• 31 Ago

    Gli effetti della preghiera

    Alexis Carrel (1941)

     

    In questo testo, tratto dal suo libro La preghiera (1941), il medico e biologo francese Alexis Carrell (1873-1944), vincitore del premio Nobel per la medicina nel 1912, spiega la necessità, quasi fisiologica, che l’essere umano ha di pregare. Con l’esercizio e la costanza nel pregare l’uomo stesso “fiorisce” nella sua personalità; si producono in lui cambiamenti e atteggiamenti che lo fortificano e lo sollevano al di sopra della proprie capacità. “Non dobbiamo vedere la preghiera come un atto ai quale si affidano solo i deboli di spirito, i mendicanti, o i vigliacchi”, afferma lo scienziato. E citando la frase di Nietzsche secondo cui sarebbe vergognoso pregare, Carrel segnala che, “in realtà, pregare non è più vergognoso di quanto sia vergognoso bere o respirare. L’uomo ha bisogno di Dio come ha bisogno di acqua e di ossigeno”.

     

    La preghiera è sempre seguita da un risultato, se è fatta in condizioni convenienti. «Nessun uomo ha mai pregato senza imparare qualche cosa», scriveva Ralph Waldo Emerson. Tuttavia la preghiera è considerata dagli uomini moderni un’abitudine caduta in disuso, una vana superstizione, un resto di barbarie.

    In verità noi ignoriamo quasi completamente i suoi effetti. Quali sono le cause della nostra ignoranza? Innanzitutto, la scarsezza della preghiera. Il senso sacro è sulla via di scomparire presso gli uomini civili. È probabile che il numero dei Francesi che pregano abitualmente non oltrepassi il quattro o il cinque per cento della popolazione. In secondo luogo, la preghiera è spesso sterile. Poiché la maggior parte di coloro che pregano sono egoisti, bugiardi, orgogliosi, farisei incapaci di fede e d’amore. Infine gi effetti della preghiera, quando si producono, spesso, ci sfuggono. La risposta alle nostre domande e al nostro amore vien data abitualmente in modo lento, insensibile, quasi non udibile. La piccola voce che sussurra questa risposta nel fondo di noi stessi vien facilmente soffocata dai rumori del mondo. I risultati materiali della preghiera sono anch’essi oscuri. Si confondono generalmente con altri fenomeni. Ben pochi uomini, anche fra i sacerdoti, hanno dunque l’occasione di osservarli in modo preciso. E i medici, per deficienza di interesse, lasciano spesso passare, senza studiarli, i casi che sono alla loro portata. Inoltre, gli osservatori sono spesso sviati dal fatto che la risposta è ben lungi dall’essere sempre quella che si attendeva. Per esempio, chi domanda d’esser guarito di una malattia organica resta ammalato, ma subisce una profonda e inesplicabile trasformazione morale. Tuttavia, l’abitudine della preghiera, sebbene sia eccezionale nell’insieme della popolazione, e relativamente frequente nei gruppi rimasti fedeli alla religione degli avi. In tali gruppi è possibile ancora oggi studiare la influenza della preghiera. E, fra gli innumerevoli effetti di essa, il medico ha soprattutto l’occasione di osservare quelli che si chiamano psicofisiologici e curativi.

    La preghiera agisce sullo spirito e sul corpo in un modo che sembra dipendere dalla sua qualità, dalla sua intensità, dalla sua frequenza. È facile conoscere qual è la frequenza della preghiera e, in una certa misura, la sua intensità. La sua qualità, invece, resta sconosciuta, perché noi non abbiamo il mezzo di misurare la fede e la capacità di amore degli altri. Tuttavia, il modo di vivere di colui che prega può illuminarci sulla qualità delle invocazioni che egli innalza a Dio. La preghiera, perfino quando è di debole valore e consiste soprattutto nella recitazione macchinale di formule, esercita un effetto sulla condotta. Essa fortifica nello stesso tempo il senso sacro e il senso morale. Gli ambienti nel quali si prega sono caratterizzati da una certa persistenza del senso del dovere e della responsabilità, da una minor gelosia e malvagità, da qualche bontà nei rapporti col prossimo. Sembra dimostrato che, a parità di sviluppo intellettuale, il carattere e il valore morale sono più elevati negli individui che pregano, anche in modo mediocre, che in quelli che non pregano.

    Quando la preghiera è abituale e veramente fervente, la sua influenza si fa chiarissima. Essa è in certo modo paragonabile a quella di una ghiandola secrezione interna, come la tiroide o la ghiandola surrenale, per esempio. Essa consiste in una sorta di trasformazione mentale organica. Tale trasformazione si compie progressivamente. Si direbbe che nella profondità della coscienza s’accenda una fiamma. L’uomo si vede così com’è. Scopre il suo egoismo, la sua cupidigia, i suoi errori di giudizio, il suo orgoglio; si piega all’adempimento del dovere morale; tenta di acquistare l’umiltà intellettuale. Così gli si apre dinanzi il regno della Grazia… A poco a poco si produce una pacificazione interiore, un’armonia delle attività nervose e morali, una maggiore resistenza alla povertà, alla calunnia, alle preoccupazioni, la capacità di sopportare, senza accasciarsi, la perdita delle persone care, il dolore, la malattia, la morte. Così il medico, che vede un malato mettersi a pregare, può rallegrarsi. La calma generata dalla preghiera è un aiuto potente alla terapeutica.

    Tuttavia la preghiera non dev’essere paragonata alla morfina. Poiché essa determina, insieme con la calma, una integrazione delle attività mentali, una specie di fioritura della personalità. Talvolta l’eroismo. Essa imprime nei suoi fedeli un sigillo particolare. La purezza dello sguardo, la tranquillità del contegno, la gioia serena dell’espressione, la virilità della condotta e, quando è necessario, la semplice accettazione della morte del soldato o del martire, rivelano la presenza del tesoro nascosto nei fondo degli organi e dello spirito. Sotto quest’influenza anche gli ignoranti, i tardi, i deboli, i poco dotati utilizzano meglio le loro forze intellettuali e morali. La preghiera — come pare — solleva gli uomini al di sopra della statura mentale loro propria per eredità o per educazione.

    Dio li ricolma di pace. E pace si irradia da loro. E pace essi portano dovunque vadano. Disgraziatamente non c’è ora nel mondo che un minimo numero d’individui che sappiano realmente pregare.

    Sono gli effetti curativi della preghiera che, in tutte le epoche, hanno principalmente attirato l’attenzione degli uomini. Oggi ancora, negli ambienti in cui si prega, si parla molto spesso di guarigioni ottenute per effetto di suppliche indirizzate a Dio o ai suoi Santi. Ma quando si tratta di malattie suscettibili di guarire spontaneamente o con l’ausilio delle cure ordinarie, è difficile sapere quale sia stato il reale agente della guarigione. Solo nei casi nei quali qualsiasi terapeutica è inapplicabile, o fallita, i risultati della preghiera possono essere sicuramente constatati. L’ufficio medico di Lourdes ha reso un grande servizio alla scienza dimostrando la realtà di queste guarigioni. La preghiera ha talvolta un effetto, per così dire, esplosivo. Vi sono malati che sono stati guariti quasi istantaneamente di affezioni come il lupus al viso, il cancro, le infezioni renali, le ulceri, la tubercolosi polmonare, ossea o peritoneale. Il fenomeno si produce quasi sempre nello stesso modo. Un grande dolore. Poi il senso d’esser guariti. In alcuni secondi, o tutt’al più in alcune ore, i sintomi scompaiono, e le lesioni anatomiche si rimarginano. Il miracolo è caratterizzato da una accelerazione estrema dei processi normali di guarigione. Mai una simile accelerazione è stata osservata finora nel corso delle loro esperienze dai chirurghi e dai fisiologi.

    Perché questi fenomeni si producano, non c’è bisogno che preghi il malato. Bambini, ancora incapaci di parlare, e non credenti sono stati guariti a Lourdes. Ma, al loro fianco, qualcuno pregava. La preghiera fatta per altri è sempre più feconda di quella fatta per se stessi. Dall’intensità e dalla qualità sembra dipenda l’effetto della preghiera. A Lourdes, i miracoli sono molto meno frequenti di quanto fossero quaranta o cinquant’anni fa. Gli è che i malati non vi trovano più l’atmosfera di profondo raccoglimento che vi regnava un tempo. I pellegrini sono divenuti turisti e le loro preghiere sono divenute inefficaci.

    Tali sono i risultati della preghiera dei quali io ho una sicura conoscenza. Accanto ad essi ce n’è una moltitudine di altri. La storia dei Santi, anche moderni, ci riferisce molti fatti meravigliosi. E non c’è dubbio che la maggior parte dei miracoli attribuiti, per esempio, al Curato d’Ars, siano veri. Quest’insieme di fenomeni ci introduce in un mondo nuovo, l’esplorazione del quale non è ancora cominciata e sarà feconda di sorprese. Quel che noi già sappiamo chiaramente è che la preghiera produce effetti tangibili. Per quanto strano ciò possa apparire, noi dobbiamo considerare vero che chi domanda riceve e che a chi batte viene aperto.

    Insomma, tutto accade come se Dio ascoltasse l’uomo e gli rispondesse. Gli effetti della preghiera non sono un’illusione. Non bisogna ridurre il senso sacro all’angoscia dell’uomo davanti ai pericoli che lo circondano e davanti al mistero dell’universo. Né bisogna fare unicamente della preghiera una pozione calmante, un rimedio contro la nostra paura della sofferenza, della malattie della morte. Qual è dunque il significato del senso sacro? E quale posto assegna la natura stessa alla preghiera nella nostra vita? In realtà è un posto molto importante. In tutte le epoche gli uomini dell’Occidente hanno pregato. La Città antica era principalmente una istituzione religiosa. I Romani innalzavano templi ovunque. I nostri antenati dei Medio Evo coprivano di cattedrali e di cappelle gotiche il suolo della Cristianità. E ai nostri giorni ancora, al di sopra di ogni villaggio s’innalza un campanile. Con le chiese, come con le università e le officine, i pellegrini venuti dall’Europa instaurarono nel Nuovo Mondo la civiltà occidentale. Nel corso della nostra storia pregare è stato un bisogno elementare come quello di conquistare, di lavorare, di costruire o di amare. In verità il senso sacro sembra essere un impulso proveniente dal più profondo della nostra natura, un’attività fondamentale. Le sue variazioni in un gruppo umano sono quasi sempre legate a quelle di altre attività basilari, il senso morale e il carattere, e talora il senso estetico. Ma proprio a questa parte tanto importante di noi stessi noi abbiamo permesso di atrofizzarsi e spesso di scomparire.

    Bisogna ricordare che l’uomo non può, senza pericolo, comportarsi secondo il piacere della propria fantasia. Per riuscire, la vita dev’essere guidata da regole invariabili che dipendono dalla sua stessa struttura. Noi corriamo un grave rischio, quando lasciamo morire in noi qualche attività fondamentale, sia essa d’ordine fisiologico, intellettuale o spirituale. Per esempio, la deficienza di sviluppo dei muscoli, dello scheletro e delle attività non razionali dello spirito in certi intellettuali è disastrosa quanto l’atrofia dell’intelligenza e del senso morale in certi atleti. Ci sono innumerevoli esempi di famiglie prolifiche e forti, le quali non produssero che dei degenerati o si estinsero, dopo la scomparsa delle credenze ataviche e del culto dell’onore.

    Noi abbiamo imparato, attraverso una dura esperienza, che la perdita del senso morale e dei senso sacro nella maggioranza degli elementi attivi di una nazione porta alla decadenza di essa e al suo asservimento allo straniero. La caduta della Grecia antica fu preceduta da un fenomeno analogo. È evidentissimo che la soppressione delle attività mentali volute dalla natura è incompatibile con la riuscita della vita.

    In pratica, le attività morali e religiose sono legate le une alle altre. Il senso morale svanisce poco dopo il senso sacro. L’uomo non è riuscito a costruire, come voleva Socrate, un sistema di morale indipendente da ogni dottrina religiosa. Le società nelle quali scompare il bisogno di pregare generalmente non sono lontane dal processo di degenerazione. Per questo appunto tutti gli uomini civili — increduli o credenti allo stesso modo — devono interessarsi a questo grave problema dello sviluppo di ciascuna attività basilare di cui l’essere umano è capace.

    Per quale ragione il senso sacro ha una funzione molto importante nella riuscita della vita? Per mezzo di quale meccanismo la preghiera agisce su di noi? Qui noi lasciamo il dominio dell’osservazione per quello dell’ipotesi. Ma l’ipotesi, sia pure audace, è necessaria al progresso della conoscenza. Bisogna che ci ricordiamo un primo luogo che l’uomo e un tutto indivisibile, composto di tessuti, di liquidi organici e di coscienza. Esso non è dunque compreso interamente nelle quattro dimensioni dello spazio e del tempo. La coscienza, infatti, se pur risiede nei nostri organi, si prolunga nello stesso tempo al di là della continuità fisica. D’altra parte il corpo vivente, che ci sembra indipendente dal suo ambiente materiale, cioè dall’universo fisico è, in realtà, inseparabile da esso. Infatti è intimamente legato a tale ambiente dal suo bisogno incessante dell’ossigeno, dell’aria e degli elementi che la terra gli fornisce. E non ci è permesso di credere che siamo immersi in una atmosfera spirituale, della quale non possiamo fare a meno più che non possiamo fare a meno dell’universo materiale, della terra, cioè, e dell’aria? Quest’atmosfera null’altro sarebbe che l’essere il quale è immanente in tutti gli esseri e che tutti li trascende, quello cioè che noi chiamiamo Dio. La preghiera potrebbe dunque essere considerata è come l’agente delle relazioni naturali fra la coscienza e il suo proprio ambiente. Come una attività biologica dipendente dalla nostra struttura. In altri termini come una funzione normale del nostro corpo e del nostro spirito.

    Riassumendo, il senso sacro riveste, in rapporto alle altre attività dello spirito, una importanza singolare. Poiché ci mette in comunicazione con l’immensità misteriosa del mondo spirituale. Per mezzo della preghiera l’uomo va a Dio e Dio entra in lui. Pregare appare cosa indispensabile al nostro sviluppo totale. Non dobbiamo vedere la preghiera come un atto ai quale si affidano solo i deboli di spirito, i mendicanti, o i vigliacchi. «È  vergognoso pregare » scriveva Nietzsche. In realtà pregare non è più vergognoso di quanto sia vergognoso bere o respirare. L’uomo ha bisogno di Dio come ha bisogno di acqua e di ossigeno. Congiunto con l’intuizione, coi senso morale, col senso estetico e con la luce dell’intelligenza, il senso sacro fa sì che la personalità possa pienamente sbocciare. Non c’è dubbio che la riuscita della vita richieda lo sviluppo integrale di ciascuna delle nostre attività fisiologiche, intellettuali, affettive e spirituali. Lo spirito è nello stesso tempo ragione e sentimento. È necessario dunque amare la bellezza di Dio. Noi dobbiamo ascoltare Pascal con lo stesso fervore con quale ascoltiamo Cartesio.

    da A. Carrel, La Preghiera, Morcelliana, Brescia, 1986, pp. 28-44.

     

  • 28 Ago

    SOLIDARIETA’: ESSERE IN RELAZIONE

     a cura di p. attilio f. fabris

    Se accostandoci al nostro mistero ci siamo scoperti soli, limitati, nel medesimo tempo avvertiamo una grande forza, un bisogno, che ci spinge a porci in relazione: il bisogno di relazione deriva dall’essenza e dalla coscienza del nostro essere persone umane.

    Siamo creati ad immagine di Dio e Dio è relazione trinitaria. La Gaudium et Spes afferma al n. 12: L’uomo, per sua intima natura, è un essere sociale e senza rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti.

    L’apertura agli altri è connaturale, stabilire e allacciare legami con gli altri risponde alla nostra natura; formare il “noi”, ovvero la comunità, è una delle nostre aspirazioni essenziali. Nessuna è un’isola autosufficiente, tutti abbiamo bisogno di relazione per completarci

    Come entrare in relazione, con quale atteggiamento? Anzitutto porsi nella percezione dell’altro come “mistero”. L’altro è un Tu differente da me, che mi sta dinanzi e mi interpella. Io non sono un oggetto per il tu e neppure il tu lo deve essere per me.

    Dall’incontro di due misteri nasce la tensione alla comunione. Per essere autentica deve sempre rispettare la soglia di “solitudine” che è il centro dell’altro. Occorre perciò riconoscere nell’altro un nucleo incomunicabile. Questo limite certo comporta sofferenza, ma senza di esso vi sarebbe fusione confusa, non ci sarebbe né un Io né un Tu.

    Il fatto che l’altro resti altro fa scattare altri atteggiamenti: innanzitutto il rispetto e l’accoglienza non giudicante. Non ne desidero l’assorbimento, la fusione che indicherebbe patologia. La vera relazione è integrazione, incontro, di due persone.

    L’intimità nasce sempre da questo tipo di incontro: essa non pone l’accento né sull’uno né sull’altro, è indipendente. Diviene clima, atmosfera di fiducia, accoglienza incondizionata.

    E dove c’è incontro c’è amore, e dove vi è amore vi è Dio.

    AD IMMAGINE DELLA TRINITA’

     Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. Ad immagine e somiglianza della vita trinitaria.

    Possiamo affermare che l’uomo trova la sua metafisica, il suo fondamento, nella teologia trinitaria. E’ l’uomo trinitario, non chiuso in se stesso come in occidente, e neppure l’uomo che viene assorbito, fuso, o nei totalitarismi o nelle mistiche orientali. L’”uomo trinitario” è perciò per natura essere in relazione. Questo passaggio dalla comunione divina a quella umana si è attuata in Cristo, nel suo comandamento, per il dono dello Spirito, poiché nella Pentecoste avviene il miracolo dell’unità nella diversità.

    Il mistero della persona e della comunità deve far riferimento al mistero trinitario.

    Nella Trinità ogni Persona è relazione sussistente, ovvero pura relazione. Nella Trinità ciascuna persona è pienamente se stessa senza confusione in perfetta relazione.

    Questa relazione fa delle persone divine una comune-unità.

    Tutto in comune senza perdere nulla di se stesse. Non esiste confusione, fusione, ma passaggio di amore perfetto tra l’una e l’altra.

    Questo deve divenire punto di riferimento per la nostra vita. Dare tutto restando noi stessi. Nella Trinità ogni persona è dono di sé, un dono che viene comunicato all’uomo rendendolo capace di comunione nonostante il peccato.

    A nostra volta realizziamo ricevendo dall’altro, sia donando all’altro.

    Un Dio solitario non sarebbe l’Amore senza limiti. Un Dio dualizzato sarebbe l’origine di una cattiva molteplicità che deve alla fine essere riassorbita. La trinità è la pienezza dell’unita nella comunione molteplice. L’unità- trinitaria indica l’infinito superamento dell’opposizone come della solitudine. Ciascuna persona divina contiene l’unità mediante la sua relazione alle altre, non meno che per la sua relazione con se stessa (s. Giovanni Damasceno).

    Il nostro vivere la relazione allora è sorretto dalla solidarietà, che è corresponsabilità e interdipendenza gli uni nei confronti degli altri.

    Ancora la GS al n. 24 dice: L’uomo, la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso in terra, non può ritrovarsi pienamente, se non attraverso un dono sincero di sé.

    “Se noi possiamo amare è perché rispondiamo all’amore di Dio. Dio ci ama per primo. L’amore si incarna e viene a noi in Gesù, lo Spirito santo è questo amore che si effonde nei nostri cuori. Così noi amiamo Dio per mezzo di Dio, lo spirito ci rende partecipi dell’amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio il Padre. L’amore ci getta negli spazi trinitari, gli spazi trinitari sono gli spazi dell’amore” (O. Clement)

  • 27 Ago

    La ricetta del Regno:
    pochi semi di senapa e un po’ di lievito

    Lectio di Mt 13,31-33

     

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il piccolo Giacomino, protagonista della fiaba “Il fagiolo magico” di Richard Walker, mentre era in cammino verso la fiera del paese scambiò con uno sconosciuto l’unica grossa mucca della madre con un… insignificante e piccolo fagiolo. Tornato a casa…beh! la mamma non ne fu affatto contenta, e il bambino ricevette dalla mamma solo botte e un sentirsi mandare subito a letto senza cena, cosa che fece a malincuore ma solo dopo aver seminato di nascosto il misterioso piccolo fagiolo. Quale stupore quando al mattino madre e figlio videro che l’insignificante piccolo seme era divenuto un’altissima pianta che permise a Giacomino di scalare il cielo fino alle nuvole dove trovò un grande palazzo con grandi ricchezze che fece la loro felicità per sempre.

    Solo agli occhi del piccolo Giacomino il piccolo fagiolo poteva valere più di una grossa mucca! Ma “i grandi”, lo sappiamo bene, hanno a proposito criteri di misura diversi, sono impossibilitati a scorgere i misteri racchiusi nell’arcano e banale fagiolo. I grandi sono abbagliati dalle cose grosse, e più sono smisurate più ad essi piacciono.

    Non è dello stesso avviso Gesù che nel vangelo benedice il Padre perché ai suoi discepoli se si faranno piccoli sarà dato di introdursi alle strane prospettive di valutazione del Regno così simili a quelle del piccolo Giacomino: In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25).

    Solo ciò che è piccolo può essere offerto e non imposto, solo ciò che è povero può essere accolto o rifiutato in tutta libertà, solo ciò che è insignificante può essere riconosciuto come dono d’amore e accolto con gioia. Il Verbo onnipotente di Dio non si è presentato al mondo nella potenza della sua gloria divina, ha scelto invece per amore la strada della piccolezza, della povertà, dell’insignificanza per annunciare il Regno: si è fatto piccolo come un bambino, ha scelto per compagni un gruppetto di gente che non contava, è morto sconfitto. Sepolto nella terra, come un pizzico di lievito nella pasta. E questo perché tutto fosse posto sotto l’insegna del dono che si offre nella gratuità più grande. Vieni o Spirito santo, donaci occhi e cuore di bambini, come quelli di Gesù che si è fatto il più piccolo di tutti noi, affinché possiamo scorgere in lui la presenza feconda del Regno nella sua Chiesa spesso umiliata, e in tutte quelle piccole realtà che pur non facendo rumore e non imponendosi con la forza, i sondaggi e la pubblicità, seminano nel silenzio e nel nascondimento piccoli semi di fede, speranza e carità nei solchi di questa nostra storia così spesso incantata solo da ciò che più appare e grida più forte. E fa’ o Spirito santo che questa umile semina sia accompagnata in noi dalla grande speranza che il tuo Regno avanza nella storia e la conquista con la forza dell’amore!

     Lectio

     Le parabole evangeliche che parlano del Regno di Dio sono state pronunciate da Gesù in un contesto di precise attese messianiche da parte del popolo giudaico. Queste attese avevano come comun denominatore il presupposto che il regno di Dio si sarebbe manifestato con gloria e potenza, e che esso avrebbe soprattutto conciso con il giudizio e la separazione definitiva dei buoni dai cattivi, del bene dal male, ovvero con il trionfo definitivo di JHWH su tutti i popoli della terra e su ogni forma di ingiustizia e di male. Di questo tipo di attesa è testimone anche Giovanni il Battezzatore con la sua violenta predicazione profetica di stile apocalittico (cfr Mt 3, 10ss).

    Ma sia la predicazione di Gesù che le sue scelte di vita furono per tutti coloro che vedevano e speravano in lui l’atteso “messia” furono una doccia fredda: in lui non è presente nessuna aspirazione alla gloria, né alla potenza di nessun tipo, non opera alcun giudizio di separazione nei confronti dei peccatori e dei “lontani”: anzi sembra preferirli agli osservanti e ligi farisei.  Il Regno che Gesù annuncia sin dall’inizio della sua predicazione e che costituisce il suo nocciolo delude e scandalizza i più. Tra questi anche il Battista rinchiuso in attesa di giudizio nel carcere del Macheronte (cfr Lc 7,19; 24,21).

    Ma come Gesù contempla e annuncia il mistero del Regno di Dio? Il Regno, ovvero la signoria di Dio nel mondo per lui è realtà già presente nella storia. E così che egli apre la sua predicazione:Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15)   Ma lo è con caratteristiche che non corrispondono alle attese umane: il Regno, presente in  Gesù stesso, è presenza umile, piccola, che si propone e non si impone, solo i piccoli sono abilitati a riconoscerla e ad accoglierla (cfr Lc 9,48). I grandi invece sono ciechi e sordi perché ricercano il regno di Dio altrove, secondo i loro criteri di giudizio e di misurazione (cfr Mt 13,15)!

     Nel vangelo di Matteo troviamo una serie di brevi parabole con le quali Gesù offre ai suoi ascoltatori una profonda catechesi sulla realtà e le modalità di presenza e di azione del Regno di Dio. Tra queste troviamo le due similitudini del granellino di senape e del lievito nella pasta (13,33-35).

    Gesù paragona la presenza del Regno di Dio nel mondo al seme di senape che è ancor più piccolo di una capocchia di spillo, ma che, cresciuto può diventare una pianta alta più di quattro metri. In Matteo troviamo due piccole differenze che lo contraddistinguono degli altri due sinottici. La prima è che il granello di senape non è seminato dal contadino in una generica “terra” ma “nel suo campo”. Per Matteo il mondo è il campo di Dio in cui viene seminato il piccolo granello del Regno e dove è destinato a crescere. La seconda differenza è che gli uccelli del cielo non vengono solo a rifugiarsi all’ombra dei rami dell’albero ormai cresciuto, ma anche a “nidificare” su di essi trovando l’ambiente ideale dove vivere e crescere nella benedizione di Dio. Questi uccelli forse rappresentano tutti i popoli della terra che Isaia vede radunarsi nei tempi messianici nella città santa (cfr Is 63) e che ora convergono nella Chiesa nuova Sion. Questa immagine dell’albero su cui si rifugiano svariati uccelli probabilmente è ripresa da Ez 17,22-23: “Così parla il Signore Dio: io prenderò dalla cima del grande cedro un tenero ramoscello… Io stesso lo pianterò su un monte alto ed eminente. Lo pianterò sull’alto monte di Israele ed emetterà fronde e produrrà frutti; diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui prenderà dimora ogni specie di uccelli; ogni specie di volatili riposerà all’ombra dei suoi rami”.

    Il centro di attenzione della parabola è tutto rivolto al seme, alla sua apparente insignificanza iniziale e successivamente alla straordinaria grandezza della pianta che da esso si sviluppa (“il più piccoloil più grande”). Ma occorre fare attenzione al fatto che il Regno non è rappresentato dalla piccolezza del seme bensì dalla storia del seme, dal suo inaspettato sviluppo. Il risultato finale fa comprendere il valore, l’energia che il piccolissimo seme già nascostamente possiede in se stesso fin dal suo inizio. Il contrasto operato dalla parabola tra l’inizio e il finale non implica assolutamente una “rottura”, o una “sostituzione” tra seme e albero, c’è una continuità. Gesù non vuole consolare i discepoli per l’esperienza che fanno di essere pochi, in minoranza,  promettendo un futuro di gloria nel quale la sorte si capovolgerà. Non è questo il suo messaggio, bensì quello di aiutarci ad accogliere senza scandalizzarci la piccolezza del seme nella certezza che esso contiene già in sé, anche se nascosta, tutta la fecondità e la forza dirompente del Regno di Dio. Gesù stesso sperimenterà sulla croce, nella sua carne, questa estrema debolezza e piccolezza. Allora l’albero che cresce a dismisura sarà quello della croce di cui i frutti sono la grazia e la misericordia di Dio per il mondo intero..

    Ma veniamo alla seconda similitudine. Una buona massaia mischia alla sua pasta un po’ di lievito perché tutta essa possa per poi farne del pane fragrante. In genere il lievito nel nuovo testamento ha una valenza negativa in quanto è impuro non essendo altro che farina imputridita: così basta un po’ di male per rovinare una grande quantità di bene (cfr 1Cor 5,7-8; Gal 5,7-10; Mt 16,6-12).  Ma qui l’immagine è rovesciata: anche il bene, benché possa sembrare “poco” e insignificante, anzi addirittura nascosto, è estremamente contagioso.

    Il verbo usato per descrivere l’azione della donna è “nascondere”. Il lievito è nascosto all’occhio ansioso che vorrebbe vederne subito i risultati, ovvero la presenza del Regno è nascosta, velata all’occhio desideroso di chi vorrebbero subito vederlo “qui o là”: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17,21).  Il racconto contiene in sé anche un aspetto paradossale: la nostra buona massaia impasta con un po’ di lievito “tre staie” di farina che equivalgono a ben quaranta chili. Nessuna donna ne impasterebbe tanta! E per farla lievitare non basterebbe certamente un pizzico di lievito! Ma il paradosso è appositamente voluto perché ha valore teologico non… ricettario. Lo stupore è dato proprio dal fatto che una misura tanto piccola di lievito possa provocare una reazione tanto grande. Ma anche qui l’immagine di una lievitazione così smisurata non va letta come fosse una promessa di una progressiva e totale “cristianizzazione” del mondo. In questo senso il messaggio non è diverso dalla similitudine del “sale” (cfr Mt 5,13) e della “luce” (cfr Mt 5,14): non è volontà di Dio che il mondo diventi d’un colpo un’enorme saliera o una grande lampadina! Ancora una volta non si tratta di un discorso consolatorio consegnato ad un gruppo sparuto che ha bisogno di essere incoraggiato. La finalità del discorso di Gesù è di rivelazione, prima che essere una esortazione di tipo  morale e dunque il messaggio della parabola vuole semplicemente esprimere quale debba essere la funzione del Regno nel mondo e la modalità attraverso la quale esso deve agire.  Una rivelazione che ricorda alla Chiesa che in germe il regno di Dio è già presente in lei nella storia, perché in essa è sempre presente il Cristo suo sposo. Sant’Ambrogio afferma: “Ubi Christus ibi Regnum” dove è Cristo lì c’è il Regno. Di conseguenza anche la sposa deve accettare la modalità evangelica dell’instaurarsi del Regno che passa attraverso la fecondità nascosta del mistero pasquale: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).

    Dalle due similitudini la piccola comunità dei discepoli apprende la lezione fondamentale che l’aiuterà lungo la storia ad evitare due pericoli: quello di identificare sin d’ora se stessa con il Regno come fosse già totalmente presente e quella opposto del sentirsi totalmente estranea, quasi rassegnata dinanzi al mondo, perché in attesa di un Regno che non c’è ancora. Ogni comunità, per quanto piccola e povera essa sia, deve apprendere a vivere in una vitale tensione tra un “già e un non ancora” che le permetta sia di guardare alla meta come anche di testimoniare sin d’ora il Regno: è questa in fin dei conti la valenza della Chiesa, la sua immensa dignità e bellezza, ovvero l’essere “sacramentum Regni”, segno efficace della presenza del regno di Dio nel mondo.

     Meditatio

     L’immagine del piccolissimo seme di senapa e del lievito nascosto non corrisponde certamente all’immagine che anche noi ci aspetteremmo e desidereremmo del Regno di Dio. Un po’ infettati dai virus mondani e non evangelici anche noi, come gli apostoli sul monte degli ulivi al momento dell’ascensione, domandiamo ogni tanto al Signore: “E’ questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At 1,6). Facciamo fatica ad accogliere la piccolezza e marginalità della nostra presenza nel mondo sempre più simile a un granello di senapa o a un pizzico di lievito: vorremmo inorgoglirci vedendo fin d’ora la forza e la verità del vangelo trionfare ed ergersi come un immenso albero sul mondo e che testimoni il Regno di Dio. Con impeto ed entusiasmo quante volte abbiamo cantato a squarciagola: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat? Certamento Cristo  ha vinto e ora regna e regge l’universo intero ma non con i nostri parametri. Il motto della Certosa è illuminante: “Stat crux dum volvitur orbis”. Nello stemma c’è un albero che sovrasta le mutevoli vicende del mondo, ma quest’albero radicato nella roccia è la croce! La grandezza del regno è la marginalità e il nascondimento della croce che sconvolge il nostro criterio di misurazione: il più grande nel Regno è colui che si fa il più piccolo di tutti (cfr Lc 9,48; 22,26s).

    La pedagogia di Dio sta facendo percorrere alla Chiesa, alle singole chiese e nostre comunità, una strada diversa da quella che vorremmo, anzi si direbbe che ci sta obbligando ad un’impressionante retromarcia: non solo non cresciamo, ma… diminuiamo sempre più! Nella nostra vecchia e ormai ex-cristiana Europa stiamo divenendo minoranza, in altre parte del mondo non solo i cristiani non trionfano ma sono addirittura perseguitati. I nostri numeri si assottigliano, le chiese e i conventi si svuotano. Cosa provoca in noi tutto questo? Un senso di fallimento, amarezza, rassegnazione, rabbia?

    Siamo chiamati a interpretare questa situazione non solo con immediati criteri statistici e sociologici ma con uno sguardo di fede che cerca di cogliere, attraverso la luce del mistero pasquale, il disegno che Dio sta scrivendo per noi e con noi nella storia. Questo sguardo di fede è ben diverso dai criteri “mondani” contrassegnati dal numero, dalla misura dell’impatto sociale, dal successo, dal riconoscimento: esso usa come metro la croce non l’auditel!

    Il disegno del Padre, già a partire dalla scelta di Abramo e del piccolo popolo di Israele (cfr Is 41,14) si dipana lungo la storia sotto il segno della piccolezza e della marginalità. A Gedeone in cammino con un grande esercito per andare in battaglia contro i nemici di Israele è chiesto da parte del Signore di assottigliare all’inverosimile le fila dell’esercito, perché sia chiaro che la vittoria appartiene a Dio e non alla bravura tattica dell’uomo (cfr Gdc 7): questa è la via percorsa da Dio stesso nel mistero dell’incarnazione del Figlio, dove egli stesso entrando nel mondo si fa piccolo e nascosto agli occhi dei grandi, si incarna al margine di un impero colmo di gloria. Così deve essere la strada che deve percorrere la sua sposa, la Chiesa posta nel mondo come “sacramento del regno”, sempre tentata dall’occhiolino di presunti amanti che le promettono gloria e potenza in questo mondo.

    Dio ci vuole marginali perché si manifesti in noi la sua forza (cfr 2Cor 11,30), ci vuole piccoli perché il suo dono sia accolto nella libertà e non imposto dalla forza, ci chiede infine di essere poveri perché le forze del male continuamente assalgono e contrattaccano all’inverosimile il Regno che Dio sta edificando nel mondo. È per questo “mistero della piccolezza” del Regno che Gesù afferma che esso è rivelato solo ai piccoli (cfr Mt 11,25-26). Perché esso è fatto a loro misura!Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio” (Lc 6,20).

    Le due brevi parabole ci insegnano dunque ad avere uno sguardo diverso sulla storia e sul nostro collocarci in essa. Sono un invito da parte dello Spirito a non puntare come criterio di discernimento su misure di “grandezza” umane, ma ad apprendere ad essere nel mondo semplicemente rimando-segno-sacramento del Regno che  con tutta la sua energia nascosta come linfa già percorre le vene della storia.  Gesù invita la nostra comunità a far propria la speranza del contadino che ha seminato e deve superare l’impazienza di voler vedere subito i frutti:Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,26s).  È già regno di Dio la nostra testimonianza dell’evangelo: il nostro annuncio della buona notizia, è già regno di Dio il nostro gesto di amore anche se non è vesto da nessuno, il nostro perdono, la parola di speranza, il nostro stare accanto all’ultimo magari in silenzio. E’ già regno di Dio il nostro lavoro quotidiano nascosto e umile fatto con un cuore grande e generoso per la gloria di Dio e il bene dei nostri fratelli. È Regno di Dio lo stare in preghiera davanti al Signore facendoci lode e intercessione per il mondo intero. Con tutto ciò la Chiesa “di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio” (LG 3).

     Vinceremo in questa luce la tentazione di leggere la nostra attuale insignificanza e marginalità come luoghi di fallimento e frustrazione, ma la vivremo come situazione nella quale ci è dato di condividere la stessa modalità dell’evangelo che è annunciato ai piccoli e ai poveri (cfr Lc 6,20). Questa strada, anche se faticosa, ci permette di essere liberati dai nostri deliri di grandezza e di protagonismo, facendoci toccare con mano che l’amore basta: un amore che nello stile di Dio si fa piccolo e nascosto, non ha paura di perdere, che si pone a servizio del mondo senza voler mai prevaricare.

    Gesù guardando la sua piccola comunità ne può così riconoscere l’intrinseca bellezza e il destino di gloria: “Non temere piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno” (Lc 12,32). Gesù ci invita a superare le nostre paure che derivano dal prender atto della nostra insignificanza, della immensa sproporzione tra ciò che siamo e la missione che ci è data da svolgere, delle forze del male che ci ostacolano: “Non temere! Perché Io ho vinto il mondo!” (cfr Gv 16,33).

    Il pensiero va ad un grande testimone del vangelo del nostro tempo: p. Charles de Foucauld. Il suo cammino è stato contrassegnato da una sempre più grande accettazione di sprofondare nella più grande marginalità così vicina ad un apparente fallimento. Voleva fondare una nuova famiglia religiosa: non ebbe nessun discepolo in vita, voleva testimoniare il vangelo fra le tribù dei tuareg e non convertì nessuno. Eppure la sua figura rifulge ora di una grandezza e fecondità straordinarie. La sua esistenza piccola come un granello di senape e nascosta come lievito nella farina del deserto del Saahaar ha dato e sta dando immensi frutti per il Regno.  Tra le sabbie del deserto così simili alla farina del vangelo scriveva: “Silenziosamente, segretamente come Gesù a Nazaret, oscuramente come lui, passare sconosciuto sulla terra come un viaggiatore nella notte…poveramente, laboriosamente… disarmato e muto…senza fare resistenza, imitando in tutto Gesù a Nazaret e Gesù sulla croce”.

     Oratio

     Mi domando, Signore, se ho cercato la perfezione in modo abbastanza puro.
    Ah! Avrei dovuto ornarmene, adornarmene…
    Essere per gli altri, per me, un santo.
    Occorre che io rinunci a tutto questo.
    E che ammetta, semplicemente, una buona volta, di essere soltanto, quello che sono.
    Forse, Signore, è proprio questo che tu chiami “diventare come fanciulli”.
    Accettarsi con la stessa semplicità di cuore
    con cui tu ci hai accettato tutti siamo quel che siamo.
    Accettare di essere, semplicemente,quelli per cui tu sei venuto:
    peccatori per i quali la Buona Notizia è proprio buona.
    Più buona di quanto non si dica. (Lucien Jerphagnon)

  • 26 Ago

     

    Rinnegare se stessi

     

    Matta el Meskin, Comunione nell’Amore,  curata dalla Comunità di Bose ( pagg. 127-140 ), Edizioni Qiqajon 1986 – Magnago VC

    Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi.  Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l’arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell’Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l’amore divino s’accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. “Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest’amore“.  Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte  agli ordini  delle  vostre guide, agli errori dell’anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.

    La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall’abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà.  Questa era la via seguita dai Padri nell’istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: “Sì”, “Volentieri” e “Ho peccato”, tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l’abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.

    Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l’ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l’amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell’amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell’amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. “Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34).

    Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell’uomo naturale è il suo proprio io; quest’uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri.  Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.

    Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un’autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c’è l’odio di se stessi, cioè l’odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell’ingannevole schiavitù di questo mondo.

    Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall’inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.

    Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l’io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest’ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!

    L’io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione.  Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso.

    D’altra parte, se l’io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell’auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.

    1.   Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l’io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo “padrone” nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell’incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.

    Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l’anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.

    Abbiamo chiamato questo sentiero “il grande inganno”, proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell’illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall’inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l’opera di un uomo veramente morto a  se stesso e che vive nell’amore divino, formando un solo spirito con Cristo.

    2.   Il secondo falso sentiero può essere chiamato l’inganno esplicito.  Qui l’io non può convincere il suo “padrone” a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti.  Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all’inganno di fronte agli altri.  Qui  l’io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo “padrone”. Questo è il motivo per cui l’abbiamo chiamato il sentiero dell’inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo “il grande inganno”, dato che in quel sentiero l’io inganna anche il suo “padrone”.

    In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell’io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un’usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all’onore.

    3.   Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l’io non può convincere l’individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l’io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l’io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell’adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l’uomo è tenuto a riconoscergli.  Qui il rifiuto dell’amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L’io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.

    “Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?».  Avete detto:  «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D’ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e  li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l’empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve” (Mal 3, 13-18).

    Nella vocazione monastica non c’è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c’è la morte a se stessi, oppure c’è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l’inimicizia da parte di Dio.  O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo;  oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell’io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall’anima.  Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.

    L’autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.

    Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l’io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l’io coincide con l’uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.

    Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi.  È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell’amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l’io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell’io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?

    Nessuno pensi che il processo della morte dell’io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l’intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegniamo a Cristo il nostro “io” impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l’Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.

    Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l’io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all’uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.

    L’io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell’offerta di doni, della cortesia, dell’adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l’io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.

    Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l’essere onorati e rispettati dalla gente.

    L’io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall’accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l’inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.

     

    Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l’occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all’inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l’orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell’altra, davanti agli angeli e ai santi!

    L’io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito.  Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l’amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore.  L’uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo  ed  è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.

    L’io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato;  questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango.  L’uomo il cui io è morto, invece, si considera all’ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.

    L’io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l’ultimo posto, ma, d’altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.

    Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l’adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell’obbedienza ai comandamenti di Cristo.

    Ricordate sempre che chi sceglie l’ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, “colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà”.

    Il segno invece che l’io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l’ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!

    Se l’io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l’amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!

    Quanto invece all’io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L’anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.

    Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e  così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l’io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L’io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l’io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé.  Quest’uomo si inebria dell’amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.

    Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, “Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui” (2Cor 10,15); “Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi” (2Cor 3,5); “Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me” (2Cor 12,6); “Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda” (2Cor 10,18).

    È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l’io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s’inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell’umiltà di un tempo. Ama l’onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell’insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell’amaro rimorso per il passato di umiltà. L’io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell’albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l’io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall’albero della vita e anche dall’albero della conoscenza.

    Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell’abisso.

    Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com’è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. “Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? […]. Come alcuni […] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo” (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.

    Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni.  Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!

    Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell’io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L’individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com’è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all’animo debole dall’ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l’io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l’io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l’io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo.

    Siate dunque attenti e vigilanti fin dall’inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell’io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell’anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.

    L’io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l’io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.

    L’io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.

    L’io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l’io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.

    * * *

    Coraggio, fratelli!  Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.

  • 19 Ago

    Figli del Padre

    sintesi a cura di p. Attilio Fabris

    La prova, il cammino nel deserto,  e la decisione della conversione hanno preparato il terreno ad una ulteriore fase che è quella della nascita di un uomo nuovo. Si tratta dunque di un lavoro (una sinergia) che giunge fino alla radici della totalità del nostro essere. Un cammino scevro da illusioni create da una falsa immagine di Dio e di esperienza spirituale. E’ invece esperienza di quell’ ”amore folle” con il quale Dio non cessa di cercare l’uomo. Sarà esperienza che il verso protagonista del nostro cammino spirituale è  lo Spirito che ci è stato dato in dono.

    “Fa’, o Padre, che io ricerchi te, salvami dall’errore, e nel cercarti, fa’ che non trovi niente al tuo posto. Se non desidero altri che te, fa’ che ti trovi, o Padre. Se vi è in me alcun desiderio superfluo, tu stesso mondami e fammi capace di vederti” (s. Agostino Soliloqui, 1,1.6).

    La ristrutturazione della totalità del nostro essere verrà a toccare perciò tutti i nostri dinamismi che vengono purificati e trasformati: è un cambiamento radicale di cuore-mente-volontà. Il cammino spirituale dovrebbe portare l’uomo a scoprirsi figlio di un Padre che è nei cieli. E’ scoperta di se stessi, della propria dignità, della propria vocazione esistenziale.

    Se scopro Dio come Padre allora ricevo ogni cosa come un dono. Sono libero dal bisogno di “conquistare” Dio con la mia presunta santità. Di guadagnarmi con le mie mani. Scopro che mio primo compito non è la mia perfezione, ma il saper ringraziare e godere dei doni di Dio: arrivare a dire con gioia: Abbà, Papà!

    Paura e inerzia

     Certo oggi non è facile parlare di padre. La nostra cultura ha reso ambigua la sua immagine (il padre-padrone) per cui si corre da una ricerca affannata di una società senza padre a fenomeni di dipendenza, di identificazione con un leader e con il gruppo. La nostra esperienza di Dio potrebbe essere disturbata da questa atmosfera: si vive un rapporto fatto di paura e timore oppure ci si accontenta di proseguire trascinati dagli altri senza la capacità di prendere una nostra decisione personale e creativa.

    Un padre che fa festa

     Gesù ci assicura che Dio fa festa per il peccatore pentito, non la fa per i 99 giusti che non hanno bisogno di conversione. Perché fa festa? Perché il peccatore gli dà occasione di manifestare pienamente il suo essere padre: un Padre di misericordia (come fa pronunciare la formula di assoluzione).

    Di conseguenza che dinanzi a Dio riconosce con umiltà il suo essere peccatore fa esperienza di essere figlio perché sempre amato e accolto dalle braccia misericordiose del Padre. Solo il figlio può sentire il dolore di aver offeso il padre. Chi si ritiene senza colpa non ha bisogno di perdono né di un padre che lo accolga. Si costruisce una sua perfezione senza capire che tutto quel che ha lo ha ricevuto in dono.

    Prendiamo coscienza che non si sentiamo mai abbastanza figli, e che nei confronti di Dio Padre, lo percepiamo come padrone, un datore di lavoro e di ricompense: Siamo un po’ tutti come il figlio maggiore della parabola. Viviamo sì in casa del padre ma più come schiavi che come figli.. Ne deriva che non ci sentiamo così poi tanto peccatori: siamo dei buoni osservanti che hanno sempre obbedito ma senza gioia.

    Il Dio che è Padre ci converte dalla paura e dalla presunzione, non ci chiede di essere perfetti, né ci consente di sentirci tali, ma ci invita alla sua festa per condividere con noi anche la sua gioia.

    “Con tutte le forze”

     A Dio che ci ha donato ogni cosa, anche lo stesso desiderio di cercarlo. Siamo chiamati nella libertà a rispondere. La nostra decisione se è autentica deve incidere sulla nostra vita e cambiarla. Nessuno può amare Dio se non lo vuole con tutte le proprie forze.

    Ciò comporta il coraggio di fare delle scelte: non basta una scelta fatta una volta per tutte. Occorre rinnovare tale scelta ogni giorno, qui e ora. Esiste sempre il rischio dell’inerzia e del riflusso (ci si accontenta di ripetersi), cessa ogni cammino e ogni tipo di crescita: tutto a un certo momento viene a noia. Il credente è un viandante: se si ferma o perde il gusto del cammino, la sua fede è in pericolo. Si deve avere il coraggio di fare un tipo preciso di scelte: o scegliamo Dio o noi stessi. Fare esperienza di Dio significa ispirare la nostra esistenza secondo precisi criteri. Quali?

    Decisioni coerenti

             Non basta essere convinti che è bene fare; bisogna operare concretamente. E’ impossibile credere davvero in ciò che non si vive quotidianamente, perché i valori che si sono professati restano vivi nella misura in cui trovano espressione in atteggiamenti corrispondenti. Se desidero incontrare Dio devo pormi in uno stile di vita coerente: e questo a partire dalle piccole scelte quotidiane.

    Decisioni significative

             Decisioni forti, portate fino in fondo.

    Si tratta di:

             – Scelte umane: non deve essere frutto solo di un atto di volontà. Sono scelte ragionate e desiderate (anche quelle piccole). Chi vive questo, vive nella libertà: può permettersi di fare anche il “tappabuchi” senza sentirsi umiliato. Ha scoperto che l’importanza dei suoi gesti non gli deriva dalla risonanza sociale che essi possono avere, ma unicamente dall’amore che ci mette dentro e dalla verità con cui liberamente si prefigge lo stesso scopo: cercare Dio in tutto.

              – Decisioni sofferte: rinunce che costano. Si rinuncia a qualcosa per qualcosa di più grande: il Signore. Attraverso queste scelte si entra nello spirito delle beatitudini. Sia arriva al punto che più le decisioni costano più ci si sente beati evangelicamente gustando una nuova conoscenza di Dio. Quel nesso misterioso tra sofferenza e amore fa sì che si ami maggiormente ciò per cui si è sofferto. Chi non “soffre” Dio non lo può né conoscere né amare. “Agire è scegliere, e per conseguenza decidere, tagliar corto e, pur adottando, rifiutare, respingere. Edificare è sacrificarsi; ma la decisione non è un colpo di forza interiore, cieco e arbitrario: è la persona tutta intera rivolta al suo avvenire, concentrata in un atto duo e ricco, che riassume la sua esperienza e integra in essa un’esperienza nuova. I rifiuti che l’accompagnano sono rifiuti reali, imbarazzanti e talvolta laceranti: non sono mutilazioni. Essi parlano di una pienezza esigente, e non di indigenza: perciò sono creativi” (P. Grieger).

             – Decisioni autotrascendenti: sono scelte di vita in cui l’unico obiettivo è il Signore. Il tesoro nel campo per cui tutto si vende. Si tratta di decisioni che vengono a purificare sempre più le nostre motivazioni, spesso tanto contaminate dal nostro egoismo. Questo è un cammino molto lungo.

  • 18 Ago

    Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
    Necessità del far memoria delle opere di Dio!

     Is 63,7-19;64,1-11

    di p. Attilio Franco Fabris


     

     

    Messaggio centrale

     Raccolti in preghiera i deportati rileggono attraverso la mediazione profetica  la loro storia prendendo coscienza degli errori commessi: “Tu, Signore, sei adirato perché abbiamo peccato contro di te… Le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento… Ci hai messo in balia delle nostre iniquità” (vv. 4-6). Si tratta di  una amara constatazione che dovrebbe portare allo sconforto, allo scoraggiamento. Ma questo non avviene perché il profeta invita il popolo esiliato ad un nuovo atto di fiducia che si fonda unicamente sull’amore “paterno” che Dio sempre conserva per il suo popolo: “Tu però, Signore, continui ad essere nostro padre: noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (v.7).

    Il popolo di Israele si trova in esilio a Babilonia: da pochi anni Gerusalemme è stata rasa al suolo e nei deportati il ricordo dell’accaduto è ancora vivo e bruciante. Hanno ancora sotto gli occhi le terribili scene della devastazione da parte delle truppe di Nabucodonosor, nel luglio del 587 a.C.: le mura demolite, il palazzo reale dato alle fiamme, il tempio distrutto e depredato, morte e violenza lungo le vie della città (Ricordati, Signore, dei figli di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: «Distruggete, distruggete anche le sue fondamenta”  Sal 137,7).

    Difficile darsi una ragione a tutto quanto è accaduto, trovare una risposta a questa immane sciagura appare pressoché impossibile. La situazione appare ora irrimediabile perché ogni speranza preclusa: si è esiliati, lontani dalla patria migliaia di chilometri, tutto è endato perso, si è tornati schiavi come in Egitto.

    In questa situazione si innalza da parte del profeta la commovente preghiera (potremmo definirlo nel suo genere letterario un salmo di lamento). Possiamo suddividerlo grossomodo in tre parti, o meglio in tre filoni che continuamente si intersecano : la prima è il ricordo dei benefici e delle grazie del Signore che non è mai venuto meno all’alleanza con il suo popolo; la seconda è la presa di coscienza del peccato di Israele causato dalla dimenticanza dell’amore di Dio; la terza è invocazione pressante a Dio perché non abbandoni il suo popolo ma ritorni a fare grazia e a dare vita e speranza.

    Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia. 8 Disse: «Certo, essi sono il mio popolo, figli che non deluderanno» e fu per loro un salvatore 9 in tutte le angosce. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso (lett. “il suo volto”) li ha salvati; con amore e  compassione egli li ha riscattati; li ha sollevati e portati su di sé, in tutti i giorni del passato.

    10 Ma essi si ribellarono e contristarono il suo santo spirito. Egli perciò divenne loro nemico e mosse loro guerra.

    11 Allora si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo. Dov’è colui che fece uscire dall’acqua del Nilo il pastore del suo gregge? Dov’è colui che gli pose nell’intimo il suo santo spirito; 12 colui che fece camminare alla destra di Mosè il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro facendosi un nome eterno; 13 colui che li fece avanzare tra i flutti come un cavallo sulla steppa? Non inciamparono, 14 come armento che scende per la valle: lo spirito del Signore li guidava al riposo.  Così tu conducesti il tuo popolo, per farti un nome glorioso.

    Il primo invito insistente da parte del profeta, che d’altronde si ripeterà più volte lungo il testo, è quello di “fare memoria” dei benefici del Signore (v.7: “Voglio ricordare i benefici”; v.11 “si ricordarono dei giorni antichi”; v.4 “si ricordano delle tue vie”; v.8 “non ricordarti per sempre dell’iniquità”), e delle sue gesta salvifiche (“le glorie del Signore”). Tutto il discorso di speranza che il profeta pronuncia trae forza e fondamento unicamente da questo saper “far memoria”! Il verbo “ricordare” in ebraico implica infatti non solo un ricordarsi dei tempi andati, bensì contiene la certezza che ciò che è accaduto nel passato possa in qualche modo ripetersi, rinnovarsi (da cui il concetto di “memoriale”) a motivo della fedeltà di Dio a se stesso e alla sua promessa.

    Il “memoriale” fondante, di cui ogni israelita è chiamato a far perenne memoria (=la celebrazione della pasqua) permane l’esperienza salvifica della liberazione dalla schiavitù egiziana(vv. 12-14): il passaggio del Mar rosso occupa come paradigma fondamentale un posto rilevante nella fede biblica in quanto rappresenta ogni altra forma di tribolazione o pericolo che il popolo e il singolo credente debba attraversare.  

    E’ pressante perciò l’invito: “Ricordati… Non dimenticare!” (cfr Dt 8,11-14) perché ciò che fa esistere Israele è la “memoria” della sua particolare relazione con Dio. Ma il rischio della dimenticanza è sempre dietro l’angolo e con esso l’allontanamento dal Dio dell’alleanza, il che porta come conseguenza un consegnarsi alle forze disgregatrici e schiavizzanti dei nemici.

    Con amarezza il profeta riconosce che proprio questo è accaduto: Israele si è dimenticato della “bontà-hesed” (verbo tipico dell’alleanza: “il mio popolo” v. 8) di Dio nei suoi confronti. Israele ha “contristato il santo spirito”  – espressione rara nell’AT – che sta a significare una resistenza alla Parola, un non affidamento e fiducia accordata ad essa preferendo seguire propri progetti di autosufficienza.

    Ora è il tempo di tornare a “ricordare”: “Ricorda!”. Occorre riandare alla propria storia, ritrovarvi la presenza e l’azione di Dio per trarre da lì ragione e fondamento per una nuova speranza “contro ogni speranza”.

    Il popolo mentre ricorda già inizia a supplicare. Come può Dio non intervenire nuovamente se è “Salvatore” (v. 8; cfr Es 3,9) dei suoi “figli”? “Fu per loro un salvatore in tutte le angosce” (v.8s). Come può un padre dimenticare il suo figlio nonostante questi abbia mancato? (cfr Os 11; Is 1,2.4; Ger 31,9.20)

    15 Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora santa e gloriosa. Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito della tua tenerezza e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità 16 perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. 17 Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. 18 Perché gli empi hanno calpestato il tuo santuario, i nostri avversari hanno profanato il tuo luogo santo? 19 Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato.

    La supplica rivolta a Dio è anzitutto di “guardare”: “Guarda dal cielo e osserva dalla tua dimora”.  Invocare lo sguardo equivale ad implorare l’attenzione, l’intervento, in questo caso si chiede a Dio di riprendere in mano la storia del suo popolo come fece al tempo del primo esodo: “Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto” (Es 3,7-8).[1]

    Israele domanda di poter nuovamente constatare la qualità di questo intervento connotato da una quaterna di qualità: lo zelo, ovvero il suo amore appassionato, la potenza, ovvero l’energia che sprigiona dal suo amore,  la sua tenerezza e le sue “viscere materne” ovvero la sua “misericordia” con cui Egli ama.  Che Dio si manifesti nuovamente nella drammatica situazione storica attuale perché sicuramente è questa la sua volontà ultima che deve vincere alla fin fine su un’ira transitoria che non è “da Dio”: “Non forzarti all’insensibilità”.

    Perché Dio dovrà far questo? “Perché tu sei nostro padre, poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi. Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore” (v.16): è questa la profonda motivazione per cui Israele è certo dell’intervento divino a suo beneficio. Per la prima volta nell’AT qui JHWH viene chiamato con il raro appellativo di “padre”; in effetti per la fede ebraica “padre” dovrebbe essere solo Abramo e gli altri patriarchi: “guardate ad Abramo vostro padre” si diceva in Is 51,2. Ma occorre prendere atto che ora essi ora nulla possono: scesi nello scheol essi non hanno possibilità d’intervenire a beneficio del loro popolo, figlio nato dalle loro viscere. Ancor più come rivolgersi ai “padri-patriarchi” nella vergogna causata dal peccato e dalla situazione attuale? Essi avrebbero tutte le ragioni di vergognarsi dei loro figli degeneri: “Abramo non ci riconosce e Israele (=Giacobbe)  non si ricorda di noi” (Is 63,16). A questo punto a chi rivolgersi? E’ proprio in questo contesto che per la prima volta JHWH viene chiamato con timore con l’appellativo di “padre”, il che comporta ovviamente il doversi prender cura del figlio bisognoso (cfr Es 4,22s).

    Il popolo ha ancor bisogno di un redentore (= go’el). Nella cultura semitica era il titolo dato al parente più stretto tenuto in forza della legge alla responsabilità di riscattare un membro della famiglia che avesse perduto la libertà, o fosse stato fatto prigioniero, o fosse oberato da debiti insolvibili. Questo inderogabile dovere del “redentore” poteva essere adempiuto in due modi: raccogliendo la somma  richiesta per il riscatto, oppure consegnando se stesso o i suoi beni in sostituzione.  Ora la situazione di Israele esiliato e re so schiavo è disastrosa: quale “redentore” attendere ora che tutti hanno perso diritti e libertà? Non rimane che appellarsi a Dio supplicandolo di assumere lui stesso il compito di “redentore”. Solo lui può nuovamente riscattare (come fece in Egitto!) il suo popolo riconsegnandolo alla libertà.

    Dopo l’invocazione è la volta del lamento: “Perché Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e permetti che il nostro cuore si indurisca?” (v.17). L’ “indurimento del cuore” (sclerocardia) è la radice di ogni peccato: esso sta a dire la resistenza della coscienza dell’uomo a piegarsi alla volontà di Dio. Qui il profeta sembra quasi incolpare Dio stesso di questa situazione: in effetti non sperimentiamo una radicale incapacità a compiere il bene che vorremmo mentre facciamo il male che non vorremmo? (cfr Paolo apostolo: Rm 7,14-24).  Non potrebbe Dio con un solo suo accenno risolvere questo male radicale che ci abita? E’ ancora indiretta supplica che corre su un nuovo registro!

    Se la “colpa”, chiamiamola così, è di Dio allora che egli “ritorni” (verbo della conversione!) sui suoi passi, alla sua fedeltà “per amore dei suoi servi” (non di certo per il merito di quest’ultimi).

    È importante l’argomento che Isaia usa per convincere Dio: non si rifà in primo luogo ad una ferma volontà di conversione da parte del popolo del tipo: abbiamo capito il nostro sbaglio e non lo rifaremo mai più, oppure “Adesso ci impegniamo, siamo migliorati e così non meritiamo più la tua punizione”. Isaia fa leva in primo luogo a Dio stesso e ai suoi sentimenti: “Tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma” (cfr Is 63,16; 64,7).

    L’intervento di Dio è necessario ed urgente, non si può procrastinare ancora a lungo: tutto sta cadendo nella desolazione e distruzione: Gerusalemme e il Tempio disfatti tra le fiamme e le rapine, Israele in esilio si sente abbandonato come tutti gli altri popoli: l’antica elezione sembra un ricordo lontano, un miraggio irraggiungibile: “Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non è stato mai invocato” (v.19).  La salvezza riposa unicamente nella fedeltà di Dio al suo amore!

    Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti.
    64:1
    Come il fuoco incendia le stoppie e fa bollire l’acqua,
    così il fuoco distrugga i tuoi avversari,
    perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici.
    Davanti a te tremavano i popoli,
    2 quando tu compivi cose terribili
    che non attendevamo,
    3 di cui non si udì parlare da tempi lontani.
    Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,
    abbia fatto tanto per chi confida in lui.
    4
    Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia e si ricordano delle tue vie.
    Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo
    e siamo stati ribelli.
    5 Siamo divenuti tutti come una cosa impura
    e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia:
    tutti siamo avvizziti come foglie,
    le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
    6
    Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a te;
    perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
    ci hai messo in balìa della nostra iniquità.
    7
    Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma,
    tutti noi siamo opera delle tue mani.
    8
    Signore, non adirarti troppo, non ricordarti per sempre dell’iniquità.
    Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
    9
    Le tue città sante sono un deserto, un deserto è diventata Sion,
    Gerusalemme una desolazione.
    10
    Il nostro tempio, santo e magnifico,
    dove i nostri padri ti hanno lodato, è divenuto preda del fuoco;
    tutte le nostre cose preziose sono distrutte.
    11
    Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile,
    o Signore, tacerai e ci umilierai sino in fondo?

    L’intervento auspicato di Dio ricorda il Sal 17,10:Abbassò i cieli e discese, fosca caligine sotto i suoi piedi”. E Gdc 5,4-5:Signore, quando uscivi dal Seir, quando avanzavi dalla steppa di Edom, la terra tremò, i cieli si scossero, le nubi si sciolsero in acqua. Si stemperarono i monti davanti al Signore, Signore del Sinai, davanti al Signore, Dio d’Israele”. Isaia invoca una teofania simile se non più grande di quella del Sinai: che i cieli dimora di Dio si squarcino affinché la presenza e l’azione del Dio Altissimo si manifestino con evidenza, ciò provoca tremore e spavento, la gloria di Dio è manifestata come nell’esodo dal fuoco distruttore (è un’immagine classica per descrivere ogni teofania e la  salvezza di Israele e la distruzione dei nemici ne sono le conseguenze). “Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te,  abbia fatto tanto per chi confida in lui” (v.3): solo Dio può operare questa salvezza perché nessun altro è “fuori di te” ! Questa fiducia è essenziale affinché JHWH possa operare nuovamente prodigi (cfr Is 30,8; Sof 3,8).[2]

    Ai vv. 4-6 torna di nuovo il lamento che presenta tuttavia un tratto nuovo. Al v. 17 si parlava di una insondabile volontà divina circa la triste situazione di Israele si trova, qui invece la riflessione cade sulla responsabilità dell’uomo: è il suo peccato che ha causato l’allontanamento di Dio e l’attuale situazione: “tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli”. L’infedeltà – la ribellione – all’alleanza è la causa di tutte le sventure. D’altronde di fronte alla santità di Dio l’uomo non può che costatare e riconoscere la sua radicale incapacità di una sua “giustizia”: “come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (v.5 cfr Rm 3,5; 3,20).

    A causa di questo stato “immondo” l’uomo avverte se stesso lontano da Dio: “tu avevi nascosto da noi il tuo volto” (v.6). Dio ha interrotto la sua relazione con il suo popolo abbandonandolo alla mercè della sua colpa! (cfr Ap 2,23).

    Ma dopo questa amara constatazione ancora una nuova svolta preannunciata da un “ma-wau”  (v.7) viene offerta all’ascoltatore della profezia. Il profeta richiama ancora, come punto fermo e di forza maggiore, la realtà della paternità di Dio nei confronti di Israele: malgrado tutti i peccati il popolo appartiene sempre al “suo” Dio e Creatore! Si usano infatti immagini plastiche come quelle dell’argilla e del vasaio (chiaro riferimento al racconto della prima creazione) per implorare da Dio quasi una nuova creazione per Israele.

    Infine il profeta richiama ancora l’attenzione di Dio sulla desolazione della terra promessa ad Abramo, sulla desolazione di Gerusalemme, sulla distruzione del Tempio: Dio non può rimanere insensibile dinanzi a tutto questo sfacelo che sembra testimoniare l’abbandono di Dio e dunque l’inaffidabilità della sua promessa! Dio non può stare in silenzio e non può rimanere insensibile! (cfr 63,15).

    Per la riflessione

     La storia dell’esilio è la storia di chiunque, come il figlio minore della parabola, intraprenda direzioni lontane dalla verità di Dio: alla fine non troverà che delusione, solitudine, vuoto, disorientamento, disperazione… E’ il castigo, ovvero le conseguenze che il peccato porta già con sé come suo salario:Perché il salario del peccato è la morte”  (Rm 6,23).

    In questa situazione è facile accusare Dio o cercare capri espiatori sui quali far ricadere la colpa.

    Il processo di redenzione passa attraverso un” far memoria” dell’opera di Dio in noi per ritrovare la certezza che sempre l’amore suo per la sua creatura “è forte come la morte e le sue vampe sono vampe di fuoco” (Ct 8,6). Dio non si rassegna mai, ma non può imporsi, non può sopraffare la nostra libertà ma Egli tuttavia rimane incontenibile nella sua passione per l’uomo che, sosteneva Edith Stein, è “infinitamente inverosimile” che egli possa uscirne sempre sconfitto.

    Preghiera conclusiva

     Come la peccatrice all’ombra del tuo vestito
    possa io rifugiarmi  e abitarvi per sempre.
    Come colei che nella sua paura
    trovò forza e guarigione,
    guariscimi dalla mie fughe per paura;
    che io un te trovi forza!
    Che dal tuo mantello mi lasci condurre
    fino al tuo corpo,
    perché possa cantarti meno indegnamente.
    Il tuo mantello, Signore, è continua medicina,
    la tua forza nascosta nella veste risiede.
    Basta un po’ di saliva dalle tue labbra
    e meraviglia di luce si opera nel fango.
    (Sant’Efrem il Siro, De Fide, 10)

    [1] Cfr nei vangeli i rimandi fatti circa lo sguardo di Gesù sulle in cui l’uomo si trova a causa della sua misera situazione: Mt 8,14; 9,9; 9,22; 14,14; 6,34; Lc 5,12; Gv 9,1; Gv 11,32;
    [2] San Paolo utilizzerà questo testo per descrivere la rivelazione salvifica operata da Cristo (cfr 1Cor 2,9).
  • 17 Ago

    Perdonerai settanta volte sette

    di p. Attilio Franco Fabris

    Buona parte delle offese che ci infliggiamo sono spesso causate da abituali difetti di carattere. Questi difetti fanno sì che la persona avverta in se stesso quasi la presenza di due personalità diverse. Nonostante tanti e tanti sforzi, le sconfitte sono sempre presenti. Allora come devo reagire di fronte a questi difetti sia nel caso che sia io l’offensore, come in quello in cui io ne sia la vittima?

    Dobbiamo notare il fatto che si tratta di comportamenti che nessuno approva quando è sereno, ci si accorge che dissentono con quei valori in cui si crede. La coscienza rimorde provocando un sentimento sgradevole quando si rientra in se stessi prendendo coscienza del proprio errore. Sino a quando questo succede è anche un bene!

    Non si tratta dei peccati più gravi. Quelli peggiori sono invece quei comportamenti che non provocano più rimorsi di coscienza, quelli che sono ormai “internalizzati”.

    Scrive un autore: Il peccato non è che il terminale logico di un processo semicosciente di piccole scelte e di grandi giustificazioni che, a lungo andare, finiscono col convertire in logica, in coerenza e, forse, anche in necessità, il male che si compirà più tardi. In questo mondo la grande forza del male risiede in questi processi misteriosi… grazie ai quali un giorno il male arriverà a sembrare plausibile o necessario… L’uomo non si consegna mai alla mostruosità fine a se stessa, ma ad una mostruosità che è il risultato finale di un processo sottile, grazie al quale ciò che è mostruoso viene spogliato del suo essere terribile, fino ad apparire logico e necessario (Gonzàles Faus, Este es el hombre).

    Allora non si tratta più di una “scappatella”, ma dello stabilirsi in noi in modo permanente e sempre più inconscio di un ordine di cose pienamente assimilato. Il vero peccatore non è colui che, dopo un eccesso d’ira, si sente un disastro nel suo intimo, ma colui che giustifica pienamente i propri eccessi e non riesce più ad allontanarli criticamente. (cfr. il marito violento che cerca argomenti per giustificare il suo modo di agire). I peccati così diventano “logici, coerenti, necessari, plausibili, privi di mostruosità”.

    Quanto è necessaria allora una efficace disciplina penitenziale al fine di aiutarci a non arrivare a quel punto. Non potremo forse giungere ad estirpare i nostri vizi, ma certamente potremo evitare che questi si convertano in qualcosa di “pienamente giustificato”, impossessandosi del nostro io più profondo. Bisogna disattivare pazientemente, mediante il pentimento e la confessione tutte le nostre “piccole scelte e le grandi giustificazioni”.

    E’ a questo punto che rientra l’ammonimento del Signore del chiedere perdono settanta volte sette: Allora Pietro si fece avanti e gli domandò: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette (Mt 18,21-22).

    Il maggiore ostacolo al pentimento è pensare che non serve a nulla, dal momento che si tornerà di nuovo a peccare. Questo è il grande intralcio alla  vera disciplina penitenziale, la pietra di scandalo nella quale molti inciampano, abbandonando la lotta contro i propri difetti, lasciando che il male prenda sempre più radici in noi.

    Sul pianeta del piccolo principe, c’erano, come su tutti i pianeti erbe buone e erbe cattive. Di conseguenza dei semi buoni e dei semi cattivi. Ma i semi sono invisibili. Essi dormono nel segreto della terra fino a quando qualcuno di loro non si sogna di svegliarsi. Allora esso fa spuntare timidamente verso il sole un germoglio piccolo e verde, inoffensivo. Si tratta di un germoglio di ravanello o di rosa, si può allora lasciarlo crescere come vuole. Ma se si tratta di un pianta cattiva, bisogna strapparla subito, appena la si riconosce.

    Ora vi sono dei semi terribili sul pianeta del piccolo principe… sono i semi di baobab. Il suolo del pianeta ne era infestato. Ora di un baobab, se  si interviene troppo tardi, non è più possibile sbarazzarsene. Egli occuperà tutto il pianeta. Lo attraverserà con le sue radici. E se il pianeta è troppo piccolo, e se i baobab sono numerosi, alla fine sarà distrutto.

    “E’ una questione di disciplina – mi disse più tardi il piccolo principe. Quando ho terminato  le pulizie del mattino, bisogna accuratamente fare le pulizie del pianeta. Bisogna imporsi regolarmente di strappare i baobab e distinguerli dalle rose alle quali essi rassomigliano molto quando sono piccoli. E’ un lavoro noioso, ma molto facile” (A. De Saint-Exupery, Le petit prince, V).

    Anche l’effetto dei nostri peccati sugli altri è molto diverso quando li confessiamo e ci pentiamo. E’ molto più facile ottenere il perdono. Quanto invece diviene insopportabile e terribile convivere con persone che giustificano il loro atteggiamento sbagliato.

    Ma ritorniamo al brano evangelico citato: nel brano parallelo di Luca, a differenza di quello di Matteo, appare chiaramente che il perdonare “settanta volte sette” si riferisce all’offensore: Se il tuo fratello pecca, ammoniscilo e, se si pente, perdonalo; e se pecca contro di te sette volte al giorno e sette volte torna a dirti: “Mi pento”, devi perdonarlo (Lc 17,3-4). Le differenze con il testo di Matteo sono evidenti. Luca non parla di “settanta volte sette”, dice semplicemente “Sette volte”, ma aggiungendo “al giorno”. In modo diverso, mette ugualmente in risalto la ripetitività dell’offesa. Ma, soprattutto, l’elemento di novità è che il testo di Luca presuppone il pentimento e la richiesta di perdono da parte dell’offensore, il quale ritorna per dire: “Mi pento”.

    Allora perdonare non significa in alcun modo “dissimulare l’offesa ricevuta”, il “far finta di niente”. Col nostro “passar sopra” infatti contribuiremmo a rinsaldare la cattiva coscienza dell’offensore. Non sempre il nostro silenzio è sintomo di “carità” verso l’altro. Luca dice che dobbiamo “rimproverare” “correggere” il fratello. Soltanto quando costui si pente entra in gioco il nostro dovere di perdonare “sette volte”.

    Ora, in ogni famiglia, in ogni comunità, occorrerebbe avere il coraggio di affrontare le tensioni e le sofferenze. Le amarezze, i risentimenti se si accumulano, non trovando soluzione in una continua riconciliazione, alla fine raggiungono livelli di tossicità mortali per la vita di comunione. (cf. la necessità della correzione fraterna e della revisione di vita). Il consiglio della scrittura è molto esplicito: Se vi capitasse di adirarvi, cercate di non peccare; che non tramonti mai il sole sulla vostra ira (Ef 4,26-27).

    Madre Basilea Schlink, fondatrice di una famiglia religiosa che possiede il carisma della ricerca di una continua riconciliazione tra i suoi componenti, scrive nella regola: Riconciliati! Non essere mai inimicato con nessuno. Va’ da quella persona verso la quale nutri nel tuo cuore qualche risentimento, o lei contro di te, e lascia che sopraggiunga l’amore. Qui comincia il regno dei cieli. “Non tramonti il sole sopra la vostra ira”: se ci addormentassimo in questo stato forniremmo all’ira il modo di impadronirsi del nostro sonno, di infiltrarsi nelle zone profonde dell’inconscio, trasformando in simboli permanenti parole e azioni negative della giornata. Rimane valida la massima dell’ascetica più classica di “arrestare il male al suo inizio”.

    Doroteo di Gaza scrisse una pagine esemplare su questo tema: Un uomo accende un fuoco, un piccolissimo fuoco; è soltanto un carbone acceso. Esso raffigura la parola del fratello che ti offende… Se riesci a sopportarla, spegni il fuoco. Al contrario, se ti fermi a pensare: “Perché mi ha detto questo?”, come colui che ravviva la fiamma, getti sul fuoco dei ramoscelli verdi, legna bagnata che fa molto fumo, turbandoti… Il turbamento non è altro che l’afflusso di pensieri che eccitano ed esaltano il cuore, e questa esaltazione ti spinge a vendicarti dell’offensore… Se all’inizio del turbamento, appena appaiono il primo fumo e le prime scintille, ti fai avanti per accusare te stesso, prima che scatti la fiamma della collera, mantieni la pace. Al contrario, se una volta che è stata provocata la collera, non cerchi di calmarla e, anzi, insisti nell’accrescere il turbamento e l’esaltazione, è come se gettassi della legna sul fuoco per mantenerlo vivo finché tutto brucia” (Istruzioni, VIII, 89,91).  Gesù nel vangelo ammonisce: Mettiti d’accordo con il tuo avversario subito, mentre sei per via con lui, affinché l’avversario non ti consegni al giudice, il giudice al carceriere e tu sia gettato in prigione. In verità ti dico: non ne uscirai, finché non avrai pagato fino all’ultimo quadrante. (Mt 5,25-26).

    Fa’ la pace col tuo avversario prima che la situazione precipiti e ti sfugga di mano; riconciliati subito prima che tutti e due arriviate ad un punto da cui sarà poi difficile tornare indietro. L’immagine del carcere rappresenta una situazione, un luogo da cui è molto difficile poter fuggire. Ricerca la pace: quando si tratta di offese, la cosa importante non è sapere chi ha cominciato ad offendere per primo, ma chi dei due avrà il coraggio di fare il primo passo verso la riconciliazione.

    per la meditazione

    1. Esamino la mia vita nei miei rapporti con gli altri. Esistono comportamenti che desidererei non esistessero? Quali sono? Ne ho coscienza, o rischiano di divenire “plausibili e necessari”?
    2. Il maggiore ostacolo al pentimento è pensare che  non serve a nulla perché si tornerà di nuovo a peccare.
      Avverto in me questo tipo di ragionamento?
      Sono al contrario disposto ad una disciplina penitenziale che mi conduca ad avere sempre  coscienza di quegliaspetti che in me hanno ancora bisogno di conversione e purificazione?
    3. Riesco a riconoscere il mio sbaglio e a chiedere perdono, oppure mi ripugna fare questo? Perché?Lascio che la mia “ira” covi in me i suoi veleni o cerco immediatamente la strada del perdono e della riconciliazione?
    4. Ho il coraggio di dire al fratello il suo errore? Faccio finta di niente? ortante (anzitutto per me!) la correzione fraterna e la revisione di vita? Cosa potresti fare affinché nella tua comunità ci si aiuti in questa direzione?

     

     

  • 16 Ago

    Signore, insegnaci a perdonare

     d p. Attilio F. Fabris

    Il Padre nostro con la sua richiesta di perdono dei nostri debiti diviene una scuola di misericordia; lì sono invitato a prendere coscienza del mio peccato e del mio bisogno di perdono. Un dono questo che si salda strettamente con l’ingiunzione di perdonare ai nostri debitori. “Va’, e anche tu fa lo stesso” (Lc 10,37).

    Quali caratteristiche ha il perdono, la misericordia, del Padre? Esso non è né uno sconto, né un condono. Non è un lasciar perdere, un far finta di niente. Non è neppure un perdono gratificante concesso ad un bambino viziato.

    Dio prende sul serio il mio peccato. Realtà talmente tragica da dover esigere il sacrificio del Figlio prediletto. Il perdono del Padre che passa attraverso la croce del figlio fa sì che ci sia dato un cuore nuovo dall’effusione fatta dello Spirito. Un cuore a misura del suo stesso cuore; e quindi capace di perdonare come ne è capace lui.

    Ci trasforma così in strumenti di misericordia e riconciliazione.  Perdonare è quindi dono di Dio, e chi perdona fa esperienza dell’amore del Padre, nella misura in cui il suo perdono si rapporta a quello divino.

    PERDONO CREATORE

    Il perdono del Padre ci precede sempre, è perfettamente gratuito. Ancora: esso possiede una infinita capacità creativa, capace di rigenerare alla vita.  Il perdono è gesto gratuito, non legato alla richiesta dell’altro e neppure al suo pentimento. Non ci si interroga su chi deve fare “il primo passo”, non sta ad analizzare se vi siano segni o no di pentimento, non pone condizioni del tipo “Ti perdono se…”

    Il perdono è gesto umile. Esso non umilia mai. Vorremmo vedere l’altro battersi il petto riconoscendo il proprio peccato, e noi prenderemmo l’occasione per far pesare ancor più la sua colpa. Il perdono che procede dalla misericordia divina non ha queste caratteristiche, esso passa accanto all’altro con mitezza e discrezione

    Il perdono più che un atto è un atteggiamento di vita: E’ un modo di porsi di fronte all’altro e alla sua debolezza. E’ più uno stile di vita, uno sguardo di magnanimità e comprensione, incapace di scandalizzarsi della miseria dell’altro.

    Il perdono autentico è sincero; ovvero dice una volontà reale di accoglienza e comunione. Un desiderio di ricostruire ciò che è stato infranto. Che sia sincero non significa che non sia sofferto e faticoso.

    Non mette perciò in conto il passato poiché è rivolto maggiormente al futuro nuovo.  Il perdono è ancora un messaggio di stima e di fiducia, un dire all’altro la sua bontà oggettiva che mai può venir meno. Perdonare vuol dire perciò entrare nella convinzione che il fratello sia sempre migliore di quel che appare. Perdonare allora non è passar sopra, un far finta di niente. Al contrario è forza che provoca la scoperta e la rivelazione della propria identità.

    PERDONO REDENTORE

    Confessare il nostro peccato e riceverne il perdono genera in noi una disposizione alla misericordia. Si tratta di una misericordia concessa in maniera sovrabbondante, non si accontenta del concedere il minimo per ristabilire la relazione. E’ disponibile ad andare al di là, capace di perdonare settanta volte sette senza paura di passare per eroi  o per fessi.

    Si tratta di una misericordia che è amore che va al di là della “giustizia”. Un perdono concesso senza amore non è un vero perdono. Non c’è più solo la motivazione dell’utilità o dell’importanza del rapporto, ma quella più nobile e vera del sentirsi responsabili dell’altro. Per perdonare, occorre ricordarlo, non occorre essere in due.

    Un perdono gratuito sembra un atto ingenuo. Paolo VI quando si inginocchiò di fronte agli “uomini” delle brigate rosse sembrò compiere un atto patetico ed inutile visto poi il triste epilogo della vicenda. Ma fu un gesto profetico, come quello di Giovanni Paolo II quando andò a visitare il suo attentatore in carcere. Sono gesti profetici capaci di seminare nei solchi della nostra storia dei semi diversi da quelli della violenza e della legge del taglione. Sono semi del regno di Dio.

    PERDONARE DA PECCATORI

    C’è ancora un aspetto da sottolineare. Quando perdoniamo lo facciamo sempre da peccatori, mai da giusti. Non dobbiamo avere vuoti di memoria quando perdoniamo agli altri. Non dobbiamo porci ad un livello superiore sentendoci sempre più… giusti!

    Noi perdoniamo da peccatori riconoscendo che il perdono è più da condividere che da concedere: è attingere da un dono che proviene dall’Alto. Comprendiamo a questo punto che il perdono non solo da dare ma anche da chiedere. Onestà e trasparenza verso noi stessi.

     

     

     

  • 15 Ago

    SOLITUDINE E “SOLITARIETA’”

    A cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Solitudine

     Per dire TU occorre prima saper dire IO.

    L’accettazione del “mistero” dell’altro consegue la scoperta e l’accettazione del mistero di noi stessi. (Cfr. il bambino e la madre).

    Occorre perciò se si vuole instaurare una vera relazione con l’altro discendere nel medesimo tempo alla propria intimità, alla relazione con noi stessi.

    Mi percepisco anzitutto unico e differente dagli altri e dalle cose: è il mistero della persona.

    Scrive san Gregorio di Nazianzio nel suo trattato “Della creazione dell’uomo”: L’immagine non è veramente immagine se non possiede tutti gli attributi  del suo modello… La caratteristica della divinità è di essere inafferrabile, anche questo l’immagine lo deve esprimere. Se l’essenza dell’immagine si potesse comprenderla mentre il suo modello sfugge ad ogni comprensione, una tale differenza la annullerebbe in quanto immagine. Ma noi non arriviamo a definire la natura della nostra dimensione spirituale, proprio a immagine del nostro creatore… significa dunque che noi portiamo l’impronta dell’ineffabile divinità nel mistero che è in noi”.

    La mia unicità, il mio mistero direbbe Gregorio, è anche l’unicità e il mistero di coloro che mi vivono accanto.

    Questa unicità genera un sentimento: l’uomo si coglie, allorché diviene cosciente di sé, essenzialmente unico e dunque solo.

    Il filosofo austriaco di discendenza ebreo Martin Buber (1875-1965), sostenitore della concezione dialogica nella relazione tra Dio e l’uomo, afferma: Ogni persona che viene a questo mondo costituisce qualcosa di nuovo, qualcosa che non è mai esistito prima. Ogni uomo deve sapere che non c’è mai stato nel mondo nessuno uguale a lui perché se ci fosse stato un altro uguale a lui, non sarebbe stato necessario che lui nascesse. Ogni uomo è un essere nuovo nel mondo, chiamato a realizzare la sua particolarità.

     Duns Scoto, filosofo e teologo inglese (1266-1308), francescano che concepì la metafisica come scienza rigorosa e deduttiva e sostenne la dimostrabilità razionale delle verità soprannaturali, dava anch’egli una definizione di persona: La persona è l’ultima solitudine dell’essere.

    Ovvero il nostro centro costituisce la nostra unicità, ovvero la nostra solitudine.

    SOLITARIETA’

     Viviamo in un contesto culturale che favorisce la superficialità.

    Tante volte non si ha il coraggio di affrontare il proprio mistero, la propria solitudine esistenziale. Chiudiamo gli occhi, affrettiamo il passo, fuggiamo da noi stessi… cerchiamo altrove la nostra “identità”, ci dissolviamo nel “gruppo”.

    Nella misura in cui viviamo nell’esteriorità tanto meno cogliamo il nostro essere “persona”.

    Dobbiamo perciò sempre fare i conti con i nemici della nostra interiorità: la paura, la  distrazione, la dispersione, la superficialità…

    Chi fugge da se stesso non si incontra né tanto meno incontrerà e amerà gli altri…

    teniamo presente che “la misura con cui penetriamo nel cuore del nostro mistero è la stessa misura della nostra apertura verso i fratelli” (Larranaga).

    Altra attenzione: si può fuggire fuori di sé, o anche dentro di sé. In questo caso è il rinchiudersi nel proprio mondo impedendo a se stessi e agli altri di entrare in relazione.

    E. Fromm, psicanalista tedesco (1900-1980), dice: Sentirsi completamente isolato e solitario porta alla disgregazione mentale.

    La bibbia dice: Non è bene che l’uomo sia solo (Gn. 2)

    Se è proprio dell’essenza della persona il percepirsi solitudine, fa parte altresì della sua stessa essenza essere in relazione.

    E’ l’isolamento che è negativo, che porta con sé tristezza, angoscia, visione negativa della realtà. Essa se esiste, può avere molteplici cause interne ed esterne.

    Quando fuggiamo da noi stessi e dagli altri siamo così vuoti, insoddisfatti, qualcosa ci manca: iniziamo a vacillare. Non sappiamo più perché esistiamo (è il “vuoto esistenziale” di cui parla ad es. V. Frankl).

    UN’ESISTENZA DA VIVERE

     L’uomo si vede “gettato” in un mondo incomprensibile (cfr Haidegger). La paura lo può assalire: lo spettro della morte ci sta costantemente alle spalle. La mancanza di senso provoca angoscia.

    Occorre un senso, un significato: la sofferenza e la paura della morte si superano solo con questo.

    Per noi questo senso, questa ragione: è la relazione con una Persona, anzi Tre, Dio.

    Ci siamo lasciati attrarre da quel “quaerere Deum” che ha caratterizzato la vita di tanti prima di noi.

    Ci siamo lasciati attrarre dall’invito evangelico a seguire Gesù… Ci siamo avventurati.

    Dio è divenuto Rupe su cui porre saldamente il mistero del nostro essere perché non vacilli nel vuoto.

    Rimane evidente che per la nostra esistenza è indispensabile che Dio rimanga sempre interlocutore, compagno vivo: Di te ha sete l’anima mia come terra deserta, arida senza acqua.

    Questa “solitudine” mi è stata data con la vita. L’esistenza mi è stata data, donata, non l’ho richiesta io. Posso disprezzarla, disperderla o addirittura distruggerla. (Giobbe dirà: Maledetto il giorno in cui nacqui, maledetta quella notte nella quale si disse: E’’ stato concepito un uomo”); oppure benedirla (Il salmista dirà: Benedici il Signore anima mia quanto è in me benedica il suo santo nome).

    Non ho scelto la vita, come non ho scelto la sofferenza e la morte. Mi ci trovo indipendentemente dalla mia volontà.

    Tocca a me però assumermi la responsabilità di questa mia vita, perché non mi è stata data bell’e fatta e rifinita. La vita la devo vivere, deve essere vissuta da me: solo per l’uomo la vita allora è problema non per l’animale dotato di istinti.

    Pur nel mondo limitato percepiamo guardando gli spazi infiniti che il nostro essere è infinito: cogliamo lo “sprazzo di divinità” che è in noi.

    Grandi, infinite aspirazioni unite a grandi pesanti e inevitabili limiti.

    E’ l’assurdo dell’esistenza umana che fa sì però che l’uomo si collochi in cammino, in progressione in ricerca inesausta, insieme ai suoi fratelli.

    Con uno sguardo all’infinito del Creatore fatto debole carne come la mia mi è dato di poter dare risposta all’enigma dell’esistenza umana. E’ questo è grazia.

     

  • 14 Ago

    Fece sua la condizione di servo

    Lectio di Fil 2,5-11

    di p. Attilio Franco Fabris


    3 Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria,
    ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
    consideri gli altri superiori a se stesso,
    4 non cercate ciascuno le proprie cose,
    ma quelle degli altri.
    5Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
    6egli, pur essendo nella condizione di Dio,
    non ritenne un privilegio
    l’essere come Dio,
    7ma svuotò se stesso
    assumendo una condizione di servo,
    diventando simile agli uomini.
    Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
    8umiliò se stesso
    facendosi obbediente fino alla morte
    e a una morte di croce.

     

    Rabbi Sclomo diceva: “Se vuoi sollevare un uomo dalla melma e dal fango, non credere di poter restare in alto e accontentarti di stendere una mano soccorrevole. Devi scendere giù tutto, nella melma e nel fango. Allora afferralo con forti mani e riconduci lui a te alla luce”” (da “I racconti dei Chassidim). È una breve parabola che illustra bene il significato del mistero dell’Incarnazione e di che cosa essa comporta per Dio stesso. Gesù “è sceso giù tutto nella melma e nel fango della nostra storia” per “afferrarci con mani forti” e ricondurci alla luce.
    Non si è limitato di “fare” qualcosa, stando “nell’alto” della sua gloria per ottenerci la salvezza necessaria, ha scelto invece inaspettatamente una strada “in tremenda discesa”: si è fatto uno di noi, per darci non solo qualcosa di sé ma tutto se stesso “sino alla fine” (Gv 13,1).
    Noi talvolta nel nostro servizio agli altri siamo sempre preoccupati anzitutto di “dare o dire qualcosa” al bisognoso, al povero, al disperato. Non nego che questo sia importante. Ma non è l’atteggiamento prioritario con cui ci dobbiamo porre al servizio del fratello: ci si chiede anzitutto l’umiltà di “essere poveri come Cristo assumendo la sua condizione di servo”. Parafrasando potremmo usare le parole della Lettera agli Ebrei: Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu o Padre non hai voluto che io facessi chissà quali opere per donare la salvezza ai miei fratelli. Mi hai chiesto solo e sempre che offrissi senza riserve, anche a costo della vita, tutto me stesso fino alla fine. come (cfr 10,5)

    LECTIO

     Ci vogliamo soffermare nella nostra lectio alla sola prima parte dell’inno cristologico che anche la Liturgia delle Ore ci propone ai primi vespri della domenica.  L’inno, lo sappiamo, traccia in modo mirabile il “cammino” compiuto da Gesù: dalla gloria che gli compete da sempre in quanto Dio, accetta di scendere, di abbassarsi, fino ad annientarsi sino nella morte di croce. Per questa obbedienza il Padre gli riconosce la gloria e gli consegna la signoria  su tutto l’universo.  Il testo, probabilmente ripreso da Paolo da un inno liturgico già esistente nelle comunità cristiane è antichissimo e dunque di grande importanza teologica e catechetica. Esso celebra la centralità del mistero cristiano: dall’incarnazione, alla morte fino alla glorificazione di Gesù in una densissima completezza teologica

    L’apostolo desidera fortemente che nella giovane comunità di Filippi regnino pace, carità, unanimità (v.2) e l’inno viene inserito da Paolo proprio con questo intento preciso. Esattamente nel passaggio in cui esorta la comunità alla concordia, alla stima e all’umile servizio reciproco: “Fratelli, non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso”(v.3; cfr 1,27). Tutto ciò che potrebbe turbare l’unità, in primo luogo la “vanagloria” che è porre se stessi al centro, va allontanato decisamente. Infatti in ogni comunità era ed è sempre presente la tentazione di fare anche il bene con il desiderio, più o meno conscio, di emergere, di mostrarsi, di apparire, d’essere riconosciuti ed applauditi.

    A questa tentazione occorre reagire, dice Paolo, perseguendo una virtù fondamentale forse oggi passata un po’ di moda: l’“umiltà” (v.3)! In greco Paolo adopera la parola: “tapeinofrosýne”. È la sapienza di chi si considera… “tapino”!  E’ la stessa parola che Maria usa nel Magnificat riguardo a se stessa: «Il Signore ha guardato alla mia condizione tapina». Paolo intende l’umiltà come disponibilità a cercare non il proprio interesse ma il bene dell’altro, la capacità di porsi davanti all’altro come servi gli uni degli altri. È la forza di “perdere se stessi” preferendo il bene dell’altro al proprio: “non cercate ciascuno le proprie cose, ma quelle degli altri” (v.4). Ci sono infatti due posizioni contraddittorie: c’è la ricerca del proprio interesse e c’è, invece, la ricerca dell’interesse, del bene, dell’altro. Paolo, con una forte radicalità, non distingue tra interessi propri  legittimi o illegittimi, ma distingue tra due ambiti: l’ambito del proprio io e l’ambito degli altri. Il cristiano deve uscire dal proprio ambito ed entrare nell’ambito dei fratelli, mettendosi al loro servizio.

    Dopo aver esortato all’umiltà che scaturisce dalla disponibilità a farsi piccoli, ovvero servi gli uni verso gli altri, l’apostolo Paolo per rafforzare l’esortazione e darvi solido fondamento presenta il luminoso esempio dello stesso Cristo Gesù: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (v.5).

    In luogo del termine “sentimento” forse una traduzione migliore potrebbe essere: “abbiate la stessa mentalità che fu in Cristo Gesù”. Questo cosa significa? Che il cristiano, nel cammino di conformazione sempre più piena a Cristo, apprende a ragionare, pensare, sentire, come il suo Maestro (cfr Ebr 12,2). E’ possibile fare nostri i sentimenti di Cristo, il suo modo di pensare, non in primo luogo per un impegno moralistico e  filantropico, ma perché i cristiani sanno di essere, in forza del loro battesimo “una sola cosa” con lui,  tralci innestati alla vite e dunque capaci di portare frutti giusti (cfr Gv 15,5). Da questa unione oggettiva, sacramentale,  deriva il fatto che è possibile fare nostri i suoi stessi sentimenti.

    Ma quali sono i sentimenti, la “mentalità” di Cristo? Quale il suo modo di guardare al senso della vita, alla relazione con Dio e gli altri?

    La prima parte dell’inno prende in considerazione la gloria che da sempre compete a Cristo in quanto Dio: “Pur essendo nella condizione di Dio” (v. 6). La parola usata per “condizione” è “morphé” che in sé esprime di solito l’aspetto esteriore che riflette totalmente l’identità profonda dell’essere. Ovvero: Cristo da tutta l’eternità partecipa in sé stesso della stessa gloria divina del Padre suo. Ebbene, nel momento dell’incarnazione, egli rinunciò esteriormente a questa gloria che gli spettava di diritto al fine di condividere totalmente la nostra limitata umanità. Egli scelse perciò l’ordinaria “condizione (morphé) servile” (v.7). Il testo specifica che in tal senso “non ritenne un privilegio essere come Dio” (v.6). Si tratta di una frase un po’ difficile da rendere bene in italiano (la parola greca usata è “arpaghmon” ed è rarissima).  Possiamo cercare di intenderla in senso passivo come equivalente di “arpàgmafurto”, nel significato di una “cosa rubata” che si “tiene stretta gelosamente a sé” come appunto fa il ladro con la sua refurtiva. Ricordiamo il celebre “Arpagone” protagonista della commedia di Moliere che incorreggibile taccagno non teme di usare anche i propri figli per i suoi interessi, la sua filosofia di vita è: tutto per me e niente per gli altri. Cristo non è certamente un “Arpagone”! Non ebbe timore di abbandonare il tesoro preziosissimo (arpàgmon) e lo splendore della sua gloria divina per farsi povero come noi senza ricavare nulla per sé.  Non la reclamò mai per sé. Paradossalmente essa fu totalmente eclissata durante la sua vita terrena e soprattutto nella sua passione e morte.

    L’inno sottolinea questo spogliamento totale del Figlio di Dio usando una forte forma verbale: “svuotò se stesso” (v.7). Il verbo greco è più incisivo dell’italiano “umiliare”;  è il verbo “ekènosen-svuotare”. Nella Volgata latina la traduzione è “exinanivit”, ossia “rese se stesso inutile, vuoto, senza incidenza”. È un’espressione scandalosa affermare che il Figlio di Dio possa “svuotare se stesso”! Eppure è questo il cuore del mistero dell’agape divina: per amore della vita dell’uomo Dio accetta di rinunciare alla propria vita, di svuotarsi della sua vita, per riempire con la sua la nostra morte.

    È sorprendente che nell’inno non si parli immediatamente del suo diventare uomo, ma si affermi in primo luogo che Cristo accetti per sé anzitutto la condizione di “schiavo” (v.7a). Gesù sceglie di vivere in questo mondo facendo sua un’umanità banale, comune, quotidiana: “diventando simile agli uomini” (v.7b). E si tratta di una “somiglianza” oggettiva, autentica, non apparente come sostenevano alcuni eretici gnostici dei primi secoli del cristianesimo scandalizzati da un Dio che potesse sporcasi con la nostra carne. Ed una “somiglianza” così perfetta da non poter  che essere riconosciuto esteriormente se non come uomo come tutti noi: “dall’aspetto riconosciuto come uomo” (v.7c).

    L’espressione “svuotare se stesso” acquista ora tutta la sua valenza: essa comporta il farsi “schiavo”, “simile (o uguale) agli uomini“. In questo modo da parte dell’uomo Gesù il mondo di Dio è interamente abbandonato, e la povertà, il fango, del nostro mondo terreno è definitivamente raggiunto e perciò salvato.

    Come se questo non avesse bastato, l’itinerario di abbassamento di Gesù non aveva raggiunto il suo fondo. All’umiliazione dell’incarnazione, Cristo ne assomma un’altra ancor più sconcertante e scandalosa: quello di accettare liberamente per sé, lui che è Dio, la morte, e non una morte qualsiasi ma quella maledetta della “croce” (v.8; cfr Dt 21,23). La parabola della discesa dalla gloria celeste qui raggiunge il punto “nadir”. Gesù sprofonda nel tessuto dell’esistenza umana segnata dalla sua drammatica contingenza accogliendone anche non solo il dramma della morte, ma di una morte violenza, provocata, voluta da altri, in totale obbedienza da schiavo.

    È questa la via attraverso la quale Dio ha voluto raggiungerci per stenderci la mano. Non ha scelto la via del miracolo, del cambiamento di strutture di peccato e sistemi sbagliati, ha percorso la strada, come ad Emmaus, del farsi compagno di cammino condividendo la nostra fatica, incertezza, dolore speranza. Ma proprio attraverso questa scelta ha potuto stenderci amichevolmente e in tutta libertà una mano trafitta unicamente dall’amore.

    MEDITATIO

     Paolo ci invita ad avere nelle nostre comunità uno stesso sentire (cfr Fil 2,2). Ma questo comune modo di sentire e di pensare a chi deve appartenere? Supponiamo di essere tutti radunati in assemblea e di pensarla ognuno in un modo diverso. Quando alla fine si deve decidere dobbiamo giungere a pensarla tutti allo stesso modo, ma di chi assumiamo il modo di pensare, il criterio di verità sarà sempre e solo della maggioranza in uno stile… democratico? Paolo ci ricorda che il modo univoco di pensare dei cristiani non è il modo di pensare di questo o di quell’altro, e neppure della maggioranza democratica fosse pure del consiglio pastorale o del capitolo provinciale, ma deve essere quello corrispondente ai “sentimenti” di Cristo. Dove “sentimento” è far nostro il suo modo di essere nel mondo, di vivere la relazione col Padre e tutti noi, soprattutto di come intendere la via, ricalcata sulla sua, attraverso la quale annunciare la salvezza dell’evangelo.

    Ma quali sono i “sentimenti di Cristo”, le vie da lui percorse? Li potremmo riassumere in una parola: il dono gratuito di un amore incondizionato e a fondo perduto che non si preoccupa di “dare semplicemente qualcosa” ma che si fa essenzialmente “dono di tutto se stesso per noi”.

    Leggendo i vangeli ci accorgiamo che Gesù non dà mai “qualcosa” per noi, ma sempre e solo dona tutto se stesso dall’inizio alla fine della sua esistenza: “Questo è il mio corpo dato per voi… questo è il mio sangue versato per voi”. Fugge quando la gente lo rincorre solo per ottenere qualcosa (cfr Gv 6,26ss). Non ritenne necessario divenire uomo potente e facoltoso capace di risolvere i problemi della povertà, della malattia, dell’ingiustizia, non si pensò neppure di presentarsi come il “deus ex machina” che all’ultimo istante con miracoli strabilianti potesse risolvere magicamente le contraddizioni della vita.

    Gesù scelse un’altra strada, contrapposta a quella propostagli dal nemico nei quaranta giorni nel deserto (cfr Mt 4,1ss). Accettò la strada “in discesa” del “servo di JHWH”, quella che l’avrebbe fatto percorrere una via marginalità, sconfitta, incomprensione, senza ruolo sociale, politico o religioso di prestigio, senza ricorso ad alcuna forma di potere. Scelse di nascere in un paesino sperduto, figlio di persone senza nome e senza storia. Scelse di vivere in un ambiente povero, senza mai comandare, mai governare, senza mai ottenere un titolo onorifico…neppure di “dottor o monsignore”! Scelse di camminare  sulle nostre stesse strade, di sentire la fame, la sete, la fatica, il dolore. Ha pianto e ha riso. Anche la sua morte avvenne tra due delinquenti, come all’inizio del suo ministero scelse di mettersi  tra la fila dei peccatori in attesa del battesimo. Dio, in Lui, decise di raggiungerci in questo modo sconcertante e scandaloso per l’uomo “religioso”, così apparentemente inutile. Scelse ovvero la strada del “condividere in tutto la nostra condizione umana” (dalla Liturgia), non temendo di “abbassarsi”… troppo sino a terra (humus-terra da cui “umiltà”) e di sporcarsi le mani con essa. Solo così Dio poteva farsi povero e dunque capace di stare vicino al povero e al peccatore, al malato e al bambino, alla prostituta e al fariseo.  Riusciremo mai a stupirci, magari, auguriamocelo! a scandalizzarci di queste scelte estrose di Dio? Sarebbe una grande grazia!

    Accogliere questa unicità della rivelazione cristiana esige accettare che da parte di Dio vi sia la libertà di un suo radicale limitarsi ad un’esistenza umana nel suo concreto agire e patire storico, accettandone le casualità e i limiti, la provvisorietà e frammentarietà. Significa stupirci del fatto che Egli scelga di “abbassarsi-svuotarsi” fino al massimo limite per caricarsi anche del nostro peccato come agnello sacrificale perfetto fino ad accettare liberamente la morte maledetta di croce.  Più in basso di così Dio non poteva scendere… “Discese agli inferi” professa ancora il credo apostolico, affermando la sua condivisione totale anche del nostro discendere nel nulla spaventoso della morte.

    Ma tutto questo perché? La verità è semplicissima, essenziale e rivelatrice del cuore di Dio: Egli in Gesù, “come colui che serve”, scese nel nostro fango, “negli inferi del nostro nulla” senza timore, per poter afferrare la nostra mano e trascinarci fuori da quell’abisso, per innalzarci con lui alla sua gloria e alla sua luce. In questo mettere se stesso all’ultimo posto sta il più profondo “sentimento”  di Cristo che “ha cercato fino in fondo le cose degli altri, ovvero la nostra vita.

    Il cristiano è chiamato a costruire la propria vita su questo parametro evangelico.  Non è facile! Comporta infatti un capovolgimento del modo di interpretare il nostro essere presenti nel mondo e del nostro agire. Istintivamente istituti, parrocchie, movimenti ecclesiale, la chiesa intera, tutti vorremmo avere anzitutto mezzi, risorse finanziarie, rilevanza sociale perché potessimo diffondere con maggior efficacia e incidenza il vangelo del regno, e risolvere tante situazioni di ingiustizia e povertà sempre più crescenti e talvolta intollerabili.

    Ma intuiamo alla luce della Parola che il modo con cui il nostro Maestro desidera che testimoniamo il suo amore all’uomo non è anzitutto questo.  Potremmo forse dare anche molto in termini di denaro, strutture e aiuti per far fronte a tante necessità. Ma tutto questo non potrebbe forse confondersi in generosa filantropia, ma niente di più. Offrire cose, servizi, strutture, può essere necessario non lo neghiamo di certo, talvolta è indispensabile; ma non può forse diventare se assolutizzato un percorso ambiguo e rischioso quando questi aspetti divengono prioritari e i più determinanti? Se ci fermassimo a questo livello la nostra testimonianza cristiana rischierebbe a mio parere di svaporare, di far svanire il suo autentico profumo che deve essere quello di Cristo (cfr 2Cor 2,15).  Non possiamo poi nascondere il fatto che talvolta operiamo sì in vista del bene degli altri, portando avanti magari con immani sacrifici di personale e di denaro grandi opere, ma forse non accorgendoci  che tutto ciò serve. Speriamolo almeno solo in parte, a nostro vantaggio fosse pure dell’istituto, della parrocchia, della congregazione? Si tratterebbe in tal caso di un nostro “arpagmon-tesoro” che non ci vogliamo lasciar strappar via. Ma san Paolo avverte che: “se anche dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, non servirebbe a nulla” (1Cor 12).

    Mi sembra che più procederemo dentro questa nostra storia più la nostra presenza risulterà meno incisiva, meno capace di approntare risorse, strutture per far fronte ai vari bisogni degli altri. Saremo poveri sotto tutti gli aspetti! Non avremo grandi mezzi, strutture, risorse! Un male? Umanamente questo apparirà certamente come una sconfitta, una limitazione di presenza e di servizio. Ma alla luce del cammino “in discesa” percorso da Cristo, forse proprio in questa situazione potremo dire la cosa più importante come fecero Pietro e Giovanni col paralitico della Porta Bella del Tempio: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!» (At 3,6).  Ci sarà evitato il rischio di porci in mezzo ai poveri come “ricchi” (fosse anche di virtù!) che dall’alto della loro generosità fanno orgogliosamente il bene. Impariamo ad accettare finora di saperci “abbassare e svuotare”. Lo Spirito di Gesù ci insegnerà così che la cosa più importante è dapprima imparare ad “essere con” più che il “fare per”. Impareremo i sentimenti del cuore di Cristo costituiti essenzialmente dalla sua capacità  di “com-patire” e di “con-dividere”.

    Questo passaggio non si opera semplicemente con programmi, documenti e sforzi di volontà. Occorre l’aiuto della grazia dello Spirito che ci conformi sempre più a Cristo. Questo esige un ascolto continuo, perseverante, mai interrotto della sua Parola antivirus per immunizzarci da percorsi che, anche se apparentemente buoni, in realtà ci potrebbero allontanare dal vangelo. L’atto sacramentale del Battesimo e dell’Eucarestia poi fondano ontologicamente la nostra comunione con Cristo Gesù, siamo innestati in lui e dunque non solo possiamo ma dobbiamo “pensarla” come lui.

    Mi piace qui portare una testimonianza concreta di cosa significhi tutto questo. Padre Damiano de Veuster morto nell’isola di Molokai ammalato di lebbra nel 1889, giunse in quell’isola “maledetta” abitata da lebbrosi solo “con il breviario e un piccolo crocifisso”. Le prime settimane visse all’aperto, dormendo sotto un albero e mangiando su una roccia piatta. E scelse subito di immergersi volontariamente in quel mondo in putrefazione. Capì, quasi per istinto di carità, che i malati non lo avrebbero mai accettato se egli avesse cominciato a preservarsi, a usare precauzioni, a evitare i contatti, a mostrare ripugnanza. Di poter essere contagiato non si preoccupava. Diceva “d’aver affidato la questione a Nostro Signore, alla Vergine e a san Giuseppe”. I superiori gli scrivevano sempre di badare al contagio, ma egli sapeva che era assolutamente inutile essersi recato a Molokai se restava un “haole”, un “bianco”, di quelli che per definizione si “rifiutavano di toccare”. Egli non agiva così solo per rispettare la sensibilità degli hawaiani e quella ancora più acuta dei malati. Egli fece questa scelta per far suoi anzitutto “i sentimenti di Cristo” che non temeva di toccare i lebbrosi. Se quel desiderato “contatto” era per gli hawaiani una questione culturale, per padre Damiano era una questione di fede.

    Si tratta certamente di una testimonianza estrema ed eroica, ma che, insieme a infinite altre, ci dice una cosa fondamentale: che la vera carità di Cristo non si presenta in primo luogo come organizzazione per far fronte e risolvere tutti i bisogni, ingiustizie, mali in termini di cose e strutture. Essa ci descrive che la prima carità deve prendere il volto della “con-divisione”, della “com-passione”, dell’abbassamento di Cristo. Paolo nella prima ai Corinti dirà : “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (9,22), ovvero l’apostolo ricorda che la cosa essenziale è poter  stare accanto ai deboli come debole, povero come poveri, al fine di portane insieme il peso, la fatica, la sofferenza, la gioia, la speranza, accettando con umiltà e pace di non aver grandi gesti da fare e cose da dare. A volte basta un sorriso, una carezza. Costa meno che mettere solo la mano al portafoglio e rende di più. Certamente se poi ho la possibilità di estrarre anche qualcosa dal portafoglio ben venga, ma sarà espressione di un qualcosa che è venuto prima ed è più vero.  Scriveva a proposito don Primo Mazzolari : “Quando non si ha più niente da dare perché si è dato tutto, allora si diventa capaci di “veri doni”. Dare tutto: ecco la carità! Con niente puoi dare a chiunque, se vuoi bene a tutti. Se non hai roba, hai del cuore, e ognuno ne può prendere quanto vuole, perché il cuore cresce spendendosi e si arricchisce spogliandosi”.

    ORATIO

     Terminiamo la nostra lectio con una preghiera composta da madre Teresa di Calcutta. Come non ricordarla sempre “abbassata” sul malato, il moribondo? Si tratta di una preghiera sorprendente per lei che di bene concreto ne fece moltissimo: Teresa non chiede anzitutto al Signore la grazia di avere strumenti e risorse per soddisfare e cancellare gli infiniti bisogni propri e degli altri. Chiede soprattutto la forza di saper condividere col fratello la stessa fatica, lo stesso dolore, la stessa speranza. E’ il mistero dell’incarnazione, dell’abbassamento del Figlio di Dio, povertà apparente ma capace di arricchire l’altro del bene più profondo più vero ed eterno: l’amore.

    Signore, quando sono affamato, mandami qualcuno che ha bisogno di mangiare.
    Quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua.
    Quando ho freddo, mandami qualcuno da riscaldare.
    Quando sono ferito, fammi incontrare qualcuno da consolare.
    Quando la mia croce diventa pesante, fammi condividere la croce di un altro.
    Quando sono povero, conducimi qualcuno che è nel bisogno.
    Quando non ho tempo, mandami qualcuno che io possa aiutare un istante.
    Quando sono umiliato, dammi qualcuno di cui debba fare l’elogio.
    Quando sono scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare.
    Quando ho bisogno della comprensione degli altri, mandami qualcuno che abbia bisogno della mia.
    Quando ho bisogno che ci si prenda cura di me, inviami qualcuno di cui io mi debba curare.
    Quando non penso che a me stesso, volgi i miei pensieri verso gli altri
    ” .