• 07 Apr

    CANTO DI PASQUA

     

    Ancora una volta veniamo, o Signore,
    ancora una volta per cantare la Pasqua.
    Che ostinazione!
    Per sfidare con te
    le forze delle tenebre
    e per gridare,
    per credere ancora
    che la notte non può impedire a Dio di far levare la luce.
    Ancora una volta veniamo
    per raccogliere da te la speranza,
    per trovare la gioia
    che si innalza nonostante i dubbi e le paure,
    per accogliere da te la gioia
    capace di far fronte a conflitti e difficoltà,
    per ricevere da te la vita
    che nulla può schiacciare,
    neppure la pietra del sepolcro.
    Ancora una volta veniamo
    per vedere all’opera te, Signore Dio nostro,
    il cui lavoro, fin dall’inizio dei tempi,
    consiste nel donare senza posa
    la vita per sempre. Amen.

     

    Charles Singer

     

    Il grano seminato per tre giorni
    ha germinato e riempito
    il granaio della vita.

     Sant’Efrem il Siro, Omelie in Nat. IV

  • 06 Apr
    Varie Commenti disabilitati su Maria tu sei l’annuncio

    MARIA TU SEI L’ANNUNCIO

    Maria, tu sei l’annuncio,
    Maria, tu sei il preludio,
    Maria, tu l’aurora,
    Maria, tu la vigilia,
    Maria tu la preparazione immediata,
    che corona e mette termine
    al secolare svolgimento del piano divino della redenzione;
    tu il traguardo della profezia,
    tu la chiave d’intelligenza
    dei misteriosi passaggi messianici,
    tu il punto d’arrivo del pensiero di Dio,
    “termine fisso d’eterno consiglio”.
    La tua apparizione, o Maria,
    nella storia del mondo
    è come una luce del mattino,
    ancora pallida e indiretta,
    ma soavissima,
    ma bellissima;
    la luce del mondo, Cristo,
    sta per arrivare;
    il destino felice dell’umanità,
    la sua possibile salvezza,
    è ormai sicuro.
    Tu, o Maria, lo porti con te.

    Paolo VI

     

    All’uomo contemporaneo, non di rado tormentato tra l’angoscia e la speranza…
    la Vergine Maria, contemplata nella sua vicenda evangelica e nella realt�
    che già possiede nella Città di Dio,
    offre una visione serena e una parola rassicurante:
    la vittoria della speranza sull’angoscia, della comunione sulla solitudine,
    della pace sul turbamento, della gioia e della bellezza sul tedio e la nausea,
    delle prospettive eterne su quelle temporali, della vita sulla morte.

    Paolo VI, enc. Marialis cultus

  • 05 Apr

    Beati coloro che ascoltano la Parola

    Lc 11,27-28

    di p. Attilio Franco Fabris 

    Chi è più beato? Immaginiamo la risposta a questa domanda da parte di chi sta passando sotto casa proprio in questo momento. Ci sentiremo quasi sicuramente rispondere: È beato chi ha successo nella vita, chi ha un buon posto di lavoro, la salute, una bella famiglia, una casa e nessun mutuo da pagare, un sicuro conto in banca… Ciascuno si ritaglia sull’onda del proprio “sogno-desiderio” la “sua” beatitudine vivendo in funzione di essa, per poi accorgersi che tutto questo… non basta ancora a farlo contento. Infatti non ci si sente mai pienamente “beati”; è come se alla fine mancasse sempre un qualcosa di importante, ma al quale non si sa dare un nome preciso perché ci sfugge. Una cosa è certa: sentiamo il bisogno di essere contenti, beati appunto! E in questo bisogno innato nel cuore scorgiamo una scintilla divina: Dio ci ha creati per questo! Scriveva Agostino, il grande indagatore del cuore umano: “Noi tutti certamente bramiamo vivere felici e tra gli uomini non c’è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione anche prima che venga esposta in tutta la sua portata” (De moribus eccl., 1,3).
    Il problema sta però nel fatto che l’uomo ha perso l’orientamento nella ricerca di questa felicità alla quale aspira: intuisce che c’è ma non la trova, il più delle volte sbaglia strada, spesso alla fine rinuncia a cercarla: si rassegna miseramente mettendo a tacere la sua sete profonda di gioia e sprofondando nella tristezza e nella noia.
    Ma la Parola di Dio, Gesù stesso, apre uno spiraglio – certamente si tratta di una “porta stretta” – a chi cerca la vera felicità. Ma è necessario che lo Spirito ci convinca di questa rivelazione. È lui che ci invita alla fiducia e alla docilità del cuore: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” (Sal 36,4).
    Apri, Spirito santo, il mio cuore, la mia mente, tutto il mio essere ad accogliere il tuo dono, a lodare e benedire il tuo nome, nel nome del Padre, nel nome del Figlio, nel nome della Santissima Trinità. Donami Signore il senso della tua presenza e disponi il mio cuore all’ascolto. Purifica la mia mente, il mio cuore e la mia volontà e tutto il mio essere da tutto ciò che non proviene da te ed è fonte di tristezza. Distogli il mio sguardo da me stesso, da tutte quelle preoccupazioni terrene che mi impediscono di cercare il mio vero bene e mi rendono prigioniero di me stesso. Abilita i miei occhi e il mio cuore a scorgere la direzione in cui devo incamminarmi se vorrò scoprire l’autentica beatitudine che non tramonta.

     Lectio

     È evidente come in questo testo Luca voglia evidenziare la centralità che deve avere nella sua comunità l’ascolto della Parola. Qui infatti risiede la vera beatitudine del discepolo e della comunità che consiste nella comunione con Cristo nel quale è data ogni benedizione. Un ascolto che produce una sintonia profonda con Cristo tale da creare una nuova consanguineità con lui, diversa ma non meno vera da quella della carne e del sangue. Come Maria attraverso l’ascolto della Parola il discepolo – e la comunità –  “concepisce” in sé il verbo e lo fa “crescere” in sé mediante la custodia della sua Parola.
    L’episodio narrato lo troviamo solo nel vangelo di Luca: è assente dagli altri. Ciò significa che a Luca preme sottolineare il messaggio già d’altra parte preannunciato, con altra sottolineatura, in 8,19-21 (e presente in tutti i sinottici): Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fu annunziato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica».
    Strutturalmente il nostro brano si presenta come un “apoftegma” contenente due beatitudini: dapprima una donna del popolo proclama “beata” la madre che ha avuto in dono un figlio così straordinario, al che Gesù ribatte subito proclamando “beato piuttosto” chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica!
    Mentre diceva ciò” (v. 27): di cosa Gesù sta parlando? Ci si riferisce alla risposta all’accusa da parte di scribi e farisei di operare guarigioni ed esorcismi in nome di Beelzebul “il capo dei demoni“. Gesù ribadisce loro che è esattamente il contrario:  questi sono segni che annunciano il compiersi in lui del regno di Dio.  Sembra perciò che questo il brevissimo episodio narrato subito dopo sia un ammonimento a perseverare nell’ascolto della parola e nel custodirla al fine di poter “stare” con Cristo (v. 23) e non correre il rischio di cadere nei lacci del nemico (vv. 24-25).
    Se da un lato scribi e farisei avanzano sospetti e accuse nei confronti di Gesù di Nazaret, quanto egli dice e fa suscita dall’altro lo stupore, anzi l’entusiasmo di una sua “fan”, un’attenta ascoltatrice e forse discepola. Si tratta di una semplice donna del popolo, che interrompe improvvisamente il discorso di Gesù con un grido “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” (v. 27). Si tratta di un’espressione tipicamente semitica che fa riferimento alla ricchezza della maternità e al suo mistero (cfr 10,23; 23,29): il ventre è il luogo della generazione, le mammelle quello della crescita, dello sviluppo del nascituro. La reazione di questa donna è simpatica perché esprime in modo squisitamente umano, anzi femminile e materno tutta la sua gioia: ella proclama a voce alta la beatitudine della madre del Rabbi di Nazaret per avergli dato l’esistenza. Dunque per questa donna rimane sempre Gesù il motivo della beatitudine della madre.
    All’interno del percorso evangelico è possibile scorgere sullo sfondo un riferimento sfumato alle profezie pronunciate sia da Elisabetta come da Maria stessa. Elisabetta, vedendo entrare nella sua casa di Ain Karem Maria, ne proclama la beatitudine a motivo di colui che è stato generato nel suo grembo: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!” (1,42). Subito dopo, nel canto del Magnificat, è Maria che proclama tutta la sua gioia-beatitudine alla quale invita tutti ad associarsi: “Tutte le generazioni mi diranno beata” (1,48). La donna del popolo, Elisabetta, Maria stessa, tutta la chiesa, riconosce la sua beatitudine. Ma in che cosa essa consiste?  Dove la sua sorgente più profonda?
    Ecco allora la risposta di Gesù che è offerta anch’essa nel linguaggio del macarismo: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (v. 28). Una risposta che non vuole certamente negare la prima beatitudine ma la vuole precisare andando molto più in profondità: “sì, ma…” “piuttosto…“.
    Appare evidente che Gesù vuole porre l’ascolto obbedienziale della Parola al di sopra anche dello stesso  privilegio della maternità fisica di sua madre. Egli vuole così stabilire una precisa gerarchia di valori all’interno della sua comunità (di cui anche Maria fa parte!) che si vengono così a strutturare a partire proprio dall’ascolto della Parola da cui scaturisce la fede.
    Con ciò Luca evita nella comunità cristiana il rischio di assolutizzare impropriamente il semplice  privilegio della maternità fisica di Maria benché essa sia divina e messianica.
    Detto questo occorre ribadire che Gesù non intende certamente sminuire la figura e il ruolo di Maria. Nel terzo vangelo ella è subito presentata alla Chiesa come il modello del perfetto discepolo docile e obbediente alla parola ascoltata: “Eccomi, sono la serva del Signore, si compia in me secondo la sua Parola“(1,38).  Ed è proprio l’obbedienza (ob-audire!) alla Parola che rende possibile la sua maternità. Elisabetta riconoscerà per prima questa più profonda e vera beatitudine nella “madre del suo Signore“: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
    E Maria è ancora proposta come modello di coloro che accogliendo la Parola la custodiscono gelosamente del proprio cuore: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (2,19); “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore” (2,51; cfr 8,15).
    Appare evidente allora che la vera beatitudine di Maria non consiste anzitutto in ciò che la donna esalta, bensì nel fatto che il suo assenso alla Parola udita permette a Dio di “fare grandi cose” in lei. Maria anticipa in sé ciò che “il Signore” vuole operare nel cuore di ogni credente. In tal modo la beatitudine pronunciata da Gesù si estende a tutti i discepoli.
    Così la beatitudine pronunciata da Gesù non sminuisce in minimo modo la dignità della madre, ma la innalza ulteriormente anche se ad un livello diverso e più profondo: la sua beatitudine non consiste solo e anzitutto nell’averlo generato nella carne quanto “piuttosto” dalla sua fede e dalla piena disponibilità al disegno di Dio.
    La donna del popolo tutto questo non l’ha ancora compreso. Ella si ferma prima non sapendo cogliere un “oltre” di fondamentale importanza. Il suo entusiasmo, dettato da una santa invidia, rischia di distoglierla dall’essenziale; essa volge lo sguardo indietro (“il ventre… le mammelle“), ignorando che la fede che scaturisce dall’ascolto (Rm 10,17) può operare l’impossibile anche in lei. Ma tutto questo esige la fatica dell’ascolto, dell’obbedienza, della custodia della parola. Si tratta di un balzo nella fede al di là dell’immediato, un salto che è premessa-promessa di autentica beatitudine. 

     Collatio

     Che la si chiami beatitudine, felicità, realizzazione di sé, o in altri molteplici modi, una cosa è certa: l’uomo cerca sempre e comunque la gioia, la pienezza della sua vita. Si tratta di un desiderio iscritto nel cuore dell’uomo da Dio stesso che ha creato l’uomo per la gioia, la beatitudine appunto: “Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare” (CCC 1718). In questo “essere colmato” da-di Dio consiste la beatitudine dell’uomo! Beatitudine dell’uomo è la comunione, l’amicizia, l’intimità con Dio, il poter “passeggiare con lui alla brezza della sera” nel giardino senza più fuggire da lui.
    A causa del peccato questa intimità è andata perduta: nel cuore dell’uomo si è instillato il sospetto su un “dio” che non vuole realmente il bene e la gioia per lui. Sospetto che questo “dio” pretenda solo sacrifici, mortificazioni, rinunce… la gioia all’uomo sarebbe costantemente negata e al massimo solo prospettata come promessa nell’al di là. All’uomo tocca per ora solo meritarsi – appunto attraverso rinunce e  mortificazioni – la gioia del Paradiso rinunciando alle gioie di questo mondo. Inutile dire che questa prospettiva non alletti nessuno, anzi ottenga l’effetto contrario del perdurare in noi della diffidenza e della paura.  Sotto questa angolatura anche il discorso delle beatitudini risulta ambiguo e diffidente (e il scarso annuncio che se ne fa nei pulpiti e nelle aule di catechesi lo testimonia!).
    Così alla fine l’uomo ha cercato e cerca tuttora la sua beatitudine altrove.
    Ma se dicevamo che in noi è inscritto il desiderio-bisogno della beatitudine, permane il problema di dove realmente cercarla per poterne gustare la dolcezza e appagare la sete del cuore. Anche chi fa il male e ne percorre le vie – magari in tutta una vita spesa nella violenza, nel sesso, nella droga o altro – è convinto di trovare lì la propria beatitudine!
    Ecco allora Dio curvarsi nuovamente sull’uomo per indicargli, partendo da Abramo (Gn 12,1) per giungere a Cristo (Col 1,19), la strada da ripercorrere (la “conversione”) per ritornare in possesso del suo autentico destino di gioia: “Beato l’uomo che teme il Signore e trova grande gioia nei suoi comandamenti” (Sal 111,1).
    Un destino che Gesù incarna pienamente in se stesso perché è lui anzitutto l'”uomo beato” per antonomasia: vive nel costante ascolto della volontà del Padre e nella fedeltà ai suoi comandamenti (cfr Gv 5,30), si compiace di compierne la volontà (cfr Gv 6,38), rimane costantemente in unione con lui (cfr Gv 17,21), dinanzi alle prove si affida totalmente alle sue promesse (cfr Mt 26,42). È Gesù che per primo sperimenta nella gioia della resurrezione la beatitudine dell’ “uomo che spera nel Signore” (Sal 39,5). Se Gesù annuncia le beatitudini lo fa perché è lui per primo a sperimentarne la realtà e la verità.
    Uniti a Cristo possiamo così, con lui e in lui, a nostra volta intraprendere il cammino per vivere già ora “beati sulla terra” (cfr Sal 40,3). Se infatti la beatitudine dell’uomo è la comunione con Dio essa ci è data, in Cristo, da sperimentare sin d’ora in germe nell’attesa della sua piena manifestazione alla fine dei tempi “quando Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28) come somma ed eterna beatitudine.
    Ma non è facile entrare nell’orizzonte della via indicata da Cristo per ritrovare quella beatitudine per cui siamo stati fatti. Essa ci propone un percorso controcorrente che presupponendo la docilità della fede ci appare troppo ardua, forse troppo lontana da quel mondo di desideri e aspettative immediate con cui costelliamo – anche nella vita consacrata! – le nostre esistenze e che viaggiano a raso terra. Rischiamo così dinanzi alla proposta evangelica di un cammino costituito dalla fatica del costante ascolto della Parola, dall’umile docilità della fede, dal costante esercizio della speranza di preferire la… fermata prima. Rischiamo di fare come la donna dell’episodio evangelico che nel suo slancio è sì entusiasta delle parole di Cristo ma giunge a riconoscere in lui una beatitudine legata ancora solo “alla carne e al sangue“(cfr Mt 16,17).
    A questa donna, e a tutti noi, Gesù fa una proposta che va molto più in profondondità ed è offerta a tutti senza esclusione: si tratta di una beatitudine che è data a tutti e non solo a qualche privilegiato. Maria è beata perché non solo e anzitutto è madre nella carne di Cristo (anche se questo per lei è un privilegio unico!), quanto piuttosto perché persevera nell’attento ascolto della Parola  meditata e custodita “giorno e notte” (cfr Sal 1). Così la donna del popolo invece di invidiare Maria è invitata da Gesù ad imitarla perché la maternità più profonda consiste nel concepire la Parola in sé attraverso l’ascolto e nel farla crescere in sé attraverso la sua gelosa custodia (cfr 8,21).
    Tutti siamo invitati ad entrare nella beatitudine del concepire nella nostra carne il Verbo: “Il ventre è l’ascolto che fa concepire la Parola, le mammelle sono la custodia e la premura nel far crescere ciò che è stato generato (8,15; 8,21)” (S. Fausti).  Quando in noi viene “concepito” (attraverso l’ascolto) e allattato (attraverso la custodia) il Verbo di Dio entriamo nella beatitudine di ogni madre che sente in sé crescere il dono della vita nuova, di una comunione donata con l'”Altro”. E questo Altro non è che Cristo stesso nel quale ci è donata dal Padre la pienezza di ogni “benedizione dai cieli” (cfr Ef 1,3). In lui ci sono dati tutti quei beni che il cuore sommamente aspira: la certezza di essere amati, la consapevolezza che Dio ha in mano il nostro destino, che sua volontà è quella di averci in comunione eterna di vita con lui.
    Si tratta di una “divina natività” (san Paolo della Croce) che si attualizza in ogni autentico discepolo: cosicché Cristo continua a nascere e a crescere in noi e tra noi.
    A noi entrare nella luce di questa beatitudine che è promessa di una vita nuova in noi: Cristo in noi. Guarderemo a Maria non con l’invidia della donna del popolo, ma come a colei che ci indica la strada per rivivere in noi la sua stessa esperienza di grazia. Con Maria potremo magnificare Dio per le meraviglie che ha operato in lei e in noi. E saremo con lei a nostra volta beati. In forza dell’ascolto (cfr Ap 1,3). 

     Oratio

     E’ beato, o Padre, chi lascia che la tua Parola possa essere seminata nei solchi del suo cuore affinché nel silenzio e nel nascondimento essa possa germinare e portare frutto. “Beato chi custodisce queste parole” (Ap 22,7).  È beato chi ascolta la tua Parola che è seme che concepisce nel suo cuore il tuo Verbo che nuovamente si fa carne e “pone la sua tenda tra di noi”.
    Sarà beato questo cuore perché potrà dire con l’apostolo Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20).
    Spirito Santo facci entrare in questa beatitudine! Non permettere che andiamo a cercare felicità altrove, lontano dalla comunione con Cristo. Siamo stati fatti per lui e nostra beatitudine è stare con lui abbracciando in lui ogni cosa. Se Cristo vivrà in noi saremo beati sempre e in ogni caso, pur in mezzo a mille prove e sofferenze, perché avremo in noi la gioia vera e imperitura che “nessuno vi potrà togliere” (Gv 16,23).
    O Maria, tu che hai sperimentato in te la pienezza di questa gioia, insegnaci a cercarla e a custodirla nella certezza che è  “beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie” (Sal 127,1).

  • 05 Apr

    Maria icona perfetta

     

     

    Maria è nella Chiesa l’icona del nostro vivere,

    Maria, umile e alta più che creatura,

    anello d’oro del tempo e dell’eterno,

    fiore di luce nel nostro deserto,

    è raggiunta dall’amore di Dio

    e accetta di non vivere più

    senza mistero.

    In lei finalmente è stato possibile

    estrarre dalla creazione

    uno sguardo che non perde l’innocenza del suo brillare.

    È emerso nel mondo un essere che è solo bontà,

    una mano incapace di colpire,

    una innocenza minacciata eppure vittoriosa,

    un gesto che non racchiude alcuna ambiguità.

    È apparso nella storia un cuore  senza divisioni,

    una verginità senza rimpianti,

    un amore che unisce castità e tenerezza,

    un frutto non avvelenato dal serpente,

    una bellezza non più in frammenti.

    In lei la creazione intera è vergine di nuovo.

    Viene ora come pienezza d’umano,

    come porta del mistero.

    Viene come nostalgia di bellezza,

    come promessa di un altro modo

    di abitare la terra.

    Viene come immagine conduttrice del nostro vivere,

    viene come icona di quanti sono pellegrinanti
    nei campi della vita
    in attesa di pellegrinare nella luce.

     

     Agorà dei Giovani, Loreto 2007

    aaaaa

  • 04 Apr

    Litanie Mariane

     

    Maria donna senza retorica

    liberami dal multiloquio vaneggiante

    Maria donna feriale

    rendimi allergico ai tripudi di feste
    che naufragano nel vuoto

    Maria donna dell’attesa

    distruggi in me la frenesia di volere tutto e subito

    Maria donna innamorata

    affrancami dalla voglia di essere sempre capito e amato

    Maria donna gestante

    donami la gioia di sentire nel grembo i fremiti del mondo

    Maria donna accogliente

    dilata a non finire in me la tenda dell’accoglienza

    Maria donna del primo passo

    insegnami a camminare senza contare i passi

    Maria donna missionaria

    rendi polverosi i miei piedi per il lungo calcare

    i sentieri del mondo

    Maria donna di parte

    rendi costante in me il rigetto di ogni compromesso

    Maria donna del primo sguardo

    dilata i miei occhi con la luce del Risorto

    Maria donna del pane

    affina in me il gusto dell’essenziale nella semplicità

    Maria donna di frontiera

    snidami dalle retroguardie della mia codardìa spirituale

    Maria donna coraggiosa

    attrezzami per osare l’impossibile e l’imprevedibile

    Maria donna in cammino

    provoca in me il rifiuto definitivo

    della poltrona e delle pantofole

    Maria donna del riposo

    fammi sognare a occhi aperti accanto

    a tutti i poveri del mondo

    Maria donna del vino nuovo

    regalami un cuore traboccante di gioia e di letizia

    Maria donna del silenzio

    stabilisci il mio domicilio nella contemplazione di Dio

    Maria donna obbediente

    attira il mio sguardo perché possa obbedire

    sempre più in alto

    Maria donna del servizio

    prestami il tuo grembiule preparato a Nazareth

    e mai dismesso

    Maria donna vera

    strappami le plastiche facciali che sfregiano

    l’immagine di Dio

    Maria donna del popolo

    abolisci in me ogni traccia di privilegio

    e annullane anche il desiderio

    Maria donna che conosce la danza

    fa’ di me un rigo musicale su cui ognuno

     possa cantare la sua vita

    Maria donna del sabato santo

    rendimi familiare la morte

    come ingresso nella risurrezione

    Maria donna del terzo giorno

    addestrami a leggere la storia alla luce dell’Apocalisse

    Maria donna conviviale

    prepara ogni giorno la mensa del mio cuore

    con tovaglia, un fiore, un pane

    Maria donna del piano superiore

    scioglimi dall’arroganza della carriera per accedere

    solo al piano dello Spirito Santo

    Maria donna bellissima

    fa’ che io scopra le iridescenze di una vita tutta

    acqua e sapone

    Maria donna elegante

    donami un sorriso per ogni gesto di amore

    Maria donna dei nostri giorni

    depenna eventuali rimpianti del passato,

    perché renda già presente il futuro

    Maria donna dell’ultima ora

    affretta il mio passo verso il fratello che mi attende

                verso il Cristo che mi precede

                verso il Padre pronto ad accogliermi nell’Amore

                dello Spirito.

     

    Invocazioni tratte dagli scritti di mons. Tonino Bello

     

    affretta il mio passo verso il fratello che mi attende

                verso il Cristo che mi precede

                verso il Padre pronto ad accogliermi nell’Amore

                dello Spirito.

  • 03 Apr

    E’ veramente giusto

     

    È veramente giusto glorificare te,
    o Madre di Dio,
    sempre beata e tutta immacolata
    e Madre del nostro Dio.
    Te più onorabile dei cherubini
    e senza confronto più gloriosa
    dei serafini;
    te, che senza ombra di corruzione,
    partoristi il Verbo di Dio,
    te magnifichiamo
    quale vera Madre di Dio.

    Divina Liturgia di san Giovanni Crisostomo

     

     La pietà della Chiesa verso la Santa Vergine è elemento intrinseco del culto cristiano.
    La Santa Vergine viene dalla Chiesa giustamente onorata con un culto speciale.
    In verità dai tempi più antichi la beata Vergine Maria
    è venerata col titolo di “Madre di Dio”, sotto il cui presidio i fedeli, pregandola,
    si rifugiano in tutti i pericoli e le loro necessità.

    CCC 971

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

  • 02 Apr

    Donna del dolore

     

    Santa Maria, donna del dolore,

    madre dei viventi, salve!

    Novella Eva,

    Vergine sposa presso la Croce,

    dove si consuma l’amore

    e sgorga la vita.

    Madre dei discepoli,

    sii tu l’immagine conduttrice

    nel nostro impegno di servizio;

    insegnaci a sostare con te

    presso le infinite croci

    dove il tuo Figlio è ancora crocifisso;

    a vivere e a testimoniare l’amore cristiano,

    accogliendo in ogni uomo un fratello;

    a rinunciare all’opaco egoismo
    per seguire Cristo, sola luce dell’uomo.

    Vergine della Pasqua,

    gloria dello Spirito,

    accogli benigna la nostra preghiera.

    Dal Proprio Liturgico dei Servi di Maria

     

     

     

     

    Maria fu introdotta nel mistero della croce

    e ciò le diede il coraggio di stare presso la croce,

    benché il suo cuore materno bruciasse di dolore.

    Teofanie il Recluso, Lettere

  • 31 Mar

    Consacrazione della nostra vita a Cristo attraverso Maria

     

    Maria tu sei la Madre di Cristo,

    Madre della Comunione

    che tuo Figlio ci dà,

    come dono sempre nuovo e potente,

    che è un gusto di vita nuova.

    Attraverso di Te noi perciò

    consacriamo tutto noi stessi,

    tutte le gioie e le sofferenze che Tuo Figlio

    sceglie per noi e la nostra stessa vita,

    affinchè tu diventi la Madre della Vita,

    e Cristo doni a tutti gli uomini

    lo stesso gusto di vita nuova 

    che ha donato a noi.
    Amen

     

     

  • 30 Mar

    La tua bontà Signore

     

    Piango il presente
    e detesto il passato,

    temo per il futuro
    la colpa che ho commesso:

    e nel mio orgoglio
    leggo il tuo giudizio.

    La tua bontà, Signore,

    supera la mia ingiuria:

    usala con dolcezza,

    come fa il padre col figlio:

    meno avessi peccato,

    minore sarebbe la tua grazia.

     

    Mathurin Régnier (1573-1613)

  • 27 Mar

    Un mediatore necessario

    Il quarto canto del Servo: Isaia 53

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    Messaggio centrale

     Nella misteriosa figura del Servo sofferente i cristiani hanno riletto la vicenda di Gesù di Nazaret. Nella passione del Servo, provocata dal peccato di tutti, il mondo trova riconciliazione e perdono: è lui infatti l’unico innocente che può giustificarci davanti a Dio. Lui l’unico mediatore di una alleanza nuova ed eterna perché sancita nel suo sangue senza colpa. A noi il prendere coscienza dell’ “alto prezzo” (1 Cor 7,23) di quest’opera d’amore.

     

    Nella sacra Scrittura il nome di “Servo di JWHW” è un titolo onorifico che viene dato a colui che YHWH chiama a collaborare in modo del tutto particolare al suo progetto di salvezza.
    L’essere “servo di JWHW” doveva essere prerogativa essenziale di Israele in mezzo a tutti gli altri popoli, ovvero chiamato ad essere destinatario e mediatore dell’alleanza donatagli non a titolo esclusivo ma perché potesse essere testimoniata e offerta a tutti gli altri popoli. Ma così non è stato a causa del peccato di Israele, ovvero dell’infedeltà all’alleanza che lo ha portato a “servire altri dei” e non l’unico suo Dio (cfr Dt 6,14).
    Nei profeti è contemplato il fatto che Dio non si arrende al suo progetto, eccolo allora tra il popolo infedele scegliersi un “piccolo resto” che avrebbe risposto positivamente alla chiamata ponendosi al servizio esclusivo di JHWH. È appunto a questo piccolo e ipotetico futuro resto fedele che sono rivolti gli oracoli del “Libro della Consolazione” del profeta Isaia (cc 40-55). In questi carmi, tra i più famosi, della Bibbia, appare la misteriosa figura di un “profeta” che Dio chiama ripetutamente “suo servo“: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato” (52,13). Questo “servo” riceverà una missione tutta particolare, unica: quella di riconciliare l’umanità intera a Dio, rinnovando l’antica alleanza: questo “ritorno” si attuerà attraverso il sacrificio della sua vita che renderà manifesto il peccato di tutti (Israele e gli altri popoli compresi), affinché tutti prendano coscienza della loro lontananza da Dio e della necessità di aderire all’alleanza di cui il “Servo” si è fatto mediatore.
    Anche noi salendo sulla carrozza dell’eunuco della regina Candace diretto a sud all’ora di mezzogiorno, ci mettiamo a leggere con lui questi testi, lasciando risuonare in noi la sua stessa domanda: “Per favore, di chi il profeta dice questo? Di sé o di un altro?“. Filippo prende allora l’occasione per annunciare la Buona Notizia di Gesù il Servo fedele (cfr At 8,34s).  Nel nuovo Testamento la figura del “Servo di YHWH” trova così la sua realizzazione in Gesù di Nazareth: egli è il “servo fedele” che rendendosi pienamente disponibile alla volontà del Padre “fino alla morte e alla morte di croce“(Fil 6,5) diviene mediatore della nuova alleanza.
    Meditiamo ora le stupende e drammatiche parole della profezia del quarto canto del Servo Sofferente: 

    Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
    A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
    È cresciuto come un virgulto davanti a lui
    e come una radice in terra arida.
    Non ha apparenza né bellezza
    per attirare i nostri sguardi,
    non splendore per provare in lui diletto.
    Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori che ben conosce il patire,
    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.

    E’ un gruppo anonimo che inizia a parlare. Da chi è composto? Suggerirei una possibile risposta in: tutti, nessuno è escluso. Viene pronunciata, quasi ansiosamente, una domanda: “Chi…A chi?“: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi…“. È successo qualcosa di sconcertante, di sbalorditivo, di cui a fatica si riesce a dare spiegazione.
    Ciò che è annunciato come “accaduto” non è una teoria, un’idea, bensì un fatto, anzi una persona e tutta la sua vicenda storica. La sua nascita è rappresentata con un simbolo: un piccolo arbusto insignificante che a stento cresce nel deserto. Questo servo-arbusto nel deserto è estremamente fragile e debole, la sua stessa esistenza è grazia perché non può essere generato e alimentato da una terra desolata. Egli è un’umile presenza viva in un mondo divenuto un deserto e luogo di morte a causa del peccato.
    Non ha nulla che possa attirare l’attenzione: non ha bellezza, né forza, né potere. Che valore può avere una storia così “banale” a confronto con le gloriose biografie di Sansone vincitore, di Mosè condottiero, del forte Davide, e del sapiente Salomone? Egli non possiede antenati e genealogie trionfali.
    Egli, al contrario, è disprezzato e respinto dai suoi: Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”. Tale disprezzo fa ricordare il lebbroso messo al bando, allontanato da tutti come apportatore di morte, un castigato da Dio. Timorosi di contagiarsi tutti fuggono da lui, evitano di incontrarlo; è un tema ricorrente nei salmi di lamentazione: “Hai allontanato da me i miei compagni,mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo; si consumano i miei occhi nel patire. Tutto il giorno ti  chiamo, Signore, verso di te protendo le mie mani (Sal 87,9s; 38,13s; 38, 8ss; Lam 3,1.14). La sofferenza fisica del servo è da tutti interpretata come un castigo divino, e perciò lo si tiene lontano come un peccatore.

    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
    si è addossato i nostri dolori
    e noi lo giudicavamo castigato,
    percosso da Dio e umiliato.
    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
    schiacciato per le nostre iniquità.
    Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
    per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
    Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
    ognuno di noi seguiva la sua strada;
    il Signore fece ricadere su di lui
    l’iniquità di noi tutti.
    Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello condotto al macello,
    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
    e non aprì la sua bocca.

    Sono gli spettatori che a questo punto confessano la loro colpa: si riconoscono responsabili del dolore arrecato al Servo. Il peccato è loro non suo, mentre all’inizio, come gli “amici” di Giobbe, hanno creduto che fosse Dio stesso a castigarlo.
    In realtà il Servo accetta di portare su di sé le conseguenze del male di tutti gli altri, e con la sua sofferenza innocente può aprire i loro occhi perché riconoscano il loro peccato. I dolori del Servo infatti dimostrano sì l’esistenza del male e del peccato, ma non del peccato di colui che soffre, bensì di coloro che gli procurano dolore e morte. Il “castigo” è nostro, il “dolore” è suo! E il suo “dolore” è salvifico perché capace di suscitare pentimento, di provocare una dolorosa rivelazione del male che abita il profondo del cuore di ciascuno di noi.
    Tutto questo rientra in un preciso disegno: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Questa sarà un’espressione frequentemente usata nel kerygma cristiano per designare la consegna del Figlio da parte del Padre all’umanità peccatrice (“Mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per esser consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà» Mt17,22s; Gv 18,30.35; At. 3,13).
    Il silenzio del Servo è emblematico: di solito un uomo in preda alla sofferenza urla la sua disperazione e la propria rabbia. Nel libro di Giobbe e nei salmi l’uomo che soffre “grida, invoca, geme…”. Il Servo invece tace “come un agnello“; egli affida la sua causa interamente a Dio, e il suo silenzio nel medesimo tempo diviene messaggio profetico di un amore che senza limiti si mette nelle mani dei suoi persecutori. 

    Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
    chi si affligge per la sua sorte?
    Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
    per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
    Gli si diede sepoltura con gli empi,
    con il ricco fu il suo tumulo,
    sebbene non avesse commesso violenza
    né vi fosse inganno nella sua bocca.
    Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
    Quando offrirà se stesso in espiazione,
    vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
    si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
    Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
    e si sazierà della sua conoscenza; 

    Viene riconosciuto da parte di tutti che nei confronti del Servo vi è stato un giudizio errato e applicata una condanna tremendamente ingiusta (con oppressione). Di fronte a tale condanna ingiusta il servo non si è difeso, non ha invocato il castigo e il giudizio da parte di Dio (come invece fece Geremia: 17,18). Non ha reagito al male con il male, alla violenza con la violenza: egli ha spezzato una volta per tutte la catena del male che lo circondava, caricando tutto l’enorme peso del peccato del mondo su di sé. Un giorno, sulle rive del Giordano, il profeta Giovanni Battista indicherà ai suoi Gesù di Nazaret definendolo “l’Agnello-Servo  di Dio che porta su di sé il peccato del mondo” (Gv 1,29)!
    Egli è stato alla fine “eliminato“: il male non sopporta il bene, le tenebre non sopportano la luce. Nella battaglia sembra che male e tenebre abbiano il sopravvento. Così l’esistenza del Servo sembra terminare in una tragitta sconfitta. La sepoltura ignominiosa sigilla tutta una vita abbeverata di dolore e disprezzo: egli finisce nella fossa comune dei giustiziati a morte (“sepoltura con gli empi” 14,19).
    Dopo la sua morte viene riconosciuta la sua innocenza: ma non è ormai troppo tardi? Il crimine è stato ormai commesso.
    Ma la morte non è lo sbocco tragico e definitivo verso cui la vita del Servo è ormai irrimediabilmente sprofondata. Anzi, proprio la sua morte ignominiosa, apre ad un mistero di vita inaspettato: il germoglio che si credeva ormai estinto continua a crescere a fiorire.
    Al giusto e fedele Servo viene dato di contemplare nuovamente la luce (cfr Sal 36,10), si sazia nella dolcezza della gloria che gli è attribuita che è il “conoscere”  Dio (“la vita eterna  è conoscere te”: Gv 17,3).

    il giusto mio servo giustificherà molti,
    egli si addosserà la loro iniquità.
    Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
    dei potenti egli farà bottino,
    perché ha consegnato se stesso alla morte
    ed è stato annoverato fra gli empi,
    mentre egli portava il peccato di molti
    e intercedeva per i peccatori. 

    Nel finale del carme entra in scena Do stesso; è lui a pronunciare un giudizio definitivo sulla vicenda del Servo. Ciò che gli uomini hanno considerato un fallimento per YHWH risulta invece una straordinaria vittoria. Una vittoria che, scandalosamente, passa attraverso il sacrificio della vita stessa del Servo: “offrirà se stesso in espiazione“. Vi è qui un forte riferimento al sacrificio liturgico dell’agnello offerto per i peccati commessi da tutto il popolo (cfr Lv 4-5). La morte del Servo possiede un risvolto sacrificale espiatorio: rappresenta un sacrificio perfetto offerto in espiazione dei peccati, proprio perché vittima innocente dell’odio, dell’ingiustizia, della violenza che abitano il cuore dell’uomo essa può liberarne tutti noi suoi persecutori: “giustificherà molti“. Egli sarà in grado di condividere con tutti noi la sua innocenza realizzando così tutte le promesse fatte da Dio (Is 40,14; Rm 3,26).
    Il canto termina con le note della glorificazione del Servo, al quale è data da Dio la signoria su tutti i regni e i popoli della terra: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino”. Il Servo appare ora come Signore e Giudice della storia dinanzi al quale ogni creatura può solo prostrarsi in adorazione:E quando l’ebbe preso, i quattro esseri viventi e i ventiquattro vegliardi si prostrarono davanti all’Agnello, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi, che sono le preghiere dei santi.  Cantavano un canto nuovo: «Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangueuomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione»” (Ap 5,8-10).
    La figura del Servo sofferente per noi ha un nome: Gesù. Gli evangelisti rileggendo le profezie di Isaia hanno potuto comprendere e rileggere il mistero della passione, morte e resurrezione del Crocifisso risorto. Solo attraverso di lui vi è perdono, riconciliazione, con Dio, nel suo sangue è stipulata quella nuova e perfetta alleanza che nulla potrà mai distruggere perché fondata su di lui unico servo fedele e obbediente nel quale tutti siamo riscattati. 

    Per la riflessione

     Nella vicenda del Servo sofferente siamo posti dinanzi ad una tragica rivelazione: quella del male che abita il cuore di ciascuno di noi. La croce di Gesù è infatti rivelazione del peccato che ci abita, delle resistenze e del rifiuto alla luce e alla verità, male irrimediabile che determinerebbe solo la nostra condanna. Ma Dio non arretra: paga tutte le conseguenze del nostro rifiuto caricandole, nel Servo-Gesù-suo Figlio, sulle sue stesse spalle, e questo perché l’uomo alla fine si arrenda all’offerta di alleanza e di amicizia che nell’umiltà sconcertante e nel silenzio enigmatico del Servo sofferente egli fa all’uomo.

     Preghiera conclusiva

    Fil 2,5-11

     P.         Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 

    1 C.     il quale, pur essendo di natura divina,
    non considerò un tesoro geloso
    la sua uguaglianza con Dio;

    2 C.     ma spogliò se stesso,
    assumendo la condizione di servo
    e divenendo simile agli uomini;

    1 C.     apparso in forma umana,
    umiliò se stesso
    facendosi obbediente fino alla morte
    e alla morte di croce.

    1 C      Per questo Dio l’ha esaltato
    e gli ha dato il nome
    che è al di sopra di ogni altro nome; 

    2 C.     perché nel nome di Gesù
    ogni ginocchio si pieghi
    nei cieli, sulla terra e sotto terra; 

    1 C.     e ogni lingua proclami
    che Gesù Cristo è il Signore,
    a gloria di Dio Padre.

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