore Gesù ha messo fuori campo il tarlo che corrode la storia umana dall’interno, vale a dire ogni suggestione che porta a pensare che Dio, seppure c’è, è troppo grande per occuparsi delle nostre questioni, o anche che Dio è fuori dalla nostra misura, ha esigenze spropositate rispetto a noi.  Secondo questo modo di vedere, la sua grandezza rischierebbe di ricondurci all’insignificanza o alla sudditanza.  Ogni insinuazione di questo genere è svelata come falsificazione, viene allo scoperto come priva di qualsiasi fondatezza.
    Invece brilla ora, in positivo, il risultato straordinario, la vittoria (v. 11), di chi ha accordato fiducia alla via tracciata dall’Agnello, cioè dal Signore che ha fatto dono della propria vita («per mezzo del sangue»), e in questa via si è inserito, mettendone in risalto il valore con la propria personale testimonianza.�
    L’espressione «grazie alla testimonianza del loro martirio» (v. 11) significa infatti letteralmente: grazie alla parola, al messaggio, al significato del loro martirio.  Il sangue dei martiri tiene alto nella storia il valore della Pasqua di Gesù, ne dice il perenne significato.  Chi aderisce al Signore Gesù, chi sposa la sua causa, è nella condizione di fare anche della propria morte un atto di vita, precisamente un dono perché nessuno, nemmeno il proprio oppositore, si trovi relegato nel rifiuto, nello scarto.  In questo poter fare persino del proprio morire un dono per la vita, brilla in anticipo, ma già secondo la sua pienezza, la salvezza, la ricchezza della vita offerta dal Signore.  In tal modo la comunità ecclesiale, che celebra nella liturgia la Pasqua del Signore e vi riconosce nuovamente la salvezza per noi, viene disincantata dalle suggestioni delle logiche mondane della riuscita e del successo e viene rassicurata dalla fecondità dell’«agape», di quell’amore maturante rivelato nella Pasqua di Gesù e che essa già può sperimentare nella testimonianza alla quale viene abilitata.
    Così il grazie della Chiesa raccoglie veramente l’esperienza e la comprensione di ciò che il Vangelo consente di vivere tra gli uomini e per gli uomini, dono questo che anticipa ad ogni credente la garanzia del compimento.  Il grazie trapassa nella gioia, già fin d’ora intravista, e sollecita la fedeltà, la ripresa del cammino come azione di grazie, come servizio alla vita, secondo la ricchezza dell’amore del Signore e per spontanea gratitudine.

     Significati per la nostra vita

     Per noi credenti, che viviamo la conflittualità della storia, nella quale non sempre ci è facile discernere il corretto orientamento della nostra vita, il cantico dell’Apocalisse diventa motivo di speranza.�
    Esso ci pone di fronte al compimento riuscito che il Signore Gesù ha già attuato e ci consente di contare su una risorsa che è più grande delle nostre capacità e delle nostre stesse realizzazioni.  Soprattutto nei momenti in cui abbiamo l’impressione che le strettoie della storia soffochino gli slanci positivi nel cammino dell’umanità, il poter alzare lo sguardo all’«Agnello immolato e ritto» ci ridona fiducia: percorrere la stessa strada, per quanto faticoso e apparentemente fallimentare possa talvolta sembrare, significa in realtà raggiungere la stessa meta.
    Il testo del cantico descrive inoltre il modo in cui Dio opera la salvezza nella storia: il dono incondizionatoLa nostra esistenza cristiana vive di questa stessa logica, per cui la nostra testimonianza della salvezza, realizzata da Gesù e disponibile a tutti, diventa effettiva nella misura in cui a nostra volta sappiamo assumere le condizioni concrete che viviamo, con il limite e le possibilità che comportano, come luogo in cui possiamo fare dono della nostra vita.  Piuttosto che fuggire dalle situazioni o subirle passivamente o aspettare con rassegnazione che le difficoltà si risolvano, la fede cristiana ci consente di viverle attivamente.  Non c’è alcuna circostanza in cui non ci sia possibile il gesto nuovo e rigenerante dell’amore gratuito. I martiri sono l’esempio più alto di questa possibilità positiva anche dentro la negatività dell’esperienza patita.
    Questo stile di vita, espresso nell’adorazione e nel rendimento di grazie, ci rende consapevoli di come l’adesione al Signore Gesù è motivo di continua crescita e maturazioneProprio il poter vivere sotto il segno del dono anche le condizioni problematiche dell’esistenza diventa il cominciare già a gustare la ricchezza della Pasqua che Gesù ha compiuto per tutti.  Essa ci rende capaci di affrontare l’esistenza con atteggiamenti e azioni costruttive e, in tal modo, di saper leggere la nostra storia in profondità, a partire dal dono pasquale del Signore che ci matura continuamente.�
    Di conseguenza, l’attrattiva delle soluzioni illusorie di tipo mondano viene disinnescata e per la comunità ecclesiale, sempre esposta alla tentazione di assumere logiche di potere o di successo, resta disponibile la realtà efficace e maturante dell’amore pasquale (crocifisso e risorto) del Signore Gesù, che purifica e rigenera.
    E’ così che anche la nostra partecipazione alla liturgia comunitaria non diventa una fuga dalla storia, ma precisamente la possibilità di interpretarla alla luce della Pasqua, centro dell’anno liturgicoNell’azione liturgica riconosciamo a Dio il suo posto nella storia, celebrando con gioia e gratitudine la sua capacità di salvare nonostante tutto.  A nostra volta ci consegniamo al suo amore liberante e ci apriamo alla sua offerta di salvezza.  Il legame tra la liturgia e la vita non lo raggiungiamo appiattendo la celebrazione sul ritmo delle azioni quotidiane, spegnendone la forza innovativo, ma proprio interrompendo il quotidiano per accogliere ciò che nella vita di ogni giorno è presente e operante, ma non ancora manifestamente.�
    L’azione regale di Dio che opera salvezza si visibilizza nell’azione simbolica della liturgia e il nostro celebrare ci suggerisce gli atteggiamenti e i gesti più adeguati per farle spazio nella vita di tutti i giorni.
    L’evocazione nel cantico del «giudizio di Dio» e dell’«ira di Dio» ci consente di adeguare la nostra comprensione di queste espressioni al significato che assumono nel contesto della rivelazione cristiana per assimilarne le esigenze nel nostro vivere da cristiani.  Il «giudizio di Dio» non è mai paragonabile alla sentenza di un giudice umano.  Infatti il giudizio definitivo di Dio sulla storia del male è la Pasqua (la morte e la risurrezione di Gesù), certamente come denuncia critica, ma soprattutto come rivelazione dell’amore assoluto del Padre (Gv 3,16-17), che riscatta l’ignominia del crocifisso, approvando l’esistenza fino alla morte di Gesù.  Dio non è passivo e inerte, ma prende posizione nella storia di Gesù.�
    Così la sua «ira», il suo «giudizio» vengono da noi sperimentati come condanna senza appello del male, ma soprattutto come opera di amore misericordioso e di salvezza.  Quest’opera è già compiuta nella Pasqua, che ci rende testimoni di una esistenza che vince il peccato e il male e che tende al recupero dell’uomo nell’amore.  Questo percorso di testimonianza lo viviamo in un sofferto cammino di lotta contro tutte le resistenze, interne ed esterne.  Una comprensione pagana dell’ira e del giudizio di Dio rende paurosi e paralizzati.  La comprensione cristiana provoca invece l’accoglienza dell’amore che salva dalla morte e l’azione coraggiosa della testimonianza critica e maturante.

    Preghiera finale

    Gesù, Signore di verità, nostra roccia,
    venuto a salvare i peccatori.�
    Non fai differenza quando salvi:
    insegnaci a non giudicare,
    insegnaci a lasciar penetrare in noi i nomi di Dio:
    bontà, pazienza, generosità.
    Libera il nostro cuore dalla durezza.�
    Questo cuore di pietra diventi, grazie allo Spirito,
    un cuore di carne pieno d’amore.�
    Salvaci, e fa’ che riposiamo in te:
    tu solo puoi liberarci!
    Sì, liberaci, Signore,
    dalle nostre meschinità.
    Trascinaci nel flusso del tuo amore,
    che è regno dato per grazia e tenerezza.�
    Vieni ad attraversare le nostre vite:
    anche se il tuo messaggio non sarà senza sorprese.
    Vieni a condurci nella tua libertà;
    e scuotici come spighe, fino a che abbandoneremo la nostra sufficienza
    per desiderare con un cuore di carne il tuo regno che apre alla festa! (Pierre Griolet)

     IL GIUDIZIO

    Il giudizio di Dio opera già adesso, nella storia delle persone e delle comunità, per promuovere il bene e liberare dal male.  La Bibbia lo vede compiersi nei confronti dell’Egitto, di Israele, di Babilonia e delle nazioni pagane; poi, in modo decisivo, nella passione e risurrezione del Cristo: «Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,31).  Ogni incontro con il Signore ha carattere di giudizio, in quanto provoca l’uomo a decidersi per lui o contro di lui e a manifestare il segreto del proprio cuore. (Dal Catechismo degli adulti La verità vifarà liberi, n. 1197).

  • 22 Feb

    Mercoledì delle ceneri

     Signore, la nostra fede è come cenere,
    tiepida e inconsistente!
    La nostra speranza è come cenere:
    leggera e portata dal vento.
    Il nostro sguardo è come la cenere:
    grigio e spento.
    Le nostre mani sono come la cenere:
    quanta polvere!
    La nostra comunità è come la cenere:
    quanta dispersione!
    Signore Dio nostro, ti ringraziamo
    perché nel cammino di quaranta giorni
    che oggi iniziamo,
    il soffio del tuo Spirito
    accende di nuovo il suo fuoco
    che cova sotto le nostre ceneri.
    Amen

    anonimo

  • 22 Feb
    La morte e risurrezione di Gesù costituiscono il cuore della storia del mondo e il motivo della lode della Chiesa.

    Contesto

     La prima parte dell’Apocalisse (ce. 1-3) presenta, attraverso le lettere alle Chiese, un cammino di discernimento e di purificazione mediante il quale la comunità esce rinnovata.�
    Questa è ora invitata a fare un passo ulteriore, addirittura a salire in cielo per comprendere e valutare dal punto di vista di Dio gli avvenimenti della storia nei quali essa stessa è coinvolta (Ap 4,1). I capitoli quarto e quinto costituiscono l’apertura della seconda parte dell’Apocalisse, che è una lettura a più riprese della storia nell’ottica della Pasqua del Signore.
    Il centro di questi due capitoli è occupato dal segno di un libro sigillato (Ap 5,1) tenuto in mano da «Uno seduto sul trono» (4,2ss) e da questi consegnato all’«Agnello immolato» perché sia letto.�
    L’immagine si ispira alla mitologia orientale antica, secondo cui la divinità suprema possiede libri nei quali è scritto il destino del mondo; il rituale dell’intronizzazione prevede che questi libri vengano consegnati al re per indicare che egli ha ora il potere sul mondo.
    Questo libro, simbolo dei significati della storia, suscita al suo comparire una domanda angosciante: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?» (Ap 5,2).  L’importanza di questa domanda è sottolineata in tre modi espressi in scala ascendente.  C’è dapprima il silenzio impotente del cosmo, la constatazione amara: «nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e leggerlo» (Ap 5,3).  Segue poi il pianto del veggente Giovanni: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo» (Ap 5,4).  Giunge infine l’annuncio liberatore, l’indicazione di colui che è qualificato per aprire il libro rompendone i sigilli.  Giovanni può volgere lo sguardo e vedere: «Vidi ritto in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato [… giunse, prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono» (Ap 5,6-7).  La storia ha in Dio l’unico Signore e nell’Agnello l’unico capace di darne l’interpretazione retta, salvifica.  Proprio il simbolo dell’Agnello allude alla ragione profonda di questo.�
    Dal capitolo quinto fino al ventiduesimo l’Apocalisse ricorre ben ventotto volte a questo simbolo per designare Gesù Cristo.  Il suo significato va riconosciuto attraverso molteplici riferimenti: l’agnello pasquale, l’agnello del sacrificio di espiazione, il sacrificio di Isacco, il servo sofferente di Is 53, l’agnello come messia apocalittico.  Il contesto fa tuttavia capire che il riferimento primo e privilegiato è la Pasqua di Gesù.
    All’interno di questa visione l’inno che andiamo a leggere proclama l’identità di Dio e dell’Agnello, l’azione che le rende riconoscibili e la loro efficacia per noi.

     Struttura

     La scelta liturgica accosta direttamente la celebrazione di colui che, seduto sul trono, ha in mano il libro sigillato (Ap 4,1 1) e di colui che lo riceve perché è in grado di aprirlo e di leggerlo (5,9-12).
    L’inno risulta così composto di tre strofe, ciascuna delle quali è costituita dalla lode, introdotta da «Tu sei degno» e dalla sua motivazione: «poiché … ». La strofa centrale è più ampia perché, oltre a dire la lode e il suo motivo, esprime anche l’efficacia dell’azione che suscita la lode.  Secondo la composizione letteraria le tre strofe costituiscono tre riprese del coro celeste; secondo lo stile apocalittico è questo il modo per sottolineare che quanto la liturgia della Chiesa celebra corrisponde alla realtà ultima, quella che Dio ha davanti a sé.  La liturgia non celebra un sogno che evade dalla durezza della storia, ma ne dice la realtà profonda, offerta incessantemente da Dio al suo popolo.

    Commento 

    Passiamo ora brevemente in rassegna le tre strofe; possiamo immaginarle come tre onde che si rincorrono, salendo fino a un massimo e acquietandosi poi nella conclusione.
    Tu sei degno, o Signore e Dio nostro,
    di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose,
    e per la tua volontà furono create e sussistono.
    L’apertura «Tu sei degno» sottolinea come ciò che la lode proclama corrisponde davvero all’identità di colui al quale è diretta.  Questa identità è riconoscibile nella relazione che egli ha instaurato con noi (Dio nostro, che ti sei rivolto a noi).  In essa è possibile riconoscere come la sua presenza è efficace e feconda per noi (gloria) ed è tale per cui appare del tutto adeguato riconoscerne la vitalità (onore) e l’energia operativa (potenza).
    L’espressione «Tu sei degno» era tipica dei rituali di corte: apparteneva all’enfasi dei cortigiani.  Collocata qui contiene una sottile contestazione: in un contesto in cui è facile cadere nell’adulazione falsa o interessata diretta ai potenti di turno, la liturgia della Chiesa dà voce all’unica lode pertinente.
    La ragione di tale pertinenza è l’azione creatrice di Dio, che il testo invita a riconoscere in tutta la sua pregnanza: il mondo non è lasciato a se stesso, né è in mano a potenze antagoniste; esso viene dalla volontà di Dio che fa esistere e custodisce.  Il Dio che ha creato rimane fedele alla sua creazione, ne è il garante e il custode permanente.  Nonostante tutti i turbamenti della storia e le pretese dei potenti, il mondo non è abbandonato al caos, ma è tenuto saldamente in mano dal suo Creatore.

    [o Signore], di prendere il libro e di aprirne i sigilli,
    perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
    uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
    e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra.
     In questa seconda strofa l’espressione «Tu sei degno» viene indirizzata all’Agnello in quanto è in grado di prendere il libro e scioglierne i sigilli.  La storia, con tutti i suoi enigmi e le sue contraddizioni, la storia sigillata ha la sua chiave di lettura nella Pasqua di Gesù.  Il simbolo dell’Agnello rimanda a Gesù in quanto compie il significato della pasqua antica, la liberazione offerta da Dio.  La grande novità, che permette di leggere la storia, è che la liberazione offerta da Gesù avviene attraverso il suo dono, il «sangue».  Non libera imponendosi su altri, ma attraverso la sua incondizionata disponibilità.  Per salvare, il Signore Gesù non ha avuto bisogno di umiliare nessuno; anzi, attuando la salvezza, la offre anche a chi si era opposto ad essa, anche a coloro dai quali aveva subìto la violenza della condanna e della uccisione.
    Questo riscatto avviene senza discriminazioni; raggiunge uomini di «ogni tribù, lingua, popolo e nazione» e li riunisce in un’assemblea capace di vivere nel riconoscimento dei doni di Dio e nella sua lode.  Lasciarsi coinvolgere dalla regalità di Dio significa imparare a vivere dei suoi doni facendoli fruttificare, secondo la logica che è loro propria.
    In tal modo la liberazione diventa anche vita sacerdotale, vita contrassegnata dalla familiarità con Dio, dall’accesso alla sua disponibilità per noi che rende possibile la nostra disponibilità per lui.  L’espressione «un regno di sacerdoti» è citazione di Es 19,6.  Questo testo presenta Dio che, dopo aver fatto uscire il suo popolo dalla schiavitù, ne proclama il nuovo statuto, lo costituisce popolo di re e sacerdoti. I due termini sono strettamente connessi, benché non sinonimi.  La regalità si manifesta nel vivere del dono di Dio, della situazione che la sua azione di liberazione ha instaurato, ossia nel vivere una condivisione oblativa; questa costituisce la condizione di familiarità con Dio, la possibilità di accesso a lui che è proprio la condizione sacerdotale.
    Nella Pasqua di Gesù tutto questo ha il suo compimento e la liturgia cristiana lo celebra.  L’Agnello è in grado di decifrare la storia perché la sua azione non produce scarto, non ha bisogno di rifiutare nessuno.  Mentre la storia in mano agli uomini è incapace di valorizzare tutti e procede lasciando sempre dietro di sé degli esclusi, la Pasqua di Gesù mostra che Dio sa agire in modo innovativo, sa fare storia recuperando anche gli scartati, offre la salvezza anche a chi non ha saputo riconoscerla.
    L’impresa dell’Agnello è talmente inedita che il canto in suo onore è qualificato come «nuovo» (v. 9).  Tre volte nell’Apocalisse si fa cenno di un canto nuovo (Ap 5,9; 14,3; 15,3) e sempre in riferimento all’opera dell’Agnello. E’ lui la novità assoluta che compare nella storia. 

    L’Agnello che fu immolato
    è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza,
    onore, gloria e benedizione.
    La terza strofa ha la funzione riassuntiva e di conclusione.
    La frase “che fu immolato” si può leggere anche in funzione causale: “poiché fu immolato”: vine dunque ribadito il motivo della lode: l’opera compiuta da Gesù. Si applicano sette qualifica: segno di perfezione.
    La “potenza” rivela l’identità del Signore della pasqua: è energia efficace, sconfinata, capace di venire incontro alla condizione dell’uomo e della storia.
    La gioia della benedizione ci giunge tramite l’umanità di Gesù: essa ci rivela la verità di Dio sull’uomo e la sua storia. E’ storia di salvezza senza pentimento e senza misura.
    Nella sua liturgia la Chiesa proclama la novità dell’evento pasquale: Dio si offre a noi senza difesa, non schiaccia nessuno. E’ disponibilità verso tutti senza imporsi e senza nascondersi. La sua verità è la sua infinita fedeltà, la sua capacità di riscattare l’uomo e di farlo riuscire.
    Così il triplice “Tu sei degno” (Ap 4,11; 5,9.12). esprime la fondatezza della fede della comunità ecclesiale, messa alla prova dalle pressioni a cui si trova esposta e dalle tentazioni di chiusura che questa possono indurre.
    Incontrando il suo Signore nella liturgia che celebra, la Chiesa apprende che l’apparente debolezza del vangelo nel mondo è in realtà un risvolto della sua novità, della sua eccedenza. E’ segno dell’amore gratuito e fedele come qualifica fondamentale di Dio, che si è esposto alla prova della storia nell’umanità e nella Pasqua di gesù e ne ha mostrato la sorprendente efficacia.
    Nel “Tu sei degno” brilla la gioia della libertà cristiana di partecipare a edificare una nuova storia, storia di salvezza, perché non più intristita dallo scarto degli sconfitti di turno. E’ la lettura ultima dei segreti del libro della storia operata dal Signore della Pasqua.

    Significati per la nostra vita

     La lode che questo inno dischiude diventa stile di una comunità che è impegnata a vivere riconoscendo i doni di Dio nella sua vita e nella storia intera. Ciò che mantiene in vita la comunità è anzitutto la gratitudine: l’atteggiamento di chi riconosce di esistere in forza del dono continuo che viene da Dio. Questo non disimpegna dalla storia, al contrario permette di liberare le energie migliori perché non le consuma nell’affannosa ricerca di accaparrarsi il sostentamento in una vicenda umana che appare come insostenibile gara di sopravvivenza. Chi si sa garantito da Dio vive la gratitudine a lui mostrando come la propria esistenza è trasparenza della stessa logica.
    La comunità dei credenti non solo vive dei doni di Dio ma può riconoscerne anche la qualità; sa infatti che il senso della storia è aperto dalla Pasqua di gesù, la liberazione che avviene nel dono della sua vita, fonte di ogni benedizione.
    Questo a un tempo permette e domanda di guardare a ogni avvenimento con speranza. Se nella Pasqua del signore Gesù, il Padre libera senza fare scarti ciò significa che possiamo vivere senza escludere nessuno dalla nostra attenzione. Questa possibilità diventa immediatamente impegno per la comunità cristiana a stare nella storia come testimone di questo stile. Gesù ci garantisce e ci insegna che è possibile mantenerlo se non perseguiamo logiche di potere, se realmente incominciamo ad attuarlop partendo dai piccoli e poveri, coloro che per primi sono scartati dalla cattiva volontà o dalla cinica rassegnazione con cui è ricercata la salvezza nei percorsi della storia umana.
    L’assemblea può mantenere viva la speranza di fronte alla prova e alla tentazione di chiusura che sempre minacciano la vita della Chiesa. Pur nella prova contempla la salvezza già avvenutaPuò superare ogni scoraggiamento di fronte alla difficoltà, alle resistenze, agli insuccessi.�
    Neppure è costretta a irrigidirsi per difendere i valori che custodisce; sa che sono salvaguardati da Dio stesso e dalla sua disponibilità per cui ogni atteggiamento di rigida chiusura sarebbe contraddizione con ciò che si vuole testimoniare.
    Se alla comunità dei credenti è dato di superare l’atteggiamento di chi si chiude in difesa è perché attivamente possa testimoniare l’agire di Cristo nella storia mantenendo aperta la propria disponibilità anche di fronte al rifiuto.  Gesù è l’umanità compiuta perché non ha avuto bisogno di sconfiggere nemici per salvare gli uomini.  Proprio guardando alla Pasqua di Gesù la comunità cristiana può affrontare il rifiuto che la storia degli uomini sempre le farà incontrare senza dover vedere in ciò la necessaria conferma della propria autenticità; come chi ha sempre bisogno di confermarsi nella propria identità per contrappunto e scarto nei confronti di chi gli si oppone.  Neppure sentirà questo rifiuto come inesorabile realtà, di fronte alla quale non resta che rassegnarsi; sarà invece sempre impegnata a cercare vie che testimonino come la salvezza del Signore Gesù può realmente raggiungere tutti.
    Questo inno ci apre alle prospettive che abbiamo indicato proprio nel celebrare la lode di Dio per il dono della salvezza in Cristo Gesù. E’ così un invito a riscoprire il valore del celebrare e a maturare una partecipazione alla liturgia capace di rimotivare la fedeltà quotidiana.  La consapevolezza di trovarsi di fronte a «colui che è degno», la capacità di mostrare celebrando lo spiraglio della gloria futura che già accompagna il nostro presente può a un tempo rianimare le nostre assemblee liturgiche e fare di queste la sorgente che alimenta la quotidianità della testimonianza cristiana.

     Preghiera finale

    Tu sei risorto.
    Nella tua risurrezione la nostra vita risultò eterna.�
    Da quel momento, la speranza cristiana è la forza dell’uomo
    cui il credente deve portare testimonianza.�
    La gioia e l’amore sono lo spirito dominante del tuo Vangelo.
    Tu fosti la nostra Vita,
    «l’inizio di una nuova creazione».�
    Dopo la tua risurrezione la nostra vita di fede non può più naufragare.
    Davanti a te, non c’è smarrimento, peccato, o infermit�
    che il tuo amore non possa risolvere in una situazione di grazia.�
    E cosi si apre, mio Dio,
    nella realtà spesso così dura,
    una nuova possibilità di resistere,
    comprendere e sopportare cristianamente.
    (Ladislaus Boros)

    A partire dall’esperienza

    «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio.  A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza.  Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera.�
    Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà, tutto avviene secondo un ritmo più profondo che si dovrebbe insegnare ad ascoltare, è la cosa più importante che si può imparare in questa vita….
    A volte mi ritrovo prontamente con una parola sola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire quelle altre cose.  E la mia forza creativa si traduce in colloqui interiori con te, e le ondate del mio cuore sono diventate qui più lunghe, mosse e insieme tranquille, e mi sembra che la mia ricchezza interiore cresca ancora».
    Da:   
    Hetty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1990, 253-254. 

    Hetty Hillesum, autrice del brano soprastante, nacque nel 1914 in una famiglia ebrea e mori ad Auschwitz nel novembre 1943.  Era una donna di ventisette anni che, nel periodo in cui l’Olanda fu segnata dalla guerra e dall’oppressione, visse un itinerario di crescita e di maturazione spirituale che la portò a scoprire la preghiera e a vivere grazie ad essa nel contesto della persecuzione.  Scrisse questa preghiera a Dio il 18 agosto 1943, in una lettera a un’amica, dal campo di concentramento di Westerbork.

     

    Magistero

    La lode nasce dalla contemplazione e dalla meraviglia avanti alle opere di Dio e a Dio stesso. Esprime amore dinsinteressato e gioia. E’ il culmine a cui tende la preghiera. Non per niente la liturgia conclude ogni salmo con la dossologia: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito santo, come era nel prencipio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen” (Dal catechismo degli adulti, La verità vi farà liberi,  978)

     

     

     

  • 20 Feb

     

    Bisogna dunque che io
    lasci ogni immagine
    per pensare a te. Mio Dio.

    È una traccia nel deserto
    il cammino che mi porta a te,

    non ha sentieri segnati.

    E se mi perdo, ti trovo.

    Se mi perdo, tu vieni a me,

    mio unico e necessario Bene.

     

                         Anonimo del XIII sec.

  • 20 Feb

    Messaggio centrale

    Il Signore risorto sorregge saldamente la Chiesa e la chiama a discernere gli atteggiamenti che corrispondono alla sua vocazione.

    Contesto

    I capitoli 2 e 3 costituiscono la prima parte del libro dell’Apocalisse. 
    Essi contengono sette lettere scritte per altrettante Chiese dell’Asia Minore: Efeso, Smirne, Pèrgamo, Tiàtira, Sardi, Filadèlfla, Laodicèa. 
    Il numero simbolico delle lettere (sette), unicamente alla specificità e alla determinazione propria del loro messaggio per ciascun destinatario, richiamano sia la totalità che la concretezza: esse costituiscono nel loro insieme un messaggio che è per tutta la Chiesa, ma che ciascuna comunità deve calare nel concreto della sua storia.  Sono un invito ad operare un discernimento sul proprio vissuto, lasciandosi illuminare da Gesù Cristo, l’unico Signore della Chiesa.
    Le sette lettere sono precedute dalla visione che Giovanni ha del Signore Gesù, il Vivente glorificato (Ap 1,9-20). E’ il Signore che chiede a Giovanni di scrivere tutto ciò che vedrà e di inviarlo alle sette Chiese (Ap 1,11.19; cfr. anche 1,4-8). 
    L’intera Apocalisse si presenta così come una grande lettera
    Il dialogo che Giovanni instaura con le Chiese ha un valore ministeriale: è il servizio del testimone, tramite il quale il Signore stesso instaura il dialogo di salvezza con le comunità dei suoi servi.

    Struttura del testo

    Ognuna delle sette lettere presenta uno schema costante, composto di sei elementi:
    a. l’indirizzo alla Chiesa,
    b. l’autopresentazione del Signore,
    c. il discernimento sulla vita della Chiesa,
    d. l’esortazione conseguente,
    e. l’invito ad ascoltare lo Spirito,
    f. la promessa di un dono in prospettiva escatologica.

    Spiegazione

    All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi:
    Efeso, una importante città dell’antichità, era situata sulla costa occidentale dell’Asia Minore ed era capitale della provincia proconsolare dell’Asia.  Per l’importanza del suo porto, fungeva da naturale punto di incontro tra occidente e oriente.  Per questo stesso motivo si era aperta anche al sincretismo religioso ed era divenuta un centro del culto imperiale.  La Chiesa di Efeso, sorta dalla predicazione di Paolo (cfr.  At 19,1-10), svolse nei primi secoli un compito di crescente importanza nell’irradiazione della fede cristiana in tutta la provincia.
    Come in tutte le altre lettere, nell’indirizzo iniziale si nomina il destinatario con la formula «all’angelo della Chiesa scrivi».  Con questa espressione si chiama in causa ciascuna Chiesa, riconoscendola però nella sua dimensione profonda: è la Chiesa in quanto è suscitata e sostenuta continuamente dall’azione di Dio e, per questo, porta in sé un’apertura a Dio.  La Chiesa è interpellata dunque secondo la sua vocazione, secondo le possibilità poste in essa da Dio.
    Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro.
    La formula di autopresentazione, che in ciascuna lettera riprende          temi già espressi globalmente nella visione iniziale (Ap 1 1-20), invita a riscoprire l’identità del Signore.  Qui si mettono in risalto due aspetti: egli tiene nella destra le sette stelle e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro.  Le due immagini hanno un chiaro riferimento ecelesiologico, esplicitato dal Signore stesso: «Il senso nascosto delle sette stelle, che hai visto nella mia destra, e dei sette candelabri d’oro, è questo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese, e i sette candelabri sono le sette Chiese» (Ap 1,20).  Con queste due immagini, quindi, il Signore si presenta come Colui che è in grado di dare saldezza alla Chiesa, ne costituisce il punto di riferimento sicuro, e al tempo stesso come Colui che condivide il cammino della Chiesa, non la sottrae né la estranea alla storia.
    Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza, per cui non puoi sopportare i cattivi.  Hai messo alla prova quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi.  Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo amore di prima.
    In questi versetti si presenta il discernimento del Signore sulla vita della Chiesa.
    E’ introdotto dall’affermazione della presenza pienamente consapevole del Signore alla vita della sua Chiesa («conosco»).  Questo porta in luce aspetti positivi e negativi.  In positivo, si riconosce la vita della comunità nel trinomio «opere, fatica, perseveranza»: tre termini che si spiegano e si arricchiscono a vicenda.  Descrivono una fede operosa, che sopporta la fatica derivante dalla non facile accoglienza del messaggio cristiano e che matura nell’atteggiamento interiore della perseveranza, di un operare che scaturisce dalla fedeltà al Signore. 
    In negativo, viene denunciato un rischio mortale che sta per colpire la Chiesa: la carità, che ne è il cuore, rischia di perdere la sua ispirazione originaria, quella che scaturisce dal Signore.  L’«amore di prima» (v. 4) indica l’amore secondo la sua origine, secondo la fonte da cui scaturisce e che gli fa da norma.  E’ appunto l’amore che viene alla Chiesa dalla Pasqua del Signore: egli infatti è «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5).  L’amore rischia di raccorciarsi su criteri limitati e deboli, estranei al vangelo, perdendo totalità e freschezza.
    Ricorda dunque da dove sei caduto, convertiti e compi le opere di prima.  Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto.  Tuttavia hai questo di buono: tu detesti le opere dei Nicolaìti, che anch’io detesto.
    L’esortazione, attraverso i tre verbi «ricorda, convertiti, compi le opere di prima», propone un percorso globale di conversione, di ricentratura attorno a ciò che è essenziale
    Questo percorso si nutre della memoria di ciò che sta all’origine della vita cristiana e sfocia nella rinnovata capacità di compiere opere secondo la qualità originaria dell’amore.  Si tratta di recuperare la buona memoria della propria vita, le ragioni profonde che hanno determinato l’adesione di fede al vangelo, di non vanificare l’orientamento, le opportunità di vita che il vangelo offre e di assumerlo come regola del proprio agire. 
    La Chiesa non deve omologarsi al mondo né appiattirsi sul proprio livello (e sui propri limiti).  Il suo riferimento costitutivo è il Signore, che è continuamente presente in mezzo ad essa e le rende sempre possibile camminare nella luce della Pasqua.  La rinuncia a questo slancio della fede non mette in gioco qualcosa di marginale, ma l’identità stessa della Chiesa, la sua posizione rispetto a Dio: «toglierò il tuo candelabro dal suo posto».
    Rimane tuttavia un elemento di pregio da sottolineare: questa Chiesa non si è piegata ai comportamenti scorretti dei nicolaìti.  Si tratta probabilmente di un gruppo di credenti che si erano avvicinati a un’eresia di tipo gnostico: non accordando alcun valore positivo alla realtà materiale e corporea della vita dell’uomo, potevano ritenersi esonerati da un effettivo impegno pratico nella carità e potevano sentirsi liberi di partecipare alle pratiche dei culti pagani (a loro viene rimproverato di mangiare le carni immolate agli idoli: cfr. Ap 2,14.20). Ciò fa riferimento a una scorretta comprensione dell’incarnazione di Gesù (il «docetismo», per il quale la carne assunta dal Verbo era solo apparenza).  Viene messa in risalto quindi la fedeltà della Chiesa di Efeso, che può far leva sulla sua retta fede, su una fede che non adatta Gesù Cristo alle tendenze correnti e neppure lo riduce a propria misura. 

    Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese
    Questo invito ad ascoltare ciò che lo Spirito suggerisce si ripete in tutte le lettere.  La possibilità di riscoprire il legame originario della Chiesa con Cristo e di sentirsi chiamati a rivitalizzarlo è frutto e dono dello Spirito.  Egli mostra alla comunità ecclesiale l’oggi della parola di Dio che è Cristo e ne fa affiorare la fecondità; fa in modo che il messaggio del Signore non ci rimanga esterno ed estraneo, ma pervada dall’interno lo spazio effettivo di esercizio della nostra libertà.  Occorre imparare ad ascoltare la sua voce, che fa risuonare e attualizza la parola evangelica attraverso testimoni e profeti, tramite l’appello interiore e la disponibilità all’ascolto

    Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio.
    L
    a promessa escatologica è per il «vincitore», per chi non si lascia vincere dalla fatica della prova, per chi non accetta di essere appiattito e omologato all’ambiente, per chi non allontana il suo amore dalla fonte originaria che lo sostiene. I vincitori sono tali perché sono associati alla vittoria di Cristo con la loro testimonianza (cfr.  Ap 2,26; 3,21; 12,1 1).  A loro è aperto l’accesso alla pienezza della vita, in Cristo.  L’«albero della vita, che sta nel paradiso di Dio» rinvia a Gen 2,9 e ritorna in Ap 22,2 ed esprime il pieno accesso ai beni della vita, desiderati e cercati sulla base delle promesse di Dio.  Nella comunione con il Signore, vincitore della morte, tale accesso sarà permanente e totale.  Ma si può pensare che già ora il fedele, nella misura in cui nella sua vita partecipa alla vittoria dell’Agnello immolato, sperimenti questa piena familiarità con Dio, che diventa visibile nella libertà e nella forza che sostiene la sua vita

     Significati per la nostra vita

    Il messaggio della lettera ridesta anzitutto nella comunità ecclesiale la coscienza di ciò che il Signore Gesù è per la Chiesa
    Il modo di presentarsi del Signore rimotiva la fiducia piena in lui: la Chiesa, pur nelle difficoltà e nella fatica di vivere la sua missione, è tenuta saldamente dalla destra del Signore.  Talora la luminosità del messaggio cristiano rischia di venire oscurata nella Chiesa anche dalla sfiducia di fronte alle difficoltà, dai limiti che si riscontrano in essa, dalla sensazione di essere poco significativi per il nostro mondo. 
    Il Signore si presenta alla nostra fede come il punto di riferimento incrollabile della Chiesa, Colui dalle cui mani non può essere sottratta la comunità dei suoi fedeli
    Egli non è distratto rispetto al nostro vivere: è in mezzo a noi (cammina in mezzo ai sette candelabri), conosce le nostre opere e ne garantisce la rilevanza decisiva in ordine alla salvezza (è il tema della promessa di vita per il vincitore). 
    Questo non giustifica il disimpegno o la facile illusione di un’assenza di fatica.  Piuttosto diventa motivo di fiducia e di impegno nell’offrire una gioiosa testimonianza di vita, propria di chi ripone la sua fiducia unicamente nel Signore e gode solamente di poter essere fedele a lui nella propria vita.
    Lo schema della lettera, con la concatenazione dei suoi elementi, esprime in maniera chiara anche un percorso di discernimento comunitario che viene sollecitato dalla parola del Signore.  Si tratta di un cammino che parte dalla presa di coscienza di sé, della propria situazione, sulla base della propria vocazione.  Se da una parte è il Signore che fa nascere la Chiesa ed è in lui che essa trova saldezza, dall’altra l’adesione di fede a Cristo apre alla comunità spazi sempre nuovi di testimonianza del suo Vangelo.  La memoria di ciò che sta a fondamento della Chiesa diventa suscitatrice di un concreto stile cristiano di vita e la spinge a recuperare le potenzialità che il Signore ha posto in lei. 
    Il riferimento continuo e normativo al Signore della Pasqua, quindi, non è solo criterio di verifica del proprio comportamento, ma anche garanzia di libertà rispetto a tutti quei modelli di vita che intendono addomesticare o appiattire la comunità ecclesiale su criteri di vita lontani dal Vangelo
    Attraverso il discernimento, la Chiesa è chiamata a ricentrarsi su Cristo, a custodire il legame originario e permanente con il SignoreAllentare questo legame significa indebolire la propria identità, perdere l’ispirazione autentica del proprio agire,  ricercare altre motivazioni che orientano e giustificano il proprio impegno
    Il rischio che questa lettera segnala e da cui deve guardarsi ogni comunità è quello di abbandonare «l’amore di prima».  Non è un’attenzione che proviene da un atteggiamento nostalgico, né deriva dalla semplice constatazione del venir meno dell’entusiasmo iniziale.  Il «primo amore», quello dell’inizio, è il cuore pulsante della vita ecclesiale: è l’amore di Cristo che trapassa nei cristiani e li rende capaci di dare la «testimonianza del loro martirio» (Ap 12,11).  La vita quotidiana dei cristiani è il luogo in cui questo amore si incarna, nell’infinita varietà delle situazioni, ma può essere anche il luogo in cui questo amore viene progressivamente rinchiuso in confini stretti, diventando meno libero e gratuito, non più aperto incondizionatamente agli altri, sempre più ripiegato su di sé e incapace di essere segno dell’amore di Cristo
    Si tratta allora di verificare la qualità «cristiana» dei nostri atteggiamenti e comportamenti, l’ispirazione «evangelica» del modo di investire le nostre energie personali e materiali
    Il dialogo che il Signore intrattiene con la sua Chiesa è anche fonte di incoraggiamento a una perseveranza quotidiana nella fedeltà al VangeloNon sono sterili la fatica e la perseveranza della comunità di Efeso e la sua ferma adesione al dato della fede in Cristo.  Ne consegue come frutto, non espropriabile da nessuno, l’autenticità di vita, la forza per non soccombere nelle difficoltà, la gioia di gustare il senso della propria vita quando prende la forma dell’amore come sgorga da Cristo.  In fondo, è l’esperienza della fedeltà di Dio che dà saldezza e consistenza di vita a chi gli si affida
    A confronto con questa esperienza si rende evidente la distanza di chi si pone dentro la comunità cristiana con uno stile e una proposta di vita che si discosta dal Vangelo (la lettera parla di «quelli che si dicono apostoli e non lo sono»).  La risorsa del Vangelo, cui attingere continuamente, e la disponibilità della propria vita, da alimentare ogni giorno, introducono nell’esperienza della pienezza della vita.  Se lo Spirito parla alle Chiese attraverso queste testimonianze, allora è possibile anche sostenersi e incoraggiarsi a vicenda proprio riconoscendo con gratitudine il cammino di conversione e i frutti di vita che lo Spirito stesso suscita nel cuore dei credenti.

     Preghiera finale
    Cristo, che costruisci la Chiesa, non per la divisione, ma per l’unità,
    non per l’orgoglio, ma per l’umiltà, sii benedetto,
    quando capovolgi i miei progetti per farmi scoprire la volontà del Padre. 
    Sii benedetto, quando scruti nel mio cuore,
    nei momenti in cui il tuo sguardo lo ferisce.
    Sii benedetto nell’immutabilità del tuo amore,
    nel quale trovo la forza per portare la mia croce,
    nel quale trovo il coraggio di seguirti. o Gesù,
    beatitudine e tenerezza di Dio, per me e per tutti,
    presente oggi, domani e nei secoli: sii benedetto. (Pierre Griolet)

    Una testimonianza…
     «Da quando ho posto davanti a me la parola di Dio come termine di confronto e come unica fonte di verità, i momenti di disorientamento della mia vita si sono diradati.  Rimane la consapevolezza delle difficoltà di seguire un cammino così radicalmente contrapposto con i modelli suggeriti dal mondo in cui mi muovo quotidianamente.
    Ho vissuto un forte disorientamento quando mi sono incamminato su questa via.  Non vedevo come avrei potuto rinunciare a tante mie consolidate convinzioni e a tante mie prerogative.  Ho dovuto faticare e battagliare bene prima di riuscire a vedere una meta che prima mi era occultata dall’orgoglio di essere il gestore della mia vita.
    Questa meta ora la scorgo.  La via per raggiungerla è cosparsa di ostacoli che vedo e di altri che vedrò nel prosieguo del cammino.  Ma questo non mi disorienta, anzi mi fa credere ancora di più che non devo togliere lo sguardo dal punto finale che a stento riesco a focalizzare.
    Mi rendo conto anche che questo andare non lo posso fare da solo.  Il procedere in quella direzione mi è consentito solo se lo compio in compagnia delle persone che con me stanno vivendo la medesima esperienza.
    La Chiesa è il luogo della crescita. E’ la vera e unica bussola, il cui ago è la parola di Dio, che ci può condurre in porto.  E’ il luogo di confronto con gli altri, è il punto di incontro.
    Ma la Chiesa che io sogno, credo sia quella che il Signore ci ha consegnato con la sua Pasqua, è una Chiesa in cui spariscono commissioni, consigli e chiacchiere.  Dove l’unica parola che si sente è la sua Parola, dove tutti cercano negli altri i motivi di unione piuttosto che quelli di divisione.
    Questa è forse una utopia.  Ma i motivi di disorientamento vengono più da un consiglio pastorale in cui si litiga per delle spese più o meno utili o da strane decisioni di “liturgia economica”.
    Di unione abbiamo bisogno tutti per crescere e per farci scrivere nel cuore l’amore che Dio desidera darci, per toglierci ogni dubbio sulle sue intenzioni su di noi». (Umberto)

     Lavoro personale 
    Ciascuno rifletta personalmente sulla seguente proposta:
    Alla luce del commento ciascuno individui le tappe da percorrere per operare un discernimento nella propria vita.
    – Immaginate che questa lettera sia scritta dal Signore alla tua comunità.  Prova a indicare «le opere, la fatica e la costanza» (Ap 2,2) che sono in atto in essa. 

    Criteri per il discernimento
    Il mondo, distinto e dipendente da Dio, è storia protesa al compimento in lui.  Quanto di buono cresce nella storia fiorisce nell’eternità.  Tutto è prezioso, anche «un bicchiere d’acqua fresca» (Mt 10,42) dato con amore.  In quanto preparazione e anticipo del Regno, la storia è il luogo dove agisce la Provvidenza divina e di questa azione è possibile discernere i segni indicatori: «Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo.  Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?» (Mt 16,2-3). I segni, ai quali Gesù fa riferimento, sono la sua stessa presenza, la sua predicazione e le sue opere. Ne preannuncia altri in un prossimo futuro: la rovina di Gerusalemme e la diffusione del vangelo attraverso la Chiesa.  I segni pubblici e non ambigui si riducono in definitiva a uno solo: Cristo annunciato e testimoniato dalla Chiesa.  In base a questo criterio occorre operare il discernimento riguardo a tutte le altre realtà storiche, per evitare di confondere i germi del Regno con le linee di tendenza prevalenti in una determinata epoca.  Altrimenti il discorso sui segni dei tempi si ridurrebbe a un’ideologia, per giustificare l’adeguamento al mondo e benedire ogni presunto progresso.  La Chiesa deve orientare la storia, non andarne a rimorchio. (Dal Catechismo degli adulti: La verità vi farà liberi, n. 1178)

  • 19 Feb

    Il Signore risorto si fa presente alla Chiesa perseguitata, diventandone il punto di appoggio che la libera dalla paura e la abilita alla testimonianza.

     Contesto

     Il contesto del brano è dato dai primi versetti dell’Apocalisse, che introducono l’intero libro con un prologo (Ap 1,1-3) e un saluto liturgico (1,4-8).�
    Nel prologo, Giovanni presenta il tema del libro.  Si tratta della «rivelazione di Gesù Cristo» e del risultato felice che essa produce in chi la accoglie e la mette in pratica: la proclamazione e l’ascolto portano alla beatitudine.�
    La destinazione dell’Apocalisse alla lettura in un’assemblea liturgica fa da sfondo a tutto il libro.  La forza del messaggio e la conseguente urgenza dell’ascolto danno preziosità al tempo: «il tempo è vicino», esso è ormai la grande opportunità da non perdere (v. 3).
    Con il saluto liturgico inizia propriamente la grande lettera alle Chiese che è il libro dell’Apocalisse: «Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace … » (v. 4).  Qui egli riassume il valore della Pasqua di Gesù con diversi titoli: «il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra» (v. 5). Gesù è il testimone che ha deposto a favore della bontà della causa di Dio tra noi; egli ha aperto per tutti la strada della vita; la sua guida della storia non può essere messa in scacco.  La comunità cristiana sa che tutta la storia è sotto la sua azione di liberazione dal male, si riconosce essa stessa edificata dal suo amore (v. 6). Per questo dal messaggio pasquale proclamato e accolto sale al Signore la professione di fede e la lode: «a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli».
    E’ per far riscoprire questo percorso di fede e di salvezza, in situazione di difficoltà, che Giovanni scrive alla Chiesa, accogliendo e adempiendo il suo ministero di servitore del Vangelo.
    A questo punto Giovanni inizia a raccontare la sua esperienza di rivelazione, ossia l’evento da cui è scaturito il motivo della sua opera. 

    Struttura del testo

     La narrazione si sviluppa in tre momenti:
    1. nel primo viene descritta la condizione personale ed ecclesiale di Giovanni come contesto della visione (vv. 9-1 I);
    2. nel secondo si descrive la visione del Signore in termini simbolici (vv. 12-16);
    3. nel terzo si riporta il dialogo del Signore con Giovanni (vv. 17-20).  

    SPIEGAZIONE

     a. La condizione personale ed ecclesiale di Giovanni

     La condizione in cui si trova Giovanni, quando è raggiunto dalla visione del Signore, fornisce un contesto significativo alla visione stessa.  Possiamo delinearla a partire da tre coordinate.
    In primo luogo è una condizione esposta alla prova.  Con tutti i credenti, di cui si sente fratello e compagno, Giovanni condivide la tribolazione a cui è esposto chi è coinvolto nel regno di Dio, nell’impegno che esso chiede.  Questa situazione diviene così appello alla perseveranza.  Nel suo caso, questa tribolazione ha la forma di una esclusione (esilio a Patmos, piccola isola rocciosa dell’Egeo, 70 chilometri al largo di Efeso), ed è dovuta al suo servizio della Parola e alla testimonianza resa a Gesù Cristo (v. 9).�
    Appartiene al Vangelo chiedere anche perseveranza faticose, perché non si raggiunge mai una piena coincidenza tra il Vangelo e la situazione storica.  Il messaggio di Gesù porta con sé una eccedenza e una novità che è fonte di gioia, perché rende liberi dai limiti della storia, e, simultaneamente, è fonte di fatica perché entra in tensione con tali limiti.
    In secondo luogo la condizione di Giovanni è caratterizzata dal «giorno del Signore». E’ l’unica indicazione di tempo che lo scrivente ritiene utile fornire per collocare il motivo del suo scritto.  Il «giorno del Signore» è il giorno della risurrezione di Cristo e del suo mostrarsi vivente; il giorno in cui alla comunità è dato di comprendere il senso della Pasqua, radunandosi a celebrare la «cena del Signore» (1Cor 11,20; solo in questi due casi compare nel Nuovo Testamento l’aggettivo kyriakos: «signorile»).  L’esperienza di Giovanni, in questo giorno, è frutto dello Spirito («rapito in Spirito») e diventa la sorgente del suo compito ministeriale.
    Infine è una condizione raggiunta dalla parola del Signore. Dalla Parola e in funzione della Parola che Giovanni ha una visione e riceve un incarico.  Egli «ode» e «vede» per scrivere alle «sette Chiese» (vv. 10-11).  Questa cifra, seguita dai nomi delle singole Chiese, diventa simbolica della Chiesa nella sua totalità e nella sua concretezza: è l’unica Chiesa del Signore, che però sussiste nella concretezza delle singole comunità. 

    B. La visione del Signore

     Giovanni «si voltò per vedere la voce» e «voltatosi, vide»: i due verbi connettono (con una certa forzatura) l’esperienza uditiva con quella visiva ed esprimono una percezione del tutto particolare, espressa in termini fortemente simbolici. Le diverse immagini cui Giovanni ricorre sono utilizzate non tanto per descrivere staticamente un oggetto, quanto per significare dinamicamente una realtà di ordine teologico.  Conviene quindi non fissarsi individualmente su ciascuna di esse, ma lasciarsi guidare dal movimento di senso che esse producono.  Qui sono utilizzate immagini desunte per lo più dall’Antico Testamento.  Esse tendono a raccogliersi attorno a due tematiche:
    a)   i segni della funzione sacerdotale-regale di Cristo (abito lungo, fascia d’oro…), i segni della sua realtà trascendente, appartenente alla sfera divina (capelli bianchi, il suo volto assomigliava al sole … ) esprimono la pienezza della presenza di Dio alla sua Chiesa (i sette candelabri e le sette stelle in mano al Signore);
    b)   i segni che rimandano alla figura del Messia che prende possesso del suo Regno (il figlio dell’uomo) dicono la funzione di giudice escatologico che Cristo risorto esercita, divenendo criterio ultimo di valutazione, con una parola capace di penetrare in profondità e di smascherare ogni altra pretesa di signoria sulla storia (la spada affilata a doppio taglio). 

    C.  La parola del Signore per la sua Chiesa

     Di fronte alla percezione del Signore nella sua gloria, la reazione di Giovanni (come quella dei profeti dell’Antico Testamento) esprime tutto il suo timore e il senso di inadeguatezza: «caddi ai suoi piedi come morto» (v. 17).  Il gesto delicato e forte del Signore, che posa la sua destra su di lui e lo incoraggia a non temere, mostra che il compito ministeriale affidato a Giovanni viene dal Signore stesso ed è possibile proprio perché egli abilita Giovanni a questo.
    Ciò che sostiene e motiva l’incarico di «scrivere alle Chiese» è dato dal Signore stesso nel suo modo di presentarsi.�
    Egli si qualifica come il Signore della Pasqua ero morto, ma ora vivo per sempre»), colui che possiede in pienezza la vita (è «il Vivente»), colui che è in grado di realizzare la salvezza in tutte le sue dimensioni (è «il Primo e l’Ultimo», ha «potere sopra la morte e gli inferi»). Ciò che sembra contrastare mortalmente la vita della Chiesa è già stato vinto dal Signore risorto.
    Il compito affidato a Giovanni trova così la sua conferma e il fondamento della sua forza: «scrivi dunque» (v. 19)!  Ciò che deve essere scritto, e di cui il libro dell’Apocalisse globalmente è testimonianza, riguarda le cose viste così come le cose presenti e quelle che devono accadere.  Le tre dimensioni del passato, del presente e del futuro diventano oggetto di testimonianza e di profezia nella misura in cui sono rilette nella luce della Pasqua di Cristo.�
    Egli introduce alla comprensione della visione, indicando i destinatari delle lettere: sono le sette Chiese.  Il duplice simbolo delle stelle identificate con gli angeli della Chiesa e dei candelabri le qualifica nella loro realtà terrestre e celeste.  Saldamente custodite dalla destra del Signore, le Chiese sono definite dalla relazione che il Signore ha stabilito con esse. 

    SIGNIFICATI PER LA NOSTRA VITA

     Presentandoci la visione di Giovanni, il testo ci fa attenti a come il Signore stesso si rivela ed entra in comunicazione con noi.�
    Giovanni è sollecitato a udire e vedereCiò che si fa udire e vedere è il Signore della Pasqua, il Risorto con la sua gloria, ma l’incontro avviene nella disponibilità all’azione dello Spirito che dinamizza le strutture normali, secondo le quali l’uomo si apre alla realtà: la percezione dei fatti nel loro significato. E’ questo il modo in cui le nostre esperienze diventano significative e «rivelative» e possiamo giovarci della condivisione dell’esperienza con gli altri.�
    Quanto più è grande la ricchezza di significato che gli eventi mettono a disposizione per la nostra vita, tanto più siamo sollecitati a vedere-udire in profondità, lasciandoci guidare dallo Spirito.�
    La trama delle nostre relazioni, dunque, può diventare il luogo in cui si percepisce la presenza e il significato della Pasqua, l’evento sempre disponibile alla vita dell’umanità.�
    Occorre chiedersi però come viene gestita la comunicazione dentro la comunità cristiana, che cosa viene messo a disposizione nella trama dei nostri rapporti, a che cosa si fa spazio nei momenti qualificanti della comunicazione ecclesiale.  La fiducia nell’azione dello Spirito, che valorizza la nostra umanità e la apre a Dio, può condurci a coltivare la nostra capacità di comprendere e di condividere le esperienze, piccole e grandi, nelle quali si rende presente la forza della risurrezione.
    E’ molto significativo per noi il fatto che Giovanni abbia avuto l’esperienza di questa visione nel giorno del SignoreLa condizione di tribolazione e di persecuzione, in cui egli si trovava, riceve la sua interpretazione adeguata e il suo sostegno incrollabile proprio nel giorno in cui la comunità si raduna a celebrare nel memoriale dell’eucaristia la risurrezione del suo Signore.  La domenica dunque si profila come il giorno dedicato dal Signore alla sua Chiesa, prima che giorno che la Chiesa dedica a lui; giorno in cui il Signore si dona alla Chiesa, prima che la Chiesa a lui.�
    Vissuta in questo modo, lasciando che il dono del Risorto rigeneri e ridefinisca le relazioni all’interno dei credenti e quelle tra la Chiesa e il mondo, la domenica diventa il giorno in cui la comunità cristiana è rivelata a se stessa nella sua identità, il giorno nel quale può riscoprire e riaffermare il senso del suo cammino nella storia e riscattare il valore della sua costanza nella fatica e nella prova.  Il radunarsi nella memoria del Signore e nell’accoglienza fraterna, l’ascolto della sua Parola, la comunione al pane spezzato e al calice del suo sangue versato, la festa della vita come affermazione della risurrezione, sono gesti che appartengono all’espressione fondamentale della fede e al cammino di crescita normale di una comunità.  Non si può ridurre la domenica alla questione del precetto e dell’astensione dal lavoro. E’ evidente oggi la necessità di riscoprire e di rimotivare il senso del giorno del Signore, radicandolo nella profondità della fede e nella concretezza del vissuto.
    L’esperienza vissuta da Giovanni esprime quasi un itinerario: dalla condizione di prova alla percezione della presenza del Signore, all’incontro con lui che si autopresenta.�
    La condizione in cui ci si trova può aprirsi al Signore e ricevere nuovo significato da lui.  Per Giovanni l’incontro con il Signore sfocia nell’incarico di scrivere alle Chiese.  Quando si raggiunge la consapevolezza che, anche nella nostra vita, ci è dato di essere partecipi dello stesso dinamismo pasquale di morte e risurrezione, allora diventiamo testimoni: abbiamo qualcosa di decisivo da comunicare, qualcosa che può diventare il punto di appoggio per sorreggere la quotidianità della vita cristiana e, talvolta, la fatica della fedeltà al Vangelo.�
    Uno dei primi doni per chi crede nel Signore risorto è il superamento della paura Non temere!»): la nostra vita, l’esito finale delle nostre fatiche, sono nelle mani di Colui che vive per sempre.  E questa la grande rivelazione che dallo scritto di Giovanni viene consegnata alle nostre comunità ecclesiali e che da noi non può che essere testimoniata nella gioia.
    Da ultimo, si può cogliere una suggestione nell’insistenza con cui Giovanni ripete il verbo «voltarsi»: «mi voltai per vedere», «appena voltato, vidi».  Non siamo mai del tutto orientati verso il Signore.  C’è una conversione continua che ci viene sollecitata dal dialogo che egli apre con noiMantenersi permanentemente rivolti al Signore è un atteggiamento di costante attenzione ai segni della sua presenza, a ciò che egli suscita nel cammino personale ed ecclesiale, a quel significato e a quel valore che la sua risurrezione può donare alla nostra esistenza.  Questa visione ci ricorda il momento iniziale di un cammino di vita cristiana e di servizio; ci invita anche a non smarrire l’orientamento a ciò che ne costituisce permanentemente il contenuto e la forza. 

    Preghiera finale

     Signore, nel momento della prova,
    ora che il dolore e la trepidazione gravano sul mio cuore,
    guidami con la chiarezza della fede
    a trovare in te l’aiuto e il conforto.
    Lo Spirito Santo mantenga in me la certezza di essere tuo figlio
    aiutandomi ad accettare tutto dalla tua mano.
    Persuadimi che tu, Padre,
    disponi gli avvenimenti al mio bene, rispettando la libertà umana.
    Fa’, o Cristo,
    che nella certezza del tuo amore
    io trovi la risposta a quelle domande che superano questo mistero umano.�
    Fa’ che senta sulla mia strada dolorosa
    il tuo passo sicuro che non mi abbandona.
    Credo in te, o Gesù,
    perché sei la Verità.
    Spero in te perché sei fedele.
    Amo te, perché sei l’Amore. 

    CARD.  GIOVANNI BATTISTA MONTINI

     PER APPROFONDIRE IL TEMA

     V. Frankl, medico e fondatore della logoterapia, che nei lunghi anni di permanenza nei Lager nazisti sperimentò come «la forza di reazione dello spirito» permetta all’uomo di affrontare con coraggio e dignità le situazioni traumatiche:
    Non vi è nulla al mondo che sia in grado di aiutare un uomo a superare disagi interiori o difficoltà esteriori quanto la consapevolezza di avere un compito specifico, il sapere che esiste un significato assolutamente concreto, non nel complesso della vita, bensì ora e qui, nella concreta situazione in cui egli si trova.  E questo si è visto ad esempio nei campi di prigionia.
    Tra gli studenti della mia università in California avevo anche alcuni ufficiali che avevano trascorso i più lunghi periodi di prigionia nei campi dei nordvietnamiti: celle di isolamento e altre cose del genere, semplicemente inimmaginabile.  E uno di loro addirittura per sette, dico per sette anni!  Ebbene, abbiamo organizzato una discussione pubblica, ed il risultato è stato che se c’è stato qualcosa che li ha tenuti in vita – e la stessa cosa la si può sentire dai reduci di Stalingrado e dai prigionieri dei campi di concentramento – era il sapere che nel futuro c era qualcosa che li attendeva.  Qualcosa o qualcuno.

    Da: V.E. FRANKL, F. KREUZER, In principio era il senso, Queriniana, Brescia 1995, p. 43)

    Invita, poi, a rispondere alle seguenti domande:
    – Quali aspetti di questo brano senti veri anche per la tua esperienza
    « … se c’è stato qualcosa che li ha tenuti in vita era il sapere che nel futuro c’era qualcosa che li attendeva.  Qualcosa o qualcuno».  Proviamo a dirci quali «presenze» nella nostra vita ci sostengono e danno senso al nostro cammino.
     In quali esperienze personali o comunitarie abbiamo intuito la presenza del Signore Vivente? – Come ci piacerebbe poter vivere le situazioni di difficoltà?
    –  Nella celebrazione eucaristica domenicale facciamo la stessa esperienza?
    Come possiamo aiutarci a vivere la domenica in questo modo?

     La domenica è il giorno del Signore risorto, la Pasqua settimanale.  Da sempre caratterizza la vita di ogni comunità e di ogni vero credente: «è il giorno del cristiano, il nostro giorno» (s.  Girolamo).  Ci riuniamo in assemblea per incontrare il Crocifisso risorto, per ascoltarne la Parola, per attuare la comunione con lui nell’eucaristia.  Facciamo festa; ci riposiamo dal lavoro; ci dedichiamo alla famiglia, agli amici, alla contemplazione, alle opere di carità, al gioco, al contatto con la natura.  Questi valori sono tutelati dal comandamento di Dio e dalle leggi della Chiesa.  Pregustiamo così l’ottavo giorno fuori del tempo, «la pace senza sera» (s.  Agostino), l’armonia perfetta del regno di Dio, e diamo significato anche ai giorni feriali della fatica. (Dal Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, n. 658)

  • 19 Feb

     

    Signore mio Gesù,

    quando le mie labbra si avvicineranno alle tue,

    fammi sentire il tuo fiele.

    Quando le mie spalle si appoggeranno alle tue,

    fammi sentire i tuoi flagelli.

    Quando la carne tua si comunicherà alla mia,

    fammi sentire la tua Passione.

    Quando la mia testa si avvicinerà alla tua,

    fammi sentire le tue spine.

    Quando il mio costato si accosterà al tuo,

    fammi sentire la lancia.

     

    Santa Gemma Galgani, Estasi

     

     

  • 18 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     

     

    La predicazione del regno di Dio per cui Gesù spende tutta la sua vita appare fallimentare: farisei ed erodiani lo vogliono uccidere, i parenti lo ritengono pazzo, gli scribi indemoniato. Il suo ministero non è segnato dal successo, anzi! strada facendo raccoglie sempre più incomprensioni, fraintendimenti, rifiuto (cfr. 3,6).

    Gesù sperimenta che la proclamazione gioiosa del regno che si fa presente all’uomo non trova una risposta positiva ed entusiasta, ma ostilità e durezza, a volte reazione violenta.

    Lo sfondo della parabola evidenzia questa constatazione di una fatica che appare inutile. Attraverso essa Gesù dà una risposta.  In questa situazione difficile Gesù esprime la sua fede incrollabile nella missione affidatagli dal Padre. Egli afferma la sua fiducia, tra mille difficoltà, nella potenza di Dio. La sua Parola, è come il buon seme: seminato tra mille difficoltà, non potrà non dare quel frutto per cui è stata seminata.

     

    v. 1 : Cominciò ad insegnare

    Gesù è di fronte alla folla nell’atteggiamento del maestro che insegna stando seduto. L’insegnare (imperfetto: azione prolungata “insegnava”)  (didaskein) è una funzione riservata solo a lui. (I discepoli devono annunciare: kerussein Dopo il Regno annunciato mediante miracoli e parole che autenticavano la sua missione, ora Gesù inizia a spiegarne il mistero attraverso l’insegnamento delle parabole.

    Le parabole parlano attraverso immagini. Ora il parlare in immagini non è affatto meno impegnativo; anzi è più impegnativo di ogni parlare diretto, proprio perché esige una certa disponibilità a lasciarsi introdurre in un rapporto diretto con colui che parla. Cosicché la comprensione del messaggio contenuto nella parabola non è così immediato, non perché sia particolarmente difficile dal punto di vista concettuale, ma perché richiede una disponibilità d’animo a lasciarsi interrogare a livello profondo, nelle proprie scelte di vita.

     

    In riva al mare

    L’insegnamento si svolge sulla riva del mare: si tratta di un’indicazione teologico-geografica importante. Gesù come Mosè siede nel mare e si rivolge alla folla che sta a terra alla quale è rivolta una parola che invita ad una nuova esperienza di esodo.

    La parabola infatti si presenterà come una iniziazione al mistero pasquale.

     

    “Ascoltate”

    La parabola inizia e termina con l’invito all’ascolto. “Ascolta Israele” (cfr Dt 6,4-9) è la professione di fede e la preghiera quotidiana del popolo eletto

    Nel linguaggio biblico “ascoltare” è più del semplice sentire, e anche del comprendere. L’ascolto biblico indica il coinvolgimento di tutta la persona. La fede biblica si costruisce e si fonda sull’ascolto; essa crede in un Dio che parla e a cui l’uomo è invitato a rispondere. L’ascolto vero scaturisce nell’obbedienza nella fede. Gesù è modello di questa centralità dell’ascolto: venuto per “fare la volontà del Padre”, non può non essere costantemente in ascolto. Frutto del suo ascolto è la sua Parola (parole e segni).

    L’invito all’ascolto da parte di Dio è costante: la sua Parola è vita e luce per noi. “Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il cuore” (Sal 94).

    In quale misura la mia fede si costruisce a partire dall’esperienza dell’ascolto?

      

    Uscì il seminatore:

    La figura del contadino svolge una funzione assolutamente necessaria. La parabola ci racconta il dramma del seminatore che esce a seminare con tutte le speranze e i timori che sono legati a questo atto. E’ il dramma di chi si appresta ad un gesto di cui non conosce ancora i risultati.

    Gesù è il seminatore. Egli è venuto per “seminare” il Regno di Dio nel mondo. Questa seminagione avviene mediante il ministero della Parola. Lui stesso si identificherà alla fine con il seme:In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

      

    v. 4-6 a seminare

    La parabola si comprende se si tiene presente che in Palestina al tempo di Gesù prima si seminava e poi si arava., ricoprendo il seme in attesa delle piogge. Questo sistema comportava che il seme potesse cadere ovunque: strada, sassi, rovi… e terra buona.

    Tutta l’attenzione della parabola si concentrerà sul seme e sulla sua sorte.

    Le quattro scene che raccontano la sorte del seme non raccontano quattro storie, ma una sola. Quella di un contadino che nello stesso giorno e nello stesso campo getta la sua semente.

    Prima di arare non si conosce se il terreno è profondo o no, se è adatto o no, se non nasconde radici di rovo o no. Occorre seminare ovunque e comunque.

    Il contadino che volesse essere sicuro in precedenza del risultato di ogni chicco non seminerebbe mai. Si mangerebbe in un mese quel sacco di grano che “gettato via”, diventa alimento per tutto l’anno dopo. La sua azione, apparentemente in perdita, conta sulla forza del seme. Sa, e per questo osa.  Occorre il coraggio della semina, sacrificare il grano all’oscurità della terra, così ostile e dura. A lui si adattano le parole del salmo 126: “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare: ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

     

    v. 7 non diede frutto

    Il risultato di questa semina sembra disastroso.

    Il seme non attecchisce perché gli uccelli se lo mangiano, se attecchisce non riesce a crescere a causa del terreno sassoso, se cresce è soffocato dai rovi. Ci sarebbero buone ragioni per disperarsi!

    Eppure il contadino, come Gesù, va avanti nella semina, imperterrito.

    La domanda che sorge è una sola: Ma questa semina porterà frutto?

    L’ampiezza e l’abbondanza dei particolari nella descrizione della prima parte della seminagione rivela che ciò che fa problema è il riconoscere l’esistenza di un forte insuccesso.

    Nella semina l’occhio dell’inesperto non vede che spreco e fallimento, all’occhio esperto del contadino in quella stessa semina coglie una dimensione diversa: quella della certezza del raccolto finale abbondante.

    Lo stesso avviene per la potatura che riduce la vite a un aspetto desolante e spoglio, eppure il potatore in quei rami tranciati vede l’abbondanza dei grappoli e pregusta il vino migliore. Tema fondamentale della parabola risulta perciò essere la speranza, la fiducia. Il contadino, Gesù, vive l’esperienza di Abramo: si tratta di “una speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Meraviglia lo spreco da parte del contadino, come meraviglia ancor più lo spreco da parte di Dio: non potrebbe o meglio non dovrebbe evitarlo? Per dare riposta occorre fissare lo sguardo su Gesù stesso.  Se la semina di Dio non è diversa da quella del contadino è perché all’origine dell’agire di Dio c’è una sovrabbondanza di amore che sembra spreco. In quest’ottica ci appare la passione e la croce di Gesù!

    I gesti del contadino rivelano in tal modo la “filantropia” divina, disinteressata e traboccante, senza calcolo e prudenza.

     

    v. 8 la terra buona

    Ma vi è anche la terra che accoglie il seme. Essa ripaga ogni fatica. Una terra che continua a dare frutto (dava: imperfetto un’azione continuata), in una percentuale strabiliante, assurda (cento per uno! Quando in Palestina si aggira intorno al 7,5 per uno).

    L’abbondanza della risposta della terra buona si contrappone al fallimento precedente. E’ un’abbondanza sorprendete: fuori misura! E’ una rottura dell’ordine naturale, il che sta ad indicare che il frutto del Regno sarà imprevedibile e straordinario. Dono libero e gratuito di Dio.

     

    v. 9 chi ha orecchi…

    E’ una frase di stile semitico. Si fa riferimento all’ascolto attento, all’orecchio proteso con attenzione alla parola. Suggerisce l’importanza ma nello stesso tempo il mistero di ciò che viene detto. Qui “orecchio” sta per intelligenza. Si richiede intelligenza e cuore. E’ una disponibilità che non tutti hanno, si dà infatti l’eventualità del non capire.

    Nella stessa semina e nello stesso tempo fallimenti e successi accompagnano l’opera del seminatore. Di fronte alla medesima Parola c’è contemporaneamente chi l’accoglie e chi la rifiuta.

    Da parte di chi semina non vi sarà la pretesa che il seme seminato debba sempre e comunque dare frutto. Piuttosto vi sarà la certezza che da qualche parte esso sta già dando frutto.

     

     

    Concludendo

     

    1. Il Regno è da Gesù spesso paragonato al seme, la cui forza e vitalità, viene proprio attivata da ciò che apparentemente appare come sua negazione: il suo essere gettato nella terra. Questo suo essere “gettato” è la condizione perché esso possa germinare.

    Nella parabola si cela il mistero della vita, si cela il grande mistero del Regno di Dio: il mistero della morte per la vita, il mistero di morte e risurrezione.

     

    2. La parabola racconta degli insuccessi e dei successi che il Regno di Dio può riscontrare quando entra nel mondo attraverso l’opera e l’annuncio di Gesù (e della comunità cristiana), e si comprende che ciò che costituisce il vero problema è l’insuccesso. Perché accade questo? Che cosa l’ha provocato?

    Di fronte all’insuccesso e all’ostilità Gesù non reagisce colpevolizzando la realtà o se stesso.

    Noi siamo facili alle colpevolizzazioni: colpevolizziamo il mondo che non accoglie e non capisce, oppure colpevolizziamo noi stessi dicendo: “sto sbagliando tutto!”. Di fronte ai nostri insuccessi accade che colpevolizziamo o ci scoraggiamo. Quando constatiamo che la nostra semina non porta tutto il frutto che vorremmo, cominciamo a fare letture aggressive o negative della realtà e delle persone che ci circondano, oppure entriamo in crisi di identità.

    Gesù non cade in questo tranello. Accetta che la storia abbia le sue sconfitte. Si inserisce nel tessuto della nostra storia e del nostro cuore così ambivalente e ambiguo. Accetta la fatica che essa sia dura, ma non per questo demorde dalla sua identità e dal suo messaggio. Non avviene una trasformazione per un atto magico, il regno di Dio si fa strada nel mondo facendo suoi tutti i limiti, le ombre, gli insuccessi. Noi vorremmo diversamente!

     

    3. Le parabole del seme gettato mentre fanno luce sul ministero di Gesù, offrono il criterio di discernimento per essere con lui. Non siamo chiamati a cercare il successo (vv. 3-9), la fama e la rilevanza (vv. 21-25), il protagonismo e la grandezza (vv 26-32).

    La Parola è un seme vivo che non può non produrre ciò per cui Dio l’ha mandata: “così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11).

     

  • 18 Feb

    di p. Attilio Fabris 

     TRACCE DI STORIA

    Con la scoperta a fine ‘800 del mondo sino allora sconosciuto e inesplorato dell’inconscio della psiche umana si aprirono orizzonti nuovi di lettura ed interpretazione dell’uomo. Sembrò, alla luce delle teorie psicanalitiche, di poter finalmente far luce e chiarezza in quelle dimensioni che sino allora erano state per lo più riservate alla competenza della sfera religiosa.
    Si andava incontro a due equivoci fondamentali.

    Il primo equivoco stava nella confusione e identificazione della dimensione psichica con quella spirituale: parlare di anima equivaleva a parlare di psiche.  La conseguenza fu che lo psicanalista veniva a soppiantare il confessore o  “direttore spirituale” in quanto la cura dell’anima coincideva con la cura della psiche. Così il fenomeno religioso insito nella natura umana veniva totalmente e sbrigativamente ricondotto e ridotto a semplici dinamismi, tensioni e pulsioni umane.
    Orgogliosa di questa autonomia la psicologia si staccò nettamente e si contrappose nettamente ad ogni interferenza con la religione arrivando a infelici e reciproci rifiuti e condanne. Dopo questa prima fase si passò nei primi decenni del secolo scorso ad una sorta di compromesso basato per lo più su un reciproco disinteresse, una sorta di separati in casa.
    La religione a sua volta accusava la psicologia di operare un indebito riduttivismo, di inalberare lo stendardo della “psicologia senz’anima”.

    Il secondo equivoco stava nel fatto che da entrambe le parti si cadeva nel trabocchetto che conduceva al vicolo cieco e insolubile di un’inevitabile dualismo di stampo cartesiano.
    Da un lato – quello della psicologia – si voleva prendere in considerazione e ipotizzare un uomo chiuso in se stesso e tutto determinato dai suoi bisogni (e in questo caso non aveva senso parlare di un’insita apertura dell’uomo al Trascendente).
    Dall’altro lato – quello della religione – si cadeva in una rivendicazione, dettata per lo più dalla paura della critica distruttiva, di una vita spirituale estrinseca da tutti i fattori e dinamismi umani e psichici.Ovvio che tale dualismo costringeva come inevitabile conseguenza ad impossibilità di incontro e di dialogo.
    Ultimamente il panorama della ricerca psicologica (pensiamo alla logoterapia di V. Frankl, alla nascita di psicologie umanistico-esistenziali) e nello stesso tempo un cambiamento dell’orizzonte culturale dettato dalla crisi delle scienze umane sta lentamente portando sia il mondo degli psicologi come quello dei teologi e degli operatori pastorali ad un incontro e dialogo del tutto nuovi, sino a giungere in taluni casi ad una vera e propria collaborazione.
    La vera psicologia sta prendendo sempre più coscienza della sua impossibilità di offrire quelle risposte ultime e di senso che solo un discorso spirituale può affrontare: essa molto spesso giunge (o aiuta a giungere) ad un confine che non le appartiene più.
    La religione prende sempre più atto che nel fatto religioso intervengono necessariamente dinamismi psichici che possono sostenere o talvolta ostacolare una matura esperienza religiosa.

    Oltrepassata la contrapposizione o sovrapposizione indebita si inizia ad accettare da ambo le parti che l’uomo non può essere “ridotto” a puri bisogni e dinamismi biologici e psichici, e dall’altro che la vita spirituale agisce necessariamente nell’umano (gratia supponit naturam) e in quanto tale si incarna nello psichismo dell’uomo, ovvero proprio nei suoi bisogni e nelle sue dinamiche interiori.
    Non ha più senso perciò voler separare questi vari elementi quasi che l’uomo fosse una sorta di giustapposizioni di vari strati. L’uomo è un tutt’uno! (sarebbe da rivalutare in tal senso tutta l’antropologia biblica) e in quanto tale il fattore psichico e quello spirituale vanno intesi come “bipolarità”, nella quale i due poli non sono contrapposti, ma interagiscono dando vita ad una tensione in cui entrambi i fattori costituiscono un unico vissuto. Ed è ovviamente auspicabile che entrambi funzionino al meglio possibile!
    Si comprende allora che non si tratta più con supponenza da ambo le parti di voler ricondurre tutto allo psicologico o allo spirituale come se l’uomo fosse tutto angelo o tutto bestia. Il dualismo cartesiano, almeno in teoria, sembrerebbe e dovrebbe essere ormai decisamente superato. Dunque se si agisce con verità, correttezza e autentica professionalità il dialogo e la collaborazione sono di fatto possibili, anzi auspicabili se da entrambi le parti si riconoscono e accettano le reciproche competenze senza indebite invasioni di campo. 

    INTERAZIONE NECESSARIA 

    Si tratta ora di abbozzare alcune idee circa le linee concrete di dialogo e collaborazione tra i due campi di competenza.
    uesto dialogo e collaborazione tra i diversi operatori divengono in qualche modo necessari quando una persona domanda di essere accompagnata psicologicamente o spiritualmente, ovvero fa ricorso all’operatore psicologico o pastorale.
    Mi soffermo ovviamente su quest’ultima relazione. Un tempo essa si identificava con l’incontro col confessore o col cosiddetto “direttore spirituale”.  Oggi in verità si preferiscono altre denominazioni per indicare quest’ultimo ruolo, volendo togliere l’impressione di una sorta di indebita – e  rischiosa – “direttività” a cui forse un tempo si faceva fin troppo ricorso. Oggi si preferisce parlare perciò di di “accompagnatore spirituale”, “consigliere spirituale” o “guida spirituale”.
    Quali i punti di incontro e di competenza tra lo psicologo e la “guida spirituale”?
    Si tenga anzitutto presente che sia lo psicologo che la guida spirituale usano il medesimo strumento della parola e della relazione. Da qui la possibilità della confusione o di indebite interferenze. Ma pur usando il medesimo strumento i due ruoli e servizi possiedono caratteristiche molto diverse.
    La diversificazioni stanno:
    – nell’obiettivo che ci si prefigge, (per la psicologia è aiutare la persona a funzionare correttamente a livello psichico nel rapporto con sé, con gli altri. Per la religione sta nel favorire la persona ad aprirsi all’esperienza del trascendente e alla ricerca di senso nella propria vita)
    – sul tipo di rapporto tra i due interlocutori,(per la psicologia esso si struttura su una dinamica tra medico e cliente che retribuisce il servizio richiesto, per la religione esso si costruisce su una dinamica di tipo fraterno e gratuito)
    – nelle disposizioni interiori che li animano, (per la psicologia la disposizione è professionale medica per la religione cristiana essa è pastorale spirituale)
    – nell’ambito in cui il discorso si muove, (per la psicologia l’ambito è quello dell’esplorazione e guarigione del mondo immanente psichico; per la psicologia cristiana l’ambito è spirituale ovvero il vissuto interiore spirituale. E in tal senso l’incontro si struttura in una relazione non a due come con lo psicologo ma a tre in quanto sia la persona che richiede aiuto, sia l’operatore hanno come riferimento il Trascendente)
    – nel luogo stesso in cui si svolge l’incontro (per la psicologia l’ambito è quello clinico-ospedaliero-ambulatoriale per la religione cristiana l’ambito è generalmente quello ecclesiale).
    Tener sempre presente da ambo le parti queste diversificazioni è importante per non ingenerare deleterie confusioni che alla fine vanno a discapito della persona e del servizio da lei richiesto.
    Certamente quando la guida spirituale intraprende il suo servizio pastorale di ascolto e accompagnamento spirituale necessariamente entra – come si è sopra ricordato – anche nell’ambito dello psichico, non ne può rimanere fuori. In tal senso la sua azione ha sempre indirettamente un risvolto curativo sulla psiche umana se ben condotto. La stessa cosa dotrebbe avvenire anche in sano accompagnamento psicologico.
    La guida spirituale che accompagna la persona all’incontro con il Trascendente e a strutturare la vita tenendone conto non può ignorare tutte quelle componenti umane che interferiscono, facilitano od ostacolano questo obiettivo. Emergono in tal modo aspetti conflittuali o addirittura nevrotici nel qual caso si necessita – se gravi – la collaborazione e il supporto in ambito competente psicoterapeutico o psichiatrico.
    Non mancano poi casi (e sono la maggior parte!)  in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione di problematiche che non sono di sua competenza: sofferenze psichiche e talvolta psichiatriche sono spesso comunicate al confessore o al sacerdote. Tali persone caricano spesso di significato religioso problemi e sofferenze che sono di tutt’altra natura ovvero legate al loro vissuto psicologico malato. Ovvio allora che l’operatore pastorale attento, trovandosi di fronte a tali situazioni, aiuti queste persone a rivolgersi alla competenza dello psicologo o dello psichiatra. In questi casi da parte dell’operatore pastorale non solo è saggio ricorrere alla psichiatria e/o psicoterapia, ma addirittura doveroso (il che purtroppo – occorre riconoscerlo non accade – provocando talvolta danni notevoli!).
    D’altro lato però accade, e forse più di quanto si vorrebbe ammettere, che delle persone facciano ricorso allo psicologo o allo psichiatra per problematiche che se ascoltate attentamente oltrepassano la sofferenza psichica, andando molto più in profondità e domandando risposte che le scienze umane non sono in grado di offrire: ricerca di senso, esperienza di vuoto, insoddisfazione… forse rappresentano sofferenze più spirituali che psichiche (se è vero come affermava Jung che “dopo i quarantenni ogni disagio psichico è in realtà un disagio spirituale”!). E come possono la psicologia e la psichiatria  offrire autentiche soluzioni e risposte a tali disagi che in realtà sono domande di natura essenzialmente spirituale?
    Non sarebbe allora altrettanto doveroso da parte dello psicologo-psichiatra demandare alla competenza del religioso l’aiuto su questo versante?
    In molti casi un auspicabile lavoro di èquipe faciliterebbe in tal senso sia gli operatori psichiatrici come quelli pastorali andando a beneficio della totalità della persona stessa alla quale i loro servizi sono diretti. Si tratterebbe in tal senso di ricercare una interdisciplinarietà capace di co-agire in vista della crescita ed equilibrio della totalità della persona e non solamente di un polo!.
    Questa interazione a mio parere è purtroppo ancora carente e vista in modo sospettoso. Occorrerà camminare e sperimentare molto in tale direzione anche se non mancano giù ora tentativi coraggiosi.
    Ci auguriamo in un futuro non troppo lontano che, pur attraverso una chiara e indispensabile distinzione di piani, si possa cooperare in sinergia al fine di aiutare l’uomo di oggi a recuperare tutte quelle necessarie dimensioni che atrofizzate portano solo a squilibri e dunque a sofferenza

    LA  CONDIZIONE. UN‘ANTROPOLOGIA CONDIVISA 

    Vi è comunque una condizione previa e fondamentale sulla quale non si può assolutamente sorvolare perché si possa attuare questa sinergia in modo positivo: è necessaria la condivisione sempre da ambo le parti di una fondamentale visione antropologica.
    Questo concretamente comporta da un lato che il medico riconosca l’apertura alla trascendenza come costitutivo alla pienezza dell’essere umano e dall’altro che l’operatore pastorale riconosca la validità e talvolta la necessità di un intervento previo o concomitante specificatamente medico nel suo intervento spirituale riconoscendo che esso si incarna anche nella psiche del paziente.
    Dove mancasse questa reciproca stima e riconoscimento si darebbe adito da entrambi le parti solo a doppi messaggi talvolta contraddittori che andrebbero a discapito, a volte in forma grave, della persona sofferente.
    Concludendo occorre poi accennare come non è più possibile parlare, in una cultura ormai variegata, di apertura al religioso in senso generico.
    Oggi il rischio della psicologia è di guardare alla religione in senso per lo più “funzionale” (Allport-Vergote), ovvero in un suo utilizzo pseudo-religioso di stampo new o nest-age.  Occorrerà perciò tenere presente che la proposta religiosa cristiana si caratterizza per una sua antropologia ben specifica che la differenzia nettamente da altre proposte religiose. Lo psicologo che desidera operare in rapporto al fattore religioso non può tralasciare quest’aspetto nei confronti della persona che domanda il suo aiuto.
    Ma qui il discorso si amplia ulteriormente aprendosi su un orizzonte di riflessione molto vasto forse ancora tutto da esplorare.

     Bibliografia

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    Catalan J.F., Esperienza Spirituale e Psicologia, Ed  Paoline, Cinisello B. 1993
    Cruchon G., Il sacerdote consigliere e psicologo, ed Marietti, Torino 1972
    Zavalloni R., Psicologia e Spiritualità, in “Dizionario di Spiritualità”, Ed Paoline, Cinisello B. 1970
    Avoy J.M., Direction Spirituelle et Psycologie, in “Dictionnaire de Spiritualité, ed Du Cerf III, 1143-1173, 1956
    Fassino S. et Alii, Manuale di Psichiatria BioPsicoSociale, CSE, Torino 2007
    Nathan T-Stengers, Magia, ed Boringhieri, Torino
    Massone A-Lanzini I, Valori e limiti della psicoterapia,  ed Salcom, BdB/VA, 1992
    Nathan T.-Stengers, Medici e stregoni, ed Boringhieri, Torino 1996
    Brenner, Beve corso di psicoanalisi, ed Martinelli, Firenze
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