• 01 Mar

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    Mostrami il tuo volto

     

    “Mostrami io tuo volto”: Mosè, l’amico di Dio, lui che parlava “faccia a faccia” con l’Altissimo, desidera contemplare nella sua pienezza il suo volto: “Mostrami la tua gloria”.
    18 Gli disse: «Mostrami la tua Gloria!». 19 Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia». 20 Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo».  21 Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22 quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. 23 Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».
    Nella condizione terrena non è possibile contemplare faccia a faccia la gloria di Dio. Fu privilegio di pochi contemplare il Cristo trasfigurato dal Tabor, ma avvolto da densa nube. A noi è possibile intravedere la gloria dell’Altissimo solo di rispecchio, nella penombra, ovvero nell’espressione biblica solo “di spalle”.
    Giovanni della Croce nella sua “Salita al monte Carmelo” annota: “La fede è sostanza delle cose che si sperano, e sebbene l’intendimento le colga con fermezza e certezza, non sono cose che si scoprono con l’intendimento perché, se le si scoprissero, non sarebbe fede. La quale sebbene faccia certo l’intendimento, non lo fa chiaro bensì oscuro” (1,II,6.2)
    Il nostro autore suggerisce dunque che la nostra esperienza di fede è una certezza oscura. Dio non lo si può catturare, restringere con i nostri normali procedimenti intellettivi usati per comprendere la realtà che ci circonda. Dio rimane sempre al-di-là (ganz-andere diceva Barth). Dio non si può né analizzare né sintetizzare, in quanto non può assolutamente essere ridotto ad un oggetto sperimentabile e speculativo fosse anche di tipo filosofico o teologico.
    Comprendiamo una cosa importante: Dio è realtà trascendente il mondo e noi stessi, Egli può essere scorto e riconosciuto sì anche dalla ragione ma soprattutto da quel senso interiore che è il dono della fede. Accetteremo che Egli rimanga sempre è comunque mistero che ci spinge all’umiltà e all’umile ricerca. In Giappone, a Kyoto precisamente in un fiabesco giardino shinto, sporgono dal terreno 15 obelischi. Essi sono disposti in modo tale che, da qualunque parte il visitatore si ponga, se ne vedono solo e sempre quattordici. Il significato del giardino è chiaro e profondo: la realtà non si esaurisce in quel che noi possiamo cogliere, catturare. E’ un’illusione crederlo. Ci sarà sempre una parte che non riusciremo a possedere.
    Dobbiamo entrare nel mistero di Dio come nel giardino di Kyoto, consapevoli che ancor più in questo caso, vi è un’infinita realtà che i nostri occhi non potranno mai carpire. Dio rimarrà inaccessibile e inespugnabile ad ogni prometeica pretesa di comprensione.
    La pretesa dell’uomo di catalogare Dio lo porta inevitabilmente a costruirsi idoli a sua immagine.
    Si racconta che vi era in Persia una città i cui abitanti erano tutti ciechi. Venne a passarvi un re con il suo esercito, e vi piantò le tende. A fare pompa del suo prestigio, metteva in mostra un grosso e imponente elefante.
    Venne alla gente il desiderio di accostare quell’elefante, di conoscere quel mostro. E molti di quei ciechi si recarono dall’elefante per rendersi conto, alla maniera dei ciechi della sua forma e figura. E non potendolo vedere con gli occhi, lo palparono con le mani.
    Chi gli toccò la proboscide, chi la coda, chi le zampe e così ognuno ne conobbe soltanto una parte. E ognuno se ne formò un’idea assurda, ognuno legò la sua mente a un’immagine fantastica.
    Quello a cui la mano era caduta sull’orecchio, interrogato dagli altri disse: “E’ una forma paurosa, ruvida e larga come un tappeto”. Quello che aveva toccato la proboscide disse: “L’ho conosciuto bene! E’ come un tubo vuoto, una cosa terribile, uno strumento di distruzione”.
    Colui che aveva toccato le zampe invece disse: “E’ come una colonna ben tornita”.
    Tutti avevano visto solo una parte e tutti avevano visto male. Così è degli uomini nei confronti di Dio. (Fiaba persiana).
    Di fronte all’insondabile profondità senza fondo dell’Assoluto, come Giobbe dovremmo porre una mano alla bocca e non proferir parola. La corrente teologica detta apofatica parte da tale presupposto. Qui la negazione di ogni affermazione e di ogni negazione significa che la trascendenza di Dio sfugge addirittura alla stessa nozione di trascendenza. Il rappresentante di questa corrente, Dionigi Aereopagita, in un testo un po’ sconcertante per le nostre orecchie dice: “Il mistero che è al di là di Dio stesso, l’Ineffabile, Colui che da tutto è nominato, l’affermazione totale, la negazione totale, l’al di là di ogni affermazione e di ogni negazione” (Nomi Divini 2,4).
    Dinanzi al mistero abbagliante l’atteggiamento  vero è l’umile contemplazione: la meraviglia, il silenzio.
    Questa contemplazione ci permette di cogliere un senso più profondo nelle cose, persone, noi stessi. La meditazione ci apre a un ascolto silenzioso della vita che lascia intravedere la presenza del Creatore.
    Si racconta che il grande scienziato e astronomo Newton disse un giorno: “Mi faccio spesso l’effetto di un bambino che gioca sulla spiaggia. Talvolta una conchiglia mi sembra più bella, una pietra più levigata del solito. Ma davanti a me, l’oceano della verità continua a fronteggiarmi, inesplorato”.
    Possiamo aggiungere l’esperienza di Agostino il grande ricercatore della verità. Nelle sue Confessioni scrive: “Che sei dunque Dio mio? Che altro, dimmi, se non il Signore Dio? Chi è infatti il Signore altri che il Signore nostro  , o chi è Dio altri che il Dio nostro? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo; lontanissmo e presentissimo; o bellissimo, o fortissimo, stabile ed incomprensibile, immutabile e muti tutte le cose; non mai nuovo, non mai vecchio e tutto rinnovi e a vecchiezza adduci i superbi ed essi non lo sanno; sempre in attività, sempre in quiete; raccogli e non hai bisogno, porti e riempi e proteggi; crei, nutri e rechi a compimento; cerchi e nulla ti manca. Ami senza passione, sei geloso senza turbamento, ti penti senza dolore, ti adiri nella tua tranquillità, cambi opere ma non disegno; riacquisti ciò che trovi e non l’avevi mai perduto; non mai povero, godi degli acquisti; non mai avaro eppure esigi ad usura; doniamo a te perché>é tu possa rendere,  nessuno ha cosa non tua; paghi e debiti e non sei debitore; condoni e debiti e nulla perdi. Che è mai quanto ho detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che cosa mai può dire uno quando parla di Te? Eppure guai a chi tace, perché quelli che di te  parlano sono muti”. (I,4).  

    Qual è il tuo nome?

     Conoscere una persona per il mondo biblico equivale a possederne il segreto del nome. Troviamo così, sia all’interno della Scrittura che nella Tradizione ebraica e cristiana, un profondo rispetto del “sém” di Dio. Nominare, chiamare, è in un certo senso possedere l’essenza della persona; per tal motivo JHWH sfugge ad ogni nome (cf Es, 3,14; Gn 32,30: Gdc 13,18). Il nome teofanico rivelato a Mosè non veniva mai pronunciato se non una volta all’anno, dal solo sommo sacerdote, all’interno del santo dei santi.
     “Io sono colui che sono”: Dio non rivela il suo nome, tuttavia rivela se stesso come l’Esistente, colui che è la vita e dà la vita. Pur nella sua trascendenza Dio assicura la sua presenza accanto all’uomo. Egli rimane dunque trascendente nella sua vicinanza, nascosto non come tenebra interdetta ma a causa della stessa intensità della sua luce.
    Questa distanza che permette all’amore e alla conoscenza di svilupparsi nella libertà. 

    “E’ apparsa la grazia di Dio”

     Dio si rivela per grazia, o per “follia d’amore” (Massimo Conf.). Per noi cristiani il mistero di Dio ha preso un Nome e un Volto: Gesù di Nazareth, il bambino nella mangiatoia, l’artigiano, il rabbì, il crocifisso. Egli è l’icona del Dio invisibile. “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio suo unigenito ce l’ha rivelato” (Gv 1); “Egli è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15a).
    Ma ciò non toglie che anche nei confronti del mistero stesso di Cristo dobbiamo ancora continuare a procedere a tentoni, riflettiamo sì la gloria di Dio trasfusa nei nostri cuori dallo Spirito del risorto, purtuttavia questa gloria e riflessa confusamente come, direbbe Paolo, in un specchio” (2Cor 3,18).
    Gli apostoli entrarono nel mistero di Cristo faticosamente(cf il Tabor), sempre le loro attese furono disilluse: Gesù prospettava loro di continuare a camminare senza stancarsi avendo come punto di arrivo la rivelazione scandalosa del Calvario, dinanzi alla quale tutti fuggirono.
    Questa rivelazione del mistero che si attua sulla croce ci sbalordisce ancor più, e ancor più ci cala in un silenzio adorante e contemplativo. Ancora una volta il mistero sfugge alla comprensione, all’analisi e alla sintesi. Dio è ancora al-di-là in una nube oscura (Tenebrae factae sunt).
    “In Cristo il mistero è nello stesso tempo svelato e velato. Poiché si rivela nel Crocifisso il Dio inaccessibile è con ciò stesso un Dio nascosto, incomprensibile, che sconvolge le nostre definizioni e le nostre attese. Il vero approccio “apofatico” (L’apofasi indica la salita verso il mistero) non consiste soltanto, come spesso si immagina, nella teologia negativa: questa non ha altro scopo che di aprirci ad un incontro, ad una rivelazione, ed è questa stessa rivelazione, ove la gloria è inseparabile dalla kenosi, ad essere propriamente impensabile. L’apofasi sta dunque nell’antinomia, nella dilacerata identità dell’Abisso e della Croce, del Dio inaccessibile e dell’uomo dei dolori, manifestazione quasi folle dell’amore di Dio per l’uomo, sollecitazione umile e discreta del nostro proprio amore” (O. Clement).
    Non siamo dunque chiamati ad una certezza di tipo solo e anzitutto raziocinante. Ma ad una conoscenza dettata dalla contemplazione e dall’amore. Dionigi Aereopagita parlerà di un “raggio tenebroso”, di una “oscura certezza”, la certezza della fede. “Accogliendo la luce della verità come attraverso una feritoia, tutto nelle anime sembra allargarsi” (Gregorio Naz) 

    Analogie-vestigia-simboli

     La sacra scrittura usa numerose immagini e simboli per parlarci di Dio e della sua presenza: fuoco, luce, tempeste, tuoni, avvenimenti…
    Anche nel nostro cammino possiamo ritrovare molte “impronte” lasciate dal sigillo di Dio.
    Un mistico dell’Islam, Husayn Al-Hallay (875-922) descrive in poesia la sua esperienza: “La tua immagine è nel mio occhio, il tuo ricordo sul mio labbro, la tua dimora nel mio cuore: ma dunque, dove ti nascondi?”.
    Anzitutto in noi stessi. Abbiamo sete di vita, di conoscenza, di infinito, siamo sempre alla ricerca di senso, di significato, di uno scopo. Tutto questo è uno “sprazzo di divinità” (Clement) che ci trasporta, ci attira, ci “lavora”, ci impedisce di identificarci totalmente con la terra di cui siamo impastati. Tutto questo ci apre ad una presenza dello Spirito in noi che ci chiama. Questo “senza fondo” del cuore dell’uomo è l’impronta lasciata dal sigillo del Creatore.
    Ne deduciamo che un luogo privilegiato per scoprire Dio è guardare dentro di noi, alla domanda che è in noi, la nostra perenne insoddisfazione che ci rimanda sempre al di là.
    Siamo inoltre chiamati a guardare e a scoprire Dio nella realtà che ci circonda, nella bellezza maestosa, armoniosa della creazione. Dietro alla bellezza e all’armonia dei cieli stellati deve esistere “la” Bellezza, “l’Armonia, “La” Vita.
    Una bellissima poesia di Valverde canta, o meglio, prega così:
    “Tu ci dai il mondo perché lo gustiamo.
    Tu ce lo offri perché lo facciamo parola.
    Tu non hai fatto la tua parola per affogarla nel silenzio,
    nel silenzio fuggevole della gente affannata,
    solo per viverla senza fermarsi a contemplarla…
    Se noi non esistessimo, perché tante cose inutili e belle Dio avrebbe creato,
    tanti tramonti rossi e tanti alberi senza frutti,
    e tanti fiori e uccelli vagabondi?
    Soltanto noi percepiamo il tuo regalo,
    e te ne ringraziamo con estasi di gioia.
    Tu sorridi, Signore, sentendoti appagato
    per la nostra adorazione di venerazione e di meraviglia”.

     Così andiamo salendo dalle creature al Creatore, dagli effetti alla causa, ma sempre per una via oscura, condotti per mano da analogie e deduzioni, a tentoni, tra penombre, verso la fede (Larranaga). 

    Testi

     Es 33,18-23
    Gb  37,14-24
    Sl 8
    Col 1,15-20

     

    sintesi di Larranaga, Mostrami il tuo volto, Ancora 

    Posted by attilio @ 17:17

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