• 14 Dic

    La Preghiera di Gesù nella Spiritualità esicasta

    di PLACIDE DESEILLE

    Testo originale: La Prière de Jésus dans la Spiritualité Hésychaste © 1995 Monastère Saint Antoine-le-Grand, Traduzione dal francese del prof. G. M. – Palermo 2005


    1. Le origini del metodo

    2. La sobrietà spirituale e l’invocazione del nome di Gesù

    3. Tecnica corporale

    4. Conclusione

    Da una trentina d’anni, numerose pubblicazioni hanno rivelato agli Occidentali un metodo di vita spirituale familiare ai cristiani d’Oriente, il cui momento principale è dato dall’invocazione ripetuta incessantemente:“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore ”. A ragione  parliamo di metodo di vita spirituale: perché la Preghiera di Gesù non può essere considerata una semplice orazione giaculatoria paragonabile a quelle raccomandate dalla pietà cattolica, anche se il metodo occidentale delle “aspirazioni” possa collegarsi allo stesso filone tradizionale risalente ai Padri del deserto. Ma la Preghiera di Gesù è inseparabile da una dottrina di vita spirituale che i cristiani bizantini e slavi considerano volentieri il cuore dell’ortodossia: l’esicasmo. Perciò, se si vuole cogliere il significato e la portata dell’invocazione del Nome di Gesù nella spiritualità ortodossa, è indispensabile conoscere le grandi linee di questa dottrina.

    1. Le origini del metodo

    La via esicasta poggia su un doppio fondamento:

    1.la dottrina della deificazione dell’uomo in Cristo, così come formulata dai Padri della Chiesa greca,

    2. l’insegnamento pratico dei Padri del deserto sulla custodia del cuore e la preghiera continua.

    Messi di fronte alle eresie trinitarie e cristologiche, i grandi vescovi e i teologi dell’Oriente elaborarono una dottrina che non era puramente speculativa, ma coinvolgeva profondamente una concezione del destino spirituale dell’uomo. Come ripeteranno instancabilmente di fronte ai negatori della consustanzialità del Verbo o delle due nature di Cristo, se il Verbo non è Dio, l’uomo non può essere divinizzato; se una natura umana integrale non è stata unita “senza separazione né confusione” alla natura divina in Cristo, l’uomo non può più essere salvato e divinizzato. Divinizzazione che veniva concepita in maniera estremamente realistica, non indubbiamente come unione ipostatica di ogni persona umana con l’essenza divina, ma come una compenetrazione vitale dell’agire increato di Dio, alla guisa e nel prolungamento della deificazione della natura umana di Cristo.

    Le controversie cristologiche, conducendo i Padri a mettere in luce il ruolo soteriologico della carne di Cristo, ebbero altre due conseguenze, invero connesse.

    1.      Da una parte, il pensiero bizantino, di fronte alle tendenze spiritualiste che il cristianesimo alessandrino aveva ereditato dall’ellenismo, prese sempre più coscienza che ad essere salvato è l’uomo nella sua interezza: la deificazione non è riservata solo all’anima, ma si estende pure al corpo, come manifestato dallo splendore corporale di Cristo sul Tabor.

    2.      D’altra parte, fu più vivamente percepita l’importanza dei segni sacramentali e liturgici, che estendono sino a noi l’azione deificatrice della carne di Cristo. Le catechesi battesimali dei Padri ci trasmettono i primi echi di quella mistica sacramentale, che resterà una delle costanti della spiritualità orientale.

    Negli ambienti monastici dei primi tempi, la dottrina della deificazione dell’uomo era pure presente, ma vi appariva sotto una luce un po’ diversa. Si metteva meno l’accento sulle basi cristologiche e sacramentali che sull’aspetto esperienziale. Il santo monaco, l’abba del deserto, era un uomo deificato, pneumatoforo, attraverso il quale la presenza dello Spirito nella creatura si manifestava visibilmente; nel segreto della preghiera, egli faceva l’esperienza di quella Presenza che trasfigurava il suo essere. Ma questa esperienza deificante richiedeva innanzitutto lunghi combattimenti di ascesi, la vigilanza del cuore, l’assiduità della preghiera. Era facile la tentazione di confondere la divinizzazione del cristiano mediante la grazia con l’esperienza mistica, cioè con le sue contraffazioni sottili o grossolane; misconoscere anche il valore insostituibile dei sacramenti, i cui effetti non sono immediatamente percepibili, e riconoscere efficacia solo allo sforzo ascetico, o tecniche di preghiera che favoriscono una esaltazione mistica di bassa lega. Il colmo fu superato nelle cerchie monastiche toccate dall’eresia messaliana, nella quale l’autentica esperienza della dolcezza di Dio sfiorava le aberrazioni più pericolose.

    Toccò al lavoro dei maestri spirituali del V secolo – precisamente un Marco l’Eremita e un Diadoco di Fotica – cernere il buon grano dalla zizzania e formulare una dottrina in cui l’ autentica esperienza mistica, distinta dalle sue immaginarie contraffazioni, veniva riconosciuta come l’effusione normale della grazia battesimale, ma dove la vita sacramentale e liturgica veniva collocata alla base di tutta l’opera della salvezza.

    Marco l’Eremita scrive: “Coloro che sono stati battezzati in Cristo hanno ricevuto misticamente la grazia, ma essa opera in loro nella misura in cui essi compiono i comandamenti… Chi è stato battezzato nella fede ortodossa ha ricevuto misticamente tutta la grazia. Ma ne ha la certezza soltanto dopo, praticando i comandamenti”.

    La “certezza” (pleroforia), l’ “opera” della grazia, indicano qui l’aspetto esperienziale della divinizzazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio; la “pratica dei comandamenti” è secondo Evagrio il Pontico il termine tecnico per indicare l’insieme dello sforzo ascetico dell’uomo, la cooperazione della sua libertà all’opera della grazia. E Diadoco di Fotica, utilizzando la distinzione frequente nei Padri tra l’ “immagine” e la “rassomiglianza” di Dio nell’uomo, descrive così i due tempi della divinizzazione: “Col battesimo della rigenerazione, la santa grazia ci conferisce due beni, uno dei quali supera infinitamente l’altro. Essa ci elargisce il primo immediatamente; infatti ci rinnova nell’acqua stessa e fa brillare tutti i lineamenti dell’anima, cioè l’immagine di Dio, cancellando in noi ogni traccia del peccato. Quanto all’altro, per produrlo essa attende il nostro contributo, quella è la rassomiglianza. Quando dunque l’intelletto, in un sentimento profondo, avrà cominciato a gustare la bontà dello Spirito Santo, dobbiamo sapere che allora la grazia comincia a dipingere, per così dire, la somiglianza sopra l’immagine… così dunque, giorno dopo giorno, il nostro uomo interiore si rinnova nel gusto della carità, e trova nella perfezione di essa la sua pienezza”.

    Nel quadro di questa dottrina ha il suo posto la Preghiera di Gesù: il mezzo, privilegiato da tutta la tradizione esicasta, di prendere coscienza della presenza di Cristo che abita nei nostri cuori sin dal battesimo; per mezzo suo si compirà la “pratica dei comandamenti”.

    2. La sobrietà spirituale e l’invocazione del nome di Gesù

    Nei Padri del deserto, il metodo preconizzato per “procurare la propria salvezza”, cioè per raggiungere il pieno sviluppo della vita spirituale, comportava due elementi:

    1. da una parte, i “lavori corporali” – digiuni, veglie, austerità di ogni tipo, lavoro manuale –

    2. dall’altra la custodia del cuore, che implicava insieme una incessante lotta spirituale contro “i pensieri” – cioè le cattive suggestioni seminate nel cuore dai demoni – ed una instancabile assiduità nella preghiera.

    Consultato sull’importanza a riguardo di questi due elementi, l’Abate Agatone dichiarava: ”L’uomo è simile ad un albero: il lavoro corporale rappresenta le foglie, mentre la custodia dell’interiore è il frutto. Ebbene, la Scrittura dice: Ogni albero che non produce buoni frutti sarà tagliato e gettato sul fuoco. È chiaro dunque che ogni nostro sforzo deve riguardare il frutto, cioè la custodia dello Spirito; tuttavia abbiamo bisogno della coperta e del manto delle foglie: cioè il lavoro corporale”.

    Sarà quello l’insegnamento dei maestri dell’esicasmo: non cesseranno di raccomandare innanzitutto di stare attenti a se stessi, di entrare nel proprio cuore; o, secondo l’espressione di San Giovanni Climaco, di “circoscrivere l’incorporale (lo spirito) nel corpo”, anziché lasciarsi disperdere fuori.

    In effetti il cuore dell’uomo, nel senso biblico del termine, designa la fonte segreta da cui procede la vita spirituale più profonda, fatta di quelle inclinazioni spontanee e di quel senso intimo delle cose che coinvolgono tutto il suo essere. Nel battesimo, quel cuore è stato ricreato dallo Spirito, che ha inciso la sua legge e l’ha penetrato con la sua unzione; in altri termini, c’è iscritta un’attrazione per il bene capace di trionfare su tutte le sollecitazioni del male, e un senso di Dio e dei suoi misteri in virtù del quale il cristiano non dovrebbe più avere bisogno d’insegnamento esterno, poiché quella unzione lo istruisce pienamente (cfr. 1Gv 2, 27). Ma di fatto, queste energie divine sono in lui solo allo stato germinale e richiedono la cooperazione (sinergia) della grazia e della nostra libertà per espandersi in una direzione divenuta spontanea di tutti i movimenti del nostro psichismo verso Dio (apàtia) ed un’esperienza intuitiva e gustosa della Presenza divina (contemplazione, teoria).

    Inoltre, il battesimo lascia sussistere in noi altre seduzioni, vestigia del peccato, che la grazia ci dà il potere di combattere, che tuttavia restano temibili. Se l’uomo lascia fuggire il suo spirito (o “intelletto” nous) attraverso i sensi del corpo e portarsi senza controllo verso gli oggetti esterni, fornirà nutrimento a quelle tendenze centrifughe, le sveglierà, e si esporrà ad acconsentire ad esse. Per questo non è neppure necessaria la presenza degli oggetti esterni: basta che, con l’aiuto dei demoni, nasca nell’anima il ricordo di oggetti capaci di darci una soddisfazione egoista, e la volontà cederà alla passione suscitata in quella maniera. L’uomo vivrà allora in una sorta di sogno ad occhi aperti, in un mondo irreale dove il bene e il male, il vero e il falso, saranno apprezzati solo in funzione delle proprie tendenze affettive.

    A questa perniciosa ebbrezza spirituale, i Padri oppongono la “sobrietà” e la vigilanza già raccomandate da San Pietro in un testo ripreso spesso dai maestri dell’esicasmo: “siate sobri, vegliate. Il vostro avversario, il Diavolo, gira attorno, come leone ruggente, cercando la preda” (1 Pietro 5, 8).

    La sobrietà spirituale (nepsis), è pertanto l’attività dello spirito che veglia e lotta per restare padrone di sé durante l’assalto dei pensieri che si sforzano di fargli perdere la sua lucidità interiore. Essa implica innanzitutto un’attenzione senza falle e un discernimento degli spiriti al quale potrà supplire, nei principianti, solo l’aprirsi al Padre spirituale: “La sobrietà, è una sentinella immobile e perseverante dello spirito sulla porta del cuore, per distinguere sottilmente coloro che si presentano, ascoltare i loro propositi, spiare le manovre dei nemici mortali, riconoscere l’impronta demoniaca che, attraverso l’immaginazione, tenta di devastare il nostro spirito. Condotta validamente, questa operazione ci darà, se lo vogliamo, un’esperienza molto sentita della lotta interiore”.

    A questa vigilanza, già i Padri del deserto consigliavano di aggiungere la ripetizione di un’invocazione, composta di una sola breve formula (“preghiera monologica”). Con questa pratica si spezzeranno i pensieri contrari alla potenza vittoriosa di Cristo, presente appena invocato; allo stesso tempo, essa permetterà di opporre al “ricordo del male” il “ricordo di Dio”, che nei nostri autori la presa di coscienza di quei lineamenti divini e di quel senso intimo delle cose di Dio scritte nell’anima col battesimo. A questo metodo, Cassiano, benché non conoscesse l’invocazione del Nome di Gesù, dava già una formulazione quasi definitiva: “Ogni monaco volto al ricordo continuo di Dio deve abituarsi a mormorare interiormente e a ripassare incessantemente nel suo cuore la formula che vi darò, e cacciare con essa la moltitudine di altri pensieri, perché potrà resistere solo se si libera di tutte le preoccupazioni e sollecitazioni del corpo. A questa dottrina siamo stati iniziati dai rari Padri vissuti dopo i più antichi, e la diamo pure solo a rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete dunque tenere costantemente presente nel vostro spirito questa santa formula: Dio mio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi (sal 69,2). Questo versetto non è stato scelto in tutta la Santa Scrittura senza un motivo. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, si addice perfettamente in tutti gli stati e in tutte le tentazioni. Vi si trova l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di una umile e pietosa confessione, la vigilanza che procede da attenzione e paura continue, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto ad intervenire. Perché chi invoca costantemente il suo Protettore ha la certezza di averlo sempre presente”.

    In questo eccellente testo ci sono già – ante litteram – i due elementi fondamentali della Preghiera di Gesù: l’umile confessione della nostra miseria, che unicamente ci può aprire alla grazia, e nella quale per questo motivo i Padri del deserto vedevano l’unica via di salvezza e il legame stretto stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.

    Introdurre però nella formula della preghiera monologica il nome stesso del Signore Gesù, costituirà un apprezzabile progresso. Diadoco di Fotica, dando al termine di “meditazione” il suo antico significato di rimuginare una parola o una formula, si presenta come uno dei primi testimoni di questa “invocazione del Signore Gesù”, che è anche una “meditazione del suo santo e glorioso Nome”: “Quando gli chiudiamo tutte le uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che debba soddisfare il suo bisogno di attività. Gli si deve dunque dare come sola occupazione il “Signore Gesù” che risponde interamente al suo fine. Nessuno infatti – è scritto – dice ‘Gesù è Signore’ se non è nello Spirito Santo (1 Cor. 12, 3). Che per tutto il tempo, in maniera esclusiva, contempli quella parola nei propri tesori e non si distragga verso alcuna fantasticheria. Infatti, solo coloro che nella profondità del proprio cuore meditano costantemente quel santo e glorioso nome, possono vedere infine anche la luce del proprio intelletto. Perché, sostenuto dal pensiero con una forte attenzione, esso consuma, in un sentimento intenso, tutta la sozzura che ricopre la superficie dell’anima; e invero, il nostro Dio – è detto – è un fuoco che divora (Dt. 4, 24). A seguire, poi, il Signore sollecita l’anima verso un grande amore della sua gloria. Perché quando persiste, con la memoria intellettiva, nel fervore del cuore: quel Nome glorioso e così desiderabile impianta in noi l’abitudine di amarne la bontà senza che ormai nulla vi si opponga. Eccola dunque la perla preziosa che si può comprare vendendo tutti i propri beni, per godere, una volta scoperta, una gioia ineffabile“.

    Diadoco, qui, vuole dire che il Nome di Gesù – come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano rimuginare in una meditazione incessante – possiede un’efficacia eccezionale capace di svegliare nel cuore l’amore divino in esso nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con la forza d’urto dell’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito potrà allora “vedere la sua propria luce”, espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza esperienziale dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questo fascino è la manifestazione della presenza divinizzante di Cristo e del suo Spirito nell’uomo.

    Più avanti, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo e l’aspirazione dello Spirito Santo che si lascia poco a poco sentire in fondo al cuore: “Allora effettivamente, l’anima ha la grazia stessa che medita e che grida con essa il “Signore Gesù”, come una madre insegnerebbe al suo bambino la parola “papà” ripetendola con lui fino al punto che, al posto degli altri balbettii infantili, lo avrà condotto all’abitudine di chiamare distintamente il padre, anche durante il sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Similmente così, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; perché, quale sia il modo giusto di pregare noi non lo conosciamo, ma lo Spirito stesso intercede sovranamente per noi con gemiti ineffabili (Rm. 8, 23)»”.

    Questa abitudine della preghiera, che si protrae “anche nel sonno”, è cosa ben diversa di un semplice riflesso automatico creato dalla ripetizione dei gesti. È il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio al quale l’esercizio dapprima laborioso della Preghiera di Gesù conduce, risulta meno da un susseguirsi di gesti quanto piuttosto da uno stato del cuore, da un orientamento, divenuto spontaneo e stabile, verso Dio. È, come dice il Patriarca Callisto in un breve trattato che si classifica tra i più eccellenti della Filocalia, “un’acqua viva e zampillante che sgorga dall’anima come da una sorgente perenne. Essa abitava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Quello che ho dentro non è il fuoco avido della materia, è l’acqua che opera e parla»”.

    3. Tecnica corporale

    Elemento fondamentale del metodo esicasta è dunque la preghiera monologica: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!” Formula che indubbiamente, al tempo di Diadoco di Fotica, non era ancora costituita nella sua integralità e che del resto potrà essere abbreviata “secondo le forze e lo stato di colui che prega”; in alcuni, si ridurrà anche al solo Nome di Gesù.

    Ma alla pratica dell’invocazione bisogna aggiungere alcune condizioni più esterne.

    La prima – l’unica che la tradizione più antica cita esplicitamente – è il ritiro nella solitudine e nel silenzio, lontano da ogni agitazione mondana. Sicuramente, in epoca molto più tarda, alcuni spirituali si applicheranno a dimostrare che pure i laici possono ricavare grande profitto dalla Preghiera di Gesù. Le origini del metodo restano tuttavia monastiche e contemplative; esso è stato creato da uomini votati a testimoniare l’assoluto di Dio e che vedevano nella solitudine il migliore ausilio all’esichia interiore. Gregorio Palamas descrive così il clima originario della pratica della Preghiera: “Quando lo spirito si abbandona alla sua propria energia che consiste nel ritorno e nella vigilanza su se stesso, quando, con questa energia, trascende se stesso, potrà unirsi a Dio. Ecco perché chi vuole vivere passionalmente con Dio, fugge la vita soggetta a condanna. Sceglie la vita monacale, estranea al matrimonio, preferisce abitare senza agitazione e preoccupazione nel santuario dell’esichia, lontano da ogni rapporto esterno. Lì, nella misura del possibile, scioglie la sua anima da ogni legame materiale e lega il suo spirito alla preghiera ininterrotta a Dio. Con essa si concentra interamente su se stesso e trova un mezzo nuovo e misterioso per salire al cielo; cosa che si può chiamare l’inafferrabile tenebra del silenzio iniziatore”.

    Alla vita nel ritiro, la tradizione esicasta ha aggiunto in seguito la pratica di una postura del corpo determinata da un certo controllo del respiro. Le prime descrizioni scritte sistematiche pervenuteci datano del XIII secolo, ma diversi indizi permettono di pensare che quel metodo psicofisico esistesse, almeno in uno stato rudimentale, già in epoca più antica. L’assoluta necessità del controllo di un Padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; le stesse descrizioni letterarie non pretendono del resto supplire all’iniziazione dal vivo, e restano incomplete. Gregorio Palamas, che dovette difendere il metodo contro le facili accuse degli avversari, commenta così: “Vedi, Fratello: Giovanni [Climaco] ha mostrato che basta esaminare il problema in modo umano, neppure spirituale, per vedere che è assolutamente necessario rimandare o mantenere lo spirito dentro il corpo quando si decide di appartenere veramente a se stessi e di diventare monaco meritando quel nome, secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è fuori luogo insegnare, soprattutto ai principianti, di osservare se stessi e rimandare il proprio spirito dentro se stessi per mezzo dell’inspirazione. … Un uomo sensato non vieterebbe, infatti, a nessuno di ricondurre dentro sé, mediante certi procedimenti, il proprio spirito che ancora non si contempla in sé. Coloro che hanno iniziato da poco questa lotta vedono continuamente il loro spirito fuggire: riunito a fatica; è necessario per loro dunque ricondurlo a sé anche continuamente; nella loro inesperienza, non si rendono conto che nulla al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dello spirito. Per questo certuni raccomandano ad essi di controllare l’andirivieni del respiro e di trattenerlo un poco, al fine di trattenere così lo spirito vigilando sul respiro, finché con l’aiuto di Dio abbiano fatto dei progressi fino a quando abbiano interdetto il loro spirito a tutto ciò che lo circonda e lo abbiano purificato, e che essi possano ricondurlo veramente ad un raccoglimento unificato. Si potrà constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dello spirito, perché l’andirivieni del respiro diventa tranquillo al momento di ogni riflessione intensa, soprattutto in coloro che, in corpo e spirito, si trovano in stato di riposo … Colui che cerca di fare rientrare il proprio spirito in sé per spingerlo non al movimento in linea dritta [verso l’esterno], ma al movimento circolare e infallibile [del ritorno in se stesso], anziché girare gli occhi di qua e di là, non avrebbe maggior profitto a fissarli sul petto o sul proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non solo si raccoglierà così esteriormente su se stesso, finché gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che egli cerca per il suo spirito, ma ancora, dando una tale postura al proprio corpo, manderà verso l’interno del cuore la potenza dello spirito che scende attraverso la vista verso l’esterno”.

    Questa disciplina corporale si fonda in definitiva sulla concezione biblica della composizione umana. Tutto l’essere deve partecipare alla vita spirituale, poiché è tutto l’essere, corpo e anima che deve ricevere la salvezza. La mentalità biblica, unita all’esperienza tradizionale, aveva reso i maestri spirituali dell’Oriente cristiano attenti a non separare lo spirito dal corpo e a simbolizzare gli atteggiamenti dell’anima con gesti corporali, per permettere “l’integrazione armonica di tutto il nostro essere nella sua ascesi verso Dio”. E checché se ne dica delle esagerazioni e delle semplificazioni pericolose a cui il metodo esicasta ha dato talora adito, essi almeno sapevano che il loro metodo non poteva avere un ruolo puramente regolamentativo di fronte ad una esperienza che rimane essenzialmente un dono della grazia:

    “È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, in tutta purezza, senza distrazione, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticata in un luogo tranquillo e buio. Certo che no! I santi Padri, inventando quel metodo, non vi hanno visto che un ausilio, se così si può dire, per raccogliere lo spirito, per ricondurlo a sé dalla sua abituale distrazione e procurare l’attenzione. Grazie a queste disposizioni nasce nello spirito la preghiera costante, pura e senza distrazione… Per te, figlio mio, se desideri trascorrere giorni felici e «vivere in modo incorporale nel tuo corpo» vivi seguendo la regola che ti ho illustrata”.

    4. Conclusione

    La nostra conoscenza sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune per potere determinare se esistono rapporti di influenza tra esso e le spiritualità musulmane, indù o buddiste che predicano pure l’invocazione del Nome divino unita ad una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe nulla in sé che debba sminuire il metodo: le leggi dello psichismo umano sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo trasfigurandolo. E soprattutto, la tecnica è qui sostenuta da una dottrina che ci sembra, nei migliori rappresentanti, autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza attraverso la grazia in Cristo, della resurrezione del corpo, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i “santi Padri neptici” ci hanno trasmesso sulla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile.

    Ultimo fondamento del metodo resta la testimonianza del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio: “Perché non c’è sotto il cielo altro Nome dato agli uomini per il quale dobbiamo essere salvati” (Ac. 4, 12).

    In un’epoca in cui molti cristiani sono alla ricerca di “una disciplina totale di vita, compresa la corporale, che giovi al loro equilibrio e alla loro fioritura spirituale, non è poco interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio dello sboccio della grazia di Cristo nell’uomo una saggezza umana di cui il nostro Occidente ha perduto il segreto.

  • 27 Nov

    IL RACCONTO DELL’ANTICRISTO – Vladimir Sergeevic Soloviev

    Il Signor Z. (legge) C’era in questo tempo, tra i credenti spiritualisti, un uomo ragguardevole – molti lo chiamavano superuomo -, il quale era lontano dall’infanzia della mente e dall’infanzia del cuore. Egli era ancor giovane, ma grazie al suo genio eccelso a trentatré anni godeva fama di grande pensatore, di scrittore e di riformatore sociale. Cosciente di possedere in sé una grande forza spirituale, era sempre stato un convinto spiritualista e la sua vivida intelligenza gli aveva sempre indicato la verità di ciò a cui si deve credere: il bene. Dio, il Messia. Egli credeva in ciò, ma non amava che se stesso. Credeva in Dio, ma nel fondo dell’anima involontariamente e senza rendersene conto preferiva se stesso a Lui. Credeva nel Bene, ma l’Occhio dell’Eternità, che vede tutto, sapeva che quest’uomo si sarebbe inchinato davanti alla potenza del male, appena appena questa riuscisse a corromperlo, non con l’inganno dei sentimenti e delle basse passioni e nemmeno con la suprema attrattiva del potere, ma solleticando il suo smisurato amor proprio. Del resto questo amor proprio non era ne un istinto incosciente ne una folle pretesa. A parte il suo talento eccezionale, la sua bellezza e la sua nobiltà, anche le altissime dimostrazioni di moderazione, di disinteresse e di attiva beneficenza, parevano giustificare a sufficienza lo sconfinato amor proprio che nutriva per sé il grande spiritualista, l’asceta, il filantropo. Se gli si rinfacciava di essere così in abbondanza fornito di doni divini, egli vi scorgeva i segni particolari di una eccezionale benevolenza dall’alto verso di lui e si considerava come secondo dopo Dio, il figlio di Dio, unico nel suo genere. In una parola egli riconosceva in sé quelle che erano le caratteristiche del Cristo. Ma la coscienza della sua alta dignità all’atto pratico non prendeva in lui l’aspetto di un obbligo morale verso Dio e il mondo, ma piuttosto l’aspetto di un diritto e di una superiorità in rapporto agli altri e soprattutto in rapporto al Cristo. Ma non aveva per Cristo una ostilità di principio. Gli riconosceva l’importanza e la dignità di Messia; però con tutta sincerità vedeva in lui soltanto il suo augusto precursore. Per quella mente ottenebrata dall’amor proprio erano inconcepibili l’azione morale del Cristo e la Sua assoluta unicità. Egli ragionava così: “Cristo è venuto prima di me; io mi manifesto per secondo, ma ciò che viene dopo in ordine di tempo, in natura è primo. Io giungo ultimo alla fine della storia precisamente perché sono il salvatore perfetto, definitivo. Quel Cristo è il mio precursore. La sua missione era di precedere e preparare la mia apparizione”. E in base a quest’idea, il grande uomo del secolo XXI applicava a se tutto ciò che è detto nel Vangelo circa il secondo avvento, spiegando questo avvento non come il ritorno di Cristo stesso, ma come la sostituzione del Cristo precursore col Cristo definitivo, cioè se stesso.
    In questo stadio «l’uomo del futuro» si presenta ancora in modo ben definito e originale. Considerava il suo rapporto con Cristo alla stessa guisa di Maometto, un uomo retto che non si può accusare di nessuna cattiva intenzione.
    La preferenza piena di amor proprio, che egli fa di se stesso nei confronti del Cristo, verrà giustificata da quest’ uomo con un ragionamento di questo genere: «Il Cristo è stato il riformatore dell’umanità, predicando e manifestando il bene morale nella sua vita, io invece sono chiamato ad essere il benefattore di questa umanità, in parte emendata e in parte incorreggibile. Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario. Il Cristo, come moralista ha diviso gli uomini secondo il bene e il male, mentre io li unirò con i benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi. Sarò il vero rappresentante di quel Dio che fa sorgere il suo sole e per buoni e per i cattivi e distribuisce la pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Il Cristo ha portato la spada, io porterò la pace. Egli ha minacciato alla terra il terribile ultimo giudizio. Però l’ultimo giudizio sarò io e il mio giudizio non sarà solo un giudizio di giustizia ma anche un giudizio di clemenza. Ci sarà anche la giustizia ma non una giustizia compensatrice bensì una giustizia distributiva. Opererò una distinzione fra tutti e a ciascuno darò ciò che gli è necessario.
    E in questa magnifica disposizione, egli attende un chiaro appello di Dio che lo chiami all’opera della nuova salvezza dell’umanità, una testimonianza palese e sorprendente che lo dichiari il figlio maggiore, il primogenito diletto da Dio. Attende e nutre il suo amor proprio con la coscienza delle proprie virtù e delle proprie doti sovraumane; infatti egli è, come si dice, un uomo di una moralità irreprensibile e di un genio straordinario.
    Questo giusto, pieno di orgoglio, attende la suprema sanzione per cominciare la propria missione che porterà alla salvezza del l’umanità, ma è stanco di aspettare. Ha già compiuto trent’anni e altri tre anni trascorrono. Ed ecco gli balena nella mente un pensiero e con un brivido ardente gli penetra fino al midollo delle ossa: «E se?… E se non fossi io, ma quell’altro… Il Galileo… S’egli non fosse il mio precursore, ma il vero primo ed ultimo? Però in tal caso dovrebbe essere vivente… Dov’è dunque Lui?… Se a un tratto mi venisse incontro… in questo momento, qui… Che Gli direi? Dovrei inchinarmi davanti a lui come l’ultimo cristiano scimunito e borbottare stupidamente come un qualsiasi cittadino russo: “Signore Gesù Cristo abbi pietà di me peccatore”, oppure prostrarmi a terra come una donnetta polacca? Io che sono un genio luminoso, il superuomo. No, mai! ». E a questo punto al posto dell’antico ragionevole e freddo rispetto per Dio e per il Cristo, germoglia e si sviluppa nel suo cuore dapprima una specie di timore e poi l’invidia ardente che opprime e contrae tutto il suo essere; infine l’odio furioso si impadronisce della sua anima. «Sono io, io, non Lui! Lui non è tra i viventi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto! È marcito, è marcito nel sepolcro, come l’ultima…».
    Con la schiuma alla bocca, a balzi convulsi, si lancia fuori dalla sua casa e dal suo giardino e fugge nella notte fonda e buia per un sentiero roccioso… Si placa il suo furore e ad esso succede una disperazione arida e pesante come quelle rocce, oscura come quella notte. S’arresta sull’orlo di un precipizio che cade a picco e ode di lontano il confuso fragore di un torrente che scorre in basso fra le rocce. Un’angoscia intollerabile gli opprime il cuore. A un tratto qualcosa si agita dentro di lui. «Lo chiamerò per chiedergli ciò che debbo fare?». E nell’oscurità gli appare un volto dolce e triste. «Egli ha compassione di me… No, mai! Non è risorto, non è risorto! ». E si getta nell’abisso. Ma qualche cosa di elastico come una colonna d’acqua, lo trattiene sospeso nell’aria, egli si sente sconvolto come da una scossa elettrica, e una forza arcana lo ributta indietro. Per un istante perde la conoscenza e si risveglia, in ginocchio a qualche passo dal precipizio. Davanti a lui si stagliava una figura avvolta in un nebuloso nimbo fosforescente e due occhi gli trapassavano l’anima con un sottile insopportabile bagliore…
    Vede quei due occhi penetranti e senza darsi conto se provenga dal suo intimo o dall’esterno ode una strana voce sorda, perfettamente contenuta e nello stesso tempo netta, metallica e priva affatto di anima come quella di un fonografo. E questa voce gli dice: «Mio amato figlio, in te è riposto tutto il mio affetto… Perché non sei ricorso a me? Perché hai onorato l’altro, il cattivo e il padre suo! Io sono dio e padre tuo. Ma quel mendicante, il crocifisso è estraneo a me e a te. Non ho altri figli all’infuori di te. Tu sei l’unico, il solo generato, uguale a me. Io ti amo e non esigo nulla da te. Così tu sei bello, grande, possente. Compi la tua opera nel tuo nome e non nel mio. Io non provo invidia nei tuoi confronti.
    Ti amo e non richiedo nulla da parte tua. L’altro, colui che tu consideravi come dio, ha preteso dal suo figlio obbedienza e una obbedienza illimitata fino alla morte di croce e sulla croce lui non lo ha soccorso. Io non esigo nulla da te, ma parimenti ti aiuterò. Per amor tuo, per il tuo merito, per la tua eccellenza e per il mio amore puro e disinteressato verso di te, io ti aiuterò. Ricevi il mio spirito. Come prima il mio spirito ti ha generato nella bellezza, così ora ti genera nella forza». A queste parole dello sconosciuto, le labbra del superuomo si sono involontariamente socchiuse, due occhi penetranti si sono accostati vicinissimi al suo volto ed ha provato la sensazione come se un getto pungente e ghiacciato penetrasse in lui e riempisse tutto il suo essere. E nel medesimo tempo si è sentito pervaso da una forza inaudita, da un vigore, da una agilità e da un entusiasmo mai provati. In quello stesso istante sono scomparsi a un tratto il fantasma luminoso e i due occhi e qualcosa ha sollevato il superuomo sopra la terra e d’un colpo lo ha deposto nel suo giardino.
    Il giorno dopo, non solo i visitatori del grande uomo, ma perfino i servitori furono stupiti per il suo aspetto particolare, quasi ispirato. Ma sarebbero rimasti ancora più colpiti se avessero potuto vedere con quale rapidità e facilità soprannaturali, rinchiuso nel suo studio, egli scriveva la sua celebre opera La via aperta verso la pace e la prosperità universale.
    I precedenti libri e l’azione sociale del superuomo avevano incontrato dei severi critici, ancorché essi fossero per la maggior parte soprattutto religiosi e perciò privi di qualsiasi autorità; infatti quello di cui parlo è il tempo dell’Anticristo. E così, pochi erano stati coloro che avevano potuto ascoltare questi critici, quando indicavano in tutti gli scritti e in tutti i discorsi «dell’uomo del futuro» i segni di un amor proprio assolutamente intenso ed eccezionale ed esprimevano dubbi di fronte all’assenza di una vera semplicità, di rettitudine e di bontà di cuore.

    Ma con questa sua nuova opera egli riuscì ad attirare a sé perfino alcuni che in precedenza erano stati suoi critici ed avversari. Questo libro, scritto dopo l’avventura dell’abisso, manifesta in lui la potenza di un genio senza precedenti. È qualcosa che abbraccia insieme e mette d’accordo tutte le contraddizioni. Vi si uniscono il nobile rispetto per le tradizioni e i simboli antichi con un vaste e audace radicalismo di esigenze e direttive sociali e politiche, uni sconfinata libertà di pensiero con la più profonda comprensione di tutto ciò che è mistico, l’assoluto individualismo con una ardente dedizione al bene comune, il più elevato idealismo in fatte di principi direttivi con la precisione completa e la vitalità delle soluzioni pratiche. Tutto questo risultava così unito e legato insieme con tale genialità d’arte che ogni singolo pensatore, ogni uomo d’azione, poteva facilmente scorgere ed accettare l’insieme soltanto sotto l’angolo particolare del proprio personale punto di vista. E questo senza nulla sacrificare della verità in se stessa, senza elevarsi per essa effettivamente al di sopra del proprio io, senza assolutamente rinunciare di fatto al loro esclusivismo, senza nulla correggere circa gli errori di opinione o di tendenza, senza colmare per nulla possibili lacune. Questo libro meraviglioso è subito tradotto nelle lingue di tutte le nazioni progredite e anche il alcune di quelle arretrate. Per un anno intero, in tutte le parti del mondo, migliaia di giornali sono pieni zeppi della pubblicità degli editori e dell’entusiasmo dei critici. Edizioni economiche, col ritratto dell’autore, si diffondono a milioni di esemplari e l’intero mondo civile (a quell’epoca cioè quasi tutto il globo terrestre) si riempie della gloria dell’uomo incomparabile, grande, unico! Nessuno osa ribattere a questo libro che appare a ciascuno come rivelazione della verità integrale. Tutto il passato vi è trattato con così perfetta giustizia, tutto il presente apprezzato con tanta imparzialità, sotto tutti gli aspetti e il futuro migliore è accostato in modo così evidente e palpabile, che ciascuno dice: «Ecco qui ciò di cui abbiamo bisogno; ecco un ideale che non è utopia, ecco un progetto che non è una chimera». E il prodigioso scrittore non se lo trascina tutti, ma ognuno lo trova gradevole e in tal modo si compie la parola del Cristo.
    «Sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accoglierete, un altro verrà nel suo proprio nome e voi l’accoglierete». Infatti per essere accolto bisogna essere piacevole.
    Veramente alcune pie persone, pur lodando con calore il libro, si stanno a domandare perché mai non vi sia nominato nemmeno una volta il Cristo, ma altri cristiani ribattono: «Sia lodato Iddio! Nei secoli passati tutte le cose sacre sono state rese logore da ogni sorta di zelatori senza vocazione ed ora uno scrittore profondamente religioso deve essere molto circospetto. E visto che il contenuto del libro è permeato dal vero spirito cristiano, dall’amore attivo e dalla benevolenza universale, che volete ancora?».
    Questa risposta fa tornare l’accordo fra tutti. Poco dopo la pubblicazione della Via aperta, che fece del suo autore l’uomo più popolare che fosse mai comparso al mondo, si doveva tenere a Berlino l’assemblea costituente internazionale dell’Unione degli Stati Uniti d’Europa. Questa Unione, istituita dopo una serie di guerre esterne ed interne, collegate con la liberazione dal giogo dei Mongoli e che aveva mutato in modo considerevole la carta dell’Europa, questa Unione era esposta al pericolo di uno scontro, ora non più tra le nazioni, ma tra i partiti politici e sociali. I reggitori della politica generale europea, appartenenti alla potente confraternita dei framassoni, si rendevano conto della carenza di una autorità generale esecutiva. Raggiunta al prezzo di tanta fatica, l’Unione europea era ad ogni istante sul punto di disgregarsi. Nel consiglio dell’Unione o tribunale universale (Comité permanent universel) non si era raggiunta l’unanimità, perché i veri massoni, votati alla causa, non erano riusciti a impadronirsi di tutti i seggi. I membri indipendenti del Comitato stringevano fra loro degli accordi separati e questo fatto prospettava la minaccia di una nuova guerra. Allora gli «adepti» decisero di rimettere il potere esecutivo nelle mani di una sola persona, munita dei pieni poteri necessari. Il principale candidato era un membro segreto dell’ordine, «l’uomo del futuro». Era l’unica personalità che godesse di una rinomanza universale. Era per professione scienziato nel ramo della balistica e per posizione sociale un ricco capitalista; per questo aveva potuto annodare ovunque amichevoli relazioni con uomini appartenenti alla finanza e all’esercito. In altri tempi meno civili si sarebbe levata contro di lui la circostanza che la sua origine era coperta da una densa nube di incertezza. Sua madre, donna di facili costumi, era largamente nota in tutti e due gli emisferi, e troppi uomini di diverse condizioni avevano uguale motivo di ritenerlo loro figlio. Queste circostanze non potevano certo avere alcuna importanza in un secolo così progredito che perfino gli era toccato in sorte di essere l’ultimo. L’uomo del futuro fu eletto presidente a vita degli Stati Uniti d’Europa con la quasi unanimità di suffragi e, quando comparve alla tribuna in tutto lo splendore della sua sovrumana giovanile bellezza e della sua forza e con eloquenza ispirata espose il suo programma universale, l’assemblea sedotta ed affascinata, in uno slancio di entusiasmo, decise di conferirgli senza votazione l’onore supremo: il titolo di imperatore romano. Il congresso si chiuse fra il tripudio generale e il grande eletto emanò un proclama che cominciava così: «Popoli della terra! Vi do la mia pace! » e terminava con queste parole: «Popoli della terra! Si sono compiute le promesse! L’eterna pace universale è assicurata! Ogni tentativo di turbarla incontrerà immediatamente una insuperabile resistenza. Giacché d’ora in poi c’è sulla terra una potenza centrale più forte di tutte le altre potenze, sia prese separatamente che prese insieme. Questa potenza, che nulla può vincere e che prevale su tutti, appartiene a me il plenipotenziario, l’eletto dell’Europa, l’imperatore di tutte le sue forze. Il diritto internazionale possiede finalmente quella sanzione che fino adesso gli mancava. E d’ora innanzi nessuna potenza oserà dire: guerra, quando io dico: pace. Popoli della terra, la pace sia con voi! ». Questo manifesto produsse l’effetto desiderato. Ovunque fuori dell’Europa, specialmente in America, sorsero dei forti partiti fautori dell’impero che costrinsero i loro governi ad unirsi, a condizioni diverse, con gli Stati Uniti di Europa, sotto l’autorità suprema dell’imperatore romano. Qua e là in Asia e in Africa rimanevano ancora delle tribù e dei sovrani indipendenti. L’imperatore, con un esercito poco numeroso, ma scelto, formato da truppe russe, tedesche, polacche, ungheresi e turche, compie una passeggiata militare dall’Asia orientale fino al Marocco e senza grande spargimento di sangue sottomette tutti i recalcitranti. In tutte le regioni di queste due parti del mondo, egli nomina dei governatori, presi tra i magnati indigeni educati all’europea e a lui devoti. In tutti i paesi pagani, la popolazione, abbagliata ed affascinata, ne fa una divinità superiore. In un anno egli fonda la monarchia universale nel senso vero e proprio della parola. I germi della guerra vengono estirpati fin dalla radice. La lega universale della pace si riunisce per l’ultima volta, pronuncia un entusiastico panegirico per il grande fondatore della pace e poi si scioglie, non avendo più ragione di esistere. Nel secondo anno di regno, l’imperatore romano e universale emette un nuovo proclama: «Popoli della terra! Io vi ho promesso la pace e ve l’ho data. Ma la pace è bella soltanto con la prosperità. Colui che nella pace è minacciato dai mali della miseria non ha che una pace senza gioia. Venite dunque ora a me tutti voi che avete fame e freddo che io vi sazierò e vi riscalderò». E poi annuncia la semplice e completa riforma sociale che aveva già tracciata nel suo libro e aveva ormai affascinato tutti gli spiriti nobili e sensati. Ora grazie alla concentrazione nelle sue mani di tutte le finanze del mondo e di colossali proprietà fondiarie, egli poté realizzare questa riforma, venendo incontro ai desideri dei poveri, senza scontentare in modo sensibile i ricchi. Ciascuno cominciò a ricevere secondo le sue capacità.
    Il nuovo padrone della terra era anzitutto un filantropo, pieno di compassione e non solo amico degli uomini, ma anche amico degli animali. Personalmente era vegetariano, proibì la vivisezione e sottopose i mattatoi a una severa sorveglianza; le società protettrici degli animali furono da lui incoraggiate in tutti i modi. La più importante di queste sue opere fu la solida instaurazione in tutta l’umanità dell’uguaglianza che risulta essere la più essenziale: l’uguaglianza della sazietà generale. Questo evento si compì nel secondo anno del suo regno. La questione sociale, economica, fu definitivamente risolta. Ma se la sazietà costituisce il primo interesse per chi ha fame, per quelli che sono sazi sorge il desiderio di qualche cosa d’altro.
    Perfino gli animali, quando sono sazi, vogliono di solito dormire, ma anche divertirsi. Tanto più l’umanità, che sempre post panem ha reclamato circenses.
    L’imperatore-superuomo comprende bene che cosa occorre per le moltitudini a lui sottoposte. In quel tempo giunge in Roma a lui dall’Estremo Oriente un grande operatore di miracoli, circondato da una fitta nube di strane avventure e di bizzarri racconti fiabeschi.
    Questo operatore di miracoli si chiamava Apollonio; era senza alcun dubbio un uomo di genio, metà asiatico metà europeo, vescovo cattolico in partibus infidelium, riuniva in sé in modo meraviglioso il possesso delle conclusioni più recenti e delle applicazioni tecniche della scienza occidentale, con la conoscenza e la capacità di servirsi di tutto ciò che è veramente fondato e importante nel misticismo dell’Oriente. Strabilianti saranno i risultati di una combinazione di tal genere! Apollonio giunge fra l’altro all’arte mezzo scientifica e mezzo magica di captare e di guidare a propria volontà l’elettricità dell’atmosfera, e fra il popolo si dice che egli fa discendere il fuoco dal cielo. Del resto, pur colpendo l’immaginazione della folla con svariati inauditi prodigi, non è sceso ancora ad abusare della propria potenza per scopi particolari. Così ecco che quest’uomo viene incontro al grande imperatore, lo saluta chiamandolo vero figlio di Dio; e gli dichiara di aver trovato nei libri segreti dell’Oriente predizioni che designano direttamente lui, l’imperatore, come ultimo salvatore che giudicherà l’universo e propone di mettere al suo servizio la propria persona e tutta la propria arte. Affascinato, l’imperatore lo accoglie come un dono del cielo e, dopo averlo decorato con titoli fastosi, non si separerà mai più da lui. E così i popoli della terra, colmati di benefici dal loro signore, ottengono, oltre la pace universale e la generale sazietà, anche la possibilità di dilettarsi costantemente con i prodigi e le apparizioni più sorprendenti. Intanto finisce il terzo anno di regno del superuomo.
    Dopo la felice soluzione del problema politico e sociale, viene alla ribalta la questione religiosa. Fu lo stesso imperatore a sollevarla, affrontandola anzitutto nei suoi rapporti col cristianesimo. Questa era la situazione del cristianesimo in quel tempo. Nonostante una fortissima diminuzione del numero dei suoi fedeli — su tutto il globo terrestre non rimanevano più di quarantacinque milioni di cristiani — esso si era elevato e reso più compatto moralmente, guadagnando in qualità ciò che aveva perduto in numero. Non si contavano ormai fra i cristiani degli individui che non avessero più per il cristianesimo alcun interesse spirituale. Le diverse confessioni religiose avevano subito una diminuzione abbastanza similare nel numero dei fedeli, cosicché si era approssimativamente mantenuta fra di esse la stessa proporzione numerica di prima; per quanto concerne i loro sentimenti reciproci, anche se all’inimicizia non era subentrato un ravvicinamento completo, quella si era notevolmente addolcita e le opposizioni avevano perduto la loro primitiva asprezza. Il Papato da tempo era stato scacciato da Roma e dopo lunghe peregrinazioni aveva trovato un asilo a Pietroburgo, alla condizione di non svolgere propaganda nella città e nell’interno del paese. Il Papato si era notevolmente semplificato in Russia. Senza modificare nella sostanza il rigoroso ordinamento dei suoi collegi e dei suoi uffici, aveva dovuto rendere maggiormente spirituale il carattere della loro attività e similmente ridurre al minimo la fastosità del suo rituale e delle sue cerimonie. Molte costumanze strane ed allettanti, anche se non erano state abolite formalmente, andarono in disuso da sé. In tutti gli altri paesi, specialmente nell’America del Nord, la gerarchia cattolica possedeva ancora molti rappresentanti di forte volontà, di infaticabile energia e in una posizione indipendente: questi con maggior forza di prima stringevano in pugno l’unità della Chiesa cattolica e le conservavano il suo carattere internazionale cosmopolita. Per quanto concerne il protestantesimo, in testa al quale continuava a mantenersi la Germania, specie dopo che una parte considerevole della Chiesa anglicana si era riunita alla Chiesa cattolica, esso si era sbarazzato delle sue tendenze negatrici estreme, i cui sostenitori erano passati apertamente all’indifferentismo religioso e all’incredulità. Nella Chiesa evangelica erano rimasti soltanto i sinceri credenti, in testa ai quali stavano uomini che riunivano in sé una vasta dottrina insieme ad una profonda religiosità e che sempre più rafforzavano in sé l’aspirazione a riprodurre in se stessi la viva immagine del vero cristianesimo primitivo. L’ortodossia russa, dopo che gli avvenimenti politici avevano mutato la posizione ufficiale della Chiesa, aveva perduto molti milioni di sedicenti fedeli, adepti solo di nome; in compenso provava la gioia di essere unita alla parte migliore dei vecchi credenti e perfino ai seguaci di molte sette animate da uno spirito religioso positivo. Questa Chiesa rinnovata, senza aumentare di numero, prese a sviluppare le sue forze spirituali, che manifestava in particolar modo nella sua lotta interna contro le sette estremiste che si erano moltiplicate tra il popolo e nella società e non esenti da elementi demoniaci e satanici.
    Durante i primi due anni del nuovo regime, tutti i cristiani ancora impauriti e stanchi dalla serie di guerre e rivoluzioni precedenti, dimostravano, nei riguardi del nuovo sovrano e delle sue pacifiche riforme, in parte una benevola aspettativa, in parte una decisa simpatia e perfino un ardente entusiasmo. Ma, al terzo anno, con la comparsa del grande mago, molti, ortodossi, cattolici ed evangelici, cominciarono a provare serie apprensioni e antipatie. Ci si pose a leggere con maggiore attenzione e a commentare con più vivacità i testi evangelici e apostolici che parlavano del principe di questo mondo e dell’Anticristo. L’imperatore, subodorando da certi indizi che si stava addensando una tempesta, decise di mettere le cose in chiaro al più presto. Al principio del quarto anno di regno, egli pubblicò un manifesto indirizzato a tutti i fedeli cristiani di ogni confessione, invitandoli a scegliere o nominare dei rappresentanti muniti di pieni poteri, in vista di un concilio ecumenico da tenere sotto la sua presidenza. La residenza imperiale a quel tempo era stata trasferita da Roma a Gerusalemme. La Palestina era allora una provincia autonoma, abitata e governata in prevalenza da Ebrei. Gerusalemme era una città libera diventata in seguito città imperiale. I luoghi sacri ai cristiani erano rimasti intatti; ma sulla vasta piattaforma di Haram-es-Scerif, partendo da Birket-Israin e dall’attuale caserma da un lato fino alla moschea di El-Aksa e alle «Scuderie di Salomone» dall’altro lato, s’innalzava un enorme edificio che comprendeva oltre a due piccole moschee antiche, uno spazioso «tempio» imperiale, destinato all’unione di tutti i culti, due fastosi palazzi imperiali con biblioteche, musei e dei locali particolari per esperimenti ed esercizi di magia. In questo edificio mezzo tempio e mezzo palazzo, doveva aprirsi, alla data del 14 settembre, il concilio ecumenico. Poiché la confessione evangelica non ha clero nel vero senso della parola, i prelati cattolici e ortodossi, per dare, conforme al desiderio dell’imperatore, una certa omogeneità alla rappresentanza di tutte le confessioni della cristianità, decisero di permettere che partecipasse al concilio un certo numero di laici, noti per la loro pietà e la loro dedizione agli interessi della Chiesa; e una volta ammessi i laici non si poteva escludere il basso clero, secolare e regolare. In tal modo il numero complessivo dei mèmbri del concilio superò i tremila, ma circa mezzo milione di pellegrini cristiani invase Gerusalemme e tutta la Palestina. Fra i mèmbri del concilio tre erano posti in particolare evidenza.
    In primo luogo il papa Pietro II che stava per diritto a capo della sezione cattolica del concilio. Il suo predecessore era morto mentre era in viaggio per recarsi al concilio e il conclave, riunitesi a Damasco, aveva eletto all’unanimità il cardinale Simone Barionini che aveva assunto il nome di Pietro II. Proveniva da una povera famiglia della provincia di Napoli ed era diventato famoso come predicatore dell’ordine dei Carmelitani e inoltre per aver reso grandi servizi nella lotta contro una setta satanica, che si era affermata a Pietroburgo e nei suoi dintorni pervertendo non solo gli ortodossi ma anche i cattolici. Divenuto arcivescovo di Moghilev e in seguito fatto cardinale, era già in anticipo designato alla tiara. Era un uomo di cinquant’anni di media statura, di costituzione robusta, di colorito rosso, naso adunco, folte sopracciglia. Era ardente e impetuoso, parlava con foga con ampi gesti e trascinava, più che non li persuadesse, i suoi uditori. Verso il padrone del mondo, il nuovo Papa dimostrava diffidenza e antipatia, specie dopo il fatto che il defunto pontefice, mentre si recava al concilio, aveva ceduto alle insistenze dell’imperatore e aveva nominato cardinale l’esotico vescovo Apollonio, già cancelliere imperiale e gran mago universale, che Pietro riteneva dubbio cattolico, ma autentico impostore. Capo effettivo degli ortodossi, benché in forma non ufficiale era lo starets Giovanni assai noto fra il popolo russo. Benché figurasse ufficialmente come vescovo «a riposo» egli non viveva in nessun monastero e andava sempre m giro da tutte le parti. Sul suo conto correvano varie leggende. Alcuni assicuravano che era Fjodor Kuzmic risorto, vale a dire l’imperatore Alessandro morto circa tre secoli prima. Altri andavano più avanti e affermavano che egli era il vero starets Giovanni, cioè l’apostolo Giovanni il Teologo che non era mai morto e si era manifestato apertamente negli ultimi tempi. Da parte sua egli non diceva nulla circa la sua origine e circa la sua giovinezza. Era adesso un vecchio di molti anni ma aitante, con la canizie dei capelli ricciuti e della barba che tirava ad una tinta giallastra e perfino verde; era di statura alta e corpo magro, ma aveva guance piene e leggermente rosee occhi vivi e scintillanti e un’espressione dolcemente bonaria ne!la faccia e nel modo di parlare; portava sempre una tunica bianca e un candido mantello. A capo della delegazione evangelica del concilio stava l’eruditissimo teologo tedesco, professor Ernst Pauli. Era un vecchietto di bassa statura, asciutto, con fronte spaziosa naso aguzzo, mento rasato e liscio. I suoi occhi brillavano di una particolare fiera bonomia. Ad ogni momento si stropicciava le mani, scuoteva la testa, aggrottava le ciglia in modo terribile e spingeva ‘in avanti le labbra; intanto con occhi sfavillanti pronunciava con voce cupa dei suoi interrotti: «So! Nun! Ja! So also!». Indossava l’abito di cerimonia: cravatta bianca, e lunga redingote da pastore con alcune decorazioni.
    L’apertura del concilio fu imponente. Per due terzi dell’immenso tempio consacrato «all’unione di tutti i culti» erano disposte panche e altri sedili per i mèmbri del concilio, l’altro terzo era occupato da un alto palco, dove oltre al trono dell’imperatore e ad un altro un po’ più basso destinato al gran mago – egli era infatti cardinale cancelliere imperiale – si trovavano più indietro file di poltrone riservate ai ministri, ai dignitari di corte e ai segretari di Stato. Ai lati c’erano ancor più lunghe file di poltrone di cui non si conosceva la destinazione. Nelle tribune si trovavano delle orchestre di musicanti e nella piazza vicina erano schierati due reggimenti della guardia e una batteria per le salve d’onore. I membri del concilio avevano già celebrato i loro servizi divini nelle varie chiese in quanto l’apertura del concilio doveva avere un carattere completamente laico. Quando l’imperatore fece il suo ingresso insieme al gran mago ed al seguito, e l’orchestra attaccò “la marcia dall’umanità unita” che serviva da inno imperiale e internazionale, tutti i membri del concilio si alzarono m piedi e agitando i loro cappelli gridarono tre volte a gran voce: « Vivat! Urrah! Hoch!». L’imperatore, ritto in piedi accanto al trono, tese il braccio con maestosa affabilità e disse con voce sonora e gradevole: «Cristiani di tutte le confessioni! Miei amatissimi sudditi e fratelli! Fin dagli inizi del mio regno, che l’Altissimo ha benedetto con opere così meravigliose e gloriose, non una volta ho avuto motivo di essere scontento di voi; voi avete sempre fatto il vostro dovere secondo fede e coscienza. Ma questo per me non basta. Il sincero amore ch’io provo per voi, fratelli amatissimi, anela di essere ricambiato. Voglio che non per senso di dovere, ma per un sentimento di amore che viene dal cuore, voi mi riconosciate per vostro vero capo, in ogni azione intrapresa per il bene dell’umanità. E così oltre alle cose che faccio per tutti, vorrei darvi un segno di particolare benevolenza. Cristiani, come potrei io rendervi felici? Che posso darvi non come miei sudditi, ma come miei correligionari, miei fratelli? Cristiani! Ditemi ciò che vi sta più a cuore nel cristianesimo affinché io possa dirigere i miei sforzi in questa direzione». Egli si arrestò ed attese. Nel tempio correva un brusio soffocato. I mèmbri del concilio bisbigliavano tra loro. Papa Pietro, gesticolando con calore, spiegava qualcosa a quelli che gli stavano attorno. Il professor Pauli scuoteva la testa e faceva schioccare le labbra con accanimento. Lo starets Giovanni, piegandosi verso un vescovo d’Oriente e un cappuccino, suggeriva loro qualcosa con voce sommessa. Dopo aver atteso qualche minuto, l’imperatore si rivolse di nuovo al concilio con lo stesso tono affabile di prima, ma in cui risonava appena un’impercettibile nota di ironia: «Cari cristiani, disse, comprendo come vi riesca difficile darmi una risposta diretta. Voglio darvi una mano. Disgraziatamente da tempo così immemorabile voi vi siete frazionati in sette e partiti diversi che forse tra voi non c’è nemmeno un argomento che susciti la vostra comune simpatia. Ma se non siete capaci di mettervi d’accordo tra voi, spero di mettere d’accordo io tutte le parti, dimostrando a tutti il medesimo amore e la medesima sollecitudine per soddisfare la vera aspirazione di ciascuno. Cari cristiani! So che molti fra voi, e non gli ultimi, hanno più caro di tutto nel cristianesimo quell’autorità spirituale che esso da ai suoi legittimi rappresentanti e non per loro particolare vantaggio, ma senza dubbio per il bene comune, poiché su questa autorità si basa il giusto ordine spirituale, nonché la disciplina morale, indispensabile per tutti. Cari fratelli cattolici! Oh, come capisco il vostro modo di vedere e come vorrei appoggiare la mia potenza sull’autorità del vostro capo spirituale! E perché non crediate che si tratti di lusinghe e di vane parole, noi dichiariamo solennemente: per nostra autocratica volontà, il vescovo supremo di tutti i cattolici, il papa romano, da questo momento è reintegrato nel suo seggio di Roma, con tutti i diritti e le prerogative di un tempo, inerenti a questa condizione e a questa cattedra e che un giorno gli furono conferiti dai nostri predecessori a cominciare da Costantino il Grande. Ma per questo, fratelli cattolici, voglio soltanto che dall’intimo del cuore riconosciate in me il vostro unico difensore ed unico protettore. Coloro che per coscienza e sentimento mi riconoscono tale vengano qui vicino a me». E indicava i posti vuoti sul palco. Con esclamazioni di gioia — «Gratias agimus! Domine! Salvum fac magnum imperatorem» — quasi tutti i principi della Chiesa cattolica, cardinali e vescovi, la maggior parte dei credenti laici e più della metà dei monaci salirono sul palco e dopo essersi profondamente inchinati davanti all’imperatore, andarono ad occupare le poltrone loro destinate. Ma giù, in mezzo all’assemblea, diritto e immobile come una statua di marmo, il papa Pietro II rimase al suo posto. Tutti coloro che prima gli stavano intorno ora si trovavano sul palco. Allora la schiera ormai diradata dei monaci e dei laici, che era rimasta in basso, si spostò e si strinse attorno a lui in un anello serrato da cui si udiva un mormorio contenuto: «Non praevalebunt, non praevalebunt portae inferi».
    Guardando con sorpresa il papa immobile, l’imperatore alzò di nuovo la voce: «Cari fratelli! So che fra voi ci sono di quelli per i quali le cose più preziose del cristianesimo sono la sua santa tradizione, i vecchi simboli, i cantici e le preghiere antiche, le icone e le cerimonie del culto. E in realtà che cosa vi può essere di più prezioso di questo per un’anima religiosa? Sappiate dunque, miei diletti, che oggi ho firmato lo statuto e fissata la dotazione di larghi mezzi per il museo universale dell’archeologia cristiana che verrà fondato nella nostra gloriosa città imperiale di Costantinopoli, con lo scopo di raccogliere, studiare e conservare tutti i monumenti dell’antichità ecclesiastica, principalmente quelli della Chiesa orientale; vi prego poi che domani eleggiate fra voi una commissione con l’incarico di studiare con me le misure da prendere per riavvicinare, quanto più possibile, i costumi e le usanze della vita attuale, alla tradizione e alle istituzioni della Santa Chiesa Ortodossa! Fratelli ortodossi! quelli che hanno in cuore questa mia volontà, quelli che per intimo sentimento mi possono chiamare loro vero capo e signore vengano qui sopra». E la maggior parte dei prelati dell’Oriente e del Nord, la metà dei vecchi credenti e più della metà dei preti, dei monaci e dei laici ortodossi salirono sul palco e con grida di gioia, dando uno sguardo di sfuggita ai cattolici che già vi stavano assisi con aria di importanza. Ma lo starets Giovanni non si mosse e diede un forte sospiro. E quando la folla attorno a lui si fu alquanto diradata, lasciò il suo banco e andò a sedersi vicino a papa Pietro e al suo gruppo. Dietro di lui si avviarono anche tutti gli altri ortodossi che non erano saliti sul palco. L’imperatore prese di nuovo a parlare: «Mi sono noti fra voi, cari cristiani, anche coloro che nel cristianesimo apprezzano più di tutto la personale sicurezza in fatto di verità e la libera ricerca riguardo alla Scrittura. Non occorre che mi diffonda su quello che ne penso io. Voi sapete forse che fin dalla mia prima giovinezza ho scritto sulla critica biblica una voluminosa opera, che a quel tempo ha fatto un certo rumore e ha dato inizio alla mia notorietà. Ed ecco che probabilmente in ricordo di questo fatto l’università di Tubinga in questi giorni mi ha rivolto la richiesta di accettare la sua laurea ad honorem di dottore in teologia. Ho ordinato di rispondere che accettavo con gioia e gratitudine. E oggi, insieme al decreto per la fondazione del museo d’archeologia cristiana, ho firmato quello per la creazione di un istituto universale per la libera ricerca sulla Sacra Scrittura in tutte le sue parti e da tutti i punti di vista, nonché per lo studio di tutte le scienze ausiliarie, con un bilancio annuale di un milione e mezzo di marchi. Quelli di voi che hanno a cuore queste mie sincere disposizioni e che con puro sentimento possono riconoscermi per loro capo sovrano, li prego di venire qui, accanto al nuovo dottore in teologia». E le belle labbra del grande uomo si allungarono lievemente in uno strano sorriso. Più della metà dei sapienti teologi si mosse verso il palco, sia pure con qualche indugio e qualche esitazione. Tutti volsero lo sguardo verso il professor Pauli che pareva abbarbicato al suo seggio. Egli abbassava profondamente il capo, curvandosi e contraendosi. I sapienti teologi che erano saliti sul palco rimasero confusi, anzi uno di essi a un tratto agitò il braccio e saltò giù direttamente in basso accanto alla scala e, zoppicando un po’, corse a raggiungere il professor Pauli e la minoranza rimasta con lui. Pauli sollevò il capo, si alzò con un movimento un po’ indeciso, si diresse verso i banchi rimasti vuoti e, accompagnato dai suoi correligionari che avevano tenuto fermo, venne con essi a sedersi accanto allo starets Giovanni, al papa Pietro e ai loro gruppi.
    La grande maggioranza dei mèmbri del concilio si trovava sul palco, ivi compresa quasi tutta la gerarchia dell’Oriente e dell’Occidente. In basso erano rimasti soltanto tre gruppi di uomini che si erano avvicinati gli uni agli altri e che si stringevano accanto allo starets Giovanni, al papa Pietro e al professor Pauli.
    Con accento di tristezza, l’imperatore si rivolse a loro dicendo:«Che cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?». Allora simile a un cero candido si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: «Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui Stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano, noi siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa noi possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi tu fare per noi, eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è resuscitato e che verrà di nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore, come il vero precursore del suo secondo glorioso avvento». Egli tacque e piantò lo sguardo nel volto dell’imperatore. In costui avveniva qualche cosa di tremendo. Nel suo intimo si stava scatenando una tempesta infernale, simile a quella che aveva provato nella notte fatale. Aveva perduto interamente il suo equilibrio interiore e tutti i suoi pensieri si concentravano nel tentativo di non perdere la padronanza di se stesso anche nelle apparenze esteriori e di non svelare se stesso prima del tempo. Fece degli sforzi sovrumani per non gettarsi con urla selvagge sull’uomo che gli aveva parlato e sbranarlo coi denti. A un tratto sentì la voce ultraterrena a lui ben nota che gli diceva: “Taci e non temere nulla”. Egli rimase in silenzio. Pero il suo volto, rabbuiato e col pallore della morte, era divenuto convulso, mentre i suoi occhi sprizzavano scintille. Frattanto durante il discorso dello starets Giovanni il gran mago che stava seduto tutto ravvolto nel suo ampio mantello tricolore che ne nascondeva la porpora cardinalizia, sembrava occupato a compiere sotto di esso arcane manipolazioni, i suoi occhi dallo sguardo concentrato scintillavano e le sue labbra si movevano. Dalle finestre aperte del tempio si scorgeva avvicinarsi un’enorme nuvola nera. Lo starets Giovanni che non staccava i suoi occhi sbigottiti e spaventati dal volto dell’imperatore rimasto ammutolito a un tratto diede un sussulto per lo spavento e voltandosi indietro gridò con voce strozzata: «Figlioli, è l’Anticristo!». Nel tempio scoppiò un tremendo colpo di tuono e simultaneamente si vide saettare una folgore enorme a forma di cerchio che avviluppò il vegliardo. Per un istante tutti rimasero come annichiliti e quando i cristiani si furono ripresi dallo stordimento, lo starets Giovanni giaceva a terra cadavere.
    L’imperatore, pallido ma calmo, si rivolse all’assemblea dicendo: «Voi avete veduto il giudizio di Dio. Io non volevo la morte di alcuno, ma il mio Padre celeste vendica il suo figlio prediletto. La questione è risolta. Chi oserà contestare i voleri dell’Altissimo? Segretari! Scrivete: il concilio ecumenico di tutti i cristiani, dopo che il fuoco venuto dal cielo ebbe folgorato un insensato avversario della maestà divina, riconosce all’unanimità il regnante imperatore di Roma, come suo capo e supremo sovrano».
    A un tratto una parola squillante e distinta si propagò per il tempio: «Contradicitur». Il papa Pietro II si alzò in piedi e col volto imporporato, tutto tremante di collera, sollevò il pastorale in direzione dell’imperatore: «Nostro unico Sovrano è Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente. Ma ciò che tu sei l’hai sentito. Vattene da noi Caino fratricida! Via da noi, vaso del demonio! Per l’autorità di Cristo, io, servo dei servi di Dio, ti scaccio per sempre dal recinto divino, cane schifoso, e ti consegno al padre tuo, Satana! Anatema, anatema, anatema!».
    Mentre egli parlava, il gran mago si agitava inquieto sotto il suo mantello: più fragoroso dell’ultimo anatema rimbombò un colpo di tuono e l’ultimo papa cadde a terra inanimato. «Così per mano del padre mio periscono i miei nemici», disse l’imperatore. «Pereant, pereant!», si misero a gridare tremanti i principi della Chiesa. Egli si volse e, appoggiandosi alla spalla del gran mago uscì lentamente dalla porta che stava dietro il palco, accompagnato dalla folla dei suoi seguaci. Nel tempio eran rimasti i due cadaveri e un cerchio ristretto di cristiani mezzo morti dalla paura. L’unico che non aveva perduto il suo sangue freddo era il professor Pauli. Il terrore generale pareva stimolare tutte le forze del suo spirito.
    Era mutato anche nel suo aspetto esteriore e aveva assunto un’aria maestosa e ispirata. Con passo risoluto, salì sul palco e, sedutosi su uno dei seggi lasciati liberi dai segretari di stato, prese un foglio di carta e si mise a scrivere. Quando ebbe terminato, si alzò in piedi e a voce alta lesse: «Alla gloria del nostro unico Salvatore Gesù Cristo. Il concilio ecumenico delle chiese di Dio, riunito a Gerusalemme, poiché il nostro beatissimo fratello Giovanni, rappresentante della cristianità orientale, ha convinto il grande impostore e nemico di Dio di essere l’autentico Anticristo, predetto dalla Sacra Scrittura e poiché il nostro beatissimo padre Pietro, rappresentante della cristianità occidentale, con la scomunica lo ha secondo legge e giustizia scacciato per sempre dalla Chiesa di Dio oggi davanti ai corpi di questi due martiri della verità, testimoni di Cristo, delibera: di rompere ogni rapporto con lo scomunicato e la sua esecrabile accozzaglia, di ritirarsi nel deserto e attendere l’immancabile venuta del nostro vero sovrano Gesù Cristo» Una grande animazione s’impadronì della folla ed echeggiarono voci possenti che dicevano: «Adveniat, adveniat cito! Komm, Herr Jesu, komm!».
    Il professor Pauli aggiunse ancora un poscritto e poi lesse. «Approvando all’unanimità questo primo ed ultimo atto dell’ultimo concilio ecumenico, apponiamo le nostre firme» e fece un gesto d’invito all’assemblea. Tutti si affrettarono a salire sul palco e a firmare. Alla fine lui pure firmò a grossi caratteri gotici: Duorum defunctorum testium locum tenens Ernst Pauli. «Ora andiamocene con la nostra arca dell’alleanza dell’ultimo Testamento! », disse indicando i due cadaveri.
    I corpi furono issati su barelle. Lentamente al canto di inni in latino in tedesco e in slavonico ecclesiastico, i cristiani si avviarono alla porta di Haram-es-Scerif. Qui il corteo fu fermato da un messo dell’imperatore, un segretario di stato, accompagnato da un ufficiale con un plotone della guardia. I soldati si schierarono presso la porta e da un podio il segretario di stato lesse quanto segue: «Ordine di sua maestà divina: per istruire il popolo cristiano e metterlo in guardia contro uomini malintenzionati fomentatori di discordie e di scandali, abbiamo ritenuto opportuno disporre che i corpi dei due sediziosi, uccisi dal fuoco del cielo, siano esposti in pubblico nella strada dei Cristiani (Haret-en-Nazàra) vicino alla porta principale del tempio di questa religione chiamata Santo Sepolcro o altrimenti Resurrezione, perché tutti possano persuadersi della realtà della loro morte.
    I loro ostinati partigiani, poiché malignamente respingono ogni nostro beneficio e da insensati chiudono gli occhi davanti alle evidenti manifestazioni della Divinità stessa, grazie alla nostra misericordia e alla nostra intercessione presso il Padre celeste, sono esenti dalla pena di morte, mediante il fuoco del cielo, che si sono meritata e rimangono in completa libertà, con l’unica proibizione per il bene comune, di abitare nelle città e negli altri luoghi popolati affinché non possano sviare e sedurre con le loro malvagie invenzioni la gente ingenua e semplice». Quando ebbe finito, otto soldati a un cenno dell’ufficiale si avvicinarono alle barelle dove giacevano i corpi.
    «Si compia ciò che è scritto», disse il professor Pauli, e i cristiani che portavano le barelle le cedettero senza una parola ai soldati i quali si allontanarono dalla porta di nord-ovest; dal canto loro i cristiani, uscendo dalla porta di nord-est, si diressero rapidamente dalla città verso Gerico, passando accanto al monte degli Ulivi, per la strada che i gendarmi e due reggimenti di cavalleria avevano in precedenza sgombrato dalla folla del popolo. Essi decisero di aspettare alcuni giorni, sulle colline deserte vicino a Gerico. L’indomani mattina giunsero da Gerusalemme dei pellegrini cristiani loro amici e raccontarono ciò che era accaduto a Sion. Dopo il pranzo di corte, tutti i mèmbri del concilio erano stati convocati nell’immensa sala del trono (dove si supponeva sorgesse il trono di Salomone) e l’imperatore, rivolgendosi ai rappresentanti della gerarchia cattolica, aveva dichiarato che il bene della Chiesa esigeva da essi l’immediata elezione di un degno successore dell’apostolo Pietro, ma che nelle presenti circostanze di tempo l’elezione doveva avvenire con procedura sommaria. La presenza di lui, l’imperatore, capo e rappresentante di tutto il mondo cristiano, valeva largamente a compensare l’omissione delle formalità rituali, e che in nome di tutti i cristiani, egli proponeva al Sacro Collegio di eleggere il suo diletto amico e fratello Apollonio, affinché lo stretto legame esistente fra loro rendesse duratura e indissolubile l’unione della Chiesa con lo Stato per il bene comune. Il Sacro Collegio si ritirò in una camera particolare per il conclave e dopo un’ora e mezzo ritornò col nuovo papa Apollonio. Frattanto mentre si procedeva all’elezione, l’imperatore con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza, cercava di persuadere i rappresentanti degli ortodossi e degli evangelici a mettere fine ai vecchi dissidi in vista di una nuova grande epoca storica del cristianesimo, rendendosi garante con la sua parola che Apollonio avrebbe saputo abolire una volta per sempre gli abusi storici del potere papale. Convinti da queste sue parole, i rappresentanti dell’ortodossia e del protestantesimo avevano steso l’atto di unione delle Chiese e quando Apollonio comparve nella sala con i cardinali tra le grida di giubilo di tutta l’assemblea, un vescovo greco e un pastore evangelico gli presentarono il loro documento. «Accipio et approbo et laetificatur cor meum», disse Apollonio apponendo la sua firma. «Io sono del pari un vero ortodosso e un vero evangelico, come sono un vero cattolico» — aggiunse egli, scambiando un amichevole abbraccio col Greco e col Tedesco. Poi si avvicinò all’imperatore, il quale lo abbracciò e lo tenne a lungo tra le braccia. In quel momento dei puntini luminosi cominciarono a volteggiare in tutte le direzioni nel palazzo e nel tempio; essi ingrandirono e si mutarono in ombre luminose di esseri strani; fiori mai veduti sulla terra cadevano dall’alto, riempiendo l’aria di un profumo arcano. Si diffondevano dall’alto deliziosi suoni di strumenti musicali fino allora sconosciuti che andavan dritto all’anima e afferravano il cuore, mentre voci angeliche di invisibili cantori glorificavano i nuovi sovrani del cielo e della terra. Frattanto uno spaventoso rumore sotterraneo echeggiava nell’angolo nord-ovest del palazzo centrale, sotto il kubbet-el-aruach vale a dire sotto la cupola delle anime, dove secondo la tradizione musulmana, si trova l’entrata dell’inferno. Quando gli astanti, su invito dell’imperatore, si mossero verso quella parte, tutti intesero chiaramente innumerevoli voci acute e penetranti — mezzo fanciullesche e mezzo diaboliche — che esclamavano: «È giunta l’ora, liberateci o salvatori, o salvatori!». Ma quando Apollonio stringendosi verso la rupe, per tre volte gridò verso il basso qualcosa in una lingua sconosciuta, le voci tacquero e il rumore s’interruppe. Frattanto una folla immensa di popolo proveniente da tutte le parti, aveva circondato Haram-es-Scerif. Al calar della notte l’imperatore, col nuovo papa, aveva fatto la sua apparizione sulla gradinata orientale, sollevando «una tempesta di entusiasmo». Egli salutò affabilmente in tutte le direzioni, mentre Apollonio traeva da grandi canestri, postigli innanzi dai cardinali segretari, e lanciava in aria senza interruzione magnifiche candele romane, razzi e fontane di fuoco che accendendosi al tocco delle sue mani si trasformavano in perle fosforescenti e in luminosi arcobaleni; tutto questo toccando terra si mutava in innumerevoli fogli di carta di vari colori, con indulgenze plenarie senza condizioni per tutti i peccati passati, presenti e futuri. L’esultanza popolare sorpassò ogni limite. A dire il vero alcuni affermavano di aver visti coi propri occhi quei fogli d’indulgenza trasformarsi in rospi e serpenti estremamente schifosi. Nondimeno l’enorme maggioranza della gente andava in visibilio e la festa popolare si protrasse ancora alcuni giorni; durante questo tempo il nuovo papa-taumaturgo arrivò a compiere dei prodigi così sbalorditivi e incredibili che sarebbe del tutto inutile darne una narrazione. Nello stesso tempo sulle alture deserte di Gerico i cristiani si dedicavano al digiuno e alla preghiera. La sera del quarto giorno sull’imbrunire, il professor Pauli e nove compagni, cavalcando degli asini e trainando una carretta, penetrarono in Gerusalemme; passando per vie traverse, vicino a Haram-es-Scerif, sboccarono a Haret-en-Nazàra e raggiunsero l’entrata del tempio della Resurrezione, dove sul pavimento giacevano i corpi di papa Pietro e dello starets Giovanni. A quell’ora la via era deserta: tutta la città al completo si era riversata a Haram-es-Scerif. I soldati di guardia erano immersi in un sonno profondo. I nuovi arrivati trovarono che i corpi non erano stati toccati dal processo di decomposizione e addirittura non erano diventati rigidi e grevi. Li issarono su barelle, li ricoprirono con mantelli che avevano E portato con sé e, percorrendo le stesse vie traverse, ritornarono dai loro fratelli, ma non appena ebbero posate a terra le barelle lo spirito della vita rientrò nei due morti. Essi si agitarono, cercando di sbarazzarsi dei mantelli che li avviluppavano. Tutti presero ad aiutarli con grida di gioia e ben presto i due resuscitati si alzarono in piedi sani e salvi. E il redivivo starets Giovanni prese così a parlare: «Ecco dunque, figlioli miei, che noi non ci siamo lasciati. Ed ecco ciò che vi dirò adesso: l’ora è giunta che si adempia l’ultima preghiera di Cristo per i suoi discepoli: che essi siano uno, come Lui stesso col Padre è uno. Così per questa unità in Cristo, figlioli miei, veneriamo il nostro carissimo fratello Pietro. Gli sia concesso finalmente di pascere le pecore di Cristo. Proprio così, fratello! ». Ed egli abbracciò Pietro. A questo punto si avvicinò il professor Pauli: «Tu es Petrus!» — disse rivolto al papa —. «Jetzt ist es ja gründlich erwiesen und ausser jeden Zweifel gesetzt». Gli strinse forte la mano con la destra, mentre tendeva la sinistra allo starets Giovanni, dicendogli: «So also, Väterchen, nun sind wir ja Eins in Christo». Così si compì l’unione delle Chiese nel cuore di una notte oscura, su un’altura solitaria. Ma l’oscurità della notte venne a un tratto squarciata da un vivido splendore e in cielo apparve il grande segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle. L’apparizione restò per qualche tempo immobile, poi si mosse lentamente verso sud. Il papa Pietro alzando il pastorale, esclamò: «Ecco la nostra insegna! Andiamo sulle sue orme!». Ed egli si incamminò nella direzione indicata dall’apparizione insieme ai due vegliardi e a tutta la folla dei cristiani, verso il monte di Dio, verso il Sinai…
    (A questo punto il lettore si ferma).
    La Dama. Perché dunque non continuate?
    Il Signor Z. Il manoscritto non va più avanti. Il padre Pansofio non ha potuto portare a termine il suo racconto. Già ammalato mi narrava ciò che aveva in mente di scrivere in seguito — «non appena sarò guarito» — diceva. Ma non guarì e la parte finale del suo racconto è sepolta con lui nel monastero di Danilovo.
    La Dama. Ma voi ricorderete certamente quello che vi ha narrato: raccontatecelo dunque.
    Il Signor Z. Ne ricordo soltanto i tratti principali. Dopo che i capi spirituali e i rappresentanti della cristianità si furono ritirati nel deserto dell’Arabia, dove da ogni parte affluirono a loro folle di fedeli zelatori della verità, il nuovo papa poté senza alcun ostacolo corrompere, attraverso i suoi prodigi e miracoli, tutto il resto dei cristiani superficiali che non si erano ricreduti circa l’Anticristo. Egli dichiarò che, con la potenza delle sue chiavi, aveva aperto le porte fra il mondo terrestre e quello d’oltretomba e in effetti divenne un fenomeno abituale la comunicazione dei vivi coi morti e anche degli uomini coi demoni; inoltre si svilupparono nuove forme inaudite di orgia mistica e di demonolatria. Ma non appena l’imperatore cominciò a credere di essere saldamente sistemato in campo religioso e dopo che sotto la pressante suggestione della misteriosa voce «paterna» ebbe a dichiararsi unica e vera incarnazione della divinità suprema universale, gli capitò una disgrazia nuova da parte di chi nessuno si sarebbe aspettato: si erano ribellati gli Ebrei. Questo popolo, il cui numero aveva raggiunto a quel tempo i trenta milioni di individui, non era del tutto estraneo alla preparazione e all’affermazione dei successi universali del superuomo. Quando si era trasferito a Gerusalemme, aveva fatto segretamente correre la voce nei circoli ebraici che il suo obiettivo principale era di stabilire il dominio di Israele su tutto il mondo; e allora gli Ebrei lo avevano riconosciuto come il Messia e la loro entusiastica dedizione per lui non ebbe limiti. All’improvviso si erano ribellati spirando collera e vendetta. Questo brusco voltafaccia, senza dubbio predetto e dalla Scrittura e dalla tradizione, è presentato da padre Pansofio forse con eccessiva semplicità e soverchio realismo. Il fatto si è che gli Ebrei, i quali ritenevano l’imperatore come un perfetto israelita per razza, avevano scoperto per caso che egli non era nemmeno circonciso. Quello stesso giorno a Gerusalemme e l’indomani in tutta la Palestina scoppiò la rivolta. La dedizione ardente e senza limiti verso il salvatore di Israele e il Messia annunciato si tramutò in un odio altrettanto ardente e senza limiti nei confronti dell’astuto truffatore e dello sfrontato impostore. Tutto l’ebraismo si sollevò come un solo uomo e i suoi nemici scopersero con sorpresa che l’anima di Israele nel suo fondo non vive di calcoli e delle bramosie di Mammona, ma della forza di un sentimento sincero, nella speranza ed il corruccio della sua eterna fede messianica. L’imperatore che non si aspettava una simile esplosione così all’improvviso, perdette la padronanza di se stesso ed emanò un decreto che condannava a | morte tutti i ribelli ebrei e cristiani. Molte migliaia e decine di migliaia di uomini che non avevano fatto in tempo ad armarsi, furono spietatamente massacrati. Ma ben presto un esercito di un milione di Ebrei si impadronì di Gerusalemme e costrinse l’Anticristo a rinchiudersi in Haram-es-Scerif.
    Questi non aveva a sua disposizione che una parte della guardia e non poteva spuntarla contro la massa dei nemici. Mediante le arti magiche del suo papa, l’imperatore riuscì a filtrare attraverso le linee degli assedianti e ben presto egli ricomparve in Siria, alla testa di uno sterminato esercito di pagani di varie razze. Gli Ebrei, anche se le probabilità di vittoria erano scarse, gli mossero incontro. Ma non appena le avanguardie dei due eserciti ebbero iniziato il combattimento, ecco che si produsse un terremoto di inaudita violenza; sotto il Mar Morto, presso il quale si erano schierate le truppe imperiali, si aperse il cratere di un enorme vulcano e torrenti di fuoco, fusi insieme in un lago di fiamme, inghiottirono lo stesso imperatore, tutte le sue innumerevoli schiere ed il suo inseparabile compagno, il papa Apollonio, cui la magia non recò alcun soccorso. Frattanto gli Ebrei corsero a Gerusalemme, spaventati e tremanti, invocando la salvezza del Dio di Israele. Quando la santa città apparve ai loro occhi, un grande baleno squarciò il cielo da oriente a occidente ed essi videro il Cristo che scendeva loro incontro, in veste regale, con le piaghe dei chiodi sulle mani distese. Intanto dal Sinai si mosse verso Sion la folla dei cristiani guidati da Pietro, Giovanni e Paolo, mentre da altre parti accorrevano altre folle entusiaste: erano tutti gli Ebrei e tutti i cristiani mandati a morte dall’Anticristo. Erano risuscitati e si accingevano a vivere con Cristo per mille anni.
    È con questa visione che il padre Pansofio voleva finire il suo racconto che aveva per soggetto non già la catastrofe dell’universo, ma soltanto la conclusione della nostra evoluzione storica: l’apparizione, l’apoteosi e la rovina dell’Anticristo.
    L’Uomo Politico. E voi pensate che questa conclusione sia tanto prossima?
    Il Signor Z. Be’, sulla scena vi saranno ancora molte chiacchiere e vanità, ma il dramma è già stato scritto interamente da un pezzo sino alla fine e non è permesso né agli spettatori né agli attori di apportarvi alcun mutamento.
    La Dama. Ma in definitiva quale è il senso di questo dramma? Non capisco infatti perché il vostro Anticristo nutra tanto odio verso Dio, mentre in fondo è buono e non cattivo!
    Il Signor Z. Il fatto è che m fondo non è buono. E in questo sta tutto il senso del dramma. Io ritiro le parole che ho detto in precedenza e cioè «che l’Anticristo non si spiega coi soli proverbi». Per spiegarlo integralmente basta un solo proverbio e per di più di un’estrema semplicità: «Non è tutto oro ciò che luccica». Lo splendore di un bene artefatto non ha nessuna forza.
    Il Generale. Vogliate però notare su quale evento cala il sipario di questo dramma storico: sulla guerra, sullo scontro di due eserciti! Ed ecco che il termine del nostro colloquio si è rifatto all’inizio. Che ve ne pare principe?… Santi del cielo! ma dov’è il principe?
    L’Uomo Politico. Ma non avete osservato? Se n’è andato alla chetichella nel momento patetico, quando lo starets Giovanni metteva l’Anticristo con le spalle al muro. Allora non ho voluto interrompere il racconto e in seguito mi è passato di mente.
    Il Generale. Quanto è vero Iddio è scappato per la seconda volta. Ha saputo dominarsi. Però non ha saputo resistere. Ah, Dio mio!

  • 27 Nov

    PRESENTAZIONE

    Nel 1996 l’Arcivescovo, Cardinale Carlo Maria Martini, indirizzava ai fedeli della sua diocesi la lettera pastorale “Parlo al tuo cuore” che aveva come sottotitolo “per una regola di vita del cristiano ambrosiano”.
    I contenuti di quella lettera pastorale vengono ora ripresi in una nuova edizione e presentati come “regola di vita del cristiano”.
    L’intenzione è di affidare questa “regola” soprattutto ai giovani, ai diciottenni, agli adolescenti cresimati e cresimandi, a tutti coloro che aprendosi alla vita con scelte ricercate e volute, sentono l’importanza dell’indicazione di una via per accogliere la Parola di Gesù e vivere in comunione con Lui.
    È significativo che ciò avvenga oggi, all’inizio del nuovo millennio, in un clima sociale dove si ha l’impressione che le domande creino smarrimento e dove sembra forte la paura di prendere decisioni impegnative per la propria vita.
    Questa “regola di vita” prende sul serio gli interrogativi dell’uomo. Non intende offrire risposte facili, invita piuttosto ad un cammino spirituale, interiore e aperto, che domanda innanzitutto di creare lo spazio per lasciare parlare il Signore; aiuta ad affinare lo sguardo per “vedere” Dio vicino all’uomo con diversi segni e molti doni; incita alla testimonianza feconda per la quale ognuno, insieme con tanti fratelli, può essere portatore della speranza che viene da Dio e di un seme di vita in questo mondo.
    È certamente una “regola” da meditare lungamente.

    Don Gianni Zappa


    INTRODUZIONE

    La “regola di vita” del cristiano è già tutta nel Vangelo ed è resa vivibile dal dono dello Spirito Santo, che ci è dato nel battesimo e negli altri sacramenti.
    Il Signore, però, ha voluto salvarci non isolatamente, ma come popolo radunato intorno ai Pastori e chiede loro di interpretare i segni e i bisogni dei tempi. Pertanto, stimolato dall’esempio di chi mi ha preceduto nel servizio della Chiesa di Milano e dai tanti figli di questa Chiesa che sono stati modelli sulla via della santità, ho pensato di stilare questo breve testo perché possa aiutare chi ha intrapreso il cammino difficile e meraviglioso della fede a progredire in esso in obbedienza alla volontà del Padre.
    Ciò che vi chiedo è allora semplicemente di meditare questa Regola. Essa parte dalle domande che sono nel cuore di ognuno di noi (Interrogatio) e si sforza di indicare un itinerario credibile e percorribile di risposta nella sequela di Gesù, attraverso il triplice momento della Traditio (i doni a noi trasmessi nella Chiesa ambrosiana), della Receptio (l’accoglienza e la coltivazione di questi doni) e della Redditio (il ridistribuire questi doni ad altri).

    Ascoltami, ti prego, con lo stesso cuore aperto con cui ti parlo, cominciando dalle domande che entrambi abbiamo dentro.

    Capitolo primo

    INTERROGATIO:

    L’INQUIETUDINE DEL CUORE

    1. Ascoltare le domande vere

    Vorrei farmi tuo compagno di strada: ascoltare le domande vere del tuo cuore, confessarti le mie. Questo è importante: non è possibile trovare e dare risposte, se non si sono riconosciute le domande. Una “regola di vita” vorrebbe anzitutto essere un tentativo di dare risposte a domande vere (o forse, più modestamente, l’indicazione di un tracciato, lungo il quale cercare e incontrare risposte vere).

    2. La domanda radicale: la morte

    Provo a mettere in gioco fino in fondo me stesso, ad aprire il mio cuore: se vi guardo dentro, trovo tante gioie e dolori e tante domande aperte, che forse sono anche le tue.
    Come stanno insieme i dolori e le gioie della vita? Quando si pensa a tante sofferenze della gente Ce me ne giungono gli echi ogni giorno e ogni ora), qualunque godimento, anche il più legittimo e semplice, sembra scolorire, appare come stonato. Perché invece ha senso? come si conciliano le gioie autentiche di questo mondo con le prospettive di morte? perché la morte nel mondo? perché, se è vero che Dio ci ha salvato, non ci ha liberato dalla necessità di morire? e, dietro la morte, tutti i dolori e le angosce dell’esistenza umana: perché questo immenso cumulo di violenze, ingiustizie e solitudini? Sembra che il non senso l’abbia vinta su tutti i fronti: fare i conti con la miseria che copre la terra significa riconoscere la grande difficoltà che tutti incontriamo nel renderci padroni della complessità, nel trovare ragioni che giustifichino la fatica di vivere.

    3. Il silenzio di Dio

    Perché il Signore sembra tacere? perché Lui, che è l’Onnipotente, non si manifesta con lo splendore della Sua verità e lo sfolgorio della Sua onnipotenza? perché quella Sua apparente indifferenza davanti alla quotidiana commedia e tragedia della nostra vita? è proprio vero che Gli stiamo a cuore? che siamo importanti per Lui? tutti e ciascuno? Non stupirti che sia anch’io a farmi queste domande: me le porto dentro e ogni giorno inquietano la mia fede e mi rendono pensoso e in ricerca. Anche nel cuore del Vescovo abitano gli interrogativi che ci fanno umani, così fragili davanti alla vita, alla malattia, alla morte.

    4. Dall’interrogare all’essere interrogati

    A pensarci bene, tutte le domande che ho ricordato sono rivolte a Dio: è per noi quasi spontaneo chiederGli conto e ragione di questo mondo.
    Se Dio c’è, è Lui che lo ha voluto, così come esso è. E tuttavia, non è forse la critica smaliziata del pensiero moderno che si è abituata a chiamarLo in giudizio davanti alla clamorosa smentita che il dolore del mondo darebbe della Sua provvidenza e del Suo amore? In questo siamo un po’ tutti figli dell’epoca moderna, della sua ragione cosiddetta “adulta ed emancipata”. E se provassimo a capovolgere la domanda, a passare dall’interrogare all’essere interrogati? e se consentissimo a Dio di porci Lui le Sue domande?

    5. L’invadenza dell’Io

    Mi chiedo allora quali potrebbero essere le domande di Dio: se penso al Suo
    giudizio, se mi immagino davanti a Lui, al Suo sguardo penetrante e creatore, non posso non riconoscere come il mio cuore sia mosso tante volte da motivazioni spurie, o, per dirla tutta, da un’invadenza dell’Io, che vuole stare al centro e misurare su di sé tutte le cose, e perfino l’agire di Dio! Anche per un’epoca come la nostra, che non percepisce la consistenza e la drammaticità del peccato, non dovrebbe essere difficile riconoscere le conseguenze di questa invadenza nella vita degli uomini: penso alla fatica che tutti facciamo ad uscire dalle pastoie delle nostre motivazioni egoistiche; penso alla facilità con cui ci lasciamo prendere da logiche particolaristiche, incapaci come siamo di guardare al di là del nostro piccolo calcolo. Le domande che Dio ci fa sono spirito e vita, perché ci invitano a riconoscere le ragioni del nostro disagio di vivere e della nostra mancanza di felicità e di pace anzitutto in noi stessi, nella fatica e nella paura di amare che ci portiamo dentro, nel sospetto di non essere amati, nella diffidenza di fronte a ogni atteggiamento di amore gratuito.

    6. La perdita dell’ingenuità

    È così che capisco la verità su me stesso: è come un prendere coscienza del proprio egoismo e della propria fragilità, che fa cadere l’ingenua magia di pensare che bastino le buone intenzioni per cambiare il mondo e la vita. C’è veramente una differenza stridente fra l’altezza dei buoni propositi e la presenza del male e dell’egoismo in ciascuno di noi: forse è questo ciò che Dostoievski chiamava “l’abisso dei doppi pensieri”. Fai qualcosa di bene e t’accorgi che dentro il tarlo del tuo lo non ti abbandona. T’accorgi che è sempre grande la potenza del peccato. Gli alti e i bassi si susseguono con un’impressionante frequenza: e non solo sul piano psicologico, ma su quello più profondo delle scelte del cuore, degli orientamenti della vita.

    7. La via più difficile

    Certo, occorre imparare a convivere con noi stessi, ad accettare questa permanente instabilità psicologica e spirituale. Ma ciò esige di capirne il perché, domandandoci come anche attraverso questo cammino contorto Dio ci ami e voglia farci suoi figli. Accettare che dalla morte venga la vita ci ripugna: eppure deve essere proprio così, se il Signore ci lascia in questa lotta, che sembra pervadere l’universo intero. Forse, però, è proprio questa ripugnanza ad accettare e scegliere la via dell’amore fino alla morte che mostra al tempo stesso la condizione tragica del peccato e il bisogno che noi tutti abbiamo di imparare ad amare con un aiuto che ci venga dall’alto: in questo senso, la fatica a credere che un Dio sia morto in croce è la riprova della necessità di questa morte. Il cristianesimo non è la risposta banale alla domanda del dolore e della morte, una risposta che giustifichi tutto o tutto copra sotto l’incomprensibile giudizio divino. Il cristianesimo è la “lectio difficilor”, la via più difficile, che prende sul serio la condizione universale di morte e di peccato, e proprio così annuncia la compassione di un Dio che si fa carico di questa morte e di questo peccato per sollevare e salvare ciascuno di noi.

    8. Il Dio “sofferente” e la legge della Croce

    Il passo ulteriore è dunque arrivare a intuire che Dio sta dalla nostra parte e partecipa al dolore per tutto questo male che devasta la terra. Egli non se ne sta come uno spettatore disinteressato o un giudice freddo e lontano, ma “soffre” per noi e con noi, per le nostre solitudini incapaci di amare, perché Lui ci ama. La “sofferenza” divina non è incompatibile con le perfezioni divine: è la sofferenza dell’amore che si fa carico, la “com-passione” attiva e libera, frutto di gratuità senza limiti. Sempre più, nel cammino della vita, sotto i colpi di luce del Vangelo, il Dio di Gesù Cristo mi è apparso come il Dio capace di tenerezza e di pietà fino al punto da “soffrire” per i peccati del mondo. Un Dio tenero come un Padre e una Madre, che non rinnega mai i suoi figli. Un Dio umile, che manifesta la Sua onnipotenza e la Sua libertà proprio nella Sua apparente debolezza di fronte al male. Un Dio che per amore accetta di subire il peso del nostro peccato e del dolore che esso introduce nel mondo. Proprio così, però, nella morte di Gesù sulla croce, Dio ci insegna a trarre il bene dal male, la vita dalla morte. Appare allora contraddittorio il nostro continuo voler essere gratificati da tutti e da tutto, a cominciare da Dio, mentre lo contempliamo crocifisso.
    Come vorrei che tutti a questo punto capissero che il mistero di un Dio morto e risorto è la chiave dell’esistenza umana e il succo del Vangelo e della nostra fede! Eppure contro questa roccia del “mistero pasquale” vanno a cozzare tutte le onde delle nostre resistenze, mentre diciamo con Pietro: «Dio te ne scampi, Signore: questo non ti accadrà mai!» (Mt 16,22). Eppure proprio qui si ricongiungono i nodi del rapporto che lega morte e vita, dolore e gioia, fallimento e successo, frustrazione e desiderio, umiliazione ed esaltazione, disperazione e speranza. Quando la “legge della Croce” ci tocca, ci sconvolge e ne siamo profondamente turbati: ma solo qui si attua la piena liberazione dal male, fino ad accettarne le conseguenze su di sé per perdonarlo e superarlo, come ha fatto Gesù sulla croce.

    9. Arrendersi a Dio

    Per sciogliere l’apparente assurdità della vita non c’è allora che una via possibile: rimettermi continuamente di fronte ad essa, senza sfuggirvi, e arrendermi contemporaneamente senza riserve nelle mani del Dio umile e sofferente, del “Dio crocifisso”. Solo abbandonandomi perdutamente a Lui, solo capitolando nelle Sue mani potrò riprendere nelle mie il bandolo della matassa intricata della vita. Dio è il Mistero santo, Gesù Cristo in croce è la Custodia silenziosa, in cui riposa il senso della vita e della storia, il senso del mondo.

    10. Dal riconoscimento alla riconoscenza

    Come arrivo a questa conclusione così certa e definitiva? come la luce del Vangelo raggiunge e afferra quotidianamente la mia vita? come avviene che ancora e sempre di nuovo questa luce getti sprazzi sulle mie domande, e mi aiuti a vivere e ad illuminare per me e per gli altri la fatica di vivere? Posso rispondere solo così: io mi sento amato, sommamente, da Qualcuno piÙ grande di noi tutti. Mi sento chiamato e attratto, come uno che non può fare a meno di Dio, del Dio di Gesù Cristo. Anche se difficile e contrastata, sento e so che questa scelta è l’unica valida. Non è volontarismo: è riconoscimento.
    Riconosco che al termine di tutte le mie domande senza risposta c’è il suo Mistero santo, e c’è precisamente come il Signore Gesù ce lo ha rivelato sulla croce: mistero di amore infinito che si consegna, Trinità dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, che ci accoglie nel Suo grembo, e ci custodisce negli abissi di amore della Sua vita. E il riconoscimento si trasforma in riconoscenza: sono grato al mio Dio perché mi so amato da Lui, «nascosto con Cristo in Dio» (Col 3,3), anche quando non riesco a sentirlo con i miei poveri sensi umani.

    11. Nella Chiesa

    Mi potresti obiettare: “Ma questa è la tua esperienza, non la mia. Tu sei un privilegiato. Per me non è così. Se puoi, insegnami come si fa a vivere la propria vita in Dio”. Vorrei allora risponderti che proprio per questo ho scritto questa Regola di vita, per dirti in forma semplice e breve dove è possibile incontrare il Dio che è il nostro Tutto, il Dio della compassione e della misericordia, il Dio che si fa compagno del nostro dolore e ci aiuta a portarne il peso, dandogli senso. Questo Dio puoi trovarLo nella Chiesa: nel suo annuncio, che è il Vangelo di Gesù e dei fatti storici e indubitabili della sua vita; nei suoi Sacramenti, che sono la presenza sensibile di Lui, che si è offerto per noi alla morte e ci ha donato la vita; nella compagnia di quanti, credendo, sono stati resi fratelli e sorelle nello Spirito di Gesù e – pur con tutti i loro limiti – si sforzano ogni giorno di imparare a credere, sperare ed amare. Il dono di Dio è ricevuto e trasmesso nella Chiesa, Suo popolo: ed è in essa che ci si accorge che la vita vera viene dal di fuori, da Dio, in un contesto ragionevole, serio, segnato dalla fragilità, ma significativo e liberante. Nella Chiesa mi riconosco amato e reso capace di amare, nonostante me stesso, le mie contraddizioni e paure. Credo veramente che anche per te possa essere così. Perciò voglio parlarti di ciò che questa Chiesa – la nostra, cattolica e ambrosiana al tempo stesso – ci trasmette (traditio); di come noi riceviamo in essa il dono dall’alto (receptio); di come a nostra volta possiamo trasmettere ad altri con gratuità quanto gratuitamente abbiamo ricevuto (redditio). Prova ad ascoltarmi: rivolgo anche a te la parola di Gesù ai primi due discepoli: «vieni e vedi»…

    Capitolo secondo

    TRADITIO:

    I DONI DI DIO
    CHE CI SONO TRASMESSI NELLA CHIESA

    12. Il Vangelo e lo Spirito, regola di vita

    La regola di vita del cristiano è il Vangelo del Signore Gesù, vissuto nella grazia dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori, a gloria di Dio Padre: «Tutto è Cristo per noi” (S. Ambrogio, La verginità, 16, 99), «Finché sono in via, sono di Cristo; quando sarò giunto, sarò del Padre; ma dappertutto per mezzo di Cristo e sotto di Lui” (Id., La fede, V, 12, 150). In quanto è lo Spirito a rendere presente in noi il Signore Gesù, è anche lo Spirito – Maestro interiore – ad insegnare a ciascuno che lo ascolti la regola del cammino d’ogni giorno: «Siamo segnati da Dio nello Spirito. Come infatti moriamo in Cristo per rinascere, così anche siamo segnati dallo Spirito per poterne portare lo splendore, l’immagine e la grazia” (Id., Lo Spirito Santo, I, 6, 79). Alle domande vere non rispondiamo noi, ma ci è data risposta lì dove Dio ha parlato nel silenzio, cioè nella croce di Cristo.

    13. L’evento del battesimo

    La regola di vita semplice e grande, che è il Vangelo del Signore Gesù, ci viene consegnata nel momento del battesimo e viene accolta da noi in quello stesso momento mediante la professione di fede, con cui noi, o i nostri genitori, padrini e madrine, a nome nostro, abbiamo dichiarato di credere in Dio Padre, nel Figlio Suo Gesù Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra salvezza, e nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita e ci aiuta a camminare in Dio finché il Suo volto sia pienamente manifestato in noi nella Sua gloria. È dunque nel battesimo che veniamo accolti nel cuore della Trinità e la vita e l’amore dei Tre sono comunicati al nostro cuore.

    14. La Tradizione vivente

    L’evento del battesimo ci inserisce così al tempo stesso nella vita della Trinità e nella Tradizione vivente della Chiesa, che per noi è quella della Chiesa di Sant’Ambrogio e di San Carlo, identica a quella di tutte le altre Chiese. La fede ricevuta e professata nel battesimo illumina le domande vere del cuore e ci permette di trovare risposte capaci di sostenerci nella vita e di fronte alla morte. In questa fede possiamo comprendere qual è la vocazione profonda di ciascuno di noi, quali le condizioni per discernere e vivere la volontà di Dio. Questa stessa fede ci fa capire che siamo chiamati a essere figli di Dio e a vivere come tali, ci insegna il cammino delle beatitudini evangeliche, che ci rendono simili a Gesù, Figlio del Padre.

    15. La “Traditio Symboli”

    Nel Simbolo della fede noi professiamo di credere in Dio: il “credere in” vuol dire l’atto dell’incondizionata adesione e dedizione della vita e del cuore a Lui, l’affidamento senza riserve alle tre Persone divine che sono l’unico Dio, l’ingresso vitale e trasformante nel dialogo del loro eterno amore. Ogni volta che nella liturgia professiamo il Credo siamo chiamati ad affidare incondizionatamente al Mistero santo di Dio le nostre domande, le nostre inquietudini, la nostra fatica di vivere e la nostra paura di morire. In modo particolare la nostra Chiesa ambrosiana rinnova questa solenne accoglienza della fede nella celebrazione annuale della Traditio Symholi, nel sabato precedente la Domenica delle Palme.

    16. Il tesoro delle Scritture

    Insieme con il Simbolo il battezzato accoglie la pienezza dei tesori della Chiesa contenuti nelle Sacre Scritture, ispirate dallo Spirito Santo, «che ha parlato per mezzo dei profeti». Tutte le Scritture danno testimonianza su Gesù e vanno interpretate a partire dal mistero della Sua morte e risurrezione. La venerazione e la conoscenza amorosa delle Scritture, insegnata da Sant’Ambrogio a Sant’Agostino, fa parte dell’identità di ogni battezzato e cresce con lui per tutta la sua esistenza. La Parola di Dio sta al principio della nostra vita di fede e continuamente la nutre e la rinnova. Essa è la sorgente che illumina le domande del cuore e rigenera le forze nel cammino. Da essa estraiamo continuamente “cose nuove e cose antiche» (Mt 13, 52), in essa penetriamo “le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13, 35), perché: “in principio è la Parola».

    17. Il silenzio contemplativo

    Per accogliere la Parola occorre coltivare il silenzio contemplativo, la capacità di rientrare nel nostro intimo, di ritrovare il centro di noi stessi, vincendo l’ansietà e la fretta che ci divorano e fermandoci ad ascoltare le domande vere per ricevere su di esse la luce del Dio che parla. Così faceva Maria di fronte agli eventi sconcertanti e imprevisti che la coinvolgevano. La “dimensione contemplativa della vita” ci è necessaria per cominciare un autentico cammino di fede e perseverare in esso in mezzo alle vicende tumultuose che segnano la nostra esistenza, ai turbamenti e alle contraddizioni che attraversano il nostro cuore.

    18. La liturgia e l’Eucaristia, “culmine e fonte”

    La Parola si fa carne del Signore nell’Eucaristia, centro di tutta la nostra comunità e della sua missione. Il Signore Gesù, che ha detto «Attirerò tutti a me”, continua ad attrarre a sé l’universo e tutti gli uomini e le donne della nostra terra per unirli a sé nel suo dono al Padre. Egli si offre a noi sotto le specie della debolezza e dell’insignificanza come pane di vita che ci sostiene nel cammino, facendosi compagno compassionevole della nostra fatica di vivere: «non temete… io sono con voi tutti i giorni”.
    È nella liturgia che la Chiesa, accogliendo il dono di Dio, si lascia accogliere nel seno del mistero trinitario. Nella celebrazione liturgica tutto viene ricevuto dal Padre per il Figlio nello Spirito ed insieme tutto è offerto al Padre per Cristo nell’unità del Consolatore. La “liturgia delle ore”, fedelmente ricevuta e trasmessa nella tradizione ambrosiana come “diurna laus”, santifica il tempo, riconducendolo alla sorgente eterna, grembo e patria di ogni nostro agire, mentre nella celebrazione dei sacramenti è l’intero scandirsi della vita e della storia umana che viene raggiunto e plasmato dalla Grazia che salva. In particolare, la Parola si fa carne del Signore nell’Eucaristia, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa, centro della comunità e della sua missione…

    19. Il senso della vita

    Dalla fede professata, nutrita dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia, emerge quel senso della vita, che si può sintetizzare nella frase di Sant’Ambrogio: «Tutto è Cristo per me”. Il cristiano è colui che sempre e dappertutto si sforza di essere con Cristo e di vivere per Cristo nella sequela di Lui. Questo significa vincere il senso di vuoto e di insignificanza che tante volte ci tenta e confessare con la vita Colui che sconvolge continuamente le nostre attese e proprio così dà pace al nostro cuore inquieto. Egli ci sussurra dalla croce: “Sarai con me in Paradiso!” e ci dà così la speranza certa che un giorno saremo con Lui.

    20. Tu sei il mio tutto!

    Accogliendo sempre di nuovo il dono di Dio, vorrei confessare insieme con te la gratitudine e la gioia che esso suscita in me, nonostante me stesso e tutte le mie povertà:

    Mio Dio, tu sei il mio tutto!
    Ti adoro,
    Ti amo con tutto il cuore,
    Ti ringrazio di avermi creato
    e di avermi chiamato
    d essere Tuo figlio in Gesù Cristo
    per mezzo del battesimo,
    facendomi membro vivo di questa Chiesa ambrosiana,
    conservandomi fino a questo momento nel Tuo amore
    per la grazia dello Spirito Santo.
    Ti offro la mia confessione di lode,
    piena di gratitudine e di speranza,
    e desidero vivere
    secondo la fede ricevuta nel battesimo,
    pregando, amando, soffrendo e morendo
    come ha vissuto, amato, pregato, sofferto
    ed è morto per noi
    il Tuo Figlio Gesù Cristo,
    nel quale anch’io sono Tuo figlio,
    come Tu mi sei Padre in Gesù, mio Signore,
    nello Spirito di verità e di amore,
    nella comunione della Chiesa cattolica,
    vissuta in questa Chiesa di Milano.

    Capitolo terzo

    RECEPTIO:

    L’ACCOGLIENZA DEI DONI RICEVUTI

    21. Il soggetto della “Receptio”

    Chi sono io che ricevo questi doni di Dio? Un uomo che sente la fatica della condizione umana, segnata dall’ingiustizia e dalla fragilità, dall’inadeguatezza e dall’incompetenza; un essere fragile e in ricerca, che ho descritto nella prima parte di questa Regola (Interrogatio) e che sempre ha bisogno di essere sostenuto, nutrito, rianimato dalla misericordia e dalla salvezza che ci sono date in Gesù Cristo.

    22. La “Receptio” anzitutto nella preghiera

    Questi doni, ricevuti nella Traditio, sono gratuiti, immeritati e inattesi. Il luogo in cui questa gratuità si manifesta, in cui i doni di Dio ci raggiungono nell’oggi e cambiano il nostro cuore è anzitutto la preghiera, sia personale che liturgica. Bisogna però cominciare con qualcosa di molto semplice: le preghiere del mattino e della sera e quelle brevi invocazioni durante la giornata C’Signore, aiutami!”; “Signore, abbi pietà di me!”…) che ci “attaccano” a Dio quando stiamo scivolando sulla parete ripida della quotidianità.

    23. Che cosa è la preghiera?

    La preghiera è anzitutto risposta alla Parola di Dio che per prima mi interpella e che mi raggiunge nella mia debolezza, ma anche nel mio silenzio e nella mia disponibilità all’ascolto. La preghiera è lasciarsi accogliere nel mistero santo, andando per Cristo nello Spirito al Padre: il cristiano più che pregare un Dio, straniero e lontano, prega in Dio, prega nascosto con Cristo nella Trinità, sorgente e grembo di vita. Quando preghi, allora, più che pensare di essere tu ad amare Dio, lasciati amare da Lui, docilmente, ciecamente, tutto abbandonandoti in Lui, tutto affidando a Lui, in spirito di lode e di rendimento di grazie. Chiediti con me: trovo dei momenti in cui mi metto a tu per tu con Dio, lo ascolto, mi apro a Lui?

    24. Preghiera, Sacramenti, Parola, Carità

    Da sempre, e sul modello ispirato da Sant’Ambrogio, la Chiesa milanese ha dato grande importanza alla celebrazione dei divini misteri, preceduta e seguita dalla proclamazione del messaggio di salvezza nell’annuncio e nella catechesi e al tempo stesso ricca di frutti di carità vissuta. Preghiera, Parola, Sacramenti, esercizio della carità costituiscono così il tessuto della Receptio, il terreno nel quale riceviamo ogni giorno nella Chiesa i tesori della rivelazione divina e li accogliamo nel nostro cuore inquieto e resistente.
    In particolare, l’unità del Mistero proclamato, celebrato e vissuto viene sperimentata attraverso la preghiera della liturgia delle ore, “diurna laus” ricevuta dalla ininterrotta testimonianza della fede dei nostri Padri, in cui tutta la vita del cristiano è custodita con Cristo in Dio e il tempo santificato in ogni sua espressione. Questa preghiera liturgica della Chiesa è nutrimento prezioso del cammino della santità, da raccomandare ad ogni battezzato.

    25. La Parola accolta nella “Lectio divina”

    Aiuto indispensabile per vivere nella concretezza del nostro tempo la vocazione cristiana è l’ascolto perseverante della Parola di Dio, che apre il cuore a ringraziare Dio dei Suoi doni nel dialogo della fede, fa riconoscere e discernere nel pentimento i peccati che appesantiscono la vita quotidiana e consente di riconoscere le vie di Dio per noi e di rinnovare il nostro sì alla Sua chiamata. Nasce così la Lectio divina che riceve con attenzione e riverenza le parole e i gesti del Figlio (lectio: lettura), in essi ricerca il messaggio perenne che viene dal silenzio del Padre (meditatio: meditazione) e si offre all’azione dello Spirito per entrare nel cuore della Trinità (contemplatio: contemplazione) e imparare a vivere e a scegliere secondo Gesù Cristo, Parola del Padre, Unto dallo Spirito (actio: azione). Sarai felice se ti impegnerai a fare la Lectio possibilmente ogni giorno.

    26. La Scuola della Parola

    La Scuola della Parola è stata voluta per aiutare in particolare i giovani a fare la Lectio divina e così ad accogliere il grande dono che il Signore ci ha fatto comunicandosi a noi nella rivelazione e a discernere la Sua volontà sulla nostra vita.

    27. La vita sacramentale

    «Tu ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti» (Sant’Ambrogio, Apologia del profeta Davide, 12, 58): nei Sacramenti è Cristo che si fa presente e viene ad incontrare la vita dei cristiani e la storia in cui essi sono posti. Nella parte precedente (Traditio) abbiamo già ricordato il posto fondante del battesimo e la posizione centrale dell’Eucaristia. Qui richiamerò brevemente qualche altro aspetto della vita sacramentale.

    28. Il sacramento della penitenza

    Decisiva per il discernimento della volontà di Dio su ciascuno è la purezza di cuore: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). Chiedo perciò a te che leggi questa Regola di vita di celebrare con fiducia il sacramento della riconciliazione o penitenza, nel quale riconoscere gli innumerevoli doni del Padre nel cammino della tua esistenza (confessio laudis), confessare umilmente ciò che non va nella tua vita, ciò che tu vorresti che non ci fosse stato e che non ci fosse oggi (confessio vitae) e professare la tua fede nella infinita e sempre presente misericordia del Padre che ti perdona per la parola della Chiesa (confessio fìdei). Ti consiglio di rinnovare frequentemente questo incontro con il Padre della misericordia attraverso il ministero di riconciliazione nella Chiesa.

    29. L’accompagnamento spirituale

    L’incontro costante con una guida spirituale, saggia ed esperta nelle cose di Dio, anche al di là del sacramento della penitenza, è sostegno prezioso nel cammino di santità vissuto nel quotidiano. La vita di tanti nostri santi ambrosiani lo dimostra.

    30. La confermazione

    Se la regola di vita del cristiano è anzitutto il dono dello Spirito, si comprende quanto sia importante il sacramento della confermazione, in cui il sigillo del Consolatore rende il credente capace di testimoniare in pienezza il dono di Dio nelle diverse situazioni della vita: “Hai ricevuto il sigillo spirituale, lo spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di virtù, spirito di conoscenza e di pietà, spirito del santo timore: conserva quanto hai ricevuto. Ti ha segnato Dio Padre, ti ha confermato Cristo Signore e lo Spirito come pegno si è dato al cuore del tuo cuore.- (Sant’Ambrogio, Sui misteri, 7, 42).

    31. Vita secondo lo Spirito

    Chiedo perciò a tutti i figli della Chiesa ambrosiana di valorizzare al massimo nella loro vita questo sacramento dello Spirito, sia che lo abbiano già ricevuto, sia che si stiano preparando ad esso. Vivere secondo lo Spirito significa lasciarsi guidare dal dono di Dio, confortati e sostenuti in ogni situazione dalla cel1ezza della presenza fedele di Gesù, che non viene mai meno alle Sue promesse. Lo Spirito Santo attualizza nel tempo la vicinanza del Signore Gesù e lo fa vivere per la fede nei nostri cuori, aiutandoci ad esprimere la conformità a Cristo ricevuta in dono nel battesimo.

    32. La Messa domenicale

    Chi ascolta fedelmente la Parola e si lascia condurre dallo Spirito si dispone a celebrare con frutto nel giorno del Signore l’Eucaristia, che ci fa Chiesa, perché riattualizza nella nostra vita e nella storia il dono della nuova alleanza. Questo incontro domenicale è stato vissuto come fondante, e perciò come indispensabile, fin dalla Chiesa degli Apostoli: oggi, in un contesto di secolarizzazione, è più che mai necessario.
    E una più frequente partecipazione, anche durante la settimana, alla mensa della Parola e del Pane di vita aiuterà straordinariamente la crescita della fede, della speranza e della carità e ci farà passare attraverso il deserto dell’incredulità contemporanea con animo sereno e volto gioioso.

    33. I sacramenti della comunione ecclesiale

    All’esigenza di porre la propria vita al servizio della comunità risponde in modo particolare il dono che il Signore ci ha fatto nei sacramenti del servizio della comunione, che sono l’ordine e il matrimonio. Attraverso di essi la grazia divina soccorre e consacra i vincoli che si stabiliscono nell’ambito della comunità. Perciò questi due sacramenti conferiscono una missione specifica al servizio dell’edificazione del popolo di Dio.

    34. Il discernimento vocazionale

    Al discernimento della vocazione di ogni battezzato in rapporto sia a queste due forme sacramentali sia a ogni scelta significativa e seria della vita la Chiesa ambrosiana dedica particolari energie. Ogni persona infatti si realizza se riesce a capire e a vivere il disegno unico che Dio ha su di lei. È necessario perciò che tutti i fedeli riconoscano l’importanza decisiva del discernimento vocazionale e si adoperino perché ciascun battezzato possa crescere nella comprensione della chiamata di Dio e nella realizzazione fedele del progetto del Signore, nella scelta della vocazione alla famiglia o della vita consacrata o della missione presbiterale.

    35. Scambio tra le diverse vocazioni

    Ritengo una vera grazia, da coltivare e promuovere, lo scambio di doni e di ricchezze spirituali che si può realizzare tra diverse vocazioni nella Chiesa, in particolare tra le varie forme di vita consacrata mediante la professione dei consigli evangelici e gli altri ministeri presbiterali, diaconali e laicali. Questo scambio si attua nel dialogo, nella collaborazione e nella preghiera comune.

    36. Il sacramento dei malati

    Alla debolezza e fragilità della creatura umana nel tempo della malattia grave e dell’infermità prolungata viene incontro ancora una volta il Signore nel sacramento dell’unzione degli infermi. Esso manifesta la vittoria del Signore sul peccato e sulle sue conseguenze. Gesù infatti «andava attorno per le città e i villaggi… curando ogni malattia e infermità” (Mt 9, 35). Anche agli Apostoli è dato il potere di «scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10, 1).

    37. Il valore salvifico del dolore

    Riscoprire nella nostra vita ecclesiale il significato di questo sacramento porta anche a riflettere più in generale sul valore salvifico del dolore, vissuto in Cristo e con Lui per la salvezza del mondo. La compassione fattiva e discreta verso i sofferenti, la solidarietà per aiutarli a vivere essi stessi con fede il loro dolore sono aspetti decisivi di questa riscoperta della nostra crescita nella sequela di Gesù umile, povero e crocifisso.

    38. Dalla “Receptio” un modo di essere Chiesa oggi

    Così la nostra Chiesa di Milano si sforza di recepire i doni del Signore per mostrare che anche in una società tecnicizzata e urbanizzata è possibile promuovere comunità che vivano il Vangelo nella semplicità e nella gioia. Questi doni sono per tutti i nostri battezzati, ai quali dobbiamo offrire cammini semplici di vita secondo lo Spirito perché continui a fiorire quella “santità popolare” che tanti frutti ha dato e continua a dare fino ai nostri giorni. Ti invito perciò a pregare così con me:

    Signore Gesù,
    Tu sai come io avverto
    la fatica della condizione umana,
    il peso dell’ingiustizia e della fragilità,
    dell’inadeguatezza e della paura di amare:
    grazie per essermi venuto incontro
    nella Tua Parola e nei Sacramenti;
    grazie per avermi accolto con Te
    nel cuore del Padre,
    attirandomi nello Spirito
    a vivere il deserto fecondo della preghiera,
    dove parli al cuore del mio cuore.
    Fa’ che io sappia ricevere sempre
    con attenzione e riverenza le Tue parole,
    per entrare attraverso di esse
    nel mistero santo di Dio,
    e camminare nei sentieri del silenzio,
    sotto la guida e nel conforto dello Spirito.
    Aiutami ad attingere continuamente
    l’acqua viva della Tua grazia
    alle sorgenti sacramentali della Chiesa,
    e donami l’umiltà e la docilità di cuore
    perché accetti di lasciarmi guidare
    con fiducia e con amore
    da chi mi offri come maestro e pastore
    nelle vie della fede.
    Rendimi vigile e attento
    nel discernimento della volontà del Padre,
    perché io possa in tutto
    portare a compimento
    la vocazione con cui da sempre Lui
    mi ha voluto
    e mi ha amato.
    Nell’ora del dolore e della prova
    donami la certezza di non essere solo,
    ma di saperTi e volerTi vicino,
    per vivere con Te la mia offerta
    nella sequela umile e fiduciosa di Te.
    E fa’ che da questa accoglienza
    perseverante e fedele dei Tuoi doni
    io sia generato sempre di nuovo
    come figlio della luce,
    e sappia percorrere
    con i miei compagni di fede e di vita
    cammini di santità,
    che facciano di noi il Tuo popolo
    risplendente di luce e di speranza.

    Capitolo quarto

    REDDITIO:
    LA RESTITUZIONE DEI BENI ACCOLTI

    39. Comunicare quanto ci è stato dato

    Quanto abbiamo gratuitamente ricevuto da Dio attraverso la tradizione vivente dei nostri Padri e abbiamo assimilato mediante l’ascolto della Parola e la celebrazione dei Sacramenti, dobbiamo a nostra volta offrirlo gratuitamente a coloro a cui il Signore ci manda, e attraverso di essi restituirlo a Lui, il Padre da cui viene ogni dono, meta vera del nostro cammino. Siamo tutti chiamati a “comunicare”, mossi dall’amore comunicativo della Trinità. La gioia che il Risorto ci fa provare spiegandoci le Scritture e rompendo il pane ci spinge a “partire da Emmaus” per ridare a molti altri quel senso pieno della vita che ci è stato donato.

    40. Accoglienza e dialogo

    Potremo vivere questa Redditio cominciando dalla accoglienza fraterna, anzitutto fra i credenti. Ci accogliamo gli uni gli altri come figli di questa Chiesa ambrosiana, nella sua realtà di Diocesi e nelle sue diverse articolazioni, che raggiungono ciascuno nell’ambito della propria parrocchia. Questa appartenenza ci allarga il cuore e ci apre anche a molti altri. Il cristiano radicato nella propria Chiesa locale non fa preferenza di persone, ma a tutti mostra l’accoglienza che mostrerebbe al Signore Gesù, se questi in persona si presentasse a lui. Per questo ama e coltiva il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso, a partire da una coscienza della propria identità che è così certa e serena da lasciarsi volentieri arricchire dai tesori degli altri.

    41. Farsi prossimo

    La tradizione della Chiesa ambrosiana è ricchissima di testimonianze di accoglienza, specialmente nei confronti dello straniero, del più povero e del più debole. Anche per la sua posizione geografica, il nostro territorio ha accolto e ospitato nei secoli genti delle più diverse provenienze. Pertanto, dare il giusto posto nel cuore e nei propri doveri a chi ci è affidato anzitutto dal Signore non potrà mai significare chiudersi agli altri, dovrà anzi coniugarsi allo sforzo di farsi prossimo a ogni uomo o donna, facendo spazio nella casa, nella comunità ecclesiale e nel cuore a chi ha più bisogno di accoglienza, a cominciare dalla vita nascente. Forme come l’affido familiare o l’adozione, scelte di solidarietà e di condivisione con lo straniero, l’emarginato, il malato, l’indifeso, il debole, l’anziano, il bambino solo, esperienze di volontariato vissute con piena gratuità e dedizione, sono urgenze di una vita cristiana che tenda alla santità nel quotidiano.

    42. Coscienza vigile della società

    Nella varietà delle situazioni della vita il cristiano è chiamato a scegliere sempre ciò che più piace a Dio. Nell’ascolto perseverante della Parola, aiutato dal dialogo della fede nella comunione della Chiesa, il credente impara ad essere coscienza vigile della società, critico della miopia di tutto ciò che è meno di Dio, pronto alla denuncia di quanto offenda o manipoli la dignità dell’essere umano, sciolto e deciso nell’annuncio della fede, pagato anche a caro prezzo, perché si promuova tutto l’uomo in ogni persona umana. In una società segnata dalla comunicazione di massa il discernimento di queste scelte non è sempre facile: richiede che si tenga davanti agli occhi il modo di fare di Gesù, che è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita per noi.

    43. Nel campo sociale e politico

    In modo particolare questa coscienza critica, nutrita dalla contemplazione della croce e ispirata alla speranza che non delude, dovrà guidare i cristiani ambrosiani che si impegneranno nel servizio della cosa pubblica, in campo sociale e politico. Ad essi è specialmente domandato di imitare Gesù nella propria vita, non solo nel rispetto della legalità e nella disponibilità a spendere la propria esistenza secondo la volontà del Signore e il bene più grande del prossimo, ma anche fino al punto di seguire Gesù nella via della solitudine e dell’abbandono, se egli lo chiedesse. Non sarà possibile realizzare queste forme di carità politica e sociale se non ci si eserciterà nella quotidiana rinuncia a se stessi, nell’accoglienza e nel servizio generoso e fedele degli altri.

    44. Spiritualità del lavoro

    Nell’esercizio della propria attività lavorativa il cristiano si sforzerà di avere sempre l’intenzione di fare tutto per la gloria di Dio e il maggior bene del prossimo: perciò si verificherà spesso con chi nella comunità o nell’ambiente di lavoro possa aiutarlo, e soprattutto con il Signore nell’ascolto della Parola e nella preghiera, perché il lavoro sia luogo di grazia e di santificazione per sé e per coloro che incontra e siano superate le contraddizioni, le sofferenze e le povertà che pesano sull’esperienza del lavoro umano. Questa spiritualità del lavoro diventa un modo concreto per rendere grazie a Dio dei Suoi doni e vivere il ritorno a Lui di tutto quanto gratuitamente Egli ci ha dato, chiamandoci alla vita e alla fede.

    45. Restituire i beni educando

    Anche educare significa dare gratuitamente ad altri ciò che gratuitamente ci è stato donato: l’educazione è una forma alta della restituzione dei beni ricevuti, e perciò la Chiesa si riconosce chiamata ad essere comunità educante nella gratitudine a Dio, datore dei doni, e nell’impegno prioritario del servizio alle nuove generazioni. Agli stessi ragazzi e ai giovani è giusto chiedere di essere protagonisti attivi del processo educativo mediante un’accoglienza e una risposta libera, creativa e generosa di fronte a quanto viene loro offerto. Il significato e il valore educativo degli strumenti della comunicazione sociale dovrà essere sostenuto e promosso.

    46. La famiglia

    La famiglia è un luogo altissimo della realizzazione del progetto di Dio su ciascuno. Nei rapporti quotidiani non ci sono maschere che tengano: ciascuno è chiamato ad essere vero davanti alla propria coscienza e davanti al Signore. Sforzarsi di andare incontro agli altri senza aspettare che siano essi a fare il primo passo, rispettare la dignità di coloro che vivono con noi, privilegiare il dialogo, anche nei momenti di stanchezza e di delusione, vincere la tentazione del mutismo e dell’isolamento, sono modi concreti, possibili, anche se a volte difficili, di seguire Gesù nella propria vita quotidiana. La fedeltà coniugale e il mutuo sostegno diventeranno un riflesso della fedeltà e amorevolezza di Dio. Tanto più forte sarà l’unione di ciascuno con Dio, tanto più facile sarà il vivere la carità e l’umiltà necessaria a fare della famiglia una Chiesa domestica, dove regni l’amore. La preghiera in famiglia, anche nella forma semplice e breve che precede i pasti, è un aiuto grande per vivere tutti insieme alla presenza di Dio.

    47. Lo stile della sobrietà

    La sobrietà come stile di vita personale e familiare, oltre che come caratteristica dell’agire ecclesiale, è non solo una forma di imitazione di Gesù povero e crocifisso, ma anche la contestazione più credibile dei falsi modelli della società consumistica e dell’edonismo diffuso. Essa si coniuga ad una precisa gerarchia di valori, in base alla quale la vera felicità e il vero bene non consistono nel possedere di più, ma nell’essere di più nella verità e nell’amore, cioè nel dono di sé, davanti a Dio. L’uso maturo e responsabile del proprio tempo, la vigilanza nei confronti dei “media”, tesa a non farsi dominare dai persuasori occulti della propaganda per mantenere vigile e libero il cuore, specialmente nella sfera dei sènsi, sono aspetti importanti di questa sobrietà di vita, di cui altissimi esempi ci hanno dato i santi della Chiesa ambrosiana.

    48. La comunione ecclesiale

    «Il sacrificio più grande da offrire a Dio è la nostra pace e la fraterna concordia, è il popolo radunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (San Cipriano, Sul Padre nostro, 24). L’accoglienza e il dono di sé al prossimo non possono essere vissuti pienamente se non si è in piena comunione con i propri fratelli e le proprie sorelle nella fede: la comunione ecclesiale (specialmente tra gli operatori pastorali) è richiesta da Gesù come condizione della credibilità del nostro annuncio: “Da questo sapranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Non fare mai della propria esperienza spirituale o di gruppo un assoluto è condizione per vivere in comunione con tutti: in particolare a ogni battezzato è richiesta una docile obbedienza di fede al Vescovo e a colui che lo rappresenta nella comunità territoriale, a partire dalla parrocchia. Vivere il senso della Chiesa nel dialogo, nella pace, nell’accoglienza reciproca, nell’umile disponibilità ai diversi ministeri e servizi, dà forza alla testimonianza e allontana le insidie dello spirito di divisione e di sopraffazione degli altri.

    49. La missione

    Chi ha incontrato il Signore nella comunione della Chiesa non può non sentire il bisogno di annunciare ad altri la buona novella dell’amore di Dio di cui ha fatto esperienza. La Chiesa ambrosiana ha dato nel tempo straordinarie testimonianze di generosità missionaria, non solo all’interno del suo territorio, ma anche inviando numerosi suoi figli quali missionari del Vangelo alle genti. Nutrire lo spirito missionario, favorire le vocazioni per la missione, accompagnare con la preghiera e la vicinanza attiva e solidale chi parte e lavora lontano per la causa del Regno, è segno di maturità nella fede e di crescita nella qualità della vita ecclesiale. Ad ogni cristiano ambrosiano domando di verificarsi nella sua partecipazione all’azione missionaria della Chiesa e di investire tempo ed energia perché la Parola del Dio vivo sia annunciata a tutti e raggiunga tutto l’uomo in ogni uomo, come offerta di senso e di vita piena e vera.

    50. Preghiera della Redditio

    Signore Gesù, mia vita, mio tutto,
    Tu mi chiedi di dare gratuitamente
    quanto gratuitamente mi hai donato
    in questa Chiesa ambrosiana
    dove mi hai chiamato a seguirTi.
    Aiutami a condividere con gli altri i doni ricevuti
    nello spirito del dialogo
    e dell’accoglienza reciproca.
    Fa’ che io riesca a farmi prossimo
    per tutti coloro cui Tu mi invii,
    specialmente i più deboli e bisognosi
    e quelli che sono più difficili da amare.
    Mi stimola in questo l’esempio di tanti santi
    che nella storia hai dato
    a questa nostra Chiesa:
    anche alla loro intercessione mi affido
    perché sia vigile e responsabile
    nella lettura dei segni del tempo
    e testimoni il primato del Padre
    nel mio lavoro quotidiano
    e nei rapporti familiari e sociali.
    Aiutami ad essere sobrio
    cercando in tutto l’essenziale,
    che piace a Te e mi fa vicino ai Tuoi poveri,
    liberandomi da maschere e difese tranquillizzanti.
    Dammi amore vero alla Tua Chiesa,
    che riconosco mia Madre nella grazia,
    perché mi ha generato alla fede in Te
    e nel Padre Tuo
    mediante il dono del Consolatore.
    E fa’ che da una viva e forte esperienza
    di comunione ecclesiale
    scaturisca nel mio cuore il bisogno
    di testimoniare ad altri
    con generosità e passione
    la bellezza del dono che Tu hai fatto a me,
    insieme a tutti coloro che vivono l’ansia missionaria
    per il Tuo Regno.
    E Tu, Vergine Madre Maria,
    che ti sei fatta terreno dell’avvento di Gesù
    nell’ascolto umile ed accogliente dell’Angelo
    e sei stata attenta, tenera e concreta
    nel comunicare ad Elisabetta la gioia
    di quanto avevi ricevuto,
    aiutami ad essere come Te
    vigile ed impegnato nell’accoglienza
    e nella trasmissione del dono
    che viene da Dio.
    Amen. Alleluia!

    CONCLUSIONE

    Nel consegnarTi questa regola di vita, perché possa accompagnarTi nel cammino dei giorni come costante richiamo al dono di Dio e alla risposta che Lui Ti chiede, vorrei ripetere con Te le parole di gioia, di lode e di speranza con cui la Vergine Maria cantò le meraviglie del Signore in Lei. Maria fa parte dei doni più preziosi che Gesù ha lasciato al “discepolo dell’amore” (cf. Gv 19,25-27), e la familiarità con Lei, nella meditazione dei suoi misteri e nella preghiera perseverante con cui ci affidiamo alla Sua intercessione materna, aiuta ognuno di noi a vivere la “traditio”, la “receptio” e la “redditio” dei beni divini a noi confidati nella Chiesa, come Lei, Vergine e Madre, accolse gratuitamente e gratuitamente trasmise il dono divino. Già Sant’Ambrogio invitava a far esperienza di questa intimità con Maria, che riempie di esultanza e di pace: «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio» (Expositio evangelii secundum Lucam, 2,26).
    Certo, come insegna Ambrogio, «Maria era tempio di Dio, non il Dio del tempio», ma è proprio così che ella rinvia all’Unico da adorare, il Signore che ha operato in Lei («Maria erat templum Dei, non Deus templi. Et ideo ille solus adorandus qui operabatur in templo»: De Spiritu Sancto 3, 11,80: PL 16,829). Con Maria, allora, sul Suo esempio e con il Suo aiuto, rendiamo grazie all’Eterno che ci ha chiamati alla fede nella sua Chiesa ed ha operato in noi con la grazia del battesimo e dei sacramenti, e con Lei, che ci ha preceduto e ci accompagna, apriamoci a cantare nella vita, con le parole e con l’eloquenza dei gesti, il “Magnificat” della speranza e dell’amore operoso, sforzandoci di vivere con umiltà e fiducia questa regola di vita, che nella fede abbiamo ricevuto:

    “L’anima mia magnifica il Signore
    e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
    perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
    D’ora in poi tutte le generazioni
    mi chiameranno beata.
    Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
    e Santo è il suo nome:
    di generazione in generazione
    la sua misericordia
    si stende su quelli che lo temono.
    Ha spiegato la potenza del suo braccio,
    ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
    ha rovesciato i potenti dai troni,
    ha innalzato gli umili;
    ha ricolmato di beni gli affamati,
    ha rimandato a mani vuote i ricchi.
    Ha soccorso Israele, suo servo,
    ricordandosi della sua misericordia,
    come aveva promesso ai nostri padri,
    ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre».

  • 23 Ott

    DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

    Parigi, venerdì 12 settembre 2008

    Signor Cardinale,
    Signora Ministro della Cultura,
    Signor Sindaco,
    Signor Cancelliere dell’Institut de France,
    cari amici
    !

    Grazie, Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo  grande predecessore, il compianto Cardinale Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come il Signor Giscard d’Estaing e il Signor Chirac. Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro: rivolgo loro i miei migliori auguri  per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari invitati, rappresentate così degnamente.

    Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?

    Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq : nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio di Dio, le désir de Dieu,  include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.

    Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2, 37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35). Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”, dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).

    E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).

    In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis. Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.

    Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…” (cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.

    Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia. Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.

    Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6). E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra. Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.

    Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua Regola, del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.

    Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Il Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.

    Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio.

    La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.

  • 24 Set

    La nostra è la cena del Signore?

    Lectio di 1 Cor 11,17-34


    Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1396 recita: “Coloro che ricevono l’eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa”.

    Quindi l’Eucarestia come frutto produce non solo una comunione intima con il Signore ma suppone e fortifica la comunione on i fratelli. Disgiungere i due elementi significa stravolgere il significato dell’Eucarestia.  Eppure, dobbiamo riconoscerlo, torna troppe volte comodo ridurre l’eucarestia a rito sganciato dall’impegno che viene a determinare nei confronti della comunità. Il nostro “esaminare noi stessi” se siamo nella condizione per prendere parte al banchetto eucaristico si riduce ad un esame superficiale che trascura la condizione che deve stare al fondo: come vivo il rapporto con i fratelli e sorelle di fede? In quale misura mi sono impegnato nell’accoglienza, nel perdono, nello stendere concretamente la mano a chi è nel bisogno?

    Ascoltiamo la Parola che ci richiamerà a ciò che è fondamentale perché una celebrazione non si traduca in un rito staccato dalla vita, e ad un gesto sacrilego che ritorna a condanna per chi lo compie.

    “Fa’ o Gesù, che ti riconosciamo sempre nell’Eucaristia, che ti riconosciamo diventando noi stessi pane spezzato, pane acceso nella notte di questo mondo.Donaci quel fuoco, quella passioni d’amore per il Padre che ti ha portato a consegnare la vita, a spogliarti di te stesso per la salvezza di tutta l’umanità” (Card. Carlo M. Martini).

    Lectio

    Se nei primi capitoli Paolo loda la comunità di Corinto per la fedeltà ai suoi insegnamenti e per la vivacità di questa nuova comunità, ciò non toglie che in essa purtroppo si verifichino situazioni che la pongono in contraddizione con la fede professata.

    I cristiani di Corinto, sulla linea delle comunità palestinesi, celebravano l’Eucaristia nelle loro case nel contesto di un pasto fraterno che Paolo chiama “Cena del Signore”: l’ “agape”. L’intenzione era ottima: l’uso del banchetto fraterno che precedeva la celebrazione aveva lo scopo di ricordare il contesto in cui Gesù istituì l’Eucaristia, inoltre esso aveva come scopo l’andare incontro alle necessità dei poveri della comunità con i quali si condividevano i propri averi (cfr At 6,1).

    Ma cosa capita a Corinto? Il problema è riferito dalla “gente di Cloe” (cfr 1,11) che si è recata da Paolo a Efeso per informarlo sull’andamento della comunità e dei suoi problemi. Le riunioni si “svolgono al peggio” (v 18). È un giudizio pesante dettato dal fatto che le celebrazioni eucaristiche sacramento di comunione con Cristo e i fratelli sono vissute tra eclatanti divisioni: “sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni (skismata) tra voi” (v.18). Una eucaristia vissuta nella divisione è una eclatante contraddizione per cui non può essere definita vera eucaristia:“il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (v. 20).

    Ma cosa avveniva concretamente? Sappiamo che uno dei punti deboli della comunità di Corinto era la presenza di alcune fazioni al suo interno: “Io sono di Paolo… io di Apollo… io di Cefa…” (cfr 1,12ss). Questi gruppuscoli si ripresentavano anche nelle sinassi cosicché nello stesso locale i ricchi facenti parte probabilmente del partito di Apollo facevano crocchio a se stante, e così anche gli altri. Tutti portavano da mangiare e bere ma si rifiutavano di condividere il pasto. Alla fine ci si ritrovava con chi era ubriaco con chi, povero, non aveva mangiato e bevuto pressoché nulla: “uno ha fame, l’altro è ubriaco” (v. 21). L’agape si trasforma in baccanale per gli abbienti e a un umiliante digiuno per i poveri.

    Paolo di fronte a questo scandalo denuncia che questa “cena” non è la “cena (deipnon) del Signore” ma un “proprio pasto (deiponon)” che non ha nulla a che fare col primo. La loro celebrazione si trasforma in una vera e propria profanazione. Come è possibile con questo atteggiamento condividere lo stesso pane eucaristico?

    A questo punto è meglio che ciascuno mangi a casa sua per non offendere i fratelli: “Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (v. 22).

    Si tratta di una grave contraddizione che getta il “disprezzo” sulla Chiesa, e che dovrebbe “far vergognare” chi la compie. L’Eucaristia è vera “Cena del Signore” (v. 20) realtà troppo sacra e centrale per la vita della comunità perché possa essere esposta al rischio della profanazione come avviene con l’agape di Corinto.

    Per richiamare su questo importante punto la comunità a Paolo non resta che riannunciarne il mistero. Nei vv. 23-26 egli riporta il racconto dell’istituzione eucaristica da parte di Gesù alla vigilia della sua passione. Si tratta di un testo di fondamentale importanza in quanto è la più antica testimonianza del gesto compiuto da Cristo. Paolo fa risalire quanto annuncia al Signore stesso, ovvero risale direttamente a lui tramite la “traditio apostolica”: “ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Parafrasando: “Ho ricevuto da una tradizione che risale al Signore ciò che vi ho trasmesso nei termini in cui l’ho ricevuto io stesso”. Si tratta di un annuncio fatto con una straordinaria autorevolezza! Nel testo viene sottolineata soprattutto la dimensione sacrificale dell’eucaristia attraverso le parole pronunciate sul pane “che è per voi” e sul “calice della nuova alleanza”. Il “fate questo in memoria di me” deve significare nuovamente per i cristiani di Corinto accogliere l’Eucaristia come sacramento del dono totale della vita di Cristo a noi e di noi ai fratelli. Il che ovviamente deve portare al superamento di ogni divisione e rifiuto. Non “riconosce” (v. 29) il Corpo del Signore colui che non ne riconosce lo spessore di dono da comunicare anche agli altri.

    È  un incontro comunitario e personale con il Signore nel segno del comunicare insieme all’unico corpo e all’unico calice cosa che esige per tutti un giusto discernimento, il soppesare seriamente le sussistono le condizioni perché si possa partecipare in verità alla comunione col Signore. Se questo non fosse allora “chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore” (v 27). A questo punto l’apostolo fornisce una prima formulazione normativa circa i requisiti necessari per ricevere degnamente e con frutto il “corpo del Signore”: “Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice” (v. 28). Qui l’esaminare se stessi equivale a saper giudicare la propria vita alla luce del comandamento del Signore circa l’amore gli uni per gli altri (cfr Gv 13,34).

    Il ricevere indegnamente il Corpo di Cristo fa sì che si vada incontro a “malattie” e “morti” (v. 30). Questi castighi sono lezioni pedagogiche che il Signore infligge perché la comunità non venga poi “condannata” definitivamente insieme col “mondo” per non aver “riconosciuto il Cristo”.

    Paolo conclude questa ammonizione con una norma disciplinare che consiste prima di celebrare l’agape nell’“aspettarsi gli uni gli altri” (v. 33) probabilmente lo scopo è quello di evitare che previamente si formino gruppuscoli a se stanti. Il fatto che l’apostolo richiami alla convenienza di mangiare prima a casa propria non si comprende bene se è abolizione definitiva del banchetto conviviale o una semplice condanna del suo abuso. In ogni caso già all’inizio del terzo secolo (Didaché, Giustino…) non troviamo più traccia del banchetto conviviale il che significa che la Chiesa prudentemente optò per la netta separazione tra la celebrazione eucaristico e l’agape fraterna al fine di salvaguardare la sacralità del rito perdendo però forse di vista la dimensione della condivisione fraterna.

    Paolo aveva preso nota che dentro la triste condizione della chiesa di Corinto vi è tuttavia una nota consolante: in mezzo a queste contraddizioni si evidenziano coloro che si sforzano di vivere autenticamente la loro fede: “È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi” (v. 19)

    Collatio

    Paolo non riporta nella sua lettera ai corinti il racconto dell’istituzione per descrivere semplicemente un rito o darne più precise istruzioni rubricali, lo fa per un motivo ben più grave: la comunità sta rischiando di stravolgere il significato autentico dell’eucaristia.

    Questa profanazione eucaristica è l’unica che esplicitamente viene condannata dalla sacra Scrittura e non consiste nell’aver rotto il digiuno o nell’aver divagato in “pensieri cattivi” non stando attenti al rito. Si tratta invece di un sacrilegio provocato da una celebrazione fatta in un contesto di divisioni e ingiustizie.

    Gli Atti degli Apostoli nei loro “sommari” ci presentano una comunità fervente che celebra l’eucaristia in una grande unità e concordia. Non ci sono solo pii sentimenti e propositi ma lì si tocca con mano una concreta condivisione che fa sì che l’eucaristia non sia una celebrazione di facciata: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere…Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,42-45; 4,32). In questa comunità l’eucaristia non si riduce ad un rito, ad una bella cerimonia staccata però dalla vita. Radunata  attorno alla mensa celebra nell’eucaristia una comunione che nata dall’ascolto della Parola si traduce in scelte concrete di vita. Infatti la “frazione del pane” (una dei nomi dati alla messa) che è il corpo di Cristo deve celebrare per essere autentico “rendimento di grazie a Dio” la disponibilità a spezzare a nostra volta insieme ai fratelli ciò che siamo e ciò che abbiamo.

    Il rischio che correva la comunità di Corinto può essere benissimo anche il nostro nell’anno di grazia 2010. Il pericolo loro e nostro è che l’eucaristia si risolva in rito sacro fine a se stesso, nel quale mettiamo a posto la coscienza perché si è “andati a messa”, mentre ci dimentichiamo (comodamente e forse non del tutto inconsciamente!) delle esigenze di comunione, di reciproca accoglienza e perdono che esso richiede perché non sia profanato alla radice.

    Già nella tradizione profetica troviamo invettive contro una falsa religiosità solo esteriore ma che trova risvolti di conversione nella vita: “Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso” (Is 58,4). E anche Gesù ribadirà fortemente le esigenze di una verità del culto che tenga presente il diritto di Dio ma nello stesso tempo quello del fratello che mi sta accanto: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) .

    Nella notte del suo tradimento Gesù consegna nel pane spezzato e nel calice versato tutto se stesso, in un atto di amore “fino alla fine” (cfr Gv 13,1). Entrare nel mistero eucaristico, fare comunione con Cristo, significa far nostro il suo dono affinché sia lui a renderci capaci, a nostra volta, di spezzare noi stessi per i fratelli perché tutti diveniamo in Cristo un solo corpo: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Pregh Euc. III).

    I corinti tutto questo lo sapevano? Certamente sì! Eppure trovavano difficile attuare concretamente le esigenze che l’eucaristia comporta. Difficile per loro, difficile per noi, che ci illudiamo di vivere l’eucaristia solo perché avvolti in sentimentali atmosfere di incensi, luci e canti ed esatte rubriche senza però “esaminare noi stessi” al fine di eliminare le contraddizioni che partendo da una vita lontana dal vangelo profanano il rito. Quante eucaristia celebriamo in modo disinvolto tra divisioni e contrasti? Paolo esplode con violenza al fine di evidenziare la verità del mistero: celebrare l’eucaristia tra le divisioni e le ingiustizie non si può chiamare eucaristia! Diviene motivo di condanna! Poca attenzione poniamo al fatto che il nostro essere tenacemente attaccati a rancori, al rifiuto della condivisione, all’esclusione di uno o l’altro dei fratelli comporta immediatamente una nostra “scomunica” ovvero al nostro essere fuori dalla comunione con Cristo che deve impedirci di accostarci all’eucaristia se non vogliamo incorrere nella condanna. Non assistiamo forse ancora a divisioni quando il tal movimento, la tal associazione o gruppo rivendicano la “loro messa” apportando “giuste” motivazioni ma che alla luce del vangelo non reggono? Si pensa di poter far comunione con Cristo lasciando fuori dalla porta il fratello che non è dei “nostri”. Ricordiamo le parole forti con cui il vescovo Giovanni Crisostomo condannava a sua volta un’Eucaristia staccata dalla carità: “Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci il tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, se divenuto più misericordioso” (Omelia sulla Prima Lettera ai Corinti, 27,4)

    Si pretende un Cristo “tutto per noi e da celebrare tra noi”: questo è impossibile: non è questo un mangiare “la cena del Signore” ma solo la “nostra cena”. Non si può mangiare lo stesso corpo di Cristo senza desiderare ardentemente di divenire tutti “un solo corpo”. Sogno troppo augurandomi che in ogni comunità parrocchiale ci sia una sola eucaristia nella quale convergano tutti i movimenti, associazioni, gruppi e tutti gli altri cristiani in una testimonianza grande di unità e di fede nell’unico Signore e di accoglienza e riconoscimento gli uni degli altri? “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane “ (1Cor 10,16-17).  Sant’Agostino in una sua omelia ammonirà i suoi cristiani dicendo: “Vi si dice: “Il Corpo di Cristo”. E voi rispondete: “Amen”. Ricevete il vostro stesso sacramento. Siate dunque membra del Corpo di Cristo, perché sia vero il vostro “Amen” (sant’Agostino, Sermoni CCLXXII)

    San Giovanni nel suo vangelo non riporta il racconto dell’istituzione eucaristica. Apparentemente la trascura per narrare l’enigmatico episodio della lavanda dei piedi. Il gesto di Gesù è follia che profetizza il dono totale di sé sulla croce: il supplizio del servo. In realtà Giovanni descrivendo Gesù in ginocchio mentre compie col grembiule ai fianchi e l’asciugamano il gesto dell’ultimo servo annuncia alla sua comunità il cuore che deve animare ogni eucaristia.. Gesù ci invita a fare come lui: “Voi mi chiamate maestro e signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,16). Celebrare l’eucaristia è unirci a Cristo per fare della nostra vita un sevizio di noi stessi non solo a Dio ma anche ai fratelli soprattutto più piccoli. Questo è lasciar vivere in noi il Cristo eucaristico “corpo donato e sangue versato” e non era forse questa la valenza originaria del momento offertoriale che noi abbiamo ridotto ad una raccolta di un po’ di spiccioli per il riscaldamento della chiesa ola costruzione dell’oratorio?

    Gesù ha dato alla comunità dei discepoli il compito di testimoniare la fede non anzitutto attraverso dei bei riti trasmessi in mondovisione, ma molto più terra terra attraverso una vita intessuta di amore: “Da questo conosceranno se siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Il primo paramento prezioso e l’abito bello che tutti sono mettiamo per la messa deve essere anzitutto il grembiule e l’asciugamano. Non dobbiamo preoccuparci di offrire nessun altro segno al mondo perché se questo non accade, anche se produciamo bellissime cerimonie, non facciamo altro che  gettare solo disprezzo sulla Chiesa Santa di Dio.

    Solo l’impegno della carità che scaturisce dalla fonte dell’eucarestia ci deve preoccupare. Potremo cantare con verità le antiche e stupende parole che la liturgia pone sulle labbra della chiesa il Giovedì Santo: « Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Simul ergo cum in unum congregamur: Ne nos mente dividamur, caveamus. Cessent iurgia maligna, cessent lites. Et in medio nostri sit Christus Deus”.

    Oratio

    Rit. Dov’è carità e amore, lì c’è Dio.

    Ci ha riuniti tutti insieme, Cristo amore:
    godiamo esultanti nel Signore!
    Temiamo e amiamo il Dio vivente,
    e amiamoci tra noi con cuore sincero. (Rit)

    Noi formiamo, qui riuniti, un solo corpo:
    evitiamo di dividerci tra noi:
    via le lotte maligne, via le liti,
    e regni in mezzo a noi Cristo, Dio. (Rit)

    Chi non ama resta sempre nella notte
    e dall’ombra della morte non risorge;
    ma se noi camminiamo nell’amore,
    noi saremo veri figli della luce. (Rit)

    Nell’amore di colui che ci ha salvati,
    rinnovati dallo Spirito del Padre,
    tutti uniti sentiamoci fratelli,
    e la gioia diffondiamo sulla terra. (Rit.)

  • 24 Set

    “Tutti là sono nati”

    Lectio del Salmo 86

    di padre Attilio Franco Fabris

    Si calcola che il fenomeno dell’immigrazione abbia coinvolto in tutto il mondo in questi ultimi anni circa cento milioni di persone. E’ una cifra impressionante che dice un cambiamento epocale e inarrestabile non solo del volto del nostro “bel paese” ma di ogni nazione industrializzata. È un mondo che sta cambiando volto a ritmi vertiginosi portando con sé certamente tante problematiche di inserimento e dialogo tra culture diverse, cosa certo di non di facile soluzione, ma nello stesso tempo nuovi orizzonti certo ancora sconosciuti ma colmi di speranza. Non si può perciò negare all’immigrazione così massiccia la connotazione di uno dei “segni dei tempi” che il Concilio Vaticano II invita a imparare a leggere con occhi di fede scorgendovi un disegno divino.

    Giovanni Paolo II, alla vigilia dell’anno giubilare del duemila nel suo “Messaggio per la Giornata dell’Immigrazione scriveva”: “l’umanità è contrassegnata da fenomeni di intensa mobilità, mentre negli animi si va sempre più affermando la consapevolezza di appartenere ad una sola famiglia. Le migrazioni, volontarie o forzate, moltiplicano le occasioni di scambio tra persone di culture, di religioni, di razze e di popoli diversi. I moderni mezzi di trasporto collegano sempre più rapidamente il pianeta da un punto all’altro e ogni giorno le frontiere vengono oltrepassate da migliaia di migranti, di rifugiati, di nomadi, di turisti”.

    Tutta la tradizione biblica e cristiana riconosce nello straniero, ovvero nell’immigrato da qualsiasi parte provenga, una connotazione sacra. Non è forse dinanzi ai tre sconosciuti viandanti che Abramo si prostra implorando che si fermino presso di lui? “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (Gn 18,1-2). La Lettera agli Ebrei, ricordando questo episodio, ammonirà le comunità cristiane: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebr 13,2) e questo anche alla luce anche delle parole  stesse di Cristo che dice di riconoscersi nel forestiero: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35).

    Chiediamo allo Spirito di liberarci dalle nostre grettezze e paure, egli ci insegni a spalancare le porte, ad allargare le braccia come Cristo sulla croce, pronti ad accogliere il pellegrino che bussa alla porta per essere riconosciuto prima ancora che come straniero, come uomo con la dignità di figlio di Dio: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo. (Raoul Follerau).

    Lectio

    Il testo originale del salmo 86 ci è pervenuto alquanto compromesso e quindi in parte incerto. Alcuni passaggi si presentano molto problematici nella loro ricostruzione e interpretazione. Lo stesso contesto dell’utilizzo del salmo non è sicuro, forse veniva cantato in occasione di solenni processioni verso il tempio. Come se ciò non bastasse anche l’interpretazione di fondo di tutto il salmo si presenta problematica: si tratta della proclamazione della regalità di JHWH sopra tutte le nazioni? È una proclamazione di Gerusalemme madre di tutti gli israeliti giudei e proseliti sparsi nella diaspora? Oppure è da leggere come visione profetica di una Gerusalemme città comune che diverrà, alla fine dei tempi punto di convergenza e di unità di tutti i popoli attorno all’unico Dio? Probabilmente è da preferirsi quest’ultima interpretazione in quanto il salmo 86 si colloca all’interno nella tradizione dei profeti del post esilio, in modo particolare con riferimento al secondo Isaia (cfr es 2.2ss).

    Ma cerchiamo ora di entrare nel nostro testo.

    Anzitutto il nostro salmo appartiene alla serie dei salmi che hanno per tema la lode per la città di Sion, la sposa di JHWH, posta sul “santo monte” e “scelta” da Dio “come sua dimora” (cfr Sal 46,48, 76,84).

    Sion possiede una grande solidità, è “città salda” (Sal 121,3) perché “le sue fondamenta sono sui monti santi” (1b). Affermare la santità del monte-roccia sul quale è edificata equivale ad affermare che Sion è fondata su Dio stesso. Anche nel salmo 45 viene espressa la medesima certezza: “Dio sta in essa: non potrà vacillare” (v.5;). Fondamenta incrollabili perché fondate da Dio stesso: “Il Signore ha fondato Sion” (Is 14,32; Sal 77,69). Anche Cristo quando vorrà ribadire la solidità della Chiesa fondata sulla fede userà la stessa immagine (cfr Mt 16,18; Mt 7,24).

    Il Signore “ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe” (v. 2): la scelta di Sion come dimora è data unicamente dalla gratuità dell’amore di elezione che induce JHWH a scegliere fra tutte le varie possibilità proprio la tribù di Giuda (“Ripudiò le tende di Giuseppe, non scelse la tribù di Efraim;  ma elesse la tribù di Giuda, il monte Sion che egli ama” Sal 77,67-68). Probabilmente risuona qui originariamente l’eco del campanilismo tra le tribù del nord e del sud.

    La scelta di Sion come dimora di JHWH non è fine a se stessa, ogni elezione è in vista di una missione. Sion la scoprirà cammin facendo di certo al v. 3 viene proferita nei suoi confronti una promessa che verrà successivamente definita: “di te si dicono cose stupende, città di Dio”. Quali le cose stupende che Dio opererà? Esse sono descritte nel corpo centrale del salmo.

    Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati” (v. 4). Il tempo è al futuro. È il tempo della promessa; Dio “ricorderà” (lett = “si inscriverà”). Cosa ricordare? Dio riconoscerà l’Egitto (qui eufemisticamente definito con l’appellativo di Raab, il nome di un mostro marino – cfr Sal 89,11- che passò a designare l’Egitto con la sua brama di distruggere Israele) e Babilonia (Babel che viene a rappresentare non solo l’impero babilonese ma tutti i regni dell’oriente mesopotamico) fra i popoli che lo “conosceranno”. Ora “conoscere Dio” è espressione di per sé riferita solo agli israeliti fedeli e perciò oggetto del suo amore in contrapposizione a tutti gli altri popoli che “non conoscono Dio”. A Raab e Babel vengono aggiunte altre nazioni: la Filistea (Palestina) e la città di Tiro che rappresentano i popoli pagani vicini ad Israele sul litorale, ed infine Etiopia (lett. Cus) il paese che nell’immaginario geografico del tempo rappresenta l’estremo sud.

    Tutte queste popolazioni sono sempre state viste, dal piccolo e insignificante regno di Giuda, come potenziali nemici  e in quanto nazioni pagane estromesse dall’elezione divina e perciò dal suo amore.

    Ma qui – scandalosamente – di tutte queste nazioni la profezia afferma che un giorno potranno affermare di avere tutti sorprendentemente, come Israele, la stessa madre, ovvero la stessa città di Sion in cui tutti potranno dire di essere nati:“tutti là sono nati”. Il che equivale che tutti potranno affermare di essere appartenenti al popolo di Dio.

    Si tratta di un assunto teologico ben presente nel messaggio profetico post-esilico, soprattutto nel deuteroisaia: “Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti  allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza entrerà in possesso delle nazioni, popolerà le città un tempo deserte. (54,1-3; cfr 2,2ss; 49,19.22; 66,7-11). Si tratta del compimento della promessa fatta ad Abramo: il popolo che da lui nascerà è destinato a divenire sorgente di “benedizione” ovvero di riunificazione per tutta l’umanità divisa: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3).

    Sarà una famiglia allargata che troverà la sua stabilità nel fatto che il suo punto di coesione non sono progetti o ideali umani bensì la presenza fondante di Dio: “l’Altissimo che la tiene salda” (v.5).

    Questa comune appartenenza ad una stessa “madre” è sottoscritta da Dio stesso nel “Libro dei Popoli” (v. 6).  Ora la registrazione ufficiale dei veri israeliti fu una delle grandi preoccupazioni dell’epoca del postesilio (cfr “cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora furono esclusi dal sacerdozio” Esdr 2,62; cfr Ez 13,9) al fine di recuperare una loro precisa identità e storia. Ora tale preoccupazione sul piano spirituale inaspettatamente si evolve: in questo libro non saranno inscritti solo i pii israeliti bensì tutti i popoli che aprendosi alla fede hanno ricevuto da JHWH una comune filiazione, un’ “adozione a figli” da parte della stessa madre Sion e per suo tramite dello stesso Dio. In questo libro si affermerà di ogni popolo: “Là costui è nato” (V. 6b): è l’atto di registrazione con cui un individuo o un popolo viene riconosciuto formalmente come nativo della località in questione.

    Sono queste le “cose stupende” promesse a Sion e a cui accennava il salmista all’inizio del salmo. “Cose stupende” che non possono non far sussultare di gioia di cui la danza è espressione peculiare. Al riconoscimento di questa comune affiliazione si farà festa (cfr Sal 30,12;149,3); si intavolerà una danza gioiosa che vedrà coinvolti tutti, nessuno escluso. La promessa di Dio ricostruirà l’unità della famiglia umana disgregata dal peccato facendo sì che tutti si riconoscano figli di uno stesso Padre e generati da una stessa madre. Danza accompagnata dal ritornello di un canto: “Sono in te tutte le mie sorgenti” (v.7) ovvero; “Sion è la mia origine, la mia patria”. E’ il canto che risuonerà alla fine della storia quando la profezia del salmo finalmente si sarà adempiuta: “Cantavano un canto nuovo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazioni e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra». (Ap 5,9s; cfr 7,9; 21,3)

    Meditatio

    Utopia l’unità fra tutti i popoli in un’unica famiglia, in cui tutti si riconoscono fratelli con pari dignità e diritti, profetizzata dal salmo 86? Nelle pagine di cronaca di tutti i giorni troviamo tutte le fatiche e le contraddizioni in cui le nostre società “progredite” stanno andando incontro nella relazione con gli “extra-comunitari” (già la definizione dice molto!). Tensioni che giungono a sfociare in violenze, in vere e proprie “caccia allo straniero”. Non raramente degenera in vera e propria xenofobia!I  problemi di convivenza, problemi nel mondo del lavoro e nell’ambito delle scuole sembrano non trovare sbocco al punto che le due parti spesso si irretiscono nelle loro posizioni. Sono problemi non certo di facile soluzione che covano sotto la cenere e rischiano sempre di esplodere e che la società e la sua legislazione devono ovviamente affrontare e non continuamente rimandare. Il problema è: con quali criteri?

    Eppure, su un punto  dovremmo trovare un accordo e sul quale tuttavia molti ancora non si “rassegnano”: sappiamo che l’integrazione è ormai l’unica vera strada percorribile, non si può tornare indietro, la storia va avanti comunque. Il cristiano, e ancor più la comunità religiosa, si deve allora realisticamente interrogare, alla luce della Parola di Dio, su come porsi dinanzi a questo problema, che vorrei definire nello stesso tempo come “opportunità”.

    La Parola di Dio ci indica da sempre la direzione del progetto di Dio: fare di tutti i popoli un’unica famiglia, la famiglia di Dio che dal momento di Caino e di Babele è andata disgregandosi. Questa “grande famiglia” finale è già profetizzata, nonostante tutti i suoi limiti e fatiche, dalla grande madre Chiesa, la nuova città di Sion fondata sulla roccia che è Cristo, nella quale tutti indistintamente ricevono il dono di sentirsi figli di uno stesso Padre: “Tutti là sono nati”. Come non ricordare a questo proposito la splendida affermazione della Lumen Gentium? “Il popolo messianico(la Chiesa) pur non comprendendo in atto tutti gli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (LG 9). La Chiesa madre nasce il giorno di Pentecoste proprio sul monte Sion ed è subito spinta dallo Spirito ad annunciare le “cose stupende” operate da Dio in lei per “ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2,5). “La Buona Notizia è annuncio dell’Amore infinito del Padre manifestatosi in Gesù Cristo che è venuto nel mondo “per riunire insieme i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52) e radunarli nell’unica famiglia, nella quale Dio ha posto la sua dimora fra gli uomini (Ap 21,3)” (Giovanni Paolo II, Mess. Giorn. Immigr. 1999).

    Questa la destinazione finale. Ma il cammino, iniziato con Abramo, verso questa umanità “meticciata” – mi si perdoni il termine – incontra, come dicevamo, molteplici forme di resistenza. Anche a livello legislativo-demagogico si rischia di operare solo rigide e categoriche opposizioni. Sono resistenze e opposizioni che nascono sempre e solo dalla paura. Una paura a volte indefinita nei confronti del “diverso”, a volte incentrata e motivata da “ragioni” che a rigor di logica non tengono. Paura del confronto, di perdere privilegi che si ritengono propri ed esclusivi per noi “razza migliore”. Di fronte all’immigrazione e alla xenofobia dobbiamo prendere atto che tutti i buoni principi dell’umanesimo illuminista e delle ideologie umaniste non hanno forza, conoscono un scandaloso fallimento. La paura vince!

    L’immigrazione in effetti pone in discussione tanti nostri stili di vita consumistici ed egoistici, essa è denuncia posta sotto i nostri occhi di ingiustizie cui tutti, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare. La globalizzazione ha avuto effetti estremamente deleteri nella ripartizione dei beni e delle risorse, paesi ricchi lo sono diventati ancor più a discapito di quelli più poveri. Nulla di straordinario o di scandaloso allora vedere imbarcazione di immigrati clandestini sbarcare ripetutamente sulle nostre coste, messicani oltrepassare la recinzione del confine di stato con gli Stati Uniti, ragazzini percorrere abbarbicati sotto i camion o dentro celle frigorifere migliaia di chilometri per raggiungere i nostri paesi in cui sognano di trovare tutto ciò che da loro non c’è. Con quale diritto li condanniamo? Paolo Vi nell’Enciclica “Octagesima Adveniens” già riconosceva profeticamente l’urgenza di un indispensabile cambio di mentalità per poter affrontare correttamente questa grande svolta della storia dell’umanità:  “E’ urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla immigrazione, favorisca la loro integrazione… è dovere di tutti – e specialmente dei cristiani – lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura” (n. 17)

    Quello che sta avvenendo è una grande opportunità di conversione per la nostra fede e di ripensamento per i presupposti culturali ed economici della nostra cultura. Scriveva Giovanni Paolo II: “Il processo di globalizzazione può costituire un’opportunità, se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana. Se, al contrario, si aggravano le disuguaglianze, le popolazioni povere sono costrette all’esilio della disperazione”.

    Dentro questo dramma dobbiamo starci come discepoli di Gesù, non abbiamo diritto comodamente di schierarci con chi lo straniero non lo vuole perché da fastidio. Non dobbiamo invocare che “ritorni da dove è venuto!”. Anzi, capovolgendo tanta prospettiva “mondana” che sembra emergente, stiamo forse assistendo ad un provvidenziale lavoro della mano di Dio perché il cammino verso l’unità di tutta la famiglia umana possa concretizzarsi ancor più: “Cresce il sentimento di comunanza di destino tra tutte le nazioni. Le nuove generazioni avanzano nella convinzione che il pianeta sia ormai un “villaggio globale” e allacciano relazioni di amicizia che superano la diversità di lingua o di cultura” (Giovanni Paolo II).

    Rimane un problema di fondo. Quali le fondamenta da porre perché si costruisca questa nuova umanità? Quali saranno i “monti santi” su cui costruire questa nuova Sion? Basteranno le fondamenta di una “morale laica”, o d’un generico appello ai “valori umani di convivenza”? Ne dubito. Una reale reciproca accoglienza possono scaturire dal fatto che l’umanità alzi lo sguardo e ritrovi una sorgente che la trascenda e nella quale tutti si possano ritrovare con una eguale dignità di figli e dunque di fratelli. E questo può essere dato solo da Dio.

    Ecco allora il grande compito delle nostre comunità dinanzi a queste sfide. A me come discepolo di Gesù saper accogliere come fratello ogni uomo e donna riconoscendo a ciascuno il suo diritto e la sua dignità, che non scaturisce da una mia filantropia o da un mio atto di generosità, ma dal fatto che riconosco in lui un figlio di Dio come me. Di questa apertura tante realtà ecclesiali sono già ora un grande segno profetico di speranza e di provocazione per il mondo e ne dobbiamo ringraziare il Signore. Ne va infatti della credibilità del Vangelo sapendo che la posta è alta: Ammoniva Giovanni Paolo II in un suo messaggio:  “Come potranno i battezzati pretendere di accogliere Cristo, se chiudono la porta allo straniero che si presenta loro? “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1Gv 3,17)” (1999).

    Oratio

    A causa del seno materno differente,
    o perché i racconti della tua infanziati hanno abituato
    ad un’altra lingua,non chiamarmi “straniero”.
    Il tuo grano è identico al mio,
    la tua mano è identica alla mia,
    il tuo fuoco è identico al mio,
    e tu mi chiami “straniero”.
    Perché sono nato in un altro popolo,
    perché conosco altri mari,
    perché un giorno, ho lasciato un altro porto,
    non chiamarmi “straniero”.
    È lo stesso grido che portiamo
    e la stessa fatica che condividiamo,quella che ci sfianca dalla notte dei tempi,
    quando non esistevano frontiere,
    prima che arrivassero quelli che dividono e uccidono,
    quelli che rubano, quelli, gli inventori di questa parola: “straniero”.
    Triste e fredda parola, che unisce oblio ed esilio.
    Non chiamarmi “straniero”.
    Guardami bene negli occhi, ben al di là dell’odio,
    dell’egoismo e della paura
    e tu vedrai che io sono un uomo.
    No! Non posso essere “straniero”.

  • 09 Set

    Fondamenti spirituali del futuro

    di  Olivier Clément

    da Flaminia Moranti – Michelina Tenace (a cura di ) Fondamenti spirituali del futuro. Intervista a Olivier Clèment , Roma, 1997, pp.89-103

    (Testo di una conferanza pronunciata da Olivier Clément al Pontificio Collegio Russicum nel marzo 1996, organizzata dal Centro Aletti e dal Russicum, divenuta pressoché capitolo conclusivo del libro Rome Autremente, DDB, Paris 1997 pp.111-128).

    Il nostro presente è strano: da una parte il pianeta si unifica, dall’altra ogni etnia, ogni cultura afferma la sua identità, e la afferma contro le altre Guerre minacciose scoppiano dappertutto. Il futuro sarà fatto di guerre locali – come tutte quelle che dalla fine del secondo conflitto mondiale hanno moltiplicato le vittime: circa 60 milioni, si dice -, oppure di “guerre di civiltà”, come affermano certi politologi americani che pensano soprattutto al peso demografico sempre crescente dell’islam?

    Sarà forse così ancora per un po’ di tempo, ma dopo si arriverà ad una conclusione. L’unificazione economica e tecnica dell’umanità vincerà. Allora scoppieranno – ne stiamo già vedendo i segni annunciatori – ciò che Nietzsche prevedeva: le “grandi guerre dello spirito”. E attraverso queste guerre che tenteremo di delineare ciò che potrebbero essere i fondamenti spirituali dei futuro. Alla luce, per noi cristiani, della morte e della risurrezione di Cristo.

    Tali fondamenti sono per noi dei doveri:

    – il dovere di superare la modernità dal di dentro

    – il dovere di rispondere all’argomento del male

    – il dovere di assumere teologicamente e spiritualmente l’unità del pianeta

    – il dovere di elaborare un nuovo stile di vita.

    1. Superare la modernità dal di dentro

    La modernità come liberazione dalle costrizioni clericali ha permesso straordinarie esplorazioni: dell’universo, dalle nebulose fino alle particelle infinitesimali della materia; dell’uomo nel suo corpo e nella sua anima – si è passati, come si è detto, “dall’uomo delle caverne alle caverne dell’uomo” – dell’arte fino ai confini della soggettività e della follia; della politica fino all’elaborazione mai conclusa di uno “Stato di diritto” che non pretende di imporre una verità ma lascia che cercatori e testimoni cerchino e testimonino liberamente. In questo senso, la modernità durerà. Non si potranno imporre costrizioni alla libertà.

    Eppure oggi la libertà s’interroga e s’angoscia. Il nostro primo compito è di seguirla dall’interno nel suo movimento per proporgli umilmente un ambito e un esempio che la liberino dal nulla. Come? Portando una giustificazione ultima all’esistenza; “orientando” la scienza e la tecnica; approfondendo la solidarietà in comunione. Proponendo una giustificazione all’esistenza.

    1. Mai la morte è stata tanto repressa e così nuda. Il nulla corrode tutto, suscita derisione, ricerca parossismi dove si rischia la propria vita e quella degli altri. Sul tavolo di uno studente che si era appena suicidato è stato trovato un biglietto con su scritte queste parole: mi uccido perché la vita non ha senso. Il fondamento da porre qui non è l’esaltazione della vita – di fronte al nulla, tutto il mondo esalta la vita, ma questa è stranamente mescolata alla morte (“una vita morta”, diceva san Gregorio di Nissa) – è la testimonianza della vita risuscitata: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, uno spazio di non-morte si apre per noi. Esistono degli uomini che, praticando fino in fondo la “memoria della morte”, scoprono nel più profondo di sé Qualcuno che si frappone per sempre fra l’uomo e il nulla: il Cristo risorto, vincitore della morte e dell’inferno. Allora si può tentare di amare, tentare di vivere; la vita eterna comincia già qui, da adesso.

    2. “Orientando” la scienza e la tecnica. Oggi l’uomo non sa che fare della sua potenza. Talvolta la sua scienza, o meglio, le sue scienze, al plurale, non riescono più ad esaurire la realtà e urtano d’altronde contro il caos: talvolta invece, in biologia soprattutto, il prometeismo si esaspera, pretende di creare la vita, di fabbricare l’uomo su ordinazione. I simbolismi più originali vengono rigettati, quelli che riguardano l’unione dell’uomo e della donna, la relazione fra genitori e bambino. Ci si avventa sui “tabù” e non si rimane che delle solitarie “macchine del desiderio”. Gli embrioni vengono congelati e poi distrutti, si disprezza il ritmo della terra fino a snaturare la natura. La violenza si esaspera nella bruttezza delle megapoli inquinate.

    Il fondamento spirituale che va posto qui è doppio: la transcendenza della persona, il mistero della creazione, della terra.

    Un’antropologia onesta non può non constatare il carattere irriducibile della persona, sempre al di là di tutti i suoi attributi e condizionamenti. Più conosco qualcuno e più mi è sconosciuto. I concetti sono sempre superati dal volto, dal vero volto, al di là di tutte le maschere che sì esprimono nello spiraglio di uno sguardo, nella luce di un sorriso, nella presenza che mi interroga, mi obbliga a rispondere, come ha ben detto Lévinas. Sì, e lo dobbiamo far capire, l’uomo è ad immagine di Dio. Come Dio, egli è segreto e amore. Né la scienza, né la tecnica valgono qualcosa se rifiutano o ignorano questa trascendenza della persona.

    Mistero dell’uomo, mistero anche della terra. Se la Bibbia e il cristianesimo, i monaci in particolare, hanno strappato la persona all’impersonalità della Terra Madre, della Grande Dea arcaica, bisogna che oggi rinunciamo a vedere nella terra soltanto uno sfondo più o meno piacevole o un serbatoio di energie industriali inesauribili, perché non è vero. La “nostra sorella Madre Terra”, diceva san Francesco d’Assisi. La nostra sorella la nostra sposa. La civiltà tecnicista deve rannodare il patto nuziale con la terra. Dobbiamo reintegrare in un cristianesimo rinnovato le grandi intuizioni dei vecchi paganesimi, la terra come teofania, diciamo: come eucaristia. Dobbiamo far incontrare la conoscenza orizzontale, puramente casuale delle cose, con la conoscenza verticale delle radici celesti delle cose. Così la nostra scienza e la nostra tecnica lavoreranno nel rispetto della terra per renderla bella e spiritualizzarla.

    3. Approfondire la solidarietà in comunione. La solidarietà è oggi uno dei valori che toccano di più i giovani occidentali. Sono capaci di grande dedizione, in particolare nelle organizzazioni non governative; non si tratta né di semplici gesti individuali di carità, né di ideologia facilmente usata dallo Stato, o di fanatismo. C’è un vero gusto dei concreto e dell’efficacia. Ma c’è anche il rischio dello scoraggiamento e dell’amarezza.

    Il nostro ruolo: approfondire la solidarietà in comunione, nella certezza che esiste un solo Uomo, un unico Adamo incessantemente spezzato dal nostro peccato, incessantemente ricostruito in Cristo, nel quale siamo tutti consustanziali, “membri gli uni degli altri”. E in questa immensa unità, ognuno, senza cercarlo, diventa unico. Questo è il mistero di Dio che si comunica all’umanità. Comunione del Dio-Trinità come Tarkovskij ha suggerito alla fine dei suo film su Andrej Rublëv, mostrando l’icona dei Tre Angeli splendente di luce e di colore, Dio nel simbolo della giovinezza e della bellezza e che “apre all’umanità un futuro ancora confuso nei secoli”. Allora non ci può più essere scoraggiamento o amarezza; in Cristo risorto anche i nostri fallimenti sono trasfigurati. Ogni nostro gesto concreto d’amore anticipa il Regno.

    2. Rispondere all’argomento del male

    L’argomento fondamentale dell’ateismo di oggi e di domani è che l’esistenza di un Dio onnipotente e buono è incompatibile con la realtà atroce del male – che non è soltanto umano e che quindi potrebbe chiamare in causa la libertà – ma è anche cosmico. Quando un popolo già massacrato dalla storia come il popolo armeno subisce anche un terremoto, quando i bambini nel Messico vengono sepolti da un fiume di lava, quando altri bambini dovunque nel mondo sono colpiti dal cancro, tutto sembra assurdo. I media – in Francia, almeno – sottolineano con intenzione nella cronaca: “un pullman di religiose in pellegrinaggio a Lourdes è precipitato in un burrone”. Oppure: “un bambino pregava davanti ad una grande croce di pietra. La croce è caduta e ha schiacciato il bambino”. Si riconosce l’argomento di Ivan Karamazov, che “restituisce il suo biglietto” a Dio a causa della sofferenza dei bambini innocenti. Dicono: affermate che Dio è onnipotente, ma il mondo è un caos assurdo. Dite che è buono, ma prepara per un’infinita’ di dannati le eterne torture dell’inferno. Lungo la storia e anche oggi, gli uomini si massacrano nel nome di Dio. Dite che Dio è misericordioso, ma sembra invece che sia lui a provocare crudeltà e odio. Il filosofo franco-americano René Girard ha ragione di accostare violenza e sacro: la gente si aggrega subito attorno ad un unico capro espiatorio, la comunità funziona su meccanismi di esclusione e, se si tratta di un gruppo religioso, proietta volentieri lo stesso meccanismo nell’eternità.

    E allora, quale fondamento spirituale porre per il futuro? Va detto con forza che il nostro Dio è innocente, che non ha voluto e non vuole la morte, che non ha neanche idea del male. Bisogna farla finita con”quest’idea di un Dio diabolico, ad immagine dell’uomo e della parte peggiore dell’uomo. Sì, c’è un’onnipotenza di Dio, perché può creare e lasciar esistere fuori di sé altre libertà, quella dell’angelo e quella dell’uomo. Se c’è un’onnipotenza di Dio essa è inseparabile dalla sua onni-debolezza. Dio si ritira in qualche modo (nozione vicina allo zimzum della mistica ebraica) per lasciare all’angelo e all’uomo lo spazio della loro libertà. Egli attende il nostro amore, ma l’amore dell’altro non si comanda. “Ogni grande amore è sempre crocifisso”, diceva Evdokimov. Sì, Dio ha rischiato, Dio è entrato in una vera e dunque tragica storia d’amore. L’Adamo molteplice che siamo tutti noi non ha potuto evitare la prova della libertà. Per affermarsi, per individualizzarsi, si è allontanato dal Padre come il figlio prodigo della parabola. Allora il mondo, creato dal nulla – cioè che non ha fondamento in se stesso – ha cominciato a scivolare verso il nulla, questo nulla al quale gli angeli decaduti che dimentichiamo con troppa facilità, danno una consistenza distruttrice. In un certo modo, Dio è stato escluso dalla sua creazione, non la mantiene che dall’esterno. Dio è diventato un “re senza regno , secondo l’espressione di Nicola Cabasilas. Davanti al male universale – il mondo che “giace nel male”, come dice san Giovanni – “il volto di Dio piange sangue nell’ombra”, violenta espressione di Léon Bloy spesso citata da Nikolaj Berdjaev.

    Fino a che il “sì” di una donna permette a Dio di rientrare nel cuore della sua creazione per restaurarla, per strappare l’umanità alla fatalità e al fascino del nulla e aprirgli, anche attraverso le tenebre, vie di resurrezione. Ma il Dio crocifisso non ha il potere dei tiranni e delle tempeste. E’ un immenso influsso di pace, di luce e di amore che, per agire, ha bisogno di cuori che si aprano liberamente a Lui. La Parusia avverrà per effrazione, e non c’è già ora un momento che non possa lasciar passare la sua luce. Ma essa esige anche una preparazione: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, l’uomo ritrova la sua vocazione di creatore creato. Davanti al cieco nato, Gesù rifiuta di dare spiegazioni a partire dal peccato: né quest’uomo né i suoi genitori hanno peccato. Ma quest’incontro avviene per la gloria di Dio, e Lui lo guarisce. La spiritualità del terzo millennio sarà meno di rifiuto e più di trasfigurazione; una spiritualità pasquale, una spiritualità di risurrezione!

    Allora capiremo clic non si possono mettere limiti alla speranza, come diceva Hans Urs von Balthasar. La preghiera e il servizio per la salvezza universale saranno la risposta alla tragedia dell’inferno. L’inferno, come condizione generica, come assenza di Dio, è stato distrutto dal Sabato santo. Dio ormai non è più assente da nessuna parte. Ma bisogna “sedersi alla tavola dei peccatori”, come diceva Teresa di Lisieux, e “versare il sangue del proprio cuore”, come aggiungeva lo starets Silvano del monte Athos, affinché l ‘ultimo inferno, quello dell’individuo chiuso in se stesso, sia sommerso dall’onda di amore della comunione dei santi, cioè i peccatori che accettano di essere perdonati.

    Uno dei fondamenti spirituali maggiori dei futuro sarà quindi la kenosi. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo dice che Dio in Cristo ekenosen, si è annullato, svuotato di sé. Intuizione geniale: evocare Dio non nel linguaggio del pieno, ma nel linguaggio del vuoto. Il pieno rimanda alla ricchezza, all’abbondanza, alla potenza. Lo svuotarsi, il vuoto, esprime il mistero dell’amore. Dio si trascende verso l’uomo in un movimento inverso. Non è un Dio pienissimo, pesante, che schiaccia l’uomo, ma un Dio “svuotato” nell’attesa della nostra risposta d’amore.

    3. Assumere e assicurare spiritualmente l’Unità planetaria

    L’unità planetaria si sta realizzando nonostante o attraverso i particolarismi che si moltiplicano. Due grandi fratture mi sembrano caratterizzare per oggi e per domani la situazione spirituale dell’umanità. Anzitutto, ci sono due emisferi spirituali. Da una parte l’emisfero che si rifà all’India: induismo, giainismo e tutte le forme di buddismo di cui alcune, in Cina o in Giappone, sono molto vicine alle tradizioni arcaiche come lo scintoismo o, provengono, come lo stesso buddismo, da ciò che Jaspers chiamava il “periodo assiale” della storia (VII-IV sec. prima della nostra era): penso ad esempio al taoismo. In questo emisfero, il divino – o il soffio di vita, il ki cinese – affiora dappertutto, divino impersonale che il mondo manifesta e nel quale si riassorbe. Il pensiero dominante è un pensiero dell’Unità che abbraccia tutto, un pensiero dell’Identico, con una concezione ciclica del tempo e l’universalità del Sé di ognuno (perché una mamma ama suo figlio, si chiede l’Upanishad? La risposta è: non è per amore del bambino, è per amore del Sé che è identico nel bambino e nella donna).

    L’altro emisfero si potrebbe definirlo “semitico” e riguarda soprattutto il giudaismo e l’islam, almeno nelle loro forme “esoteriche”. Qui si afferma la trascendenza del Dio personale e il carattere personale, o piuttosto individuale dell’uomo. Il pensiero è rivolto all’altro senza unità (tranne in certe forme di sufismo e di cabbala segnate dal neoplatonismo, l’Iran e l’India, dove si ritrova spesso una sensibilità fusionale). Dio è in cielo e l’uomo è sulla terra. Dio dà una legge e l’uomo deve obbedirgli. Il tempo si fa lineare sia sotto forma di tensione nel giudaismo, che sotto forma di richiami nell’islam.

    L’altra frattura oppone le società tradizionali e la società occidentale moderna. Le società tradizionali sono “diviniste” o magiche, ripetitive, spesso, come in Africa e in America dei Sud, profondamente “vitali”, mentre la società occidentale moderna è umanista, innovatrice e devitalizzata. Invade oggi la terra intera, ma le società tradizionali lasciano tracce e nostalgie profonde, e le loro magie nutrono il “New Age”.

    I fondamenti spirituali del futuro in questo contesto si chiamano Trinità e divinoumanità.

    Certo, prima o poi dobbiamo prima di tutto affermare che il nostro Dio non è il Dio delle “guerre sante” e delle crociate, ma il Dio della Croce vivificante. Le differenze, anzi le contraddizioni fra religioni non devono essere luogo di guerre ma di amicizia e di preghiera, se non proprio comune, perlomeno insieme, come ad Assisi. E anche, ogni volta che è possibile, uno scambio che potrebbe prodigiosamente arricchire il cristianesimo, perché, in una prospettiva escatologica, bisogna riconoscere che le “economie” di Dio sono molteplici.

    Più profondamente importa capire e diffondere sempre di più il mistero della Uni-Trinità: il Dio vivo è talmente uno che porta in sé la realtà, il battito dell’altro, e nello Spirito, nel Soffio santo, il superamento di ogni dualità: non per ripiegamento in un’unità impersonale, ma per coincidenza dell’unita assoluta con la diversità assoluta. Ed è lo stesso, almeno come promessa, in germe, in divenire, per l’umanità, visto che l’uomo è ad immagine di Dio: unità totale in Cristo, diversità totale sotto le fiamme della Pentecoste perpetua. Un prete e monaco russo che fu, alla vigilia della rivoluzione, missionario in Siberia ,scrive che ammirava tanto i saggi indù che esitava a portarli al battesimo. Ma, aggiungeva, questi saggi sono talmente assorbiti nella loro interiorità che hanno gli occhi chiusi; la missione dei cristiani potrebbe essere quella di portarli ad aprire gli occhi per vedere l’altro, senza per questo rinunciare alla loro interiorità, di cui essi devono insegnarci le vie.

    L’altro tema fondamentale per il futuro è quello della divinoumanità come spazio dello Spirito e della libertà creatrice. Tutte le esperienze orientali del divino e tutte le esperienze occidentali dell’umano devono trovar posto nella divinoumanità. Alle religioni della sola trascendenza, attraverso i loro mistici, noi diremo l’incarnazione e la kenosi. Alle religioni della fusione nell’impersonale, noi parleremo dell’Uni-Trinità. Agli umanesimi più o meno atei, ricorderemo che l’uomo non sarebbe nulla se non fosse, al dì là di tutti i condizionamenti, un enigma, un segreto nel quale possiamo entrare solo attraverso la rivelazione dell’amore.

    Allora potremo rispondere alle attese di oggi che si cristallizzano attorno al New Age e che se non sapremo capirle, diventeranno anticristiane. Queste attese riguardano il cosmo, l’eros, la meditazione trasformante.

    Plutarco racconta di aver sentito un grido dal mare: “il grande Pan è morto!” Sembra che oggi rinasca di nuovo. Si prende coscienza del proprio corpo, accordandolo ai ritmi cosmici. I poeti cercano nuovi nomi del divino nella densità degli esseri e delle cose. Nell’Europa centrale ecologismo e buddismo si uniscono nel desiderio di fondersi nella natura, l’immensa e materna Gaia.

    L’avvenire del cristianesimo sarebbe qui di trovare una visione liturgica e mistica del cosmo. L’eucarestia compie le potenzialità sacramentali della materia. Tocca all’uomo, sacerdote del mondo, offrire a Dio, nel grande sacrificio cristico della reintegrazione, le essenze spirituali delle cose. Tocca a noi dare a questa visione trasfigurante tutta la stia portata culturale e sociale e così fecondare l’ecologia. I grandi “sofiologi” russi hanno tentato di farlo all’inizio di questo secolo; le loro concettualizzazioni erano forse maldestre, però dovremmo riprendere la loro riflessione sulla Sapienza, questa figura misteriosa che appare soprattutto nell’ottavo capitolo dei Proverbi, figura nella quale Dio e la creazione sembrano interpenetrarsi mutualmente. Attraverso la Sapienza, i vecchi miti della Terra sacra possono integrarsi nel cristianesimo come poetica della comunione. Non c’è dubbio che c’è un legame misterioso fra la Sapienza e la Madre di Dio nella quale la Terra trova finalmente il suo volto…

    in secondo luogo, dobbiamo anche constatare che nella storia del mondo cristiano la sfiducia nei confronti dell’eros è stata a lungo necessaria per assicurare, contro le fatalità della specie e delle estasi fusionali, la piena rivelazione della persona e in particolar modo della donna come persona. Poco a poco però l’eros, invece di essere trasfigurato, è stato negato. Oggi irrompe perciò la rivolta folle della vita. Il cristianesimo dei tempi nuovi scoprirà tutto il significato dell’eros, ne mostrerà il compimento nell’arte che avvia la trasfigurazione del mondo, il compimento nell’ascesi che fa dell’uomo o della donna un essere “separato(a) da tutti, e unito(a) a tutti”, come diceva Evagrio Pontico. Rispetterà la passione la più folle, senza ignorare le sue vie senza uscita, sapendo che coloro che vivono e muoiono – una tale passione sono marcati dal sigillo dell’assoluto. Celebrerà l’amore che c’è fra un uomo e una donna quando l’eros si integra nell’incontro delle persone e quando l'”estasi della vita” diventa il linguaggio più forte che un uomo e una donna possano comunicarsi. Pur ricordando che solo la vita monastica può realizzare pienamente le nozze di Cristo e dell’anima, e che è una benedizione per la spiritualità nuziale, per il mistero del bambino.

    L’ultimo tema: quello della meditazione trasformante. Molti oggi sentono una grande esigenza di silenzio e di pace. Si rivolgono ai metodi di concentrazione dell’India e del buddismo, alla “meditazione trascendentale”. Riescono a raggiungere a volte una certa unificazione, però sono sempre sotto il rischio di orgoglio gnostico, di ipertrofia dell’io occidentale, confuso con il Sé orientale. Rischiano anche di confondere la grande fatica attuale dell’occidente con la negazione buddista del desiderio.

    La risposta cristiana per domani sarà di ritrovare e di attualizzare l’immenso patrimonio del cristianesimo. Penso in particolare, al di là delle forme sentimentali e psicologiche del “misticismo”, alla grande tradizione ortodossa della Filocalia – parola che significa amore della bellezza – e dell’esicasmo – parola che allude alla pace, al silenzio dell’unione con Dio (hesychia). Tradizione che ha d’altronde le sue radici nel terreno della Chiesa indivisa. L’esicasmo conosce tecniche simili a quelle dell’Asia per liberarsi dagli idoli mentali, pulire l’intelletto dai “pensieri”, unire l’intelligenza e il cuore, utilizzare i ritmi dei corpo come quelli della respirazione e del sangue. E a questo livello uno scambio è possibile. Ma, mi sembra, l’asceta indù (o buddista) s’immerge spesso (non sempre) e si dissolve nell’abisso luminoso del Sé, o in questo “nirvana” che non può essere evocato che negativamente, mentre l’asceta esicasta scopre che questa luce sgorga da una sorgente personale nello stesso tempo infinitamente vicina e infinitamente lontana. La “meditazione”, allora, diventa relazione, l’unità non può fare a meno dell’alterità, tutto culmina nella comunione con Dio e con il prossimo. In questo servizio del prossimo di cui l’occidente cristiano ha sempre avuto l’esigenza e la pratica.

    4. Un nuovo stile di vita

    Per finire direi che i fondamenti spirituali del futuro devono incarnarsi in un nuovo stile di vita, fatto insieme di umiltà e di fierezza, di ascesi e di fantasia: la “gaia scienza” nello Spirito Santo. Uno stile regale, ma senza dimenticare che il re ha sempre bisogno di un buffone: tentare di essere cristiano nel mondo, così com’è e come sarà, esigerà una certa “follia”.

    Uno stile che esigerà la più alta ascesi, perché ci vorrà tutta la forza dello spirito nel senso di viva intelligenza affinché l’uomo possa aver potere sul proprio potere. Uno stile che esigerà simultaneamente l’ardore di un cavaliere della vita e l’intuizione e l’impertinenza dell’artista. Uno stile che si esprimerà in un incontro rinnovato dell’uomo e della donna: non di subordinazione, né di complementareità, ma due solitudini e due pienezze, due modi di vivere il mondo e di farlo esistere, a volte per grazia di farlo esistere in un nuovo Cantico dei Cantici. Uno stile in cui si “respira lo Spirito”, in cui si balia nella non-morte, perché il Cristo è risorto. E poiché Cristo è risorto e lo Spirito è versato segretamente dappertutto e abbraccia tutto, vorrei concludere con le parole di Nikos Kazantzakis: “Ogni uomo può salvare il mondo intero”.

  • 31 Lug

    ESICASMO  E PREGHIERA DI GESU’

    Introduzione

    La comunità apostolica, riprendendo una tradizione antico-testamentaria, ha posto, fin dall’inizio, un’attenzione tutta particolare per il Nome che ha assunto il Figlio di Dio al momento della sua incarnazione: Gesù, che significa “Jhwh salva”. Inoltre tre testi mettono in evidenza la venerazione della Chiesa primitiva verso il nome di Gesù: Fil 2,9-10; At 4,10-12; Gv 16,23-24. Tuttavia la Preghiera del cuore, radicata nel Nuovo Testamento, viene assunta da una «corrente» propria della spiritualità orientale antica che è stata chiamata esicasmo.Il nome proviene dal greco hesychìa che significa: calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione. L’esicasmo può essere definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione (deificazione) dell’uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante. Tuttavia ciò che caratterizza tale movimento è sicuramente l’affermazione della eccellenza o della necessità della stessa hesychia, della quiete, per raggiungere la pace con Dio. In un documento del monastero di Iviron del monte Athos, si legge questa definizione: «L’esicasta è colui che solo parla a Dio solo e lo prega senza posa».Gli esicasti, inserendosi nella tradizione biblica, esprimeranno l’esperienza della preghiera contemplativa attraverso l’invocazione e l’attenzione del cuore al Nome di Gesù, per camminare alla sua presenza, essere liberati da ogni peccato e rimanere nel dolce riposo di Dio in ascolto della sua parola silenziosa.La storia dell’esicasmo inizia con i monaci del deserto d’Egitto e di Gaza. «A noi, piccoli e deboli, non ci resta altro da fare che rifugiarci nel Nome di Gesù», dice uno di loro. Si afferma poi al monastero del Sinai, con san Giovanni Climaco. Un esponente di spicco è sicuramente Simeone il Nuovo Teologo. Il movimento esicasta rinascerà successivamente al Monte Athos nel sec. XIV.

    La vocazione all’esichia

    Il termine greco hesychìa viene tradotto in latino con quies, pax, tranquillitas, silentium. In genere esichia significa quiete, ma può anche voler esprimere la pace profonda del cuore. L’etimologia è incerta: forse il verbo da cui deriva, hèsthai, significa essere assiso, stare seduto. Nella letteratura monastica esichia rivela almeno due significati. Prima di tutto tranquillità, quiete e pace come stato d’animo, e condizione stabile del cuore necessaria per la contemplazione. Significa ancora distacco dal mondo nella doppia accezione di solitudine e silenzio. L’esichia espressa nella pace, quiete, solitudine e silenzio interiore, che viene raggiunta attraverso la solitudine e il silenzio esteriore, si presenta tuttavia come un mezzo eccellente per raggiungere il fine dell’unione con Dio nella contemplazione, attraverso la preghiera o l’orazione ininterrotta. In quanto mezzo e non fine l’esichia va distinta sia dalla apàtheià degli stoici, intesa come assenza e liberazione dalle quattro passioni fondamentali, la tristezza, il timore, il desiderio e il piacere; sia dall’ataraxia degli epicurei,che consiste nella libertà dell’anima dalle preoccupazioni della vita.Questi movimenti filosofici sottolineano e ricercano la pace e la quiete dell’animo, solo come fine ultimo e non come mezzo per una pienezza di vita che solo Dio può concedere. Nella letteratura monastica al contrario e in particolare presso i Padri del deserto, l’esichia mantiene sernpre una coloritura di mezzo e non di fine. Questa è un mezzo eccellente, un cammino di amore autentico, vissuto nel silenzio e nella solitudine al fine di raggiungere la preghiera vera e l’autentica contemplazione. L’esichia in definitiva è l’atteggiamento di chi nel proprio cuore si pone costantemente alla presenza di Dio. Per cogliere i vari aspetti dell’esichia che il monaco è chiamato ad esprimere possiamo riferirci alla vita di padre Arsenio, il padre degli anacoreti. Ecco come viene raccontata la sua vocazione all’esichia: «Abbà Arsenio, quando ancora abitava nel palazzo imperiale, pregò Dio con queste parole: “Signore mostrami la strada che conduce alla salvezza“. E una voce si rivolse a lui e gli disse: “Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato“. Lo stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse a Dio la stessa preghiera, e intese una voce che gli disse: “Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio e riposa nella pace (esichia). È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare”» (Arsenio 1.2).Quest’ultima frase è all’inizio della vocazione degli esicasti: «Fuge, Tace, Quiesce: Fuggi, Taci, vivi la pace». La fuga dal mondo, il silenzio e la pace interiore sono i tre atteggiamenti che danno forma allo stato di vita del monaco, in particolare dell’ anacoreta.

    Fuge: esichia come solitudine

    Il monaco autentico è chiamato a vivere prima di tutto la solitudine. I Padri del deserto, sottolineano con grande forza la fuga dagli uomini, la necessità cioè di ridurre al minimo il contatto con essi. Si racconta in proposito: «Il beato arcivescovo Teofilo, si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia di un magistrato. Chiese all’anziano di udire da lui una parola. Dopo un attimo di silenzio, egli rispose loro: “E se ve la dico, la osserverete?”. Promisero di farlo. Disse loro l’anziano: “Dovunque sappiate che ci sia Arsenio, non avvicinatevi”» (Àrsenio 7). «Il padre Marco disse al padre Arsenio: “Perché ci sfuggi?”. L’anziano gli dice: “Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia hanno un’unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini”» (Arsenio 13). Alcuni contatti discreti con il mondo possono  essere anche vantaggiosi. Tuttavia solo per quei monaci che hanno acquisito una grande maturità spirituale e ai quali è comandato espressamente da Dio. Ma per lo più il monaco è invitato a garantirsi una zona di calma, di silenzio, di solitudine per ricevere la formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua silenziosa presenza. L’esichia come solitudine non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con un famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà ogni cosa» (Mosè 6). «Insegnerà ogni cosa» è la stessa frase che troviamo in bocca a Gesù quando preannunzia la venuta dello Spirito (Gv 14,26). Rimanere nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo fuoco e alla sua luce. L’abbà Macario l’Egiziano lega insieme la fuga dagli uomini e il restare in cella: «Il padre Isaia chiese al padre Macario: “Dinnni una parola”. E l’anziano gli dice: ‘Fuggi gli uomini!. E il padre Isaia a lui: “Che cosa,significa fuggire gli uomini?”. L’anziano gli disse: “Significa rimanere nella tua celia e piangere i tuoi peccati” » (Macario E. 27). E rivolgendosi all’abbà Aio gli dirà: «Fuggi gli uomini, rimani nella tua cella a piangere i tuoi peccati, e non amare la conversazione con gli uomini. E ti salverai» (Macario E. 41). Infatti la cella è l’ambiente per l’esichia, dirà lo stesso Antonio il grande: «Come i pesci muoiono se restano sulla terra secca, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono con la gente, perdono la forza necessaria all’esichia. Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro» (Antonio 10). La solitudine può esprimersi pure in un atteggiamento di continuo pellegrinaggio da un luogo ad un altro. Ogni luogo infatti deve essere estraneo al monaco. Una tale estraneità – xenitèia – indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Afferma san Nilo: «Il primo dei grandi combattimenti consiste nella xenitèia, cioè nell’emigrare solo spogliandosi come un atleta, ,,della propria patria, della propria razza, dei propri beni». Il passare da un luogo ad un altro è imitare il cammino di Gesù, come dimostra la storiella seguente: «Del padre Agatone raccontavano che impiegò molto tempo assieme ai suoi discepoli per costruire una cella. Quando l’ebbero finita, cominciarono ad abitarvi, ma già dalla prima settimana vide qualcosa che gli pareva non giovasse e disse ai suoi discepoli: “Alzatevi andiamo via di qui” (Gv 1,3l). Ne furono molto turbati e dissero: “Se proprio avevi l’intenzione di andartene perché abbiamo tanto faticato per costruire la cella? La gente si scandalizzerà di nuovo e dirà: Ecco, questi instabili, che se ne vanno di nuovo”. Vedendoli così avviliti, egli disse loro: “Se anche alcuni si scandalizzeranno, altri, a loro volta, saranno edificati e diranno: Beati costoro che per amore di Dio se ne sono andati disprezzando tutto. Comunque chi vuole venire venga. Io adesso vado. Allora si  gettarono a terra, pregando che permettesse loro di partire con lui» (Agatone 6; cf. anche Amoe 5). Questi ultimi apoftegmi ci permettono di sottolineare l’aspetto itinerante della esichia. Certamente la cella è importante; ma non si può rimanere in essa con lo spirito del proprietario. Il monaco sa di essere straniero su questa terra e così abbandona tutto ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo nel nascondimento e nell’attesa, sperando ardentemente nel ritorno del Signore glorioso. La solitudine esteriore è certamente importante, ma più necessaria è la solitudine del cuore. Qui si gioca l’autentica esichia, ovvero l’eremitismo o l’anacoresi interiore, il monachesimo del cuore, il solo che può condurre alla Preghiera di Gesù.

    Tace: esichia come silenzio

    Nella solitudine il monaco è chiamato a vivere il silenzio. La voce che Arsenio aveva udita si era infatti espressa nei termini che sappiamo: fuge, tace, quiesce. Il silenzio che esprimono i Padri del deserto, come giustamente è stato detto, «è un silenzio dai mille nomi e dai mille volti dove ogni cosa è al suo posto, è un silenzio prezioso per l’anima, un silenzio che sta dalla parte della trascendenza. Dai vari apoftegmi emerge che il silenzio dei Padri del deserto è il silenzio dell’umiltà, del tacere di se stessi, è il silenzio che toglie le parole all’egoismo, alla superbia, all’amor proprio, è il silenzio di chi si fa pellegrino e straniero, ma è anche il silenzio dell’amore, il silenzio di chi non giudica il prossimo, di chi non parla o sparla degli altri, infine è il silenzio della fede, di chi si fida del Totalmente Altro, di chi si è messo completamente nelle sue mani». Consideriamo alcuni particolari di questo grande silenzio. La preghiera perpetua è il problema pratico fondamentale che venne dibattuto molto nei primi secoli cristiani. I monaci avevano il dovere di realizzare questo comando della Scrittura, più di tutti gli altri cristiani. Il loro amore per il silenzio è senz’altro la forma, il clima, la dialettica stessa della preghiera ininterrotta. Il silenzio è come una cella e una sorta di eremo portatile da cui l’uomo di preghiera non uscirà mai anche quando per motivi di carità, dovrà andarsene dalla sua cella visibile. Afferma il grande Poemen «Se tu sarai nel silenzio  tu otterrai il riposo in qualsiasi luogo abiterai» (Poemen 84). Custodire il silenzio, quando si presenta l’occasione di parlare, è la vera fuga dagli uomini: «Dominare la propria lingua ecco la vera estraneità (xenitèia)», afferma abbà Titoes. «Il padre Giovanni era fervente nello Spirito. Venne un tale a visitarlo e lodò il suo lavoro: stava lavorando alla corda, e rimase in silenzio. Tentò una seconda volta di farlo parlare, ma egli continuava a tacere. La terza volta disse al visitatore: “Da quando sei venuto qui, hai allontanato da me Dio”» (Giovanni Nano 32). «A Scete il grande abbà Macario, quando si scioglieva l’assemblea, diceva: “Fuggite, fratelli”. Uno degli anziani gli chiese: “Dove possiamo fuggire di più che in questo deserto?” Egli poneva il dito sulla bocca dicendo: “Questo fuggite!” e entrato nella sua cella, chiudeva la porta e si sedeva (si poneva in esichia)» (Macario E. 16). Il silenzio a cui invitano i Padri del deserto è  anche testimonianza. Secondo la loro esperienza è necessario parlare con le opere e non con la lingua. E il proprio cammino di fede che opera, le parole sono spesso inutili. «Un fratello chiese al padre Sisoes: “Dimmi una parola”. Gli disse: “Perché mi costringi a parlare inutilmente? Ecco, fa’ ciò che vedi”» (Sisoes 45). «Un fratello chiese al padre Poemen: “Dei fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?”. “No – gli dice l’anziano – fa’ il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi”. Il fratello gli dice: “Ma sono proprio loro, padre, a volere che io dia loro ordini”. Dice a lui l’anziano: “No! Diventa per loro un modello, non un legislatore”» (Poemen 174). L’abate Isaia disse ancora: «Non deve essere la tua lingua a parlare, ma le tue opere, e le tue parole siano più umili delle tue opere. Non pensare senza intelligenza, non insegnare senza umiltà, affinché la terra possa ricevere il tuo seme». I frutti del silenzio secondo i Padri del deserto sono molteplici. Il silenzio dona la quiete (Poemen 84); genera la castità (Detti V,25); è di aiuto contro gli empi (Detti XI, 7); conserva l’animo nella pace (Matoes 11); il silenzio è umiltà (Detti XV,76); il silenzio aiuta a non giudicare il prossimo, a non condannare nessuno, è rimedio contro la maldicenza; è scuola di tolleranza e benevolenza verso tutti (Ammone 8). Tuttavia un tale silenzio richiede molto coraggio. Afferma Poemen: «La prima volta fuggi, la seconda fuggi, la terza diventa una spada» (Poemen 140).

    Quiesce: rimani nella pace interiore

    Solitudine e silenzio praticati concretamente, rappresentano dunque per i Padri del deserto, il momento fondamentale dell’esichia del corpo, dell’esichia esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti, come afferma Macario: «Nessuno può avere l’esichia dell’anima, se non si è assicurato dapprima quella del corpo». Certamente però è l’ esichia interiore il cardine essenziale della spiritualità monastica orientale. Dalla solitudine e dall’assenza di parole il monaco è chiamato a passare al silenzio profondo attivo e creativo. E questo è tutt’altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola quiete possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo del cuore». Il monaco si consacra per vocazione a perseguire unicamente l’unione con Dio, attraverso la preghiera, che a sua volta presuppone il totale distacco, la perfetta purificazione, la rinuncia a tutto ciò che potrebbe rallentare il suo cammino spirituale. I Padri del deserto «hanno spesso ricordato che Gesù, anche dopo il primo ritiro nel deserto, ha spesse volte cercato la solitudine. La solitudine pone dunque il monaco al centro stesso del mistero della redenzione, in una configurazione al Cristo che tocca l’apice più doloroso, ma anche il più fecondo della sua opera di salvezza. In, questo modo il legame tra solitudine e preghiera prolungata, estasi e sofferenza viene solidamente affermato». La ricerca cristiana della solitudine, del silenzio e della pace interiore potrebbe anche apparire una sofisticata spinta egoistica. Ma non è così. «Consacrare interamente la propria vita terrena perché Dio sia tutto in tutte le cose è precisamente l’opposto dell’egoismo. E’ partecipare nel modo più generoso possibile, dopo il martirio, alla grande opera di Dio-Carità». (tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero – Padova,  testo di riferimento in ambito cattolico per quanti si accostano per la prima volta allo studio dell’esicasmo e della preghiera del cuore).

  • 28 Lug

    LA VOCAZIONE MONASTICA

    sintesi da un testo della Madre Canopi

    1. I tratti essenziali e universali della vocazione monastica.

    Il monachesimo si caratterizza essenzialmente per una insopprimibile esigenza di Assoluto e di radicalità nella ricerca di esso. Ne deriva una forma di vita che, per il solo fatto di esistere, diventa testimonianza del primato di Dio e delle realtà eterne rispetto a quelle temporali. Questa nota fondamentale fa del monachesimo una vocazione a respiro universale, corrispondente all’anelito più profondo dell’essere umano, al suo innato desiderio d’infinito. In ogni epoca e luogo, infatti, in seno alle forme più elevate di religione, sono apparse e si sono affermate espressioni di vita monastica, che, pur nelle differenti modalità, si riconoscono per alcuni tratti specifici ben distinguibili e costanti nel mutare dei tempi e delle circostanze: la separazione dal mondo, la castità, la povertà, l’ascesi, la lotta contro le passioni. In essa la persona si cimenta per il raggiungimento della perfezione e, conseguentemente, della saggezza, dell’equilibrio e della pace interiore.

    2. Vita monastica cristiana.

    Il cristianesimo ha innegabilmente apportato a questa vocazione qualcosa di nuovo e di unico, poiché ha spostato decisamente il centro di gravità dall’uomo a Dio, dall’io al Tu, alla persona di Colui che solo è il Santo e il Santificatore. Il monaco cristiano, infatti, non mette al centro la ricerca della propria perfezione, ma la ricerca di Dio. Si impegna nella propria conversione e nel perseguimento di una santa condotta di vita per corrispondere all’amore di Dio che Si è rivelato in Cristo e attraverso la sua umanità ci si fa incontro. Lungi dal confidare in se stesso e dal puntare su uno sforzo volontaristico per raggiungere la perfezione, il monaco cristiano si affida alla grazia divina e si lascia trasformare dall’azione dello Spirito Santo, consapevole di essere diventato – in forza del Battesimo – figlio di Dio, partecipe della natura divina. Il monachesimo cristiano ha perciò la sua ragion d’essere proprio nella conformazione a Cristo, portando alla massima fioritura la grazia battesimale. Con Cristo, reso partecipe del suo Spirìto, il monaco glorifica il Padre. Qualcuno non ha esitato a definire «secondo Battesimo» la professione monastica. Desiderando vivere in pienezza le esigenze della vita cristiana, nella sua semplicità e radicalità, il monaco è pure equiparato ai martiri. Infatti nella sequela e conformazione a Cristo obbediente fino alla morte di croce, egli consuma quello che i padri hanno definito il «martirio della coscienza». Ma la nota ancor più caratteristica del monachesimo cristiano è di essere segno e profezia delle realtà ultime ed eterne: escatologiche. «Vita angelica» è perciò un’altra suggestiva definizione della vita monastica. Proprio l’intensa partecipazione del monaco alla kenosi – alla croce – di Cristo lo rende anche partecipe della sua vita risorta. E’ ciò che la mistica di Paolo della Croce rende attraverso l’espressione “morte mistica e divina natività”. Reso «più somigliante» all’uomo nuovo il Cristo crocifisso e risorto, egli si immerge nel mistero della vita trinitaria e anticipa così la vita celeste. Qui sta forse – almeno in gran parte – il segreto del fascino che emana dalla figura del monaco e – ancor più – dalla comunità monastica, specialmente quando, radunata in preghiera, riproduce in certo modo la comunione dei santi, il volto della Chiesa nella sua realtà escatologica. È importante rilevare che la vita monastica, sia vissuta in solitudine, sia vissuta insieme, è sempre fortemente inserita nella vita ecclesiale; è sempre una vivida realizzazione del mistero di comunione che è la Chiesa ed è quindi carica di una imponderabile fecondità apostolica. Il fascino della sua bellezza è perciò da scorgersi soprattutto nell’irradiazione di una grazia che il Signore riversa abbondantemente là dove si vive la quotidiana morte a se stessi nell’umiltà e nel nascondimento, per essere pienamente in Cristo e con Lui offerti per la salvezza di ogni persona.

    3. Risposta a una chiamata: esodo e spogliamento.

    Esigenza profonda dell’animo umano, la vita monastica cristiana è e rimane anzitutto una vocazione, una chiamata gratuita di Dio rivolta a chi Egli sceglie, nella sua assoluta libertà. Non si intraprende quindi la vita monastica spinti esclusivamente dal desiderio della perfezione personale o dall’attrattiva per le sue caratteristiche più appariscenti (quali, ad esempio, il silenzio, la solitudine, la bellezza della liturgia, l’atmosfera del monastero, le persone spirituali che vi si trovano, ecc.), ma sempre si parte sotto l’impulso dello Spirito Santo, spinti dall’amore per Cristo, in obbedienza alla volontà di Dio, che invita alla sequela radicale, lasciando tutto il resto. Esemplare è, a questo proposito, la vocazione di Antonio il Grande, ritenuto il padre dei monaci: «Dopo la morte dei genitori, Antonio rimase solo con la sorella ancora molto piccola. Aveva diciotto o venti anni, e si prendeva cura della casa e della sorella. Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando, com’era sua abitudine, se ne andava in chiesa, raccogliendosi nella propria mente (…). Entrò in chiesa e gli accadde di ascoltare la lettura di un passo evangelico in cui ascoltò il Signore dire al ricco: “Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri, e poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli”, Antonio, come se il ricordo dei santi gli fosse presentato al pensiero per ispirazione divina, e convinto che quel passo evangelico fosse letto per lui, uscì subito dalla chiesa e donò i suoi possedimenti (…) ai concittadini, perché non molestassero più né lui né la sorella. Vendette quindi tutti gli altri beni mobili che possedeva e, ricavatone molto denaro, lo distribuì ai poveri. Conservò tuttavia un po’ di denaro per la sorella. Entrato di nuovo in chiesa, non appena sentì il Signore che diceva nel Vangelo: “Non preoccupatevi del domani”, subito uscì e distribuì ai poveri il denaro che aveva conservato. Affidò la sorella a delle vergini fedeli, perché fosse allevata nella verginità, ed egli stesso coltivò l’ascesi fuori dalla sua casa, vivendo severamente (…). C’era in quell’epoca in una città vicina un vecchio che sin dalla giovinezza conduceva una vita solitaria, tutto dedito all’ascesi cristiana. Antonio lo vide e prese ad emularlo nel bene» (Atanasio, Vita Antonii, 2-3). È evidente in questa chiamata divina l’esigenza di una radicalità che non lasci più alcuno spazio al possesso delle cose e all’auto-possesso. La vita monastica, prendendo alla lettera il Vangelo, richiede la perdita totale di sé nella rinunzia ai propri beni, ai legami familiari, alla propria volontà, al proprio corpo e soprattutto, a quanto può costituire per sé un motivo di «vanto». di «orgoglio». Richiede infatti la separazione dal mondo per una vita umbratile, di silenzio e di solitudine, di umiltà e di nascondimento non solo agli occhi degli altri, ma anche ai propri occhi; vita all’insegna della gratuità, che non pretende né di vedere né di valutare i frutti della propria preghiera e della propria offerta. Il monaco sperimenta, in tutto il suo realismo, quanto Gesù disse ai suoi discepoli: ritenetevi servi inutili. Non si può quindi partire portandosi dentro segrete ambizioni o illusioni; tuttavia chi si sente chiamato a questa forma di consacrazione parte con la più grande speranza, con la più grande attesa nel cuore: stare con il Signore, piacere a Lui solo ed essere consumato nel suo amore. Significativo in questo senso è anche il racconto della vocazione di san Benedetto fatto da san Gregorio Magno: «Tralasciata la formazione letteraria, abbandonata pure la sua casa con i beni paterni, desideroso di piacere a Dio solo, cercò l’abito santo della vita monastica (…). Preferendo ricevere patimenti dal mondo piuttosto che non ammirazione, e di consumarsi nella fatica per amore di Dio più che di acquistare prestigio in questa vita (…) raggiunse una grotta in un luogo deserto, chiamato Subiaco, ricco di fresche e limpide sorgenti (…). Incontrò un monaco di nome Romano che, conosciuta l’intenzione del giovane, gli impose il santo abito monastico e, per quanto fu possibile, provvide alle sue necessità» (Gregorio Magno, Dialoghi, 2, 3-4). La forza del desiderio di Dio sostiene Benedetto nel suo esodo dal mondo e lo sosterrà nel combattimento spirituale in cui dovrà ogni giorno cimentarsi per rimanere fedele alla divina chiamata ed essere, nelle mani di Dio, docile strumento per il compimento del disegno che ha concepito su di lui in favore di una numerosa discendenza.

    4. Incontro con Cristo nel deserto: solitudine e comunione.

    La vocazione monastica non è soltanto adesione e perseguimento di un nobile ideale di vita spirituale, ma esperienza forte, irresistibile, di un incontro con la persona di Gesù, una specie di seduzione che ha come luogo preferito il deserto o comunque luoghi isolati, di difficile accesso, belli di quella bellezza vergine ed austera, semplice e trasparente che è un richiamo alla bellezza soprannaturale a che deve contribuire a configurare il volto interiore del monaco. Infatti il monaco si radica nella terra per elevarsi al cielo ed instaura con il suo ambiente – dove vive la sua stabilità – una specie di simbiosi in cui l’uno e l’altro si trasfigurano nel dono di un reciproco servizio. Mentre l’ambiente naturale custodisce il monaco, questi spiritualizza la terra e la rende quasi nuovo «eden». In una sua omelia, san Giovanni Crisostomo diceva: «Se ti recherai nel deserto egiziano, lo vedrai trasformato nel più dolce paradiso; là incontrerai innumerevoli cori di angeli di umane sembianze, una folla di martiri, una schiera di vergini; vi vedrai distrutta la tirannide del demonio, e celebrarsi il trionfo luminoso di Cristo… In una parola, il cielo, con il suo coro gioioso di stelle, non brilla quanto il deserto egiziano, che dappertutto ci offre alla vista le tende dei suoi monaci», (In Matthæum 8,4). L’importanza della stabilitas loci – che diventa amor loci – è sempre in riferimento all’esperienza profonda della presenza di Dio. Nella Vita di Antonio si legge che, divenuto ormai noto per la sua santità, temendo di insuperbirsi, volle ritirarsi in una regione dove potesse vivere sconosciuto. Una voce allora gli disse: «Se vuoi veramente allontanarti e vivere nel silenzio, va’ nel deserto interno (,..). Dopo aver camminato per tre giorni e tre notti, giunse su di un monte molto alto; e sotto scorreva acqua limpida (…). Intorno c’era una pianura e poche palme (…). Come se fosse ispirato da Dio, Antonio amò quel luogo» (Vita Antonii, 49-50). Non è per la bellezza naturale che il monaco si affeziona al luogo, ma perché Dio glielo ha indicato e lo aspettava là. Anche il luogo, in certo senso, diventa sacramento della divina Presenza. Dove c’è un monaco eremita o un cenobio (monaci che fanno vita in comune) l’ambiente sì trasfigura, emana un’arcana forza soprannaturale. Per questo motivo anche il luogo entra come elemento determinante della vocazione monastica. Significativa la testimonianza di p. André Emmanuel (1849-1903). All’età di sedici anni, attraversando tra Riceys e Molesmes – piccole valli solitarie e zone boscose ricche di sorgenti – ebbe tutto a un tratto l’idea, anzi, quasi una concreta visione, di un monastero e di se stesso monaco. Questa percezione interiore gli rimase viva per anni, mentre pur cercava di realizzare altri progetti di vita: «Avrei voluto essere cappuccino, missionario… Comunque, tutti questi progetti andarono in fumo perché provenivano da me, ma l’idea del monaco rimase, perché veniva da Dio» (cit. in AAVv. Alla riscoperta di un carisma. Saggi di spiritualità e storia olivetana, Monte Oliveto Maggiore 1995, 422).

    5. Discernimento della vocazione monastica e formazione.

    Nel discernimento delle vocazioni questo è dunque il punto capitale: capire se l’ispirazione viene da Dio. Non sono le attitudini personali, i doni di natura a rendere idonei alla vita monastica ma le disposizioni interiori ad affidarsi al disegno di Dio e all’aiuto della sua grazia, grazia che egli offre in vario modo, nell’ambito ecclesiale, nel contesto preciso e concreto della comunità che Egli stesso per ognuno ha scelto e indicato. Lì il Signore mette il chiamato alla prova per formarlo, e il primo indispensabile lavoro è quello della spogliazione. La chiamata, infatti, sta all’inizio di un lungo cammino che deve condurre alla «conoscenza di Dio» attraverso la liberazione da tutte le false idee che si hanno – senza rendersene conto – su di sé, sugli altri, su Dio stesso. Ne consegue un travaglio spesso vissuto come lacerazione e morte, che però ben presto si rivela fonte di rigenerazione e di crescita in interiorità. Ad evitare ogni illusione o scoraggiamento, questo cammino viene fatto sotto la guida del padre spirituale, dell’abbate – che in monastero tiene «le veci di Cristo» (cf Regula Benedicti [RB] 2) – e con il sostegno della comunità (cf. RB 1). Poiché una vera vocazione monastica si presenta come esigenza di radicalità nel dono di sé a Dio per tutti, si rivela fuori posto l’eccessiva preoccupazione di sé e il desiderio ansioso di «realizzarsi», di non perdere la propria personalità. Questo atteggiamento costituisce un serio ostacolo al cammino verso la libertà, poiché oppone una resistenza allo Spirito Santo. Ciò rende evidente la necessità dell’ascesi, della lotta contro le passioni, della vigilanza del cuore e soprattutto della filiale e totale apertura del cuore al padre – o alla madre – del monastero che – quale sapiente medico e buon pastore (cf. RB 2.64.27.28) – verifica la coscienza del discepolo, ne cura le ferite, segnala i pericoli, le tentazioni che si possono incontrare lungo il cammino. Presupposto fondamentale per una autentica maturazione nella vita monastica è quindi un profondo atteggiamento di umiltà e di fede, che si concretizza nella sottomissione alla Parola di Dio e alle mediazioni umane, la disposizione all’ascolto o all’obbedienza favorisce una maggiore attenzione al Signore e a chi parla nel suo nome, anziché ai propri pensieri o sentimenti, perciò fu spazio alla vita dell’uomo interiore, fa nascere e crescere a poco a poco il monaco che, al momento della chiamata, era in embrione. È evidente l’importanza che assume nella vita monastica la relazione che i monaci instaurano con il loro abbate, nel quale non vedono un «Superiore», ma un padre: si tratta di una relazione filiale improntata a quella di Cristo verso l’eterno Padre, tutta permeata di venerazione e amore. Da essa scaturisce anche una capacità di nuovi rapporti umani, di carità sincera e accoglienza dei fratelli e delle sorelle, al di là di ogni possibile discriminazione, nella disposizione a dare la vita gli uni per gli altri, concretizzando tale slancio di carità nel quotidiano reciproco servizio, soprattutto nel sopportare con instancabile pazienza le infermità fisiche e morali di ciascuno e gareggiare nell’onorarsi e obbedirsi a vicenda per formare, in Cristo, un cuor solo e un anima sola (cf, RB 63.72).

    6. Voti monastici.

    Benché varie possano essere le forme di vita monastica – anche nel nostro tempo sono apparse nuove espressioni più o meno consolidato – tutte devono comunque rifarsi all’esperienza originaria del monachesimo antico., Con Benedetto il monachesimo cristiano ha trovato in occidente la sui forma tipica e durevole. Egli vuole che la professione monastica avvenga con matura consapevolezza e abbia carattere di definitività. Essa è infatti considerata un atto di culto che si inserisce nel mistero eucaristico, come partecipazione all’offerta sacrificale di Cristo, perciò deve essere compiuto con piena libertà e soprattutto con adesione totale del cuore: è l’atto più grande dell’amore. I voti monastici sono una triplice professione di fede, di speranza e di carità, essi immergono il monaco nel mistero pasquale e lo rendono un riflesso luminoso della divina koinonia trinitaria. Il voto di conversione di vita – che comprende castità, povertà, umiltà – è una professione di speranza, poiché tutto quello che il monaco abbandona, lo lascia in vista di ciò che lo attende: Dio stesso, che diventa già il suo tutto. Il voto di obbedienza, lega indissolubilmente il monaco al Signore con un «sì» che è consenso pieno alla sua santa volontà. È un vincolo d’amore in risposta a Colui che ci ha amato per primo, fin dall’eternità. Vivendo con fedeltà i suoi voti, il monaco raggiunge la piena libertà ed esprime la gioia della sua totale appartenenza al Signore.

    7. Segno escatologico e presenza nella storia.

    La vocazione monastica è particolarmente chiamata a risplendere, nella Chiesa o nel mondo, come vita pasquale, come segno di risurrezione. La vita dei monaci – quando è santa come lo deve essere – evangelizza semplicemente con l’essere già tutta orientata al Cielo, al fine di ogni vita umana. Quella che il beato cardinale-monaco A. Ildefonso Schuster chiamava la «devozione al Cielo» non è un atteggiamento pietistico e tanto meno di evasione, ma un rendere concreto quanto san Paolo esprime nella lettera ai Romani circa il travaglio e la santificazione del cosmo che Cristo ha redento. I monaci – diceva un antico Padre – sono coloro che vivono sulla terra consapevoli di avere tutti i loro «affari in cielo». Perciò pur vivendo con realismo nel presente fanno in modo che tutto porti frutto per l’eternità, che tutto dia gloria a Dio: ut in omnibus glorificetur Deus (l Pt 4,ll; cf RB 57,9). Questa è, si può dire, la sigla del monachesimo. In questa prospettiva anche l’ascesi più austera si illumina di gioia e ogni umana angoscia fiorisce in speranza. La ricerca appassionata del Signore fa sentire soave il giogo e leggero il peso della sequela di Cristo (cf. Mt 11,28-30) e «si corre con ineffabile dolcezza di amore sulla via che conduce a Dio» (cf RB Prol. 49), via che si dilata nel cuore quando è ricolmo di Spirito Santo. «Pneumatoforoi» sono infatti chiamati i monaci: uomini e donne spirituali che vivono totalmente sotto il soffio dello Spirito dal quale sono dolcemente e vigorosamente sospinti su vie tanto ardue quanto mirabili. Essere veri monaci equivale perciò ad essere testimoni, autentici successori dei martiri. È la conseguenza ovvia della radicalità di questa vocazione di apparente inutilità e insignificanza per una società costruita sulla dinamica del prestigio e dell’efficienza, e perciò carica di tensioni aggressive. Se ogni cristiano è chiamato a conformarsi a Cristo, i monaci a maggior ragione devono riflettere la bellezza spirituale, quali icone più somiglianti, come ama esprimersi la Chiesa d’Oriente. Bellezza che è semplicità, umiltà e mitezza di cuore, rispetto e benevolenza verso ogni creatura, vedendo in tutte l’impronta del Creatore Il carisma specifico del monachesimo, che consiste essenzialmente nell’affermare il primato di Dio e quindi della dimensione trascendente della persona, non pone tuttavia i monaci fuori della storia. Essi sono invece «presentissimi» a tutte le vicende umane e ai grandi problemi che in ogni epoca travagliano i popoli. Vi sono presenti nel modo loro proprio, anzitutto con la preghiera, resa efficace dalla santità, dall’amore che li crocifigge al mondo stesso per salvarlo (cf. Gal 6,14). Lo hanno dimostrato recentemente i sette monaci trappisti di Notre Dame d’Atlas in Algeria, sgozzati come agnelli da estremisti islamici. Davvero senza retorica il cardinale Lustiger, celebrando in Notre Dame a Parigi le loro esequie, poteva dire che «avevano accettato in anticipo di dare la loro vita per essere testimoni dell’Amore crocifisso», e questo nell’umile consapevolezza di non essere superiori agli altri, quindi di associare la loro morte «a tante altre ugualmente violente lasciate nell’indifferenza e nell’anonimato». Così, infatti, lasciava scritto il priore p. Christhian de Chergé nel suo testamento: «La mia vita non ha prezzo più alto di un’altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra prevalere nel mondo e anche di quello che mi può colpire alla cieca (…)». Sì, fino a quello che alzerà la mano per ucciderlo, l’ «amico dell’ultimo momento», per il quale gli sgorga dal cuore non solo il perdono, ma anche un «grazie» pieno di gioia soprannaturale, nella speranza di ritrovarlo nella casa dell’unico Padre dove entriamo tutti come ladroni beati perché perdonati. Proprio in questa profonda umiltà che lo fa sedere come e con Gesù Cristo alla mensa dei peccatori. consiste la bellezza interiore dei monaci, i kalogeroi, i «bellissimi anziani» resi tali da quella sapienza del cuore, sapientia cordis, che coincide con la stoltezza della croce, stultitia crucis.

  • 14 Feb

    L’amore più forte della morte

    Lectio dal Cantico dei Cantici 8,5-7

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino” (Ct 1,1). I padri per descrivere lo Spirito usano talvolta l’immagine del “bacio”. Lo Spirito è il bacio che il Padre dona al Figlio generandolo eternamente. Questo bacio è amore fatto persona.

    Chiediamo allo Spirito all’inizio del nostro ascolto, di prenderci per mano, di introdurci per sua grazia a contemplare il suo “eterno bacio”. Sia lui ad aprirci alla comprensione della bellezza della verginità come riflesso e testimonianza dell’amore purissimo che da lui stesso promana da sempre. Lo invochiamo con le parole di Paolo VI: “Vieni, o Spirito santo, dà a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi i doni da te ricevuti con la gioia di essere cristiani, un cuore nuovo, sempre giovane e lieto. Vieni, o Spirito santo e dà a noi un cuore puro che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare. Vieni, o Spirito Santo, e dà a noi un cuore grande, aperto alla tua parola ispiratrice, chiuso ad ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande e forte, beato di palpitare col cuor di Dio”.

    Lectio

    Chi è colei che sale dal deserto?”. Nel v. 5 è il coro costituito dalle “figlie di Gerusalemme” (8,4), che, intravedendo di lontano la fidanzata, la saluta. Essa, sorridendo, sta tornando dai campi appoggiata dolcemente al suo amato, dopo un segreto convegno d’amore.

    I due provengono dal  “deserto”. Probabilmente è da intendersi con i campi disabitati e silenziosi che stanno fuori delle mura della città, luogo ideale per un incontro appartato e indisturbato, ma potrebbe essere anche interpretato come una immagine: il deserto infatti è il luogo simbolico in cui due innamorati possono sperimentare sino in fondo la gioia del loro stare insieme di fronte al quale tutto il resto del mondo scompare, come fosse appunto un…deserto. Questo è il luogo appartato in cui possono concentrarsi esclusivamente, come è tipico per gli innamorati, sul loro essere insieme fatto di silenzi indisturbati e di parole segrete.

    La ragazza è “appoggiata al suo diletto”: il verbo esprime l’immagine colma di tenerezza di chi sta camminando tenendosi stretto all’altro, gomito a gomito. L’amore teme di perdere, vuole tenere stretto e non lasciare mai, esige che si cammini a fianco misurando il passo sul passo dell’altro e che se ne lasci guidare.

    Dopo questa introduzione del coro interviene il fidanzato. Egli ha risvegliato la fidanzata che riposava sotto il melo. Il melo cui si accenna è una immagine dell’uomo stesso (“Come un melo tra gli alberi del bosco il mio diletto fra i giovani”  2,3) e lo “svegliarsi” alla sua ombra sta a significare l’accendersi del fuoco dell’amore, e rappresenta un riferimento discreto al consumarsi della loro unione visto come un “risveglio”, quasi che l’atto amoroso rappresenti una sorta di apertura nuova al mondo, una scoperta che colma di gioia e di stupore come lo è appunto il passaggio dal sonno al risveglio.

    Il giovane continua indicando un luogo: “laggiù ti ha concepito tua madre”. Sono espressioni non del tutto chiare. Probabilmente egli allude al fatto che la casa della madre della ragazza è la stessa casa in cui lui andrà ad abitare con la ragazza (“Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore” dice la giovane in 8,2). Lì anche la madre ha provato le stesse gioie che sono e saranno della figlia.

    Terminate le parole del giovane, ecco prendere la parola la ragazza. In queste poche frasi l’esperienza narrata nel piccolo libro del Cantico raggiunge qui il suo vertice di intensità ed è la donna a proferirle. Qui le parole amore, morte, fuoco, eternità poste sulle labbra dei due giovani dicono tutto il bisogno e la sete di verità e addirittura di trascendenza dell’unione con l’amato.

    A lui chiede un impegno che da sempre coloro che si amano si domandano vicendevolmente: che il loro amore sia eterno, indistruttibile, e abbia il potere di sconfiggere tutto ciò che potrebbe mettergli la terribile parola fine. Questa richiesta di eternità, di indissolubilità, è iscritta nel cuore che ama, ne è caratteristica peculiare, gli è connaturale.

    Viene usata la curiosa immagine del “sigillo”. “Mettimi come sigillo sul tuo cuore… sul tuo braccio”. Per comprendere l’immagine occorre riandare all’uso antico da parte dei notabili di portare sempre con sé, pronto all’uso, il sigillo di autentificazione. Esso veniva appeso al collo con una preziosa catenella oppure portato al dito come anello. Anche la Legge santa, la Thorah, ha questa prerogativa: deve essere legata al braccio, posta sulla fronte, posta sugli stipiti delle porte. Essa infatti è sigillo e perenne memoria dell’alleanza di Jhwh con la sua sposa Israele: Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi” (Dt 11,18).

    Il sigillo, con il quale la donna si identifica, deve essere posto anzitutto sul “cuore” dell’uomo. Il cuore per l’antropologia biblica è sede dell’intelligenza e dell’affettività. E’ il cuore perciò che regola pensieri e sentimenti ed è quindi sede dell’amore. Essere posta “sul cuore” significa che la donna chiede di essere oggetto di tutti i pensieri e affetti dell’uomo. Ma il sigillo è posto altresì “sul braccio”, al quale la ragazza è stretta. Il braccio sta ad indicare tutta l’attività dell’uomo, il suo lavoro e le varie occupazioni: la donna chiedendo di essere sul suo “braccio” sta domandando di essere presente all’amato in ogni istante, nel suo lavoro e nelle varie attività, di non essere mai dimenticata nonostante mille occupazioni.

    Dopo l’immagine del “sigillo” la donna sottolinea tre caratteristiche peculiari dell’amore: la sua insaziabilità, la sua indistruttibilità, la sua preziosità.

    L’amore vero possiede un’intensità “insaziabile”. Amore chiama amore in misura sempre più grande, infinita: il cuore dell’uomo non ne ha mai a sufficienza. In esso vi è un richiamo infinito, misterioso,  colmo di nostalgia e di attesa di un di più. Per descrivere questa “insaziabilità” viene usata l’immagine ardita dell’amore “insaziabile” come la morte, e della sua fiamma che non è mai sazia come lo Scheol. La morte non risparmia nessuno, non è mai sazia della sua opera distruttrice, e così anche gli inferi, lo Scheol, che inghiotte all’infinito i morti che vi discendono: esso non dice mai “Basta!” (cfr Pr 30,15-16). L’amore è perciò esigente come la morte stessa e il terribile Scheol.

    Un archetipo per descrivere l’ardore dell’amore è il fuoco che riscalda e consuma: “Le sue vampe sono vampe di fuoco”. L’amore è fiamma insaziabile che non si spegne: scalda il cuore e consuma l’amante di desiderio. La donna ricorda allo sposo queste fiamme indomabili, con un riferimento ulteriore a quelle fiamme potentissime, misteriose e quasi sacre che sono i fulmini, le “fiamme di Jah” (lett).

    Ma se l’amore è questo fuoco inestinguibile ciò significa che nulla lo potrà mai spegnere. Esso è indistruttibile. Le “grandi acque” fanno riferimento agli impetuosi torrenti impetuosi che travolgono tutto ciò che incontrano lungo il loro scorrere. Niente può separare due persone che si amano con un amore voluto da Dio. Se le “grandi acque” non possono travolgere l’amore significa che questo è saldo e non verrà mai meno. Questa solidità-fedeltà dell’amore è per la Scrittura caratteristica peculiare dell’amore di Jhwh per la sua sposa Israele.

    Infine l’amore vero è realtà di un valore inestimabile perché unico. Esso non si può mercanteggiare a nessun prezzo. L’amore che si vorrebbe comprare anche con le più grandi ricchezze sarebbe solo degno di disprezzo in quanto falso: esso per natura esige mutua gratuità. La dote potrebbe sì conquistare la mano ma mai il cuore. Il denaro rimarrà sempre impotente davanti al valore ineguagliabile dell’amore.

    Collatio

    Il Cantico dei Cantici è un inno all’amore e alle sue gioie. Potrebbe meravigliarci che un testo, in cui si accenna solo una volta e indirettamente a Dio, rientri nel canone dei libri rivelati. Eppure teniamo presente che tra i libri della Scrittura esso è stato il più commentato e meditato, soprattutto nell’ambiente monastico e dagli autori mistici. Vi si intuisce una ricchezza di esperienza straordinaria per “raccontare” la relazione di amore di Dio con l’umanità, di Cristo per la sua Chiesa, dell’anima per lo Sposo divino. Accostare il testo del Cantico dei Cantici al tema della verginità, sposalizio dell’anima con Dio, non dovrebbe perciò apparire poi così stridente.

    L’uso della parola “verginità” oggi non è così scontato. Infatti da una ventina d’anni, e anche nei documenti ufficiali, si preferisce purtroppo usare il termine più giuridico di “celibato”. Ma dobbiamo riconoscere che questo non ha la valenza totalizzante e la profondità che invece possiede il termine “verginità”. Questo a differenza dell’altro implica e coinvolge tutte le dimensioni dell’essere umano: corpo, mente, cuore, volontà e dunque va al di là del mero dato “fisiologico”, giuridico.

    Questa totalità di coinvolgimento che è richiesta nella verginità è la stessa totalità che viene vissuta nel rapporto amoroso ed esclusivo tra marito e moglie. La consacrazione nella verginità in questo senso è sicuramente il più “totalitario” tra gli impegni: ci si consegna al Signore che ci chiama ad una relazione particolare con tutto noi stessi, non trattenendo nulla.

    Se le “vampe di fuoco” dell’amore di cui parla la sposa nel Cantico hanno la capacità e la forza di incendiare tutto non risparmiando nulla, ciò dovrebbe verificarsi anche nella verginità: le “vampe di fuoco” dell’amore con cui Dio ci ama dovrebbero impregnare totalmente il consacrato senza nulla risparmiare. I mistici usano molto l’immagine dell’ “essere inceneriti” dall’amore di Dio; scriveva ad esempio san Paolo della Croce: “La lingua dell’amore è il cuore che brucia, si liquefà, si consuma, s’incenerisce in olocausto al sommo Bene” (Lettere 1,485).

    Nel libro del Cantico, e anche nel nostro testo, assume una grande rilevanza non solo la portata affettivo-spirituale dell’esperienza amorosa, ma anche il suo risvolto fisico, e l’autore sacro non teme di percorrere quest’aspetto in modo discreto facendo ricorso ad immagini velatamente erotiche per esprimere l’intensità fisica coinvolgente dell’amore. La corporeità viene così riconosciuta e accolta come dono del Creatore (le fiamme dell’amore non sono forse le “fiamme di Jah”?), la sessualità è cosa “buona”: è il Creatore che ha posto nel cuore dell’uomo e della donna la capacità e il desiderio di potersi unire in una sola cosa nel fuoco dell’amore. Il Cantico è perciò un inno al Creatore per il dono del corpo attraverso il quale l’uomo e la donna possono sperimentare il loro essere fatti per la comunione e la relazione.

    Il teologo Von Balthasar scriveva: “E’ necessario entrare con Cristo nel corpo, perché attraverso il corpo passa lo Spirito”. E’ un’affermazione forte che dovrebbe farci riflettere. In quanto consacrati siamo sempre tentati di interpretare la verginità in modo forse un po’ troppo angelico, disincarnato. Si vorrebbe accantonare, platonicamente, il corpo quasi fosse un ostacolo, uno scomodo e intrigante sovrappiù nel nostro cammino di consacrazione a Dio. La verginità, alla luce della rivelazione biblica, invece ci riporta fortemente ad un dato di fatto imprescindibile: essa abbraccia non solo le dimensioni spirituali, psicologiche dell’uomo e della donna ma coinvolge totalmente anche quelle fisiche. E’ il nostro corpo sessuato che viene consacrato; la consacrazione, verrebbe quasi da dire, possiede una “base fisica”. Questo significa lasciare entrare Cristo nella nostra carne, lasciare che sia il suo Spirito a prenderne totalmente possesso e a farne sua dimora: siamo “tempio dello Spirito che abita in noi” (cfr 1Cor 6,19). Nella verginità siamo chiamati a “glorificare Dio nel nostro corpo” (cfr 1Cor 6,12), dove la “gloria di Dio” sta a indicare il suo abitare in noi e l’avvolgerci totalmente con la sua presenza. Tutto questo implica, per usare una straordinaria espressione del poeta francese Paul Claudel, un “evangelizzare la carne”.

    Il corpo verginale diviene luogo di comunione con Dio e con i fratelli e le sorelle. Il vergine “evangelizzato nella sua carne” è uomo e donna che vive l’amore: il suo cuore è consegnato interamente a Dio in modo esclusivo, ma in Dio egli diviene capace di incontro e di dono per tutti. Nella persona vergine la capacità di amare non viene perciò spenta, annientata, ma in certo qual modo incrementata all’ennesima potenza. Nell’enciclica “Redemptor Hominis” Giovanni Paolo II ricorda che: “L’uomo non può vivere meglio senza l’amore. Per se stesso resta un essere incomprensibile, la sua vita priva di significato se non riceve la rivelazione dell’amore, se non incontra l’amore, se non ne fa esperienza e se non lo fa suo, e se non vi partecipa fortemente”. Il consacrato non fa eccezione alla regola: la sua verginità è per l’amore o non avrebbe alcun significato. L’amore è l’oggetto del suo voto. Egli rinuncia certo alla relazione esclusiva e fisica del matrimonio, ma non alla capacità di amare che deve pervadere con le sue “vampe” tutto il suo essere.

    Ci si dona perciò a Dio in modo radicale, senza ambiguità o riserve (pena solo frustrazione e insoddisfazione) e questa relazione deve divenire unica ed esclusiva, “perla preziosa” di inestimabile valore. Siamo chiamati a coltivare con grande attenzione e cura il primato della relazione con Dio fatta di preghiera, ascolto, contemplazione di modo che le “grandi acque” non lo possano mai travolgere. Anche noi, come la donna del cantico, abbiamo bisogno di appartarci nel “deserto” con Dio perché se questo primato cessasse il cuore rischierebbe di “prostituirsi” pur magari rimanendo “celibi”.

    La consacrazione, come il matrimonio, non è mai una realtà già compiuta, non giunge mai alla pienezza perchè l’amore non può porre confini: così la consacrazione esige un cammino continuo di “verginizzazione” (J.M. Salvaverri), in cui, giorno dopo giorno, nella fedeltà a volte sofferta, consegniamo tutto ciò che siamo allo Sposo. Certo vi è un prezzo alto da pagare per questa fedeltà e consegna, ma non scordiamo che la stessa cosa vale anche per la relazione nel matrimonio in cui i cuori degli “sposi” sono invitati a rimanere “vergini” nella loro mutua e fedele consegna.

    In Dio quell’attesa e desiderio, che ci abita, di un amore “forte come la morte” e “insaziabile come gli inferi” è una promessa che non ci deluderà. Ma non dimentichiamo che è lui per primo che ci ama di questo amore “insaziabile”. “Ho sete!” grida Gesù dalla croce: sete di amore e sete di amare. E questo amore che si riversa gratuitamente sulla nostra vita ci trasfigura a sua immagine così che ne diveniamo “sigillo”. Un antico proverbio arabo recita: “L’amore è fuoco: ovunque sia lo vedi da lontano”: la verginità può proclamare e  testimoniare al mondo la verità dell’amore di Dio ed esserne un fuoco che si vede di lontano.

    Oratio

    Dall’alto della croce, Signore Gesù, gridi: “Ho sete!”. Hai sete insaziabile d’amore e d’amare. Le “vampe di fuoco” d’amore che divorano il tuo cuore vogliono incendiare, da quel scomodo letto nuziale, il mondo intero.

    Ma tu sai come spesso il nostro cuore è freddo e chiuso. Siamo così poveri d’amore. Restii a lasciarci incendiare da te. Ripiegati su noi stessi troppe volte dimentichiamo che il cuore è realmente vergine quando semina l’amore con cui tu ci hai amato. Stentiamo a consegnarti senza riserve il cuore: ne vorremmo trattenere un po’ per coltivare l’hobby dei nostri affetti meschini e talvolta disordinati. Abbiamo paura delle esigenze dell’amore, di una verginità che non domandi nulla se non di potersi consumare nel fuoco del donarsi fino in fondo.

    Donaci allora di inginocchiarci, con la nostra povertà e il nostro peccato, ai piedi della croce contemplando la verginità trasbordante d’amore del tuo cuore trafitto. Trafiggi con la lancia il nostro perché ne sgorghi il pentimento e la lode, il desiderio infuocato di spenderci per te e la tua gloria. Che la tua ferita d’amore purifichi in noi ogni affetto che ci distoglie da te, che ci allontana dalla passione per te, che deturpa il “sigillo” che tu hai posto sul tuo cuore e tra le tue mani trafitte e che dovrebbe portare la tua immagine perfetta di Sposo.

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