• 03 Mar

    5 

    IL TEMPO DI DESERTO

     Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato,
     il Signore mi ha dimenticato».
    Si dimentica forse una donna del suo bambino,
     così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
     Anche se queste donne si dimenticassero,
    io invece non ti dimenticherò mai.
    Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani,
    le tue mura sono sempre davanti a me.
    (Is 49,14-16)

    Quando la distrazione non è un atto passeggero bensì una impossibilità completa di concentrarsi nel Signore, e se questa si prolunga per un certo tempo allora si chiama aridità spirituale.
    Questa aridità produce spesso depressione, tristezza e desolazione. E per superare e vivere questi periodi occorre più coraggio che per altri lavori prestigiosi di questo mondo.

    Cause

    1.       Un attivismo incontrollato che scompone l’unità interiore.
    2.       La natura stessa dell’orazione che è fatta di momenti di aridit�
    3.       Situazioni patologiche e fisiche e psichiche
    4.       Squilibri emozionali
    5.       Una prova permessa dal Signore.

    Sono convinta che il Signore, prima di arricchire le anime coi suoi grandi tesori, mandi loro questi tormenti e tutte le altre tentazioni che si soffrono, per provare se lo amano davvero e vedere se potranno bere al suo calice e aiutarlo a portare la sua croce” (s. Teresa d’A., Vita, XI,11).

    Rimedi

    L’aridità non si vince a forza di braccia: “Se in queste circostanze si insiste a fare per forza è peggio, e il male dura di più” (s. Teresa d’A.).
    Che cosa allora occorre?
    Pazienza:            accettare i nostri limiti. L’aridità la si vince abbandonandisi. Si tratta in questa situazione di perseverare nella preghiera, facendo del nostro meglio, non preoccupandoci dei risultati o delle emozioni.
    Speranza:            essa ci dice che la nostra situazione non è definitiva, ma sempre transitoria (senza preoccupandoci della sua durata), che nulla è eterno. Impareremo a guardare con fiducia al domani sicuro che ogni nuovo giorno può ed è sempre diverso dai precedenti.
    Perseveranza:     è l’atteggiamento più importante. Perseverare quando i risultati splendono alla vista non è merito; mantenersi in piedi quando infuriano le tempeste e ci avviluppano le tenebre, avanzare quando la nebbia impedisce di vedere a due metri, ecco l’essenza della perseveranza.
    Siamo poco disposti alla perseveranza, vogliamo i risultati tutti e subito.
    In tutto questo, lo comprendiamo bene, occorre appoggiarsi al sapere della fede

    L’atrofia spirituale

     L’atrofia è segno di morte e produce morte. Scrive Larranaga:
    “A molte anime succede la stessa cosa. Per anni non fecero uno sforzo ordinato, metodico, paziente e perseverante per entrare in comunione profonda e frequente con il Signore. Fecero per un lungo tempo un’orazione sporadica e superficiale. Inventarono mille pretesti per giustificare questa situazione dicendo che colui che lavora già prega, che Dio bisogna cercarlo nell’uomo… Con ciò tranquillizzarono la loro coscienza, almeno fino ad un certo livello. Sostituirono la riflessione all’orazione e le chiacchiere come contropartita della meditazione. A poco a poco andarono perdendo il senso di Dio e il gusto dell’orazione. Nella loro intimità successe questo: quelle energie, che i mistici chiamano potenze e facoltà, non venendo più attivate, lentamente perdettero elasticità. Perdendo vigore vennero utilizzate sempre meno. Non venendo utilizzate, finirono pian piano per estinguersi”.
    Può anche capitare che queste persone non abbiano difficoltà a trattare e a parlare di teologia o di pastorale. Ma tutto questo sarà sentita come realtà esterna, asettica e fredda. Il problema inizia quando queste persone prendono coscienza che non riescono più a vivere personalmente ed interiormente questa stessa fede.
    Occorre allora ricominciare con pazienza ed umiltà dai primi passi: orazione vocale, salmi, meditazione… 

     Il deserto di Dio

     L’aridità è una prova di impotenza ed impedisce il contatto con Dio, quello che in altri momenti procurava tanta gioia e emozione. Generalmente si abbatte su quelle anime che hanno intrapreso sul serio l’ascensione verso Dio.
    Sant’Ignazio parla di desolazione. Giovanni della Croce di ripugnanza. In effetti l’anima non trova più gusto nelle cose spirituali e Dio sembra terribilmente assente.
    La prima purificazione o notte è amara e terribile per il senso… La seconda non ha paragone, perché è orrenda e spaventosa per lo spirito” (NO 1,I,8,2).
    Mentre distrazione e accidia sono fenomeni naturali e per lo più di natura psico-somatica, l’aridità è una prova inviata espressamente da Dio, come purificazione. L’aridità è fondamentalmente una sensazione di assenza. L’anima è sconfortata non sapendo nemmeno il perché. “Psicologicamente parlando la sensazione di aridità è forse equiparabile a ciò che gli antichi chiamavano il “taedium vitae””.
    Generalmente poi essa è accompagnata da incomprensioni, calunnie, accuse ingiuste, solitudine: “Dio fa convergere distinte casualità per sdradicare l’anima dai mille legami che la trattengono a se stessa. Non c’è anima scelta che sia libera da queste prove purificatrici”.
    L’aridità è il prolungamento dell’agonia di Gesù nel Getsemani.
    All’anima è richiesto di proseguire umilmente, sperando contro ogni speranza.
    Non crediate – scrive ad una sorella – che io nuoti in mezzo alle consolazioni. Oh no! La mia consolazione è non averne sulla terra. Senza mostrarsi, senza farmi udire interiormente la sua voce, Gesù mi istruisce in segreto, non per mezzo di libri, io non intendo ciò che leggo” (s. Teresa di L.)
    Prima di partire, sembra averle domandato il suo fidanzato in quale paese vuole andare e quale via seguire… La piccola fidanzata ha risposto che non aveva che un desiderio: quello di raggiungere la cima della montagna dell’amore. Per arrivare ad essa le si offrivano molte vie..Allora Gesù mi prese per mano e mi fece entrare in quel sotterraneo dove non fa freddo né caldo, dove non splende il sole, dove non arrivano pioggia né vento. Un sotterraneo dove non vedo altro che una chiarezza semivelata, la chiarezza che intorno  me diffondono gli occhi abbassati dal volto del mio fidanzato… non mi accorgo di avanzare verso la cima della montagna, il nostro viaggio si fa sottoterra; tuttavia mi sembra che ci avviciniamo e non so come” (s. Teresa di L., Lettere a M. Agnese, sett. 1870)

     Testi

    Is. 49, 14-26
    1 Re 19, 1-18
    Mc 15, 33-37
    Sl. 13

  • 02 Mar

    Dall’abbandono alla pace

     

     12 La sapienza è radiosa e indefettibile,
     facilmente è contemplata da chi l’ama
    e trovata da chiunque la ricerca.
    13 Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano.
    14 Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà,
     la troverà seduta alla sua porta.
    15 Riflettere su di essa è perfezione di saggezza,
    chi veglia per lei sarà presto senza affanni.
    16 Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei,
    appare loro ben disposta per le strade,
    va loro incontro con ogni benevolenza.
    17 Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione;
    la cura dell’istruzione è amore;
    18 l’amore è osservanza delle sue leggi;
    il rispetto delle leggi è garanzia di immortalit�
    19 e l’immortalità fa stare vicino a Dio.
     

    Nel cammino di incontro con Dio ci accorgiamo spesso, ma tante volte questo purtroppo non accade, come noi stessi frapponiamo molti ostacoli che rendono la fatica ancora più improba e sofferta.
    Questo soprattutto per quella che potremmo chiamare la nostra “alienazione spirituale”: nelle nostre giornate ci muoviamo superficialmente, “fuori di noi stessi”. Non troviamo o non vogliamo trovare il tempo per scendere dentro di noi, nel nostro intima, nella realtà che ci circonda: non siamo coscienza di quel mistero in cui siamo avvolti e nel quale viviamo.
    Se non ci apriamo al nostro mistero è impossibile aprirci al mistero di Dio. Quanto spesso i mistici insistono sul fatto che luogo dell’incontro con Dio è il cuore, il centro, l’intimo…
    Purtroppo siamo incatenati da così tante ansie, inquietudini, dispersione, superficialità che questo atteggiamento che ritengo fondamentale in un cammino spirituale viene ad essere soffocato. Potremmo quasi considerare questi ostacoli come i nuovi vizi che, insieme agli antichi, dobbiamo imparare a combattere.

    Nella nostra vita spirituale abbiamo dunque bisogno di:
    –  purificazione: dai nostri egoismi, tristezze, frustrazioni, antipatie, insicurezze, aggressività… ovvero da tutti quei sentimenti che sono velenosi in noi.
    riconciliazione: con noi stessi, i nostri fratelli, con Dio
    meditazione: disponibilità a scendere più in profondità di fronte alla realtà.
    Il frutto di un costante cammino di purificazione, riconciliazione, meditazione sarà la nostra pacificazione. 

    L’origine delle nostre tristezze

     Nei confronti della realtà esterna siamo propensi a re-agire in modo istintivo, infantile.
    Questa modalità di rapporto potrebbe essere suddivisa in tre categorie:
    – con le realtà gradevoli che soddisfano i nostri desideri abbiamo una reazione di possesso
    – con le realtà minacciose reagiamo con la paura
    – con le realtà sgradevoli si reagisce con il rifiuto, la distruzione, l’aggressività.�
    Ecco l’origine delle nostre tristezze:
    -il possesso
    -la paura
    -l’odio 

    I nemici dell’uomo

     Il nostro cammino di ascesi dovrebbe comportare un lavoro su noi stessi. Uno strappare le erbacce cattive dal nostro giardino. Sostituirle con i fiori di opposti atteggiamenti:
    il distacco
    – la fiducia
    – l’amore
    Così dinanzi a noi si aprono due strade, due possibilità, due stili di vita:
    – La strada della follia: il voler resistere a tutto ciò che non è possibile eliminare. Il coltivare autodistruttivamente dentro di noi sentimenti velenosi.
    – La strada della sapienza: l’imparare a discernere ciò che si può cambiare da ciò che non si può. La pazienza di coltivare in noi emozioni costruttive e positive.
    La sapienza della vita ci insegna che di fronte alle difficili realtà non dobbiamo reagire in modo istintivo, infantile. Ma ad essere consapevoli delle nostre emozioni sapendole gestire in modo costruttivo.
    Quanto è fondamentale questo per entrare in quella pace interiore, profonda che nulla può sconvolgere: è la quies, l’esichia, la pace del cuore.
    Certo esige la capacità di saper perdere, ma il guadagno è oltremodo vantaggioso.
    Tale atteggiamento esige la resa, l’abbandono dei nostri stili infantili, un guardare la realtà, le persone, gli avvenimenti in un’ottica gratuita, paziente, benevola, fiduciosa, empatica, distaccata. Una visione sapienziale di fronte alla vita che apre alla fede in un Dio che è Padre di misericordia.

     Porsi in spirito di fede 

    A volte è difficile questo abbandono. In noi esistono forti resistenze, pur soffrendo siamo attaccati al nostro dolore, temiamo di perderlo. Oppure il dolore è talmente grande che sembra schiacciarci e toglierci quella libertà e quella pace che desidereremmo.
    Fu l’esperienza di Giobbe.
    Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce. Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno” (Gb 3,1-5).
    E’ un dato di fatto che la sofferenza rappresenti uno scandalo per la fede. Possiamo infatti affermare che nulla possa allontanare di più da Dio quanto l’esperienza del dolore, soprattutto innocente.
    Già il filosofo greco Epicuro (sec. IV a.C.) dichiarava: “O Dio vuol sopprimere il male e non può, e allora è impotente, oppure non vuole e non può, e allora è un niente. Oppure può sopprimere il male e non vuole, e allora è malvagio, o infine, può e vuole, e allora dove è questo Dio e da dove viene il male?”.
    Per noi cristiani è un dato di rivelazione che Dio non può volere il male, poiché egli è il Bene per essenza: “Dio è amore” afferma san Giovanni nella sua lettera. Allora occorre riconoscere che egli lo permetta, in quanto chiama e l’uomo e il cosmo alla piena libertà di cui ha fatto dono.
    Giobbe  di fronte al mistero insondabile di Dio e di fronte al mistero della sua sofferenza di cui non riesce a capirne la ragione, non troverà altro che proferire parole di totale abbandono, le parole che dirà Gesù nel Getsemani: “Padre se è possibile… Sia fatta la tua volontà”.
    “Giobbe rivolto al Signore disse: Ecco son ben meschino: Che ti posso rispondere? Mi metto la mano alla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, ho parlato due volte, ma non continuerò” (40,3-5).
    E’ il silenzio adorante e contemplativo, fiducioso, abbandonato: non risolve nulla apparentemente ma apre uno spiraglio alla speranza, il bene più prezioso che l’uomo può attendere. Se Dio ha permesso tutto questo, tutto deponiamo fiduciosi nella sue mani: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito”. L’esperienza dei santi ci dice che questo atteggiamento porta con sé il dono della pace. 

    Abbandono

     Una cattiva interpretazione dell’abbandono è la passività, la rassegnazione amara… il lasciare che le cose vadano così perché: tanto a che serve?
    L’abbandono cristiano non è rassegnazione, non è un subire passivo.
    Possiamo invece leggere l’abbandono come un atteggiamento dello “scegliere”, nell'”integrare”, del far proprio ciò che nella vita è spesso inevitabile (un “volere ciò che accade”).
    La rassegnazione non è atteggiamento cristiano, ma pagano (il “destino”). Purtroppo certe correnti spiritualistiche, soprattutto in questi ultimi tre secoli, hanno se non insegnato, almeno suggerito in termini ambigui la rassegnazione. La rassegnazione pagano è il consegnarsi ad un destino senza nome, il Fato, senza volto, cieco. Forza impersonale alla quale è inutile resistere, per cui tanto vale rassegnarvisi.
    L’autentico abbandono è al contrario atteggiamento che scaturisce dal vangelo.
    Alla sua base vi si colloca un atto di fede in un Dio che non è destino o fato, ma Padre che ha cura dei propri figli, che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo (cf Mt 6).
    A questo Padre, con la fiducia del bimbo nella madre, posso dire di “sì”.
    “Per tutto quello che è stato, grazie. Per tutto ciò che sarà. Sì”.
    Un grazie e un sì a tutto ciò che Dio ha permesso, voluto permetterà o vorrà.

     Di fronte all’impossibile 

    Di fronte alla vita dobbiamo assumere un atteggiamento sapienziale.
    Più vorremo resistere alla realtà che ci fa soffrire, in noi e fuori di noi, più essa ci muoverà guerra, creando in noi un’inesorabile situazione di sofferenza e rifiuto.
    Vi sono difficoltà, limiti, inesorabilmente legati alla nostra esistenza. Sono essi l’origine della nostra sofferenza, del nostro disagio dovuto all’inappagamento di ciò che riteniamo essenziale alla nostra vita (e che guardato in profondità spesso non lo è!). 

    Accogliere

     Cosa possiamo fare dinanzi a queste situazioni?
    La parola è semplicissima. E’ realmente una “chiave magica”: accettare.
    Accettare noi stessi. Il corpo, la psiche, la nostra storia, i nostri talenti, e i nostri difetti, accettare lo scarto che scopriamo tra gli ideali e la concretezza.
    Accettare la realtà che ci circonda. Non vivere in un mondo in cui l’affezione a ciò che immaginiamo abbia il sopravvento sulla realtà, dato che diamo sempre per scontato che l’immaginato sia di per sé la cosa migliore per noi.
    Accettare l’irreversibilità del tempo. Guardare al passato, saper guardare al passato senza legarvisi, guardando al Padre che ha condotto avanti la nostra storia, nonostante tutto, attraverso i momenti di gioia ed entusiasmo, stanchezze e tristezze, sofferenze e anche i nostri peccati.
    Un Padre che conduce la nostra storia verso il bene e la vita… nonostante tutto.
    Ricordiamo che questa accoglienza di noi stessi, della realtà, della storia, porta con sé una grande capacità di guarigione delle nostre ferite. Prendiamo coscienza che, se non guariamo le nostre ferite, continueremo a respirare soltanto risentimento attraverso esse.
    Siamo chiamati per vivere nella pace a saper assumere l’abbandono in tutte le direzioni della nostra esistenza. Nei confronti del:
    passato: è riconciliazione con ciò che è stato e non è più possibile modificare
    presente: è accoglienza di ciò che è, senza rammaricarsi perché diverso dalle nostre aspettative.
    futuro: è speranza: il saper desiderare sempre più il bene e la vita, l’incamminarsi verso di essi.

    RIASSUMENDO

    L’abbandono, l’accettazione, l’accoglienza è un rinunciare a se stessi, alle proprie illusorie immaginazioni, per affidarci totalmente ed incondizionatamente al Dio della vita e della storia.
    E’ un cammino sicuro e straordinariamente semplice: rende bambini atti ad entrare in possesso del regno.
    E’ cammino di purificazione di una fede vissuta, forse con troppa paura, difese, proiezioni.
    E’ cammino di amore perché ci insegna ad abbandonarci ad un Dio scoperto come Padre che ci ama.
    E’ cammino che insegna a vivere in uno stato di preghiera continua, di attenzione al passaggio e alla presenza di Dio: insegna il cammino sapienziale del leggere spiritualmente la vita.
    Non ci preoccupiamo più dei risultati, lasciamo che dipendano unicamente da Dio. Siamo resi liberi anche da questa preoccupazione. Tenderemo sì al massimo, ma nella pace: non pretenderemo che ai nostri sforzi debbano sempre e immancabilmente corrispondere i risultati che immaginiamo debbano seguire. 

    Testi

    Sap. 6,12-19; 7,1-14
    Sl 131
    Mt 6,25-33

  • 01 Mar

    3

    Mostrami il tuo volto

     

    “Mostrami io tuo volto”: Mosè, l’amico di Dio, lui che parlava “faccia a faccia” con l’Altissimo, desidera contemplare nella sua pienezza il suo volto: “Mostrami la tua gloria”.
    18 Gli disse: «Mostrami la tua Gloria!». 19 Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». 20 Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo».  21 Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22 quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».
    Nella condizione terrena non è possibile contemplare faccia a faccia la gloria di Dio. Fu privilegio di pochi contemplare il Cristo trasfigurato dal Tabor, ma avvolto da densa nube. A noi è possibile intravedere la gloria dell’Altissimo solo di rispecchio, nella penombra, ovvero nell’espressione biblica solo “di spalle”.
    Giovanni della Croce nella sua “Salita al monte Carmelo” annota: “La fede è sostanza delle cose che si sperano, e sebbene l’intendimento le colga con fermezza e certezza, non sono cose che si scoprono con l’intendimento perché, se le si scoprissero, non sarebbe fede. La quale sebbene faccia certo l’intendimento, non lo fa chiaro bensì oscuro” (1,II,6.2)
    Il nostro autore suggerisce dunque che la nostra esperienza di fede è una certezza oscura. Dio non lo si può catturare, restringere con i nostri normali procedimenti intellettivi usati per comprendere la realtà che ci circonda. Dio rimane sempre al-di-là (ganz-andere diceva Barth). Dio non si può né analizzare né sintetizzare, in quanto non può assolutamente essere ridotto ad un oggetto sperimentabile e speculativo fosse anche di tipo filosofico o teologico.
    Comprendiamo una cosa importante: Dio è realtà trascendente il mondo e noi stessi, Egli può essere scorto e riconosciuto sì anche dalla ragione ma soprattutto da quel senso interiore che è il dono della fede. Accetteremo che Egli rimanga sempre è comunque mistero che ci spinge all’umiltà e all’umile ricerca. In Giappone, a Kyoto precisamente in un fiabesco giardino shinto, sporgono dal terreno 15 obelischi. Essi sono disposti in modo tale che, da qualunque parte il visitatore si ponga, se ne vedono solo e sempre quattordici. Il significato del giardino è chiaro e profondo: la realtà non si esaurisce in quel che noi possiamo cogliere, catturare. E’ un’illusione crederlo. Ci sarà sempre una parte che non riusciremo a possedere.
    Dobbiamo entrare nel mistero di Dio come nel giardino di Kyoto, consapevoli che ancor più in questo caso, vi è un’infinita realtà che i nostri occhi non potranno mai carpire. Dio rimarrà inaccessibile e inespugnabile ad ogni prometeica pretesa di comprensione.
    La pretesa dell’uomo di catalogare Dio lo porta inevitabilmente a costruirsi idoli a sua immagine.
    Si racconta che vi era in Persia una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Venne a passarvi un re con il suo esercito, e vi piantò le tende. A fare pompa del suo prestigio, metteva in mostra un grosso e imponente elefante.
    Venne alla gente il desiderio di accostare quell’elefante, di conoscere quel mostro. E molti di quei ciechi si recarono dall’elefante per rendersi conto, alla maniera dei ciechi della sua forma e figura. E non potendolo vedere con gli occhi, lo palparono con le mani.
    Chi gli toccò la proboscide, chi la coda, chi le zampe e così ognuno ne conobbe soltanto una parte. E ognuno se ne formò un’idea assurda, ognuno legò la sua mente a un’immagine fantastica.
    Quello a cui la mano era caduta sull’orecchio, interrogato dagli altri disse: “E’ una forma paurosa, ruvida e larga come un tappeto”. Quello che aveva toccato la proboscide disse: “L’ho conosciuto bene! E’ come un tubo vuoto, una cosa terribile, uno strumento di distruzione”.
    Colui che aveva toccato le zampe invece disse: “E’ come una colonna ben tornita”.
    Tutti avevano visto solo una parte e tutti avevano visto male. Così è degli uomini nei confronti di Dio. (Fiaba persiana).
    Di fronte all’insondabile profondità senza fondo dell’Assoluto, come Giobbe dovremmo porre una mano alla bocca e non proferir parola. La corrente teologica detta apofatica parte da tale presupposto. Qui la negazione di ogni affermazione e di ogni negazione significa che la trascendenza di Dio sfugge addirittura alla stessa nozione di trascendenza. Il rappresentante di questa corrente, Dionigi Aereopagita, in un testo un po’ sconcertante per le nostre orecchie dice: “Il mistero che è al di là di Dio stesso, l’Ineffabile, Colui che da tutto è nominato, l’affermazione totale, la negazione totale, l’al di là di ogni affermazione e di ogni negazione” (Nomi Divini 2,4).
    Dinanzi al mistero abbagliante l’atteggiamento  vero è l’umile contemplazione: la meraviglia, il silenzio.
    Questa contemplazione ci permette di cogliere un senso più profondo nelle cose, persone, noi stessi. La meditazione ci apre a un ascolto silenzioso della vita che lascia intravedere la presenza del Creatore.
    Si racconta che il grande scienziato e astronomo Newton disse un giorno: “Mi faccio spesso l’effetto di un bambino che gioca sulla spiaggia. Talvolta una conchiglia mi sembra più bella, una pietra più levigata del solito. Ma davanti a me, l’oceano della verità continua a fronteggiarmi, inesplorato”.
    Possiamo aggiungere l’esperienza di Agostino il grande ricercatore della verità. Nelle sue Confessioni scrive: “Che sei dunque Dio mio? Che altro, dimmi, se non il Signore Dio? Chi è infatti il Signore altri che il Signore nostro  , o chi è Dio altri che il Dio nostro? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo; lontanissmo e presentissimo; o bellissimo, o fortissimo, stabile ed incomprensibile, immutabile e muti tutte le cose; non mai nuovo, non mai vecchio e tutto rinnovi e a vecchiezza adduci i superbi ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre in quiete; raccogli e non hai bisogno, porti e riempi e proteggi; crei, nutri e rechi a compimento; cerchi e nulla ti manca. Ami senza passione, sei geloso senza turbamento, ti penti senza dolore, ti adiri nella tua tranquillità, cambi opere ma non disegno; riacquisti ciò che trovi e non l’avevi mai perduto; non mai povero, godi degli acquisti; non mai avaro eppure esigi ad usura; doniamo a te perché>é tu possa rendere,  nessuno ha cosa non tua; paghi e debiti e non sei debitore; condoni e debiti e nulla perdi. Che è mai quanto ho detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che cosa mai può dire uno quando parla di Te? Eppure guai a chi tace, perché quelli che di te  parlano sono muti”. (I,4).  

    Qual è il tuo nome?

     Conoscere una persona per il mondo biblico equivale a possederne il segreto del nome. Troviamo così, sia all’interno della Scrittura che nella Tradizione ebraica e cristiana, un profondo rispetto del “sém” di Dio. Nominare, chiamare, è in un certo senso possedere l’essenza della persona; per tal motivo JHWH sfugge ad ogni nome (cf Es, 3,14; Gn 32,30: Gdc 13,18). Il nome teofanico rivelato a Mosè non veniva mai pronunciato se non una volta all’anno, dal solo sommo sacerdote, all’interno del santo dei santi.
     “Io sono colui che sono”: Dio non rivela il suo nome, tuttavia rivela se stesso come l’Esistente, colui che è la vita e dà la vita. Pur nella sua trascendenza Dio assicura la sua presenza accanto all’uomo. Egli rimane dunque trascendente nella sua vicinanza, nascosto non come tenebra interdetta ma a causa della stessa intensità della sua luce.
    Questa distanza che permette all’amore e alla conoscenza di svilupparsi nella libertà. 

    “E’ apparsa la grazia di Dio”

     Dio si rivela per grazia, o per “follia d’amore” (Massimo Conf.). Per noi cristiani il mistero di Dio ha preso un Nome e un Volto: Gesù di Nazareth, il bambino nella mangiatoia, l’artigiano, il rabbì, il crocifisso. Egli è l’icona del Dio invisibile. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio suo unigenito ce l’ha rivelato” (Gv 1); “Egli è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15a).
    Ma ciò non toglie che anche nei confronti del mistero stesso di Cristo dobbiamo ancora continuare a procedere a tentoni, riflettiamo sì la gloria di Dio trasfusa nei nostri cuori dallo Spirito del risorto, purtuttavia questa gloria e riflessa confusamente come, direbbe Paolo, in un specchio” (2Cor 3,18).
    Gli apostoli entrarono nel mistero di Cristo faticosamente(cf il Tabor), sempre le loro attese furono disilluse: Gesù prospettava loro di continuare a camminare senza stancarsi avendo come punto di arrivo la rivelazione scandalosa del Calvario, dinanzi alla quale tutti fuggirono.
    Questa rivelazione del mistero che si attua sulla croce ci sbalordisce ancor più, e ancor più ci cala in un silenzio adorante e contemplativo. Ancora una volta il mistero sfugge alla comprensione, all’analisi e alla sintesi. Dio è ancora al-di-là in una nube oscura (Tenebrae factae sunt).
    “In Cristo il mistero è nello stesso tempo svelato e velato. Poiché si rivela nel Crocifisso il Dio inaccessibile è con ciò stesso un Dio nascosto, incomprensibile, che sconvolge le nostre definizioni e le nostre attese. Il vero approccio “apofatico” (L’apofasi indica la salita verso il mistero) non consiste soltanto, come spesso si immagina, nella teologia negativa: questa non ha altro scopo che di aprirci ad un incontro, ad una rivelazione, ed è questa stessa rivelazione, ove la gloria è inseparabile dalla kenosi, ad essere propriamente impensabile. L’apofasi sta dunque nell’antinomia, nella dilacerata identità dell’Abisso e della Croce, del Dio inaccessibile e dell’uomo dei dolori, manifestazione quasi folle dell’amore di Dio per l’uomo, sollecitazione umile e discreta del nostro proprio amore” (O. Clement).
    Non siamo dunque chiamati ad una certezza di tipo solo e anzitutto raziocinante. Ma ad una conoscenza dettata dalla contemplazione e dall’amore. Dionigi Aereopagita parlerà di un “raggio tenebroso”, di una “oscura certezza”, la certezza della fede. “Accogliendo la luce della verità come attraverso una feritoia, tutto nelle anime sembra allargarsi” (Gregorio Naz) 

    Analogie-vestigia-simboli

     La sacra scrittura usa numerose immagini e simboli per parlarci di Dio e della sua presenza: fuoco, luce, tempeste, tuoni, avvenimenti…
    Anche nel nostro cammino possiamo ritrovare molte “impronte” lasciate dal sigillo di Dio.
    Un mistico dell’Islam, Husayn Al-Hallay (875-922) descrive in poesia la sua esperienza: “La tua immagine è nel mio occhio, il tuo ricordo sul mio labbro, la tua dimora nel mio cuore: ma dunque, dove ti nascondi?”.
    Anzitutto in noi stessi. Abbiamo sete di vita, di conoscenza, di infinito, siamo sempre alla ricerca di senso, di significato, di uno scopo. Tutto questo è uno “sprazzo di divinità” (Clement) che ci trasporta, ci attira, ci “lavora”, ci impedisce di identificarci totalmente con la terra di cui siamo impastati. Tutto questo ci apre ad una presenza dello Spirito in noi che ci chiama. Questo “senza fondo” del cuore dell’uomo è l’impronta lasciata dal sigillo del Creatore.
    Ne deduciamo che un luogo privilegiato per scoprire Dio è guardare dentro di noi, alla domanda che è in noi, la nostra perenne insoddisfazione che ci rimanda sempre al di là.
    Siamo inoltre chiamati a guardare e a scoprire Dio nella realtà che ci circonda, nella bellezza maestosa, armoniosa della creazione. Dietro alla bellezza e all’armonia dei cieli stellati deve esistere “la” Bellezza, “l’Armonia, “La” Vita.
    Una bellissima poesia di Valverde canta, o meglio, prega così:
    “Tu ci dai il mondo perché lo gustiamo.
    Tu ce lo offri perché lo facciamo parola.
    Tu non hai fatto la tua parola per affogarla nel silenzio,
    nel silenzio fuggevole della gente affannata,
    solo per viverla senza fermarsi a contemplarla…
    Se noi non esistessimo, perché tante cose inutili e belle Dio avrebbe creato,
    tanti tramonti rossi e tanti alberi senza frutti,
    e tanti fiori e uccelli vagabondi?
    Soltanto noi percepiamo il tuo regalo,
    e te ne ringraziamo con estasi di gioia.
    Tu sorridi, Signore, sentendoti appagato
    per la nostra adorazione di venerazione e di meraviglia”.

     Così andiamo salendo dalle creature al Creatore, dagli effetti alla causa, ma sempre per una via oscura, condotti per mano da analogie e deduzioni, a tentoni, tra penombre, verso la fede (Larranaga). 

    Testi

     Es 33,18-23
    Gb  37,14-24
    Sl 8
    Col 1,15-20

     

    sintesi di Larranaga, Mostrami il tuo volto, Ancora 

  • 28 Feb

    Non ti nascondo le mie ferite

    Quando mi sarò unito a te
    con tutto il mio essere,
    non sentirò più dolore o pena;
    la mia sarà vera vita,
    tutta piena di te.
    Tu sollevi in alto colui
    che riempi di te;
    io, invece,
    che non sono ancora pieno di te,
    sono di peso a me stesso.
    Gioie di cui dovrei piangere
    contrastano in me
    con pene di cui dovrei gioire,
    e non so da che parte stia la vittoria.
    Abbi pietà di me Signore!
    Non ti nascondo le mie ferite.
    Tu sei il medico, io sono il malato;
    tu sei misericordioso,
    io infelice.

                                      Sant’Agostino, Confessioni, X, 28

  • 28 Feb

    2

    Il silenzio di Dio

     

     

    35 In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36 E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37 Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. 38 Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che moriamo?». 39 Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. 40 Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». 41 E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».
    Il nostro cammino di fede appare quanto mai faticoso soprattutto per l’esperienza che facciamo dell’assenza e del silenzio di Dio.
    Il poeta spagnolo Unamuno dice a proposito: “Dio è colui che sempre tace dal principio del mondo: ecco il fondo della tragedia”.
    Questa tragedia non è solo nostra esperienza ma è pure quella dei grandi personaggi della Scrittura:
    “Non restare in silenzio mio Dio” Sl 28,1
    “Dio non gli rispose” 1 Sam 14,37
    “Vagheranno per cercare la parola del signore” Am 8,11
    “Il Signore ci ha abbandonati” Gd 6,13 

    Dove ti nascondesti? Vogliamo spesso appagare il vuoto e il silenzio che è in noi col possesso di realtà raggiungibili dai nostri sensi.
    Ma questo appagamento di singole e limitate realtà lascia sempre il nostro cuore incolmabile e insoddisfatto.
    Questo significa che il nostro cuore è chiamato a riempirsi di un’altra realtà, di un di più, che non può essere la risultante della somma di tante limitate realtà.
    La nostra  esistenza trova la sua fonte nel dono di Dio, nella sua stessa vita, essa nasce da quell’abisso incolmabile che è il mistero di Dio.
    Di conseguenza, l’uomo porta in sé la nostalgia, il desiderio struggente, di quell’abisso, che le creature non potranno mai colmare.
    Fu l’esperienza questa della ricerca di Agostino, che alla fine dovette riconoscere che: “Tu ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Confessioni).
    Così per noi, pur nella nostra debolezza, spesso cecità e inconsapevolezza, tendiamo a Dio, al suo infinito. Lo scrittore francese Blondel scrive: “Per la sua incoercibile espansione, la volontà umana, anche a sua insaputa, ha esigenze divine. Il suo desiderio risiede nel raggiungere e conquistare Dio; va avanti a tentoni, alla cieca, per toccarlo… Eppure Dio… rimane fuori delle nostre reti. Che dobbiamo dunque fare?”.
    Qui tocchiamo il nostro problema: in noi c’è il desiderio che vorrebbe essere possesso.
    Ci si sente impotenti nel nostro desiderare Dio. Perché questo?
    Potremmo partire da una duplice constatazione. La prima è che il silenzio di Dio nasca dalla limitatezza della nostra natura umana, legata alla leggi dello spazio e del tempo. La seconda è che la natura di Dio è misteriosa, in-comprensibile, infinita, eterna.
    Ne scaturisce che il nostro camminare nel tempo e nello spazio rimane necessariamente segnato da una costante presenza-assenza di Dio; ma questo diviene spinta a camminare avanti, a cercare sempre più in là dal punto in cui siamo arrivati.
    Il grande mistico della “notte oscura”, s. Giovanni della Croce nel suo linguaggio poetico dice: “Dove ti nascondesti, Amato, e mi lasciasti gemere? Come il cervo fuggisti, avendomi ferito. Ti corsi dietro invocandoti: Eri fuggito!”. E’ la “divina caccia”, o il “gioco d’amore” tra Dio e la sua creatura.
    Ancora potremmo richiamare il delicato racconto riportato da M. Buber, nei suoi “Racconti dei Chassidim”: “Yekiel, nipotino di rabbi Baruk, giocava un giorno a nascondino con un suo compagno. Si infilò in un nascondino speciale e attese che egli venisse a scoprirlo. Ma attese invano. Uscì e non lo ritrovò. Si rese allora conto di non essere stato cercato e pianse a lungo. Corse dal nonno singhiozzando e lamentandosi del compagno cattivo che non l’aveva cercato, mentre era così ben nascosto. Il nonno stesso, non riuscì a trattenere le lacrime pensando: E’ esattamente quello che dice Dio: Io mi nascondo e nessuno vuole cercarmi”.
    “Veramente tu sei un Dio nascosto” affermano le parole di Isaia (45,15a). E il Sl 13,2: “Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
    Questo volto di Dio che l’uomo desidera contemplare e che sfugge continuamente. Vi è sempre una nube nelle teofanie che esprime questa inaccessibilità: il Sinai come il Tabor e come il monte dell’ascensione.
    Unitamente all’assenza vi è il silenzio di Dio. Quante volte egli sembra tacere: “Perché taci e non rispondi?” (Ab 1,13). Dio sembra tacere sempre: sia che ci doniamo a lui sia che cadiamo nel peccato…
    Sì è vero ogni realtà può evocare il Creatore. Ma il Dio creatore tace. “Tutto l’universo è un’immensa e profonda evocazione del Mistero, ma il Mistero svanisce nel silenzio” (Larragnaga).
     Il silenzio di Dio raggiunge il sua apice drammatico di fronte al dolore, all’ingiustizia soprattutto dell’innocente. “Perché taci mentre l’empio ingoia il giusto?” (Ab 1,13).
    E’ questo lo scandalo della fede!
    “Muto e sordo al grido delle tue creature se il cielo ci lascia come un mondo abortito il giusto opporrà lo sdegno all’assenza e non risponderà che con un freddo silenzio al silenzio eterno della divinità” (A. De Vigny, Monte degli Ulivi). 

    Sentire e sapere

     A questo punto occorre chiarire, o meglio operare, una benefica distinzione tra due aspetti del nostro percepire la realtà spirituale.
    Distinguiamo tra sentire e sapere.
    – sentire: è il percepire emotivamente la realtà di Dio. Questo subito entusiasma, ma il rischio è di cadere nell’illusione affettiva, ovvero il pretendere che Dio si faccia sempre presente a livello emotivo.
    – sapere: è il sapere della fede, ovvero la certezza della presenza di Dio colta a livello più profondo di quello emotivo. 

    Una fede che vorrebbe collocarsi a livello del sentire è molto fragile e infantile. La vera fede matura e consistente si colloca a livello del sapere.
    Questo ci permetterebbe di dire nei momenti della prova, del dolore, della malattia, nella morte sperimentata in noi e negli altri: “Padre non ti sento, non ti vedo. Tutto sembra dirmi che tu sei lontano, ombra sfuggente e insensibile. Tuttavia, contro ogni evidenza, contro ogni speranza (cf Rm 4,18), so che tu sei presente qui ed ora. Se non cade un capello senza che tu lo sappia, se non cade a terra un passero senza che tu lo voglia, allora so con certezza che ora sei qui con me”.
    Facciamo nostra l’esperienza dolorosa di Gesù sulla croce: affidando la nostra vita nelle mani di quel Padre che sembra aver abbandonato il Figlio suo nell’ora più tragica della sua vita:
    “Elì, Elì lamà sabactani ?”
    “Padre nelle tue mani affido la mia anima”.
    Questo comporta lo spiccare un grande salto nel vuoto, sapendo, pur non sentendo che al di là ci aspettano le braccia del Padre. Ancora una volta si tratta di abbandonarsi come bambini.
    Si tratta di accettare che la dinamica della fede prescinda dalla “Pretesa” di un segno. Gesù dinanzi a questa pretesa dell’uomo di manovrare Dio si rifiuterà sempre di lasciarsi ingabbiare, risponderà con il silenzio e l’impossibilità di operare miracoli.
    La fede autentica è purificazione da questa pretesa.
    Ciascuno di noi nel suo cammino di fede fa esperienza di questa assenza e di questo silenzio. Diversi saranno gli atteggiamenti con cui possiamo reagire a questa constatazione. 

     Gli sconfitti

     Sono coloro che hanno abbandonato una seria vita spirituale regolandosi ormai praticamente come se Dio non esistesse, pur magari mantenendo un’apparenza di religiosità.Tali persone affermano sì categoricamente che Dio esiste, tuttavia in loro vivono la sensazione (“sentono”) che egli è come morto.
    Ci sono alcuni sintomi che denotano la presenza di questa malattia spirituale: soprattutto l’aggressività che è derivata dalla frustrazione, si critica continuamente tutto e tutti, si è scontenti di tutto.
    La rigidità e la stretta osservanza delle forme esterne: diventano sostitute di Dio.
    L’abbandono progressivo da tutto ciò che è legame con Dio…

    I disorientati 

    E’ un dato di fatto che i primi tempi di vita religiosa o sacerdotale siano una sorta di luna di miele.
    Ma è inevitabile come detto che sopraggiunga la notte. Scompare l’entusiasmo, si cade nella routine di ogni giorno, la vita sembra sfuggire di mano inutilmente. E’ l’esperienza del “disincanto”, dell’impotenza, dell’insuccesso: è il disorientamento totale. E’ il momento in cui potremmo dire col salmo 29: “Nella mia prosperità ho detto: Nulla mi farà vacillare!… Ma quando hai nascosto il tuo volto io sono stato turbato. A te grido Signore, chiedo aiuto al mio Dio” (vv 7-9).
    E’ inevitabile cadere nello sconforto che conduce lentamente a quel vizio di nome accidia: la noia e il disgusto.
    Il vuoto di Dio viene cercato di riempire inutilmente da tante cose, fossero pure tutte le nostre attività “apostoliche”.
    Rimane nel fondo una certa nostalgia, il rimpianto della tenerezza e della gioia di Dio…Questa nostalgia agisce nel nostro cuore come uno stimolo a non disperare e ad attendere in silenzio la salvezza del Signore (cf Lam). 

    I confermati 

    “Una lunga e dolorosa storia pesa sulle spalle dei confermati” (Larranaga). Nonostante le dure prove, (“ci hai fatto passare per il fuoco e l’acqua” Sl 76) essi non hanno perso la speranza e la fiducia in Dio.
    Cosa ha permesso ciò?
    Ciò che diede speranza, radicando questi credenti nella fede, è stato un profondo e totale spirito di abbandono, come quello di Abramo mentre conduceva al sacrificio il figlio unico Isacco. Non si sgomentarono di fronte al silenzio di Dio, ma in silenzio adorante a loro volta, si offrirono al Signore giorno dopo giorno.
    Lasciarono che Dio tagliasse tante false sicurezze, i calcoli, le pretese, abbandonarono l’esigenza di spiegazioni che non spiegano e di evidenze che non acquietano.
    In un atto di pura fede si affidarono al “Totalmente Altro”, come Cristo sulla croce, dicendo: Non la mia, ma la tua volontà sia fatta”.
    Un proverbio orientale afferma: “Tu credi che ora, al disperdersi delle nuvole, sia apparsa la luna. Ti sbagli: la luna brillava dietro le nuvole da lunghe eternità”. 

    Testi

     Sl 13; 28; 29
    Is 45, 15-19
    Ab 1
    Mc 15, 34-37; 4, 35-41

  • 27 Feb

    La penitenza albero di vita

    La penitenza dunque è vita che ti viene offerta
    al posto della morte.
    E tu, peccatore come me,
    anzi meno di me, io infatti so di esserlo più di te,
    su abbracciala, attaccati a lei,
    con lo slancio e la fiducia
    con cui il naufrago si aggrappa ad una tavola.
    Essa ti solleverà
    quando sarai sommerso nei flutti del peccato
    e ti condurrà al porto della divina clemenza.
    Afferra l’occasione di una fortuna insperata,
    perché tu, che davanti al Signore eri niente,
    goccia in un secchio,  polvere della piazza,
    creta del vasaio,
    tu possa diventare albero,
    quell’ “albero piantato lungo corsi d’acqua”,
    dalle foglie sempre verdi,
    “che da frutto a suo tempo” (cfr Sal 1),
    e non conosce né fuoco né scure.

    Tertulliano, De poenitentia, IV,1

  • 27 Feb

    1

    Il difficile cammino della fede

     

     La fede è un affidarsi, un appoggiarsi saldamente alla Roccia-Dio (Batah) in modo incondizionato. Ma questo atteggiamento, lo sperimentiamo continuamente, non è né facile, né scontato.
    La fede è dono che diviene appello per l’uomo verso l’autotrascendenza, verso l’incontro con il mistero di Dio. Mistero che ci è stato rivelato in Cristo Gesù.
    Questo cammino di autotrascendenza è difficile, faticoso.  Esso esige pazienza, perseveranza, fiducia.
    Nel nostro contesto culturale che privilegia l’immediato, l’istante presente, l’atteggiamento della fede appare ancor più ostico e arduo.
    La Parola di Dio illumina questo aspetto della nostra esperienza di fede.

    La peregrinazione nel deserto

     La fede è peregrinazione (di Maria nella LG si dice che “peregrinò nella fede”), peregrinazione soggetta a tante prove e tentazioni:
    2 Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3 Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4 Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5 Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te. (Dt 8,2-4)

    Israele nel deserto è il prototipo del nostro difficile cammino nella fede.
    E’ significativo di come subito dopo l’esperienza entusiasmante del passaggio del Mar Rosso in cui aveva toccato con mano la presenza liberatrice di JHWH, inizia a crescere in mezzo al popolo eletto la zizzania, i rovi che è l’incertezza, la sfiducia, il pessimismo. Nasce così la ribellione.
    “22 Mosè fece levare l’accampamento di Israele dal Mare Rosso ed essi avanzarono verso il deserto di Sur. Camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono acqua. 23 Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare. Per questo erano state chiamate Mara. 24 Allora il popolo mormorò contro Mosè: «Che berremo?». 25 Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova. 26 Disse: «Se tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi, se tu presterai orecchio ai suoi ordini e osserverai tutte le sue leggi, io non t’infliggerò nessuna delle infermità che ho inflitte agli Egiziani, perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!». 27 Poi arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua.” (Es 15,22-27).
    “2 Mancava l’acqua per la comunità: ci fu un assembramento contro Mosè e contro Aronne. 3 Il popolo ebbe una lite con Mosè, dicendo: «Magari fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti al Signore! 4 Perché avete condotto la comunità del Signore in questo deserto per far morire noi e il nostro bestiame? 5 E perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per condurci in questo luogo inospitale? Non è un luogo dove si possa seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melograni e non c’è acqua da bere».” (Nm 20,2-5)
    “2 Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. 3 Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».” (Es 16,2). 

    Israele diviene il popolo che pur eletto sperimenta la ritrosia a camminare, a crescere, a porre fiducia in Dio. Risulta più comodo rimpiangere la sicurezza delle cipolle e delle pentole lasciate in Egitto. Alla libertà si vorrebbe preferire la falsa sicurezza che non scomoda.
    Si arriva a dubitare della presenza e dell’esistenza di Dio: “Il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7).
    E allora ritorna incessante il monito dell’esodo: “Quante volte si ribellarono a JHWH nel deserto” (Sl 78,40).

    Il nostro cammino nel deserto (cdr Cencini, Amerai…, p. 81ss)

     La storia dell’esodo, i quarant’anni trascorsi da Israele nel deserto del Sinai diventano esemplari per la vita di ciascuno di noi. Ogni anima deve passare per il deserto, camminarvi per lungo tempo, vivere momenti di esitazione e di incertezza.
    E’ il tempo della purificazione.
    Possiamo qui scoprire una prima grande legge della vita spirituale: non esiste vera conoscenza di Dio che non nasca nella solitudine del cammino nel deserto e non maturi tra le difficoltà della prova. “Preparati alla tentazione” (Sir 2,1).
    Scriveva Charles de Foucauld mentre si trovava nei silenzi profondi e misteriosi del Sahara:
    “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si svuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo… Il deserto è indispensabile. E’ un tempo di grazia. E’ un periodo attraverso il quale ogni anima che vuol portare frutti deve necessariamente passare”.
    Ad un certo punto a tutti Dio domanda di camminare nel nostro deserto, nella nostra solitudine. Di andare oltre alle nostre pretese di capire tutto, di avere noi il controllo della nostra situazione, di pretendere di avere un appoggio sicuro dove mettiamo il nostro piede senza dubbi e senza rischi. Perché troppo spesso, sì siamo disposti alla rinuncia e al sacrificio, però sempre in modo ragionevole, e purché Dio si faccia capire e si lasci trovare.
    Come fu l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco così anche a noi può capitare ad un certo  punto del cammino della nostra vita di trovarci a terra e di perdere la vista.
    La nostra sofferenza di consacrati in modo particolare è causata dal silenzio e dall’assenza di Dio. Tutto quello che si è vissuto prima appare vuoto, i valori su cui si era costruita la vita si rivelano pseudovalori.
    Dinanzi a noi c’è il buio: forse si intuisce una possibile strada ma appare lontana e difficile.
    Quanto l’uomo ha paura di sentirsi del tutto povero e nudo dinanzi a se stesso e a Dio!
    Di fronte a questa situazione di estrema incertezza e sofferenza, forte è la tentazione di tornare indietro, di riabbarbicarsi dietro ad antiche certezze che stanno barcollando, a convincersi che non è il caso di proseguire… Purtroppo l’esperienza di Israele è spesso la nostra stessa esperienza. Quante volte rifiutiamo di camminare di crescere e ci rifugiamo in mille espedienti (l’osservanza legalista, nel sogno, nella violenza…). e allora ci si blocca, non si va più avanti. Ma questo significa morire dentro! Nel deserto se non si cammina si muore.
    La cosa non è strana: è difficile per l’uomo vivere proteso verso una realtà che non possiede ancora, specie se questa realtà è solo promessa ed appare lontana, chiede ogni giorno la fatica del discernimento ed espone al rischio della libertà.
    Ma la conversione inizia proprio quando si accetta che Dio sia diverso dai nostri schemi, essa diventa effettiva quando lasciamo che questo Dio sconosciuto ci conduca dove lui solo sa e vuole. (Occorrerà l’umiltà di lasciarsi guidare: ci saranno nuovi Mosè e nuovi Anania per ciascuno di noi…). 

    “Dio ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (Gdt 8,25)

     Non è l’uomo che fa esperienza di Dio! E’ Dio che sperimenta l’uomo, lo cerca, lo scruta, lo mette alla prova. Nella prospettiva biblica il protagonista non è l’uomo ma Dio. Chi attraversa il deserto fa questa  esperienza: è Dio a venirgli incontro.
    Ma per arrivare a ciò l’uomo ha dovuto fare un’esperienza dolorosa: perdere progressivamente il controllo della situazione, di vedere più chiaro… questo  lo costringe a lasciare a Dio l’iniziativa, ad abbandonarsi a Lui.
    “Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe” (Gdt 8,26).
    Quando è invece l’uomo che mette Dio alla prova pretendendo conferma ai suoi progetti o garanzie previe o dimostrazioni della sua presenza e fedeltà, allora la parola di Dio assume toni di volta in volta violenti e severi: “Non indurite il vostro cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri” (Sl 95,8); “Chi siete voi dunque che avete tentato Dio e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai… Non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni…anzi … ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri” (Gdt 8,12.16.25).
    Abbiamo bisogno di essere purificati perché Dio diventi realmente Dio, ed è per questo che il Padre ci mette alla prova. Crea cioè condizioni di deserto, di solitudine affettiva, di rifiuto, di lotta e tribolazione, di fallimento e delusione… che fanno sì che siamo liberati dai nostri idoli.
    E’ nella prova infatti che viene a galla chi veramente siamo e che cosa abbiamo realmente nel cuore, che cosa c’è di autentico e che cosa no. Si rivela il nostro vero volto. Il deserto ci restituisce la nostra vera immagine: “Ecco l’attirerò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
    “Dio disse ad Abramo: Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, e offrilo in sacrificio sul monte che ti indicherò” (Gn 22,1).
    Dio non chiede solo qualcosa , sacrifici parziali di ciò che è superfluo.
    Ad un certo punto (fosse il momento della morte) chiede all’uomo ciò che ha di più caro: Dio appare contraddittorio, inspiegabile.
    Saprò sacrificare un amore grande solo per un amore ancora più grande. Io non lo sento ancora questo amore, mi sembra impossibile: Ma se Dio mi chiede questo sacrificio vuol dire che Dio può essere amato ancor più del “mio figlio unico”! Dio ci mette alla prova.
    Dio ci domanda di amare ancor più di quanto abbiamo mai amato. E’ il suo modo di agire: ci chiede l’olocausto d’un amore importante, ma poi ci ridona molto di più di quanto ci ha chiesto.
    E’ tuttavia importante dire che è stato necessario anche il cammino precedente, con tutto l’amore che l’ha caratterizzato. Come chiedere, del resto, il sacrificio del cuore a chi non avesse mai amato?
    “Non turbiamoci quando ci capita di essere immersi nelle tenebre, soprattutto se non ne siamo noi la causa. Considera che codeste tenebre che ti ricoprono ti sono state date dalla divina Provvidenza, per ragioni che Dio solo conosce. Qualche volta infatti la nostra anima annega, è inghiottita dalle onde. Sia che ci si dedichi alla lettura della scrittura o alla preghiera, qualunque cosa si faccia, si è rinserrati sempre più nelle tenebre… Quest’ora è piena di disperazione e di paura. La speranza in Dio, la consolazione della fede hanno completamente abbandonato l’anima. Questa è tutta piena di titubanza e di angoscia. Ma quelli che sono stati provati dal turbamento di una simile ora sanno che ad essa segue infine un cambiamento… infatti dicono i Padri, grandi saranno la stabilità e la forza cui  l’anima perverrà dopo di ciò. Tuttavia una tale lotta non terminerà in un’ora, né immediatamente. Né la grazia viene e rimane nell’anima una volta per sempre e totalmente, ma a poco a poco. Dopo la grazia, torna la prova. C’è un tempo per la prova. E c’è un tempo per la consolazione”. (Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, 57).

  • 26 Feb

    Alla luce della Parola

    (come leggere la Bibbia)

    Matta el Meskin: Comunione nell’Amore, Edizioni Qiqajon 1986


    La  Bibbia  di  fronte  al  lettore


    La Bibbia è un libro diverso da tutti gli altri: gli altri libri sono scritti dall’uomo, la Bibbia invece non solo contiene le parole e i comandamenti di Dio, ma è anche stata interamente scritta sotto ispirazione divina. Perciò possiamo dire che è il libro di Dio, quello che egli ha dato all’uomo per guidarlo fino alla vita eterna.

    Nell’Antico e nel Nuovo Testamento, sebbene il discorso, gli eventi, la storia e tutti i racconti si concentrino sull’uomo, in realtà chi è nascosto in essi è Dio. La Bibbia infatti ci descrive Dio e ce lo rivela attraverso gli eventi. Ma una descrizione completa di Dio non ci è data nello spazio di una generazione né di un libro e nemmeno di un intero periodo storico. È con grande difficoltà che la Bibbia si sforza di darci un’immagine mentale semplificata di Dio, narrando il suo rapporto diretto con l’uomo lungo un arco di cinquemila anni. Questo perché nessuno, in nessuna epoca, sia privato della possibilità di percepire riguardo a Dio qualcosa che appaghi la sua sete, a tal punto che ciascuno può sperimentare un tal fiume di gioia da credere di essere arrivato a conoscere Dio e di averlo compreso in pienezza.

    Chiunque invece ha l’audacia intellettuale di tentare di mettere da parte i propri limiti umani cercando dentro di sé di percepire un’immagine perfetta di Dio, è destinato a fallire e perde la capacità di raggiungere anche i più piccoli risultati compatibili con la sua statura umana. È immensamente difficile per l’uomo comprendere Colui i cui giorni non hanno inizio né fine, perché Dio è perfetto e, pur essendo vero che noi possiamo percepirlo, la sua perfezione, come pure tutte le sue opere, restano insondabili.

    La Bibbia cerca in molti modi di preparare intimamente l’uomo a ricevere Dio, sia rivelandocelo che facendocelo conoscere. Anche se apparentemente può sembrare che sia l’uomo ad andare incontro a Dio, la gioiosa e meravigliosa verità è che è Dio che viene verso l’uomo, come un amante e un padre pieno d’amore. “Se uno mi ama osservi le mie parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora in lui”  (Gv 14,23). Questo è il motivo per cui il Signore ci ha comandato di preparare il nostro cuore per la sua venuta benedetta: “Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto” (Sal 57,7).

    Così vediamo che la Bibbia nella sua interezza misteriosamente rivela Dio e ci prepara a riceverlo nei nostri cuori, perché possiamo d’ora in poi vivere con lui, preparandoci a ciò che sarà alla fine dei tempi, quando Dio sarà rivelato apertamente e noi lo incontreremo faccia a faccia per vivere con lui per sempre.


    Il  lettore  di  fronte  alla  Bibbia

    Esistono due modi di lettura: il primo si ha quando uno legge e pone se stesso e la propria mente come padroni del testo e cerca di sottometterne il significato alla propria comprensione, che confronta poi con quella di altri; il secondo si ha quando uno legge ponendo il testo al di sopra di sé e cercando di rendere sottomessa la propria mente al suo significato, o anche ponendo il testo come giudice su di sé, considerandolo come il criterio più alto.

    Il primo metodo è adatto per qualunque libro al mondo, sia che si tratti di un’opera di scienza che di letteratura; il secondo è indispensabile nel leggere la Bibbia. Il primo metodo porta alla signoria dell’uomo sul mondo, che è il suo ruolo naturale; il secondo porta alla signoria di Dio come Creatore onnisciente e onnipotente.

    Ma se l’uomo confonde i ruoli di questi due metodi, viene a perdere le potenzialità di entrambi: se infatti legge le opere di scienza e di letteratura come dovrebbe leggere l’Evangelo, rimpicciolisce la sua statura, la sua abilità accademica diminuisce e scema la sua dignità in mezzo al resto della creazione; se d’altro canto legge la Bibbia come dovrebbe leggere le opere di scienza, comprende e sente Dio come qualcosa di piccolo, l’essere divino appare limitato e il timore di Dio si spegne. L’uomo acquista una falsa sensazione di superiorità sulle cose divine: è esattamente l’azione proibita commessa da Adamo agli inizi.


    Comprensione  spirituale

    1. La  memorizzazione  intellettuale

    Leggendo la Bibbia miriamo dunque alla comprensione e non alla ricerca, all’indagine o allo studio, perché la Bibbia deve essere capita, non investigata. È allora opportuno a questo punto far rilevare la differenza tra comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale.

    La comprensione spirituale è centrata sull’accettazione di una verità divina che cresce costantemente, sorgendo all’orizzonte della mente fino a invaderla completamente. Se la mente e le sue reazioni sono ricondotte a una volontaria obbedienza a questa verità, la verità divina continua a permeare la mente sempre di più e la mente si dilata con essa senza fine “per conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).

    È chiaro da questo versetto che la conoscenza e l’amore di Dio, e delle cose divine in generale, sono immensamente superiori al livello della conoscenza umana. È perciò futile e sciocco per l’uomo cercare di “investigare” le cose di Dio, in un tentativo di afferrarle e sottometterle al suo potere intellettuale.

    Al contrario, è l’uomo che deve essere sottomesso all’amore di Dio, così che la sua mente possa aprirsi alla verità divina. Allora sarà in grado di ricevere la conoscenza che sorpassa ogni altra. “E così, radicati e fondati nell’amore, abbiate il potere di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” (Ef 3.17-18).

    La memorizzazione intellettuale richiede che una persona passi da uno stato di sottomissione alla verità (attraverso la comprensione) a uno stato di dominio e di possesso su di essa. Richiede che la mente avanzi passo passo attraverso l’investigazione fino a trovarsi allo stesso livello della verità, e poi si innalzi a poco a poco al di sopra di essa fino a poterla padroneggiare, richiamandola e ripetendola a suo piacimento, come se la verità fosse un possesso e la mente il  suo padrone.

    Perciò la memorizzazione consiste nel determinare la verità, nel riassumerla e definirla nel modo più aderente possibile, così che la mente possa assorbirla e immagazzinarla. Cioè, la memorizzazione intellettuale è il contrario della comprensione spirituale, perché la comprensione spirituale si espande con la verità e la verità con essa fino “a tutta la pienezza di Dio”, cioè all’infinito. La memorizzazione intellettuale invece indebolisce la verità divina e la priva del suo vigore e del suo respiro: non è quindi una via adatta per avvicinarsi alla Bibbia, e porta a risultati minimi.


    2. La  memorizzazione  spirituale

    C’è un altro modo per memorizzare la parola di Dio, per mezzo del quale si può richiamare e riesaminare il testo, sebbene questo non lo si possa fare quando e come uno lo desideri, ma piuttosto quando e come lo desidera Dio. Questa è la memorizzazione spirituale, non intellettuale, e Dio la accorda attraverso lo Spirito santo a quanti comprendono le sue parole: “il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre vi invierà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che ho detto” (Gv 14,26).

    Proprio come Dio concede la comprensione spirituale a quelli che con sincerità e onestà chiedono di conoscerlo, “a coloro le cui menti sono aperte a comprendere il testo”, così anche la memorizzazione spirituale è un’opera spirituale che Dio accorda a coloro ai quali è stato concesso di essere suoi testimoni. Quando lo Spirito santo richiama alla nostra mente determinate parole, lo fa con profondità e larghezza di spirito, non semplicemente facendoci ricordare il testo o il versetto, ma dandoci insieme una sapienza irresistibile e il potere spirituale di far emergere la gloria di quel versetto e la potenza di Dio in esso. Inoltre con le parole è inviato uno spirito di rimprovero, allo scopo di compungere il cuore.

    Perciò vi è una straordinaria differenza tra la meccanica memorizzazione intellettuale e la memoria attraverso lo Spirito santo.

    Nondimeno l’uomo deve prepararsi a questa memoria, rendendo il suo cuore consapevole della parola di Dio, meditandola frequentemente e immagazzinandola nel suo cuore con amore e diletto: “quando le tue parole mi vennero incontro, io le divorai” (Ger 15,16) ed esse erano “più dolci del miele alla mia bocca” (Sal 119,103). L’uomo così disposto le ripete costantemente a se stesso: “sulla tua legge ho meditato giorno e notte” (Sal 1,2), e ogni volta che incontra una parola che possa essergli utile la imprime nel suo cuore: “Ho conservato le tue parole nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11), proprio come ammonisce Dio chiedendo di parlare di esse “quando siedi in casa tua e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. E tu le legherai come segnale alla tua mano e saranno come pendaglio tra i tuoi occhi” (Dt 6,8-9).

    Ora, c’è una grande differenza tra un uomo che medita la parola di Dio perché è dolce e vantaggiosa alla sua anima, rallegra il suo cuore e consola il suo spirito, e uno che medita su di essa per ripeterla ad altre persone, per potersi distinguere come maestro e abile servitore dell’ Evangelo. Per il primo la Parola rimane salda, perché fonda una consapevolezza del cuore o una relazione con Dio; per il secondo la Parola passa semplicemente nella memoria intellettuale, dove egli può usarla per tessere relazioni con gli altri.

    Così, se uno cerca di leggere la Bibbia e imparare a memoria i versetti per usarli nell’insegnamento alla gente e per una testimonianza fatta di parole – senza prima aver sottomesso se stesso alla verità divina, in modo da agire conformemente ad essa e da aprire la mente per ricevere comprensioni spirituali – egli ne ricava soltanto delle conoscenze e non dà una testimonianza utile, per quanti versetti o dimostrazioni chiare possa presentare con grande abilità intellettuale; lo Spirito infatti lo avrà abbandonato.  Il peggior uso che possiamo fare della Bibbia è utilizzarla solo come fonte di versetti dimostrativi.

    La comprensione spirituale delle parole, dei comandamenti e degli insegnamenti di Dio è il nostro penetrare nel mistero dell’Evangelo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno di Dio” (Mt 13,11). Il segno poi della comprensione spirituale è la sensazione di un’inesauribile sorgente interiore di intuizioni spirituali riguardanti la parola di Dio e la percezione che ogni verità è collegata a tutto il resto. Allora l’uomo diventa capace di collegare nel proprio cuore ogni versetto che legge con un altro versetto e ogni intuizione si dilata in armonia con un’altra, cosicché l’Evangelo diventa facilmente un tutto unitario.

    Questa condizione non è raggiunta solo da chi ha speso molti anni nella lettura della Bibbia. È possibile che a qualcuno con un’esperienza di pochi mesi sia concesso di percepire questa sensazione, così da essere capace, usando i pochi versetti che gli sono familiari, di parlare di Dio con uno zelo, una sincerità e una forza tali da attirare a Dio il cuore degli altri. A costui basta leggere un versetto una volta sola perché gli resti poi indelebilmente impresso nel cuore per sempre, perché la parola di Dio è spirituale; in un certo senso è addirittura spirito, come dice il Signore: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).


    Introduzione  pratica alla  comprensione  dell’ Evangelo

    Non esiste alcun mezzo intellettuale per entrare nell’Evangelo, perché l’Evangelo è spirituale. Deve essere obbedito e vissuto attraverso lo Spirito, prima di poter essere compresoSe qualcuno, che vive fuori dell’Evangelo cerca di capirlo, inciamperà e cadrà, e se osa cercare di insegnarlo sarà una pietra d’inciampo per quelli che lo seguono. Ma se qualcuno ha uno zelo autentico, un amore ardente e un’obbedienza totale a Dio ed esegue fedelmente anche un solo comandamento dell’Evangelo, questi penetra nel mistero dell’Evangelo senza esserne consapevole.

    La prima cosa che scopre è la fedeltà di Dio nel compiere, nella sua anima, le promesse. Ciò rende la sua mente desiderosa di ricevere la scintilla della fede viva che accende nel cuore un grande fuoco di amore e di timore di Dio e ve lo fa ardere. L’esperienza spirituale di una persona e il grado della sua comprensione dell’Evangelo si approfondiscono proporzionalmente al grado di obbedienza fedele e puntuale ai comandamenti dell’Evangelo stesso.

    Una sincera e umile accettazione dell’obbedienza a Dio, che scaturisce da un cuore non macchiato da falsità, ipocrisia, amore del mettersi in mostra o esibizionismo, e che non cerca qualche particolare risultato, può essere considerato l’inizio della vera via alla conoscenza di Dio. Infatti, quando l’uomo cerca di osservare i comandamenti, la sua intenzione è messa alla prova da tentazioni. Egli è aiutato a seconda del grado della sua fede e della sua perseveranza e, nella misura in cui riceve aiuto, la sua fiducia aumenta e la sua conoscenza di Dio e delle sue vie cresce più sicura.

    Questo per dire che la comprensione spirituale dell’Evangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l’obbedienza ai suoi comandamenti. Non si tratta semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull’esperienza, la fiducia, la testimonianza e su un’incrollabile fede in Dio.


    Un  eccellente esempio  di  lettura e  comprensione  dell’ Evangelo

    Il più grande comandamento attraverso cui l’uomo può sperimentare la provvidenza di Dio e ottenere il potere spirituale che svela i misteri e i segreti della Bibbia e illumina il cammino, è che l’uomo lasci ogni cosa e segua Cristo. Questo comandamento riassume infatti l’intero Evangelo. Questo è il versetto che sant’Antonio ascoltò: ne fu profondamente colpito e lo osservò con precisa determinazione. Così facendo raggiunse una vita in accordo con l’Evangelo e una comprensione, una conoscenza e una memoria della Bibbia che stupiva gli studiosi e i teologi, come sappiamo da sant’Atanasio il Grande. E tutto ciò, nonostante che Antonio non sapesse né leggere, né scrivere.

    Molti Padri seguirono lo stesso modello e si verificarono in loro le stesse meraviglie, perché raggiunsero le vette della conoscenza della Bibbia, di Dio e della direzione spirituale, pur essendo analfabeti. Tra questi c’erano i grandi monaci Pambo e Pafnuzio, discepolo di Macario il Grande, di cui Palladio dice che aveva la grazia della conoscenza dei libri sacri e dell’arte di trasmetterli, sebbene non sapesse leggere né scrivere.

    Molti altri nel mondo, uomini o donne, colti o ignoranti, sono entrati nel mistero dell’Evangelo attraverso uno fra i molti comandamenti, come la povertà volontaria e la semplicità di vita, rifiutando di mettere da parte del denaro per le eventuali necessità e mettendo la loro fede in Dio al di sopra di tutte le altre considerazioni. Attraverso ciò hanno sperimentato le meraviglie di Dio, le loro menti sono state aperte, hanno percepito il mistero del piano divino e capito le parole di Dio essendo persone che le sperimentavano nella vita quotidiana e le realizzavano. In questo modo erano capaci di evangelizzare con grande fede e coraggio.

    Altri hanno abbracciato il rinnegamento dei piaceri mondani e dei divertimenti privi di vita; hanno sperimentato il potere della parola di Dio e trovato in essa grande consolazione e delizia; hanno capito che l’uomo vive della Parola più che del cibo e della scienza medica; hanno conosciuto Dio e lo hanno gustato e le loro menti sono state illuminate dalle sue parole.

    Altri invece sono entrati nel mistero dell’Evangelo attraverso atti segreti di sacrificio, offrendo il loro denaro, le loro energie, il loro tempo per servire i poveri, gli indigenti, gli afflitti e i curvati dalle più svariate tribolazioni. Essi hanno agito con muto coraggio, dando tutto quanto avevano e sopportando ogni cosa al limite delle proprie possibilità. Tutti costoro hanno acquistato conoscenza, intuizione e comprensione dell’Evangelo e dei comandamenti del Signore, ma non la comprensione che deriva dal meditare sulla bellezza delle parole e della spiegazione del loro significato. La loro comprensione è invece quella che sgorga dall’esperienza ed è trasformata in vita eterna, perché costituisce una relazione vivente tra l’uomo e Cristo.


    La  meditazione  accademica  e  la  meditazione  pratica

    Vi è una comprensione accademica della meditazione della bibbia e ve n’è una pratica.

    La meditazione accademica è il prodotto di idee derivanti dallo studio e dalla ricerca, dalla riflessione sul significato dei versetti e sui loro reciproci legami, è l’insieme di ragionamenti che arrivano a cogliere i fatti attraverso un processo di deduzione logica.

    La meditazione pratica consiste nell’ispirazione che l’anima percepisce come risultato della propria esperienza, delle prove e delle lotte con la verità sostenute nel corso della sequela dei comandamenti evangelici. A questo si aggiungono anche la luce e i dettami dello Spirito, che l’uomo riceve nel giusto momento, senza aver in precedenza acquisito la conoscenza delle cose rivelategli.

    La meditazione accademica della Bibbia stimola la mente, ma non mette in moto lo spirito; rende l’ascoltatore desideroso della verità senza mostrargli come accedervi; fornisce un’immagine di Dio, ma non può portare al faccia a faccia con Dio.

    Questa discordanza della meditazione accademica rispetto all’esperienza spirituale e al segreto adempimento dei comandamenti porta a un culto puramente formale e a una falsa devozione intellettuale all’Evangelo. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma i loro cuori sono lontani da me” (Mt 15,8).

    Per quanto deplorevole, è questo il tipo di lettura, di comprensione, di esperienza e di insegnamento della Bibbia oggi più diffuso nella nostra Chiesa e, a dire il vero, in tutto il mondo. L’Evangelo è stato ridotto a una fonte da cui si possono citare dei versetti o in base alla quale dimostrare dei principi, e le idee che contiene sono diventate punti accademici per avvalorare sermoni e articoli. Così l’Evangelo è diventato una strada sicura per acquistar fama, titoli accademici e ammirazione mondana, anche se i fondamenti dell’Evangelo e la verità che contiene sono all’opposto della fama e della falsa sapienza del mondo, sono i nemici dell’ammirazione degli uomini. La chiesa subisce dunque una grave perdita quando abbandona l’insegnamento pratico della Bibbia e si occupa di quello accademico.

    Quanto alla meditazione pratica della Bibbia, essa si raggiunge accogliendo la verità divina attraverso la segreta obbedienza ai comandamenti e come risultato della fedele adesione del cuore a Dio, con dovuto timore e autentica umiltà. Questo è il fondamento di una relazione pratica e sicura con Dio.

    Ciò significa che la meditazione pratica edifica una vita interiore con Dio la quale infonde nelle parole, nei pensieri e negli insegnamenti dell’uomo la potenza divina. Così l’uomo può, con una sola parola, comunicare la verità all’ascoltatore, proprio come facevano i Padri, i quali vivevano l’Evangelo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Le loro parole non erano eloquenti o ripiene di ampollose meditazioni, ma trasmettevano il mistero, perché avevano il potere di conferire una vita nuova all’ascoltatore.

    Nei detti dei padri monastici del IV secolo, e di quelli successivi, questo era lo schema tipico in cui veniva data l’istruzione: un novizio andava da un anziano e diceva: “Dimmi una parola, che io possa vivere”. L’anziano gli diceva poco o niente, ma a causa della potenza della sua esperienza e della grazia contenuta in essa, questo poco bastava al novizio per vivere e superare tutte le difficoltà che incontrava. Questa è l’immagine più vera di come l’Evangelo deve essere compreso e predicato. Quanto appropriate sono per noi, oggi, le parole dell’Evangelo secondo Giovanni: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).


    La  potenza  di  una  vita di  effettiva  semplicità

    Se guardiamo indietro agli albori della chiesa, siamo sorpresi della sua forza, soprattutto di quella delle chiese appena fondate. Nonostante si trattasse di persone semplici, che non conoscevano la Bibbia – perché solo raramente un singolo cristiano possedeva dei manoscritti – e nonostante la loro fede in Cristo fosse recente e i precedenti costumi pagani avessero una profonda influenza, la loro vita spirituale e la manifestazione di fede, amore e zelo erano chiaro esempio di una vita robusta vissuta in accordo con i precetti dell’Evangelo, modello per una comprensione concreta del significato della vita eterna del regno di Dio, del vivere per fede, del morire al mondo, della fedeltà a Cristo, dell’attesa della sua seconda venuta e di una fede viva nella risurrezione. Ancor oggi facciamo ricorso alla loro fede e alla loro tradizione e solo a fatica comprendiamo le lettere inviate loro, quelle lettere che essi comprendevano facilmente e mettevano in pratica. Il segreto di tutto questo è che vivevano di quello che ascoltavano: ogni comandamento cadeva in cuori fedeli, disposti ad agire sinceramente di conseguenza; tutte le parole di Cristo penetravano profondamente nel tessuto della vita quotidiana, l’Evangelo era tradotto in azione e vita.

    Queste persone semplici capivano l’Evangelo, capivano che era vita da essere vissuta, non principi da discutere, e rifiutavano di comprenderlo a livello puramente accademico. Fino a oggi quanti sono alla fedele sequela di Cristo traggono ancora vita per se stessi dalla sorgente viva della comprensione dei primi cristiani.

    Queste prime comunità, ardenti di amore per Cristo, non avevano alcun credo, né patrologia, né interpretazione della Scrittura, ma le poche parole di Cristo che raggiungevano le loro orecchie diventavano immediatamente il loro credo, senza bisogno alcuno di spiegazione o insegnamento o interpretazione, ma bisognose solo, come essi compresero, di essere sperimentate e vissute. Attraverso l’esperienza scoprivano costantemente la potenza delle parole e portavano alla luce i misteri in esse contenuti. E così il loro zelo, il loro amore e la loro fede in Cristo e nell’Evangelo crescevano costantemente.

    Quando ascoltavano: “Beati i poveri nello spirito” vendevano tutto e deponevano il denaro ai piedi degli apostoli.

    Quando ascoltavano: “Beati quelli che ora sono afflitti” non badavano alle sofferenze e alle fatiche nel servizio del Signore.

    Quando ascoltavano: “Beati i perseguitati a causa della giustizia” sopportavano le più crudeli umiliazioni, gli insulti e le aggressioni.

    Quando ascoltavano: “Vegliate e pregate” si riunivano nelle catacombe per vegliare e pregare tutta la notte.

    Poiché ascoltavano: “Amate i vostri nemici”, la storia non registra alcuna resistenza opposta dai cristiani, né attiva, né passiva, contro i loro persecutori. E piegarono il loro collo alla spada in umiltà e obbedienza per onorare le parole di Cristo.

    Questo significava per loro leggere l’Evangelo e comprenderlo. In loro era nata la fame e la sete per la giustizia di Dio ed è per questo che lo Spirito santo aveva piena libertà di operare con loro: da quel momento avrebbe conferito potenza alla parola, rinsaldato i loro cuori, li avrebbe sostenuti nelle debolezze, guidati nell’oscurità, nell’angoscia e accompagnati nel cammino fino a quando, con grande gloria, avrebbero consegnato lo spirito nelle mani del loro creatore.


    Lettura  senza  applicazione  pratica e  lettura  realizzata

    La lettura resta priva di utilità, la comprensione priva di forza, la memorizzazione una pura ripetizione di parole vuote se uno non si sottomette all’obbedienza del comandamento che legge e se la Parola non diventa una norma di vita, qualunque sia il sacrificio, il costo, la fatica o il disprezzo che ciò può generare. Il Signore Gesù dice anche molto di più, afferma che chiunque legge le sue parole e le capisce, ma non vi obbedisce, subirà distruzione e grande danno, come un uomo che fonda la sua casa sulla sabbia. “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,26-27).

    Forse potete convenire con me che sarebbe stato meglio se non avesse costruito nulla, o ascoltato o conosciuto o imparato alcunché.

    La vita dei farisei, dei sadducei era di questo tipo: obbedienza minuziosa alla legge, spiegazione  ed esposizione qualificata dei comandamenti, pareri legali così dettagliati da oltrepassare la verità e la semplicità dello Spirito, il tutto riunito a opere morte e a una vita spiritualmente in rovina. “Ed ecco, un dottore della legge   si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene: fa’ questo e vivrai»” (Lc 10,25-28).

    Invece il Signore paragona chi ascolta le parole e vi obbedisce a un uomo che costruì la sua casa sulla roccia. Questo è segno che la potenza della Parola è interamente dipendente dall’esperienza pratica che uno ha di essa, poiché l’aiuto lo si può ricevere e lo si può conoscere solo nelle difficoltà e nel pericolo, e il misterioso soccorso dello Spirito santo solo attraverso l’obbedienza sincera ai precetti dell’Evangelo. Una parola posta sulle labbra di un uomo, se questi veramente vive di essa, è simile a una casa fondata sulla roccia; è salda e non deve temere alcun disastro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia; cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25).   A questo punto direte con me: “Oh, se solo la mia casa fosse fondata sulla roccia, e la mia lettura, la mia comprensione e la mia conoscenza dell’Evangelo fossero usate per vivere, e non come argomento su cui parlare e predicare, come soggetto di conversazione e di meditazione!”.


    Un  triste  esempio di  grande  conoscenza senza  realizzazione

    Balaam era un veggente, capace di vedere nel futuro e dotato di poteri profetici: era quindi in grado di ascoltare e parlare delle meraviglie di Dio. Ma fu rigettato e divenne un avvertimento terribile e un esempio di quelli che annunciano la parola di Dio, sono capaci di svelare misteri, di fare profezie autentiche, di pronunciare benedizioni e offrire sacrifici, come Balaam, mentre i loro cuori sono impuri perché vivono segretamente lontano da Dio. Ascoltate cosa dice di se stesso: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell’uomo dall’occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell’Altissimo, che vede la visione dell’Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24,15-16). Ma tutti questi doni non furono sufficienti per stornare il cuore di Balaam da una condotta malvagia. Balaam cadde in un grave errore, come dicono i santi apostoli: Giuda nella sua lettera (Gd 11), Pietro nella sua seconda lettera (2Pt 2,15) e Giovanni nel libro dell’Apocalisse (Ap 2,14).  Anche se esternamente benediceva il popolo di Dio, segretamente stava agendo contro di esso con un consiglio malvagio e si compiaceva di ricevere una ricompensa per quel peccato.

    Balaam raggiunse il massimo grado di conoscenza, di comprensione, di visione e profezia accessibile all’uomo spirituale, ma il suo comportamento non era migliore di quello del più malvagio e disonesto tra gli uomini. La sua storia mostra chiaramente che la comprensione e l’insegnamento delle cose spirituali, anche a livello della profezia, se non sono sorretti da una vita e una condotta sante, nell’integrità e nel timore di Dio, non ci possono salvare dalla maledizione e dalla morte che sigillarono la vita di Balaam.


    “Fate  attenzione  dunque  a  come  ascoltate”

    Prima di leggere la Bibbia o ascoltare la parola di Dio, guardate in voi stessi per vedere dove la parola di Dio andrà a posarsi. Torniamo a questo punto alla tanto amata parabola del seminatore.

    I semi caduti lungo la strada sono coloro che hanno ascoltato; ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo e nell’ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine, sono coloro che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,12-15). “Fate attenzione dunque a come ascoltate” (Lc 8,18).

    Di fronte all’annuncio dell’Evangelo ci sono quattro tipi di ascoltatori: non c’è bisogno di spiegazioni o chiarimenti, perché il Signore Gesù l’ha fatto lui stesso. Perciò guardate e vedete come il Signore dice che dovete ascoltare: con un cuore che trascorre la giornata al margine della strada? oppure con un cuore che non ha profondità, perché ha paura di sedersi in disparte a esaminare la propria vita? o con un cuore propenso a mettere da parte denaro come assicurazione per il futuro? o con un cuore sempre appesantito da preoccupazioni immaginarie?

    Fate attenzione a come dovete ascoltare l’Evangelo. Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa. Così chiunque vuol ascoltare bene la Parola, comprenderla e custodirla in un cuore integro e buono, deve preparare interiormente il suo cuore, in modo che la Parola possa mettervi radici senza correre rischi, trovando in esso fedeltà a Dio e veracità nelle parole e nelle promesse. È assolutamente impossibile che uno possa capire quel che ascolta della parola di Dio, se non è assolutamente onesto di fronte a Dio e non ha deciso di rinunciare alla propria vita, agli incarichi, agli interessi, al denaro, al futuro e all’amor proprio per deporli ai piedi di Dio.

    Infatti come può un uomo timoroso per il futuro comprendere questa parola del Signore: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34) e “Non datevi pensiero per la vostra vita” (Lc 12,22)? E come può capire la croce chi si interessa del proprio onore? Come può comprendere la risurrezione chi ha paura della malattia e della morte?

    Chi chiede di leggere l’Evangelo sta di fatto cercando la vita eterna e chi cerca la vita eterna deve assumere una posizione chiara nei confronti della sua vita presente!


    La smemoratezza della Parola è un inganno psicologico

    Non c’è illustrazione migliore di quella dataci dall’apostolo Giacomo quando descrive l’uomo che ascolta la parola dell’Evangelo e la dimentica come uno che vede la propria faccia in uno specchio, ma non appena lascia lo specchio dimentica qual è il suo aspetto. Infatti, chiunque disprezza la Parola che ascolta, perde immediatamente la percezione di sé.

    Vi sono alcuni che porgono l’orecchio all’Evangelo, accolgono la Parola e la ripongono nel tesoro del proprio cuore. Sono sempre consapevoli dell’istruzione ricevuta e la pongono davanti a sé come uno specchio, servendosene continuamente per correggere le proprie azioni.

    Vi sono altri invece che porgono l’orecchio all’Evangelo, ma non una sola parola di quel che ascoltano resta nel loro cuore, perché sono smemorati, non sanno valutare il peso delle cose e sono preoccupati da questioni per loro più importanti dell’Evangelo e della vita eterna, quali possono essere il lavoro, le preoccupazioni, i piaceri, tutte cose che essi possono considerare come facenti parte del servizio di Dio. Oppure nel loro cuore può non esserci assolutamente nulla, e anche questo è un disastro, perché mentre leggono l’Evangelo possono essere così commossi da gemere e persino piangere, ma in seguito restano invischiati nei propri affari e dimenticano sospiri e lacrime. Persone di questo tipo possono pensare che la loro smemoratezza sorpassa le capacità di controllo che possiedono, ma questo è un inganno psicologico. La verità è che l’anima vuol dimenticare l’Evangelo, perché l’Evangelo non le piace.

    Uno può leggere l’Evangelo con regolarità ogni giorno, ma percepire una distanza incolmabile tra quello che ogni giorno legge e quello che ogni giorno fa. Questa distanza incolmabile è scavata dalla smemoratezza. Con il passare dei giorni la lettura dell’Evangelo è privata della sua potenza e efficacia, e non avviene alcun cambiamento di vita né alcun progresso nel cammino.

    Questa smemoratezza è quel che l’apostolo Giacomo chiama autoillusione: ”Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era” (Gc 1,21-24).


    L’ orecchio incirconciso

    Questa espressione, così ricca di significato spirituale, fu pronunciata dal santo martire Stefano davanti al sinedrio riunito per giudicarlo, quando percepì che i membri di quell’assise stavano resistendo allo Spirito santo per assecondare i loro disegni.

    O gente testarda, incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito santo” (At 7,51).

    Lo Spirito santo parla a noi attraverso l’Evangelo, ma solo l’orecchio circonciso può sentire la sua voce, cioè l’orecchio dal quale è stato rimosso il prepuzio. Con prepuzio Stefano intende la mancanza di sottomissione a Dio e l’avere un cuore troppo lontano da Dio per ascoltarne la voce. Quelli che hanno le orecchie o i cuori incirconcisi sono stranieri in mezzo al popolo di Dio: non comprendono i suoi comandamenti o non vi si adeguano, perché guardano a se stessi come a persone che non devono obbedire ad alcun impegno.

    Colui il cui orecchio è incirconciso non ascolta lo Spirito, né viene da esso influenzato, né gli obbedisce. Di sua propria volontà, infatti, ha rifiutato di sottomettersi allo Spirito santo, senza provarne timore. Teme che lo Spirito possa chiedergli di rinunciare a cose, o posizioni, o principi, o relazioni che trova benefiche, o piacevoli e importanti per lui personalmente. Rinunciarvi sarebbe una perdita che egli non vuole accettare, così ha paura che lo Spirito santo possa chiedergli di agire contro se stesso e contro il mondo, perché il suo io gli è caro e il mondo è la sua delizia. L’uomo che ha l’orecchio incirconciso è colui che non ha reciso il prepuzio del suo io e non vuole recidere il prepuzio del mondo né dal suo cuore né dal suo orecchio. Non è mai disposto a sacrificare qualcosa o, per lo meno, non è disposto a sacrificare tutto per Dio. Ascolta lo Spirito santo ma non gli presta alcuna attenzione, cercando ogni volta di soffocare la voce della coscienza. Fin dall’inizio si è esonerato dalla responsabilità di ascoltare la voce di Dio.

    Questa situazione era già stata descritta dal profeta Isaia e il Signore stesso ne ha fatto un significativo commento: “Vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano e non comprendono (…). Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore, e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,13-15; Is 6,9).

    Qui il Signore denuncia l’intenzione dei suoi ascoltatori: facevano mostra di leggere e ascoltare i comandamenti di Dio, ma in realtà erano ben decisi a non lasciarsi influenzare. Così chiudevano i loro occhi e le loro orecchie in modo da non vedere e non sentire. Per questo il Signore denunciò le loro motivazioni: in realtà avevano paura che la voce di Dio risuonasse talmente chiara e che il biasimo dello Spirito santo diventasse così persuasivo da essere forzati a rinunciare alle loro posizioni errate e agli indebiti possessi, ai piani che avevano fatto per il futuro e alle peccaminose relazioni per le quali avevano venduto l’anima, e non solo l’anima, ma anche la vita eterna e persino Dio stesso. Essi, come molti di noi, non rifiutavano di leggere o ascoltare l’Evangelo, ma quando giungevano a certi passi, a certe frasi o a certi comandamenti, rimanevano confusi e li tralasciavano velocemente e chiudevano gli occhi, fuggendo ansiosamente lontano dalla voce dello Spirito santo. In questa situazione l’orecchio incirconciso rivela se stesso, poiché è disturbato dalla voce di Dio e la evita, proprio come il serpente chiude le orecchie per non ascoltare la voce dell’incantatore, per non obbedire né sottomettersi a lui: “O stolti Galati! Chi vi ha incantato affinché non aveste a obbedire alla verità?” (Gal 3,1; 5,7).

    Fermiamoci un momento e torniamo ai passi e ai versetti e ai comandamenti che abbiamo evitato deliberatamente con vile determinazione. I nostri cuori protestavano per la nostra caparbietà, tremavano e battevano in fretta e con dolore, poiché eravamo consapevoli di opporre resistenza allo Spirito santo, rischiando la morte e l’allontanamento da Dio con questo andare per vie traverse. Correggiamo in fretta il nostro atteggiamento nei confronti della voce di Dio! Forse è questa l’ora per impadronirci pienamente del nostro io, per spezzarne l’ostinazione e l’orgoglio, per troncarne i piaceri e le paure e volgerci a seguire la voce di Dio. “Ricorda da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap 2,5).

    Può darsi che vi dispiaccia essere messi di fronte al vostro desiderio di grandezza e di comando, o alla vostra impurità e inimicizia, alla malizia e all’odio verso quelli che minacciano i vostri interessi, alla vostra slealtà o crudeltà, all’ingiustizia o ai vostri loschi giudizi, oppure alla vostra disonestà, al furto, all’illecito acquisto di beni, alla vostra mancanza di fiducia in Dio e al confidare nel denaro e nell’assicurazione per il futuro; oppure si può trattare di qualcosa di più di tutto questo, poiché state scappando con tutto il vostro essere lontano dal volto di Dio. Non avete alcun appoggio su terreno sicuro e state cercando ora di nascondere la vostra faccia da Colui che siede sul trono ”chiudendo i vostri occhi per non vedere!” (cf. Lc 8,10). In questa situazione, leggere l’Evangelo non è di alcuna utilità e ascoltarlo è solo causa di giudizio.

    All’orecchio circonciso, invece, il prepuzio è stato tolto e non c’è più alcuna barriera che gli impedisca di ascoltare la voce di Dio, come per l’orecchio del giovane Samuele, che viveva in purezza e umiltà nel santuario: “Parla o Signore, perché il tuo servo ascolta” (1Sam 3,10). L’orecchio è aperto all’autorità dell’Evangelo e gioiosamente sottomesso alla voce  di Dio, vigile alla sua chiamata, pronto a rispondere, qualunque cosa venga chiesta. Infatti chi ha l’orecchio circonciso è pieno di coraggio e capace di sostenere azioni contro se stesso in obbedienza alla voce dell’Altissimo. Il cuore che è pronto ad accettare le grandi richieste di Dio è capace di percepire ogni inflessione nella voce di Dio e non si lascia sfuggire nemmeno una parola.

    Se a questo punto qualcuno mi chiedesse: “Come posso acquistare un orecchio che ascolta la voce di Dio?”, risponderei: “Prepara innanzitutto te stesso ad accogliere le sue domande, le sue richieste e indicazioni, e sii pronto nel tuo cuore a portarle a compimento, qualunque ne sia il prezzo. Immediatamente avrai un orecchio che ascolta la voce dell’Altissimo!”.  “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come  gli iniziati. Il Signore  Dio mi ha aperto l’orecchio, e io non ho opposto resistenza” (Is 50,4-5).


    Onorare  la  lettura  e  l’ascolto  dell’ Evangelo

    L’uomo che è consapevole di Dio non permette che la parola dell’Evangelo gli sfugga o sia dimenticata. Egli invece con rispetto, venerazione e timore ne fa una corona per la sua testa e la pone al di sopra di tutta la sua vita.

    L’ardore degli uomini di fede è estremamente evidente quando ascoltano l’Evangelo: sembrano entrati alla presenza di Dio, o in piedi presso l’altare, in procinto di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Non è che abbiano semplicemente preso l’abitudine di onorare l’Evangelo, o che fingano di comportarsi così, come gli ipocriti: la realtà è che dall’ascolto dell’Evangelo ricevono potere su potere, come se stessero ascoltando la voce di Dio stesso.

    Tutto ciò era molto chiaro nella chiesa primitiva e la chiesa conserva ancora lo stesso zelo, rispetto e venerazione verso la lettura e l’ascolto dell’Evangelo. La tradizione della chiesa ha conservato alcuni gesti significativi, ed è per questo che il prete non potrà mai leggere l’Evangelo in chiesa senza aver prima innalzato una preghiera particolare perché lui e l’assemblea possano esser resi degni di ascoltare il santo Evangelo. Prima di incominciare a leggere, il diacono chiede a tutta l’assemblea di alzarsi in piedi nel timore di Dio per ascoltare l’Evangelo e tutta l’assemblea risponde alla sua richiesta e glorifica Dio. Inoltre il prete si toglie le scarpe per leggere l’Evangelo, perché sta alla presenza di Dio. Poi, dopo la lettura, l’intera assemblea passa in fila a baciare con gioia e lacrime l’Evangelo che il prete tiene aperto in mano. Nella chiesa primitiva la gente faceva questo spinta dallo zelo, dal timore e dall’amore per l’Evangelo ed esso è rimasto come un rito nella chiesa.

    Coloro che hanno sperimentato la potenza dell’Evangelo nella loro vita non considerano ciò eccessivo, ma vanno anche oltre nel mostrare la loro venerazione: ci sono alcuni che digiunano sempre prima di leggere l’Evangelo; altri, quando leggono l’Evangelo da soli, si inginocchiano; altri ancora lo leggono sempre con pianto e lacrime.

    Gli ammaestramenti di Dio all’uomo sono per lo più dati attraverso la lettura e l’ascolto dell’Evangelo, quando uno si trova in condizione di umiltà e preghiera, con un cuore aperto.


    La voce del Figlio di Dio

    Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.

    Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell’Amante.

    Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.

    Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.

    Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore!nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani. Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e l‘errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L’anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall’Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.

    L’altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l’anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?

    Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l’ora in cui egli chiamerà e l’intera creazione risusciterà da morte.

    Se uno ascolta la mia voce...”.  Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l’istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.

    Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.

    Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell’uomo, ma profonda, più profonda dell’eternità stessa.

  • 26 Feb

    Il cantico che troviamo nel capitolo 19 dell’Apocalisse, proposto dalla liturgia nel vespro della domenica, cattura immediatamente la nostra attenzione per la forza che lascia trasparire: è un’esplosione di lode e di gioia che scaturisce dal contemplare il risultato finale dell’operare di Dio nella storia.  Il testo celebra le nozze dell’Agnello e si presenta come una sintesi dei temi trattati dal libro: l’opera di Dio si compie nel portare la comunità dei salvati a vivere definitivamente in relazione con lui.  Alla Chiesa è consegnato il risultato definitivo del disegno di Dio, già efficacemente compiuto in Cristo Signore: è la presenza tra noi del Risorto che la liturgia celebra.  La comunità che ha conosciuto la fatica del travaglio, il tempo della prova, può contemplare la futura riuscita del cammino; così coloro che ancora vivono nel presente le contraddizioni della vita possono affrontarle con fiducia sapendo che Dio si è già compromesso nel garantire la riuscita finale.
    Anche per questo cantico il richiamo al contesto della narrazione permette di cogliere la ricchezza del messaggio, mentre l’attenzione alla struttura del testo, alle sue articolazioni, suggerisce le vie per poterlo condividere come comunità di credenti in Cristo Signore. 

    Contesto

     Il capitolo 19 dell’Apocalisse fa da contrappunto ai precedenti capitoli 17 e 18: al crollo di Babilonia, la città empia, simbolo dell’idolatria e della contraffazione di tutti i rapporti, viene ora opposta la fìgura dell’umanità salvata, frutto dell’azione di Dio, del suo regno.  Babilonia è stata presentata come «la grande prostituta» (Ap 17,1), simbolo massimo del male: è l’umanità chiusa nella propria autosufficienza, nella ricerca di un lusso sfrenato conseguito a spese dei poveri e addirittura di vite umane (18,11-13).  Ora, in forza dell’intervento di Cristo, viene proclamata la caduta di questa città e del male che rappresenta e si può cantare la lode per l’esito felice dell’azione di Dio.  Potrà quindi apparire in tutta la sua gloria la «città-sposa», la Gerusalemme nuova (Ap 21).
    Su questo contrappunto va dunque ricostruito il tessuto del testo e il suo messaggio.  L’umanità, costituita dai «suoi servi» (v. 5), è ormai la «sposa pronta», che ha risposto agli inviti dell’amore pasquale del Signore, «l’Agnello» (v. 7), e che ora è capace di vivere con lui in un rapporto di piena reciprocità.
    Coloro che fin dall’inizio si sono messi in ascolto (Ap 1,3), che hanno seguito fino a questo punto il cammino presentato dall’autore e hanno imparato a leggere la storia dal punto di vista di Dio, sono ora pronti a guardare il futuro che li attende e a vivere il presente lasciandosi guidare da questa prospettiva. 

    Spiegazione

    Prima strofa: la lode dei servi di Dio 

    Alleluia! 
    Per quattro volte in questo cantico risuona l’«alleluia»: l’invito a lodare Dio.  L’espressione, che letteralmente significa «lodate JHWH», è ripresa dai Salmi, in modo particolare dal cielo del-l’Hallel (Sal 113-118), che si cantavano nelle grandi feste e specificamente nella celebrazione della cena pasquale.  P significativo ricordare che questa espressione si trova nel Nuovo Testamento solamente in questo passo: ciò evidenze come in esso si porti a termine tutto il percorso là delineato e volto a celebrare le nozze dell’Agnello.  Quest’invito alla lode porta perciò con sé la ragione che la suggerisce: la Pasqua del Signore.

    Salvezza, gloria e potenza sono del nostro Dio; perché veri e giusti sono i suoi giudizi.
    Il motivo della lode è espresso con tre qualifiche: salvezza, gloria e potenza, che come fiutti successivi, dalla foce consentono di risalire alla sorgente: il felice frutto dell’azione di Dio in noi è salvezza che recupera la nostra dignità riscattandoci dalle ferite della storia, manifesta la gloria di Dio, ossia la sua capacità di essere efficace, ed esprime la sua energia di vita, la sua potenza.
    Nel contesto dell’Apocalisse questi termini assumono anche un risvolto polemico.  Infatti, essi erano abitualmente utilizzati per proclamare le prerogative imperiali.  L’imperatore romano, l’augusto, era qualificato come «salvatore e benefattore», «signore giusto»; collaborare al mantenimento del suo potere e all’ordinamento al quale presiedeva significava avere cura della salvezza.  L’Apocalisse presenta l’autentico significato di queste espressioni riferendole esclusivamente a Dio e così contesta ogni loro errata applicazione.
    In tutto questo brillano i giudizi di Dio come «veri e giusti».  La comunità di lode, che ha imparato a fidarsi del suo Signore nel tempo della prova, riconosce che egli non è assente dalla storia.  Ora vede come la non indifferenza di Dio rispetto alle vicende umane si traduce in interventi efficaci, che danno compimento alle sue promesse.  Loro effetto è anche smascherare il male, mostrando il suo carattere distruttivo, segno chiaro che non ha ragione d’essere (v. 2b).

    Lodate il nostro Dio, voi tutti, suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi.
    L’alleluia di apertura risulta così ben motivato e può essere ripreso e amplificato da tutti coloro che sono stati fatti oggetto della benevolenza di Dio: la loro esperienza della salvezza li rende soggetti adeguati a esprimere la lode.  Sono i suoi servi (cf. già Ap 1, 1; 11,8; 19,2), quelli che sono entrati in confidenza con lui, hanno accolto e condiviso i suoi disegni, il suo stile.  Sono coloro per i quali l’amore di Dio non è barattabile con niente altro, merita un consenso assoluto (temono Dio).  Essi vengono qui qualificati come piccoli e grandi: entrambi i gruppi sono davanti a Dio nell’identica posizione di servi: non c’è dignità che possa risultare superiore (cf.  Ap 1 1, 8).

    Seconda strof’a: il regno di Dio si compie nelle nozze dell’Agnello

    Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente.
    Motivo della lode è ora il fatto che Dio ha realizzato la sua regalità: il suo essere l’Onnipotente si è tutto tradotto in azione di salvezza per noi.  Il risultato di ciò è che noi siamo abilitati alla piena comunione con l’Agnello: il Signore Gesù, qualificato dalla sua Pasqua, dal suo amore divenuto evento nella nostra storia.  Questa piena comunione è indicata con l’immagine delle nozze. 

    Sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta:
    le fu data una veste di lino puro splendente.
    Il simbolismo nuziale ha un retroterra biblico molto ampio.  Già in Is 54,5-8; Os 2; Ez 16,7ss, JHWH viene paragonato a un marito che si è unito a Israele e si aspetta, come da una sposa, piena fedeltà.  Nel Nuovo Testamento l’immagine è usata con chiaro riferimento alla presenza del Messia (cf.  Mc 2,18-22 par.; Mt 22,1-14; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,24-32).  Lo stesso giudaismo rabbinico ha interpretato in senso messianico il Salmo 45 che celebra un matrimonio regale; e sempre secondo la prospettiva delle nozze messianiche la tradizione patristica interpreta il Cantico dei Cantici.  Nell’Apocalisse il tema appare qui per la prima volta e verrà poi ripreso e notevolmente sviluppato nel capitolo 21.
    La regalità di Dio non vuole essere accolta che nella libertà dell’amore: ecco che cosa esprime il simbolo delle nozze dell’Agnello.  Dio regna perché ama e si rende disponibile senza limiti.  Tutto il suo operare tende unicamente a suscitare nell’uomo questa libertà per renderlo capace di corrispondere all’amore divino.  E questo obiettivo che rende vulnerabile e al tempo stesso mirabile l’azione di Dio nella storia: essa manifesta il suo vero valore quando non si impone, ma si propone alla libera accoglienza che l’amore suscita e realizza.
    Il contenuto della salvezza è metterci nella condizione di vivere in modo filiale la nostra libertà umana personale, tramite il Figlio suo Gesù: ad essa Dio incessantemente ci prepara.  Questo è il significato della veste nuziale data alla sposa (v. 8a) che ne esprime la personalità (cf. per contrappunto Mt 22,11-13).  L’autore dell’Apocalisse sente il bisogno di precisare il contenuto di questa condizione, affermando che «la veste di lino sono le opere giuste dei santi» (v. 8b). 

    Rallegriamoci ed Multiamo, rendiamo a lui gloria.
    La gioia diventa la permanente condizione di vita della comunità dei servi e questa coincide con il proclamare la gloria di Dio. l] verbo, ora alla prima persona plurale (rallegriamoci), sottolinea il carattere esistenziale della lode; è ormai la nostra stessa esistenza, salvata e compiuta, che proclama Inefficacia dell’azione di Dio tra noi e in noi.  Nel suo volgersi a noi, Dio ci riscatta da ogni schiavitù, ci valorizza pienamente e così libera in noi la gioia.  La sua gloria è la nostra gioia.  La nostra gioia è l’eco della gloria di Dio in noi.
    Tre affermazioni di fondo reggono dunque questo cantico, quasi a sintesi dell’intero messaggio dell’Apocalisse: Dio ha operato secondo i suoi giudizi (effettivamente reali e coerenti con le sue promesse); ha realizzato il suo Regno, ha portato a termine la sua azione di salvezza, ha esplicato tutta l’efficacia del suo essere rivolto a noi; ha celebrato le nozze dopo essersi preparata la sposa, ossia ci ha resi adatti e ci ha accolti nella sua comunione.
    Nell’umanità di Gesù tutto questo è già pienamente compiuto, come nel «testimone fedele, primogenito dai morti, principe dei re della terra» (Ap 1,5).  Su questo percorso la Chiesa è sollecitata a camminare dalla memoria della Pasqua del Signore, di cui riconosce nella liturgia la permanente fecondità.  Rendendosi familiare con i giudizi di Dio e assecondandone l’azione regale, del tutto espliciti nella passione e risurrezione di Gesù Signore, la Chiesa entra nella pienezza della vita, partecipando alla comunione del Figlio con il Padre.  Nel suo modo di vivere, già fin d’ora, essa è così profezia del mondo riuscito, umanità che lascia vedere il volto non dell’abbandonata, ma della sposa.
    Ben si comprende la scelta della liturgia di riservare al vespro della domenica questo cantico.  Esso infatti raccoglie le tre dimensioni del giorno del Signore: memoria della Pasqua; presenza della salvezza nel sacramento della commensalità; anticipazione della sua piena efficacia escatologica nelle primizie della comunione fraterna.  Oltre questo, ricchezza del nostro vespro domenicale, non rimane che l’ultima invocazione: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!» (Ap 22,17).  E «Colui che attesta queste cose dice: Sì, verrò presto!» (Ap 22,20).

    Significati per la nostra vita

     Il grande canto di lode, che parte dal cielo, si allarga alla terra per terminare di nuovo in cielo, dove si celebrano le nozze di Cristo-Agnello con la comunità dei redenti, porta a chiederci qual è la prospettiva della comunità ecclesiale che ascolta e fa proprio questo canto e, dunque, cosa esso può suggerire a noi oggi.e Il cantico invita a lodare il Signore perché si riconosce la sua efficace azione nella storia.  Mentre ancora viviamo un preSente segnato da contraddizioni, dove il male fa sentire la sua forza, siamo sollecitati ad allargare gli orizzonti e ad affinare lo sguardo per riconoscere come la salvezza già operata in Cristo è il criterio di lettura di ogni evento, che ci autorizza a cantare la lode di Dio anche dentro la fatica del nostro tempo.  La riuscita dell’azione di Dio ci permette di vedere con chiarezza il male presente nella storia, ci impedisce di dargli false giustificazioni e ci conforta mostrandoci la sua inconsistenza. 
    La comunità che loda il suo Signore non lo fa con animo disimpegnato, ma trae da questo atteggiamento la forza per contestare ogni pretesa di assolutezza da parte di poteri e realtà terreni.  La lode autentica toglie spazio alla pretesa autosufficienza che si costruisce con la sopraffazione degli altri a partire dai più deboli, mentre nel guardare all’azione del Padre di tutti plasma in noi un animo grato e fraterno, che sa disporre nella storia di tutti i giorni le azioni ad esso corrispondenti.
    Dalla comunità di lode non scaturisce una contestazione violenta, ma la testimonianza ferma di una libertà ritrovata che sola dà respiro alla vita umana.  Infatti, la contestazione del male ancora presente nella storia ha come motivazione la volontà di vivere in modofiliale efraterno la nostra libertà personale.  La comunità dei credenti non è solamente l’invitata alle nozze dell’agnello, ma è la sposa che Dio stesso ha preparato: questa è la dignità a cui siamo chiamati!  Restando aperti all’azione di Dio maturiamo questa consapevolezza e impariamo ad apprezzare noi stessi e quindi ogni fratello per questa dignità e non in base alle prestazioni offerte, ai titoli conseguiti o a qualsiasi altro criterio che inesorabilmente porterebbe a stabilire livelli differenti di dignità tra le persone.
    L’sperienza di una ritrovata libertà filiale va riconosciuta e custodita come dono che sempre ci viene da Dio.  Questo porta a dare voce con la nostra gioia vissuta e celebrata alla gloria di Dio.  Proprio perché è lui a custodire la nostra identità possiamo vivere liberi dal timore di perderla, dall’angoscia di doverla preservare gelosamente dagli assalti di chi ci sta accanto.  Possiamo perciò esprimere in pienezza quello che siamo, dare voce alla nostra libertà, alla pienezza della nostra umanità, e proprio in questo lasceremo trasparire la gloria di Dio.  La relazione con Dio viene così sperimentata come fonte di libertà.  La vita cristiana non mortifica la nostra umanità, ma apre lo spazio per la sua espressione compiuta donandoci di viverla nella condizione riliale.  Dove la paura ha termine, non è ancora tolta la fatica del vivere, ma è aperta la fonte della gioia che può sostenere nella prova presente.
    Possiamo perciò fare festa perché il Signore viene a fare festa con noi.  La festa vera ha in lui il motivo portante e la ragione ultima.  La vita della comunità cristiana è tutta segnata da questa esperienza: la quotidianità della sua esistenza ne è plasmata, la liturgia ne indica la fonte.  Siamo pertanto sollecitati a celebrare questa esperienza ecclesiale veramente nel segno della festa.  Vivere ed esprimere con autenticità questa dimensione fa della Chiesa una credibile profezia del mondo futuro, di quell’umanità riuscita che in Gesù Cristo Dio Padre ha già predisposto per tutti.

    Preghiera finale

     Cristo, sii lodato,
    perché ci inviti a elevare il nostro cuore.
    Sii lodato:
    tu nascondi la nostra vita in te.
    Sii lodato:
    tu conformi la nostra vita alla tua.
    Sii lodato:
    tu riversi su di noi la gioia nuova.
    Facci crescere nell’amore senza confini,
    nell’amore del Regno che è in noi,
    nell’amore delle beatitudini.
    Donaci la tua potenza:
    agisca in noi, affìnché il tuo mistero
    riempia di coraggio i nostri cuori.
    In te è il nostro riposo e la nostra fatica.
    Da te proviene la nostra speranza.
    verso di te si eleva la nostra preghiera. 
    Rialzaci, liberaci.
    Benedetto sei tu, perché semini in noi la gioia beata di Dio,
    che ci vuole con lui, oggi, domani e sempre.
     

    Dal Magistero della Chiesa

    Il cristianesimo è la religione dell’amore, in cui il dovere è integrato e oltrepassato.  Per questo è anche la religione della gioia.  Non a caso la figura letteraria della «beatitudine» è piuttosto frequente nella Bibbia.  Come mai allora molti credenti non mostrano di essere particolarmente felici?  Qual è la via cristiana della felicità? [… 1 La gioia cristiana, che può coesistere anche con la sofferenza, è partecipazione cristiana alla Pasqua di Cristo: «Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,5); «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta… portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2Cor 4,7.10). La via della vita e della gioia, indicata dalle beatitudini evangeliche, è la via della fede e dell’amore, che riscatta anche le situazioni negative.  In essa Gesù ci precede come modello personale, normativo e pieno di fascino. (Dal Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi,nn. 852.856.866)

  • 25 Feb

     

     Il cantico di Ap 15,3b-4, proposto dalla liturgia del vespro ogni venerdì, è qualificato dal testo stesso come «cantico di Mosè e dell’Agnello» (v. 3a), richiamando contemporaneamente, più a livello di risonanze che di vere e proprie citazioni, gli altri due cantici di Mosè che troviamo nell’Antico Testamento: il primo che celebra il passaggio del Mar Rosso e la distruzione dell’esercito egiziano (Es 15), il secondo che racconta i benefici di Dio in favore di Israele durante il cammino nel deserto (Dt 32).
    Anche le espressioni che troviamo nel cantico richiamano molte citazioni della Scrittura (cfr.  Sal 86,9; 98,2; 111,2; 139,14; 145,17; Es 34,10; Dt 32,4; Gr 10,7; 16,19; Is 2,2; Mi 1,11), qui organizzate in modo da sottolineare che la vittoria è da attribuire al solo agire di Dio a favore del suo popolo.  Lo stesso richiamo esplicito a Mosè permette di risentire fortemente l’eco dell’esperienza della liberazione, del peregrinare nel deserto e dell’ingresso nella terra promessa, realtà che ora trovano piena realizzazione nel Cristo morto e risorto, il vero Mosè, di cui il primo era figura.  Se il cantico di Mosè (Es 15) celebra la trionfale vittoria sul faraone oppressore d’Israele, il cantico dell’Agnello esalta il trionfo di Dio, re delle nazioni.

    Contesto

    Il capitolo 15 si apre con due visioni:
    – la visione in cielo di «un altro segno, grande e meraviglioso» (v. 1)
    – e quella di «coloro che avevano vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome» (v. 2), che ora cantano il cantico di Mosè e dell’Agnello (v. 3). Visione del segno e cantico connettono i capitoli 15 e 12 del libro, dove i segni e i cantici che li costituiscono formano tra loro una inclusione intenzionale.
    Nel capitolo 12 i segni della donna e del drago (vv. 1-3), della lotta che scaturisce tra i due, fra le comunità cristiane e le forze sataniche, avevano impostato la tensione drammatica che segna la storia. 
    Ora, il giudizio di Dio che il nostro brano introduce (Ap 15,1), ne segnala la conclusione: l’intervento di Dio pone fine alla furia del dragone e alle forme storiche in cui essa si manifesta.
    Così al canto per la vittoria sull’accusatore grazie al sangue dell’Agnello (Ap 12,10-11), il quale è ritto sul monte Sion (14,1), centro dell’umanità salvata (i centoquarantaquattromila), si unisce il canto per la vittoria sulla bestia, ossia su tutte le forme storiche nelle quali si esprime la pretesa dispotica di dominare il mondo, la presunzione di farsi dio attraverso una sua ridicola e distruttiva falsificazione.
    E’ il cantico qualificato come «il cantico di Mosè, servo di Dio, e il cantico dell’Agnello» (Ap 15,3a), ossia il cantico suscitato dall’azione liberatrice di Dio (Es 15,1-18), che è giunta al suo compimento nella Pasqua di Gesù. 
    Come Mosè, dopo la traversata del Mar Rosso, aveva cantato l’azione di grazie del popolo salvato dagli egiziani, così i vincitori della bestia stanno ritti sul mare di cristallo e cantano un cantico di riconoscenza.
    E’ anche il cantico dell’Agnello, perché la loro vittoria è associata a quella dell’Agnello.
    E’ il cantico espressivo della vita dei salvati, quel canto che solo i redenti sanno cantare (cfr.  Ap 14,3: «Essi cantano un canto nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e agli anziani.  E nessuno poteva comprendere quel canto se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra»). 

    Struttura del testo

    Il cantico è articolato in modo da assolvere, nel suo contesto, una funzione precisa.  Esso si presenta come «racconto» che evidenzia il tracciato dell’agire di Dio nella storia, consentendo di riconoscerlo come presente in essa (v. 3b). 
    In tal modo viene spiegato il movimento dei popoli verso di lui (v. 4b), mentre al centro emerge l’unicità del nome di Dio, il «solo Santo» (v. 4a).

    Grandi e mirabili sono le tue opere,
    Signore Dio onnipotente;
    giuste e vere le tue vie, o re delle nazioni!
    4 Signore, chi non temerà
    e non darà gloria al tuo nome? 
    Poiché tu solo sei santo.
    4b Tutte le nazioni verranno
    e si prostreranno davanti a te,
    perché i tuoi giusti giudizi furono manifestati.

    Spiegazione

    Il tracciato della presenza di Dio nella storia
    Tre termini sottolineano ciò che nella storia attesta la presenza di Dio:
    le opere,
    le vie,
    i giudizi. 
    Ciascuno dei tre termini riceve una qualifica specifica:
    le opere sono «grandi e mirabili»,
    le vie sono «giuste e vere»,
    i giudizi «giusti». 
    Tali qualifiche sono un invito a riconoscere lo «stile», il modo specifico con il quale Dio si manifesta dentro la storia dell’umanità; sono i gesti di salvezza che Dio ha compiuto in Gesù Cristo. 

    Grandi e mirabili sono le tue opere.

    Dio si rivela nei fatti, dice chi è agendo.  L’agire di Dio non è insignificante:   suscita meraviglia e sorpresa, esso è gratuito, non preventivabile, e, nello stesso tempo, segna un punto di non ritorno.  Nell’agire di Gesù Cristo, l’Agnello, nelle sue parole e nei suoi gesti, Dio ha raggiunto il vertice della sua presenza e segna definitivamente la storia.  In questo suo operare egli emerge come il Signore onnipotente, come colui che dà consistenza, che dà senso e porta a compimento la storia. 

    Giuste e vere le tue vie.

     Le opere di Dio tracciano nuovi percorsi per impostare la vita, aprono progetti ai quali Dio rimane fedele e che sono veramente pertinenti alla vita e alla dignità dell’uomo. 
    Queste vie sono sicure come è sicura la promessa di Dio.
    E’ proprio di Dio disporre di una via anche sul mare, là dove all’uomo sembra di incontrare l’esaurimento delle possibilità di vita (cfr.  Es 14,21-29; Is 43,16; Sal 77,20). 
    In ciò egli si manifesta come «re delle nazioni», come colui che sa difendere da tutto ciò che minaccia la vita, che sa radunare dalla dispersione.  Dio è re nel senso che domina, con la sua onnipotenza, tutte le forze del male.  La sua guida garantisce solidità e giustizia. 

    Giusti i tuoi giudizi. 

    Le opere di Dio e i tracciati di cammino di vita che esse consentono dicono un mondo in cui la forza della presenza di Dio sta operando.  Egli non è impassibile, neutrale. 
    La sua azione e presenza svelano l’effettiva consistenza di ogni operare umano, portano allo scoperto ciò che è pretesa fuori luogo, falsificazione che distrugge. 
    Nel suo giudizio la lettura della storia prende lucidità e orientamento verso la realizzazione di un mondo degno dell’uomo, che non è un sogno ma una certezza.
    Le nazioni devono imparare a leggere nella storia il messaggio di Dio, a cogliere la storia come orientata verso la salvezza.  Questa certezza deve essere condivisa da tutti gli uomini. 

    Il movimento dei popoli

     Suscitato dalle opere, dalle vie e dai giudizi di Dio, prende il via un movimento di popoli che trovano nel Signore il loro approdoTutte le nazioni verranno e si prostreranno davanti a te»). 
    Benché la storia nella sua complessità si presenti spesso carica di contraddizioni, un filo rosso la attraversa tutta e consente di non smarrire la direzione che la porta alla vittoria, a non soccombere al potere distruttivo del male: è la forza di Cristo che la penetra e la qualifica positivamente. 
    Tutto ciò suscita lo stupore dell’adorazione, una gratitudine meravigliata per come Dio ha saputo venirci incontro e tenere aperta la strada.  In questo egli si manifesta, dice il suo nome.
    Questo grande movimento di popoli esprime la risposta alla sconvolgente novità di Cristo che li rende partecipi della sua vittoria: sono quindi in grado di fare proprio il messaggio del cantico nuovo, il cantico dell’Agnello, e di esprimerlo ad altri e con altri. 

    Il nome di Dio

     0 Signore, chi non temerà e non glorificherà il tuo nome?

     L’espressione del v. 4, che richiama da vicino il cantico di Mosè (Es 15,11: «Chi è come te fra gli dèi, Signore?  Chi è come te maestoso in santità?»), è un’interrogativa retorica che, mentre, da un lato suppone che non ci sia alcun motivo plausibile per non rendere gloria a Dio, dall’altro sollecita l’assunzione di un atteggiamento adeguato davanti a lui: il timore e il rendere gloria.
    Questi due atteggiamenti, che scaturiscono dalla libertà che Dio dona agli uomini e nella quale egli manifesta la sua grandezza, vengono poi sintetizzati nella proclamazione solenne della santità di Dio, nel riconoscimento della sua unicità come santo: 

    Tu solo sei santo.

     Dio non ha eguali, la sua azione lo attesta come unico.  Non ha fatto della sua unicità un privilegio, un motivo di distanza da noi; al contrario, la sua unicità, la sua santità, si è manifestata come capacità di condivisione della nostra umanità. 
    Non ha abolito la storia, non ha preteso di dominarla dall’alto e neppure se ne è assentato.  Vi è entrato nel modo della Pasqua (come Agnello) e ci ha aperto una via di libertà. 
    L’unicità di Dio, della sua santità, non è pertanto l’unicità di un solitario da contemplare, ma l’unicità di chi sa esprimersi in una modalità relazionale unica, quella che l’Agnello ha realizzato una volta per tutte, quella in cui egli si offre in tutta la sua disponibilità, nella totale assenza di qualsiasi forma di imposizione.  Questa è la permanente meraviglia suscitata dall’agire di Dio.
    La comunità cristiana, dunque, celebra la grazia del Signore che la riunisce da tutti i popoli, la fa vivere e la guida verso il compimento.  La memoria positiva e feconda della Chiesa che essa celebra è la relazione che le viene offerta dall’unico Santo, che si distende nelle opere, nelle vie e nei giudizi di Dio. 

    Significati per la nostra vita

    Il cantico si propone come chiave di lettura, come suggerimento di percorso per ritrovare il filo dell’azione di Dio nella storia, per recuperare le ragioni del proprio cammino
    La gratuità e l’universalità dell’amore di Dio sono il punto di partenza della storia della salvezza. 
    La comunità dei credenti deve rivelare l’uno e l’altro aspetto, muovendosi nella stessa direzione del Cristo. 
    L’amore disinteressato e universale della Chiesa trova la sua origine nella unicità della santità di Dio («Tu solo sei santo»), di cui la comunità è trasparenza storica.  Non solo: l’agire disponibile e gratuito di Dio è proteso a rendere partecipi tutti gli uomini della sua salvezza, di un cammino di riapertura ai significati e alla realizzazione della vita, venendo così a costruire una comunione, un grande raduno tra gli uomini («Tutte le nazioni verranno»).
    Il testo è un forte messaggio di consolazione
    Una consolazione fondata sulla certezza che la vittoria del Cristo crocifisso e risorto è una vittoria già avvenuta, definitiva, anche se non se ne vedono ancora tutte le conseguenze («I tuoi giusti giudizi si sono manifestati»). 
    E l’orientamento conseguente sta nel porsi di fronte alle vicende umane, che tuttora sembrano nelle mani delle forze distruttive, con un atteggiamento di fondamentale fiducia: il male sembra forte, ma in realtà è già sconfitto.
    Il cantico ci apre verso un futuro continuamente offerto da Dio, anche se spesso siamo indotti a soffermarsi sul lato drammatico, a scapito dello splendore dei momenti finali. 
    La tentazione non viene solo dal di fuori della comunità, ma anche e soprattutto dal di dentro.  L’invito è a mantenere un atteggiamento di costanza che comprende il fermo atteggiamento di fedeltà all’amore rivelato da Dio in Gesù Cristo: mantenerci fedeli al dono anche quando le possibilità di vita sembrano esaurirsiOccorre fare proprio lo stile della risposta di Dio al rifiuto del mondo: una risposta d’amore, che proprio di fronte al rifiuto esprime tutta la sua profondità e la sua ostinazione. 
    La solidità della fede in Cristo, messa alla prova dalle difficoltà esterne, si esprime particolarmente nell’obbedienza operante al suo insegnamento, in una fede che si lascia trascinare nel suo movimento d’amore e di solidarietà («Giuste e vere le tue vie»).  L’oggi della comunità si trova a essere qualificato come tempo di perseveranza nella fede e nell’amore.
    La vittoria che Dio offre non dice il prevalere di un gruppo sull’altro.  Lo stesso schema della guerra serve nel libro dell’Apocalisse a dare risalto alle tensioni drammatiche che, di fatto, segnano la nostra storia.  Tale vittoria ha modalità sorprendenti: è già del tutto decisa nella Pasqua di Gesù Cristo e continua a verificarsi tramite la testimonianza che viene resa a lui («o re delle nazioni»). 
    E’ la vittoria come libertà da ogni contraffazione, da ogni tentativo di falsificare o deturpare il volto della dignità delle persone. 
    E’ vittoria effettiva poiché la verità dell’amore non può essere strappata a chi la assume come criterio di vita e, nello stesso tempo, dona identità proprio mentre si è nella prova.
    E’ una vittoria che non si preoccupa di dire la propria affermazione di dominio o di possesso, ma unicamente di esprimersi attraverso una disponibilità gratuita e incondizionata per arricchire il crescere e il maturare dell’altroUna disponibilità a offrire continuamente libertà dalle strettoie di tutto ciò che soffoca e paralizza un cammino di autentica umanizzazione. 
    Proclamare la gloria del nome di Dio («Chi non glorificherà il tuo nome?»), lungi dal rappresentare un superamento dell’esistenza terrena di Gesù, relegandola nel passato, la propone come parola di perenne attualità per la Chiesa e per il mondo, la rivela quale indispensabile punto di riferimento perché gli uomini possano orientare la loro vita sulla strada della salvezza.
    La liturgia della Chiesa è il riconoscimento e la riconoscenza per ciò che Dio, l’unico Santo, ci rende fin d’ora disponibile dentro la trama complessa e talora contraddittoria e oscura della nostra storia.  La lode della Chiesa non è fuga, ma proclamazione di ciò che ci è donato come traccia di vita e per la vita («Grandi e mirabili sono le tue opere… giuste e vere le tue vie»).
    Una fede cristiana ristretta ad acclamazioni liturgiche e a celebrazioni rituali della gloria divina, ridotta a esperienze di entusiasmo o a spiritualità disincarnate, non può esprimere il vero culto cristiano.  La liturgia cristiana può essere partecipata e compresa solo da chi si lascia coinvolgere nell’azione di Dio che rigenera a libertà.  Una liturgia dissociata dall’ortoprassi cristiana non dice la santità di Dio.  Il Risorto non ci toglie dalla storia, ci immerge nel presente, collocandoci di fronte all’esigenza di un impegno concreto di obbedienza e di amore, invitandoci a comprendere che confessare la sua signoria, adorarlo come Figlio di Dio significa farsi suoi discepoli nella nuova prassi da lui proposta e sentirci continuamente preceduti, sorretti e motivati dalla sua fedeltà disponibile («o Signore Dio onnipotente … tu solo sei santo»).
    La liturgia ripresenta l’agire di Dio come parola di perenne attualità per la Chiesa e il mondo, lo rivela quale indispensabile punto di riferimento perché gli uomini possano orientare la loro vita sulla strada della salvezza. 

     Preghiera finale

     Sei grande, Signore,
    e meriti ogni lode;
    grande è la tua potenza,
    e la tua sapienza non ha limiti. 
    E vuole celebrare le tue lodi
    quella piccola parte della tua creazione
    che è l’uomo, che si porta dentro la sua precarietà,
    la testimonianza del suo peccato
    e della tua volontà di resistere ai superbi,
    e che tuttavia, piccola parte della tua creazione,
    vuol celebrare le tue lodi.
    Sei tu che susciti in lui questo desiderio,
    perché tu ci hai fatti per te
    e il nostro cuore non ha pace
    finché non riposa in te.
    Dammi, o Signore,
    di conoscere e capire se si debba prima conoscerti o celebrarti,
    prima conoscerti o invocarti. 
    Ma chi potrebbe invocarti senza prima conoscerti? (Sant’Agostino)

     Una testimonianza

     Ho 56 anni, sono sposata da 32, e ho due figli: Andrea di 31 anni e Alessandra di 28 anni.
    Il perno, il senso della mia vita è stato ed è Dio. Ci sono persone che sono state fondamentali per il mio “essere”: penso ai miei nonni, alla loro fede piena, senza riserve (un fiducioso abbandono nella Provvidenza!).
    Poi mia madre che, rimasta vedova quando avevo tre anni, mi ha insegnato a parlare al mio papà perché era vivo in cielo e ci avrebbe aiutato, essendo lui vicino a Gesù.
    La fanciullezza e poi l’adolescenza… (sempre casa, scuola e chiesa, ma non si chiedeva di più… non si sentiva la mancanza di “altre cose”). Poi l’incontro con il mio futuro marito. Al di là della simpatia, dell’attrazione, credo che ci siamo avvicinati prima di tutto perché condividevamo fede e ideali.
    Difficoltà ne abbiamo incontrate sia nel matrimonio (rapporto di coppia, convivenza con mia madre…) che nell’educazione dei figli (tutti e due purtroppo si sono allontanati dalla pratica religiosa).
    Ripenso ai veri eventi dolorosi: incidenti stradali dei figli, morte di persone care, della mia mamma.
    Sempre ho sentito la presenza del Signore; da sola non avrei avuto la forza di affronatre il dolore, di andare avanti, di ricominciare… di pazientare. Vivo abbastanza alla giornata, affidandomi a Dio. Sono quasi sempre serena ( a volte mi sembra di essere un po’ incosciente) e sinceramente ripenso poco al mio passato: ho imparato che nostalgie e rimpianti non servono, bisogna guardare avanti e camminare con il Signore. (Lucia) 

    Un testo dal magistero della Chiesa

     Lo Spirito santo conduce avanti attraverso i secoli il cammino della Chiesa e le impedisce di indugiare sulle mete raggiunte. Mentre la induce a guardare indietro nel passato, verso Gesù di Nazaret, in cui la rivelazione e la salvezza si sono copmpiute una volta per sempre, la fa guardare avanti verso il Signore risorto, che è il futuro del mondo e la novità ultima. La bimillenaria storia della Chiesa può essere considerata un grande esodo, misteriosamente guidato dallo Spirito di Dio, verso traguardi sempre nuovi, nella sostanziale continuità con le origini, malgrado le innumerevoli infedeltà personali dei credenti e le deformazioni della comunità. (Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, 485).

« Previous Entries    Next Entries »