• 16 Gen

    IL CRISTIANESIMO NON E’ UN LIBRO

    di A. Maggi

    Per più di quindici secoli la dottrina della chiesa cattolica si e basata sulla Vulgata, la traduzione latina del Nuovo Testamento voluta da papa Damaso [1]. Quest’opera, per quanto ammirevole e straordinaria, non fu pero esente da errori. Le imprecisioni e gli sbagli nella traduzione e nell’interpretazione del testo originale greco determinarono, a volte tragicamente, la storia della chiesa.

    Errore fatale

    Uno degli errori di traduzione che influì negativamente nella teologia della chiesa, riguarda il discorso di Gesù sul “Buon Pastore” (Gv 10,11-16). Il traduttore confuse il termine ovile della prima parte del versetto 16 (“E ho altre pecore che non provengono da questo ovile [aules]” con il termine gregge della seconda parte (“E saranno un solo gregge [poimnê], un solo pastore”), e anziché tradurre il termine greco poimnê (gregge) con il latino grex, lo rese con ovile: “E saranno un solo ovile, un solo pastore” [2].

    Mentre il testo di Giovanni indicava che per Gesù era finita l’epoca dei recinti, per quanto sacri potessero essere, e per questo liberava le pecore dall’ovile per formare un unico gregge, secondo la traduzione latina Gesù liberava si le pecore dall’ovile del giudaismo, ma per poi rinchiuderle nuovamente nell’unico e definitivo ovile, quello della chiesa cattolica.

    Forte dell’insegnamento del suo Signore, per secoli la chiesa pretese di essere l’unico ovile voluto dal Cristo e formulo l’efficace slogan “Extra Ecclesiam nulla salus”, sancendo che “fuori della chiesa non esiste salvezza” [3]. la chiesa cattolica pertanto considerò dannati per sempre tutti i cristiani delle chiese ortodosse e protestanti, insieme agli ebrei, ai musulmani e ai credenti delle altre religioni: in pratica tre quarti dell’umanità.

    Nel secolo scorso il ritorno al testo originale greco del Nuovo Testamento, portò a una maggiore comprensione dell’insegnamento del Cristo e il Concilio Vaticano II, dichiarò che “Dio, come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvi. Infatti, quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna” [4]. Con questa importante dichiarazione, il Concilio ammise che la salvezza esisteva non solo anche nelle altre confessioni cristiane e nelle altre religioni, ma persino tra i non credenti che ascoltano la loro coscienza.

    Non potendo più rivendicare l’esclusivo primato della salvezza, la chiesa si trova ora a dover rispondere all’interrogativo: Perché Cristo? Se fino al secolo scorso si era di fatto obbligati a essere battezzati cristiani e cattolici al fine di salvarsi, ora le nuove generazioni sanno che anche nell’ebraismo e nell’islamismo, solo per citare le due religioni che sembrano essere le più affini al cristianesimo, e possibile salvarsi. Perche Cristo e non Mose o Maometto?

    Tutte le religioni sembrano essere uguali, almeno quelle monoteiste, che invitano a credere in un unico Dio e ogni religione, anche le non monoteiste, insegnano il timore e la preghiera verso Dio, l’amore per il prossimo, l’esercizio della carità e il rispetto per gli altri.

    Se è dunque vero che tutte le religioni conducono a Dio e quindi alla salvezza, perché mai si dovrebbe scegliere proprio Gesù e il suo impegnativo messaggio? E se si può scegliere, quali sono i criteri che spingono a preferire una religione piuttosto che un’altra, se in fondo sono tutte uguali?

    La novità di Gesù

    E diventato usuale definire le religioni monoteiste come le “Religioni del Libro”, in quanto queste si rifanno a un testo sacro che si ritiene rivelato da Dio stesso. Questo Libro, contenente la volontà divina, è la norma di comportamento per ogni generazione di credenti, anche se mutano i contesti sociali e le situazioni nelle quali gli uomini si trovano a vivere. Il Libro e la parola definitiva e immutabile data da Dio millenni o secoli fa ai bisogni e agli interrogativi dell’uomo, anche quando questi non riceve una risposta razionale [5].

    E possibile definire “religione del Libro” anche il cristianesimo? La novità di Gesù è che il Cristo non ha posto un Libro quale codice di comportamento dei credenti, ma l’uomo. Non è un Libro rivelato o una Legge ritenuta divina, ciò che il credente deve osservare, ma il bene dell’uomo, che per il Cristo e al di sopra di ogni norma o precetto religioso creato dagli uomini.

    Mentre nella religione conta ciò che l’uomo fa per Dio, il cristianesimo nasce da ciò che Dio fa per gli uomini [6]. Se nella religione è importante il sacrificio, nella fede lo e l’amore [7]. Quando ciò non e tenuto presente si rischia di disonorare l’uomo per onorare Dio, come fa il sacerdote protagonista della Parabola del Samaritano (Lc 10,30-37) il quale trovandosi di fronte a un ferito, non ha alcun dubbio su quel che deve fare: il rispetto del Libro divino e per lui più importante della sofferenza del moribondo. Per rispettare la Legge, che proibiva a un sacerdote di toccare un ferito (Nm 19,16), sacrifica l’uomo.

    Per Gesù non basta che un testo sia considerato sacro, occorre anche che l’uomo venga considerato sacro. Per questo mentre nelle religioni del Libro si sacralizza Dio, Gesù, Parola di Dio, ha reso sacro l’uomo. Quella di Gesù pertanto non può essere definita una religione del Libro [8]. Se il bene dell’uomo non viene messo al primo posto come valore sacro, non solo i testi dell’Antico Testamento, ma lo stesso vangelo, quando non e più a servizio del bene e della felicita degli uomini bensì strumento di potere per sottometterli, e portatore di morte anziché di vita [9].

    Testo vivente

    Coscienti di trasmettere un messaggio che comunica vita, gli evangelisti non hanno voluto tramandare un testo definitivo e immutabile dell’insegnamento del Signore, ma quello che per almeno i primi quattro secoli del cristianesimo e stato considerato un testo vivente. Ogni comunità cristiana si sentiva autorizzata, in base alla propria esperienza, di apportare quelle modifiche e quegli arricchimenti che riteneva necessari al testo evangelico [10].

    Un esempio evidente di arricchimento del testo evangelico è la fine del cap. 14 di Giovanni, dove al termine del lungo discorso seguito alla lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli: “Alzatevi, andiamo via di qui” (Gv 14,31). Poi, anziché il compimento dell’invito di Gesù, il Signore inizia un lungo discorso che attraversa ben tre capitoli (Gv 15-17)[11]. Queste pagine, pur non appartenendo all’estensore originale del vangelo ma a un suo redattore più tardo, esprimono la crescita dell’esperienza del Cristo vissuta dalla comunità cristiana.

    Un altro esempio di un testo, che cresce per rispondere sempre meglio alle esigenze dei credenti riguarda il tema del ripudio. Nel vangelo considerato più antico, quello di Marco, il ripudio viene escluso senza alcuna eccezione: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio verso di lei” (Mc 10,11). Nel vangelo di Matteo, nell’identico contesto di Marco, l’espressione di Gesù viene cosi modificata: “Chi ripudia la propria moglie, se non per porneia, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19,19). Il rigore espresso da Marco non aveva fatto i conti con i complessi casi che la vita poteva presentare. Per questo nella comunità di Matteo è stata posta un’eccezione al divieto del ripudio [12].

    I primi cristiani hanno compreso che non era importante la lettera del vangelo, ma il suo spirito, perché mentre “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6).

    Gesù e il Libro

    Se le comunità cristiane hanno avuto un atteggiamento di libertà creativa nei confronti dei vangeli, è perché si sono sentite in questo autorizzate da Gesù, che nell’insegnamento e nelle azioni ha messo sempre il bene dell’uomo al di sopra di ogni legge o comandamento divino [13].

    Dai vangeli emerge che ogni qualvolta si e creata una situazione di conflitto tra l’osservanza della Legge e il bene dell’uomo, Gesù non ha avuto esitazioni e ha scelto sempre il bene dell’uomo, ed è significativo che la maggior parte delle azioni e delle guarigioni operate da Gesù avvengano proprio nel giorno in cui queste non erano permesse: il sabato [14]. Infatti, tra tutti i comandamenti, il riposo del sabato era considerato il più importante, al punto che lo si riteneva osservato da Dio stesso [15]. In questo giorno la Legge proibiva di compiere qualunque attività (Es 20,8; Ger 17,21-27). L’osservanza di questo comandamento garantiva l’ubbidienza del volere di Dio, e per la sua trasgressione era prevista la pena di morte, in quanto la violazione del sabato equivaleva alla disubbidienza di tutta la Legge [16]. Per Gesù il bene dell’uomo e più importante dell’osservanza dei precetti divini, e non ha avuto alcuna esitazione a guarire le persone in giorno di sabato [17].

    Il criterio di quel che è bene e quel che è male, permesso o no, non si basa per Gesù sull’osservanza o no del Libro, ma sulla pratica dell’amore, e l’amore non conosce alcun limite che gli venga posto. Gesù non solo ha trasgredito le prescrizioni contenute nella Legge, ma ne ha relativizzato l’importanza, attribuendo a Mose e non a Dio alcune parti della stessa: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così”(Mt 19,8). Secondo la tradizione religiosa, ogni parola della Legge veniva da Dio stesso. Mose aveva avuto il semplice ruolo di esecutore della volontà di Dio, ed era inaccettabile affermare che alcune parti provenivano da Mose anziché dal Signore [18]. Per Gesù quel che e scritto nella Legge riguardo al ripudio non manifesta la volontà di Dio, ma è un cedimento alla testardaggine del popolo, e quindi non gode di alcuna autorità divina.

    Lo scontro più clamoroso tra Gesù e il Libro e stato sul tema, importantissimo per i Giudei, delle regole di purità rituali. Nel Libro del Levitico sono elencati gli animali che si possono mangiare in quanto considerati puri e quelli di cui e proibito cibarsi in quanto ritenuti immondi (Lv 11). Per Gesù la purezza o meno dell’individuo non consiste in quel che mangia, ma nelle sue azioni [19], smentendo di fatto il Levitico (“Così dichiarava puri tutti gli alimenti”, Mc 7,19).

    Il Creatore non si manifesta in un Libro, ma nella vita dell’uomo, non nei codici da osservare, ma nell’amore da accogliere; non chiede obbedienza alla Legge, ma assomiglianza al suo amore (Lc 6,35-36). Mentre la Legge non può conoscere la particolare situazione dell’individuo e la sua osservanza può essere causa di sofferenza, lo Spirito del Signore agisce in ognuno individualmente, sviluppando e potenziando quelle che sono le caratteristiche uniche e singolari di ogni individuo.

    Nei vangeli le prerogative esclusive della Legge divina, di essere fonte di vita e norma di comportamento degli uomini, vengono trasferite a Gesù. Il Cristo non promulga una Legge esterna che l’uomo deve osservare, ma comunica loro il suo stesso Spirito [20], un’energia divina interiore che rende gli uomini capaci di amare generosamente come si sentono amati (Gv 13,34).

    Per il cristiano, il codice di comportamento non riguarda una legge scritta ma l’adesione a una persona vivente: il Cristo, nuova e definitiva Scrittura per tutta l’umanità.

    Ciò appare particolarmente chiaro nel Vangelo di Giovanni nella crocifissione di Gesù. L’evangelista afferma che Pilato scrisse un cartello con la scritta “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”, e lo fissò sulla croce. Poi Giovanni specifica che il cartello “era scritto in ebraico, latino e greco”(Gv 19,19-20). L’uso di queste tre lingue, quella degli Ebrei, dei Romani e dei Greci, sta a indicare che Gesù, il Messia dei Giudei, è “il salvatore del mondo” (Gv 4,42). Le tre lingue parlate nel mondo conosciuto rimandano al tempio di Gerusalemme, dove erano collocate delle lapidi con avvisi scritti in ebraico, in latino e in greco, avvertivano i pagani di non oltrepassarle sotto pena di morte [21]. Per l’evangelista Gesù e il nuovo santuario dove splende l’amore di Dio e il cui accesso non e interdetto nessuno: avvicinarsi al Cristo non solo non provoca la morte, ma e la condizione per ricevere la vita.

    Ma i capi del popolo protestano con Pilato per la scritta posta sulla croce: “Non scrivere: Il re dei Giudei, ma: Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei” (Gv 19,21). Ad essi il Procuratore romano risponde: “Quel che ho scritto, ho scritto” (Gv 19,22). Per l’evangelista, lo scritto e ormai stato fissato e non si può più cambiare: Gesù crocefisso è la Scrittura definitiva che ogni uomo può leggere e comprendere, perchè il linguaggio dell’amore e universale. Gesù crocefisso e il nuovo Libro nel quale chi sa leggere può scoprire chi è Dio e chi è l’uomo.

    note

    [1] La Vulgata nasce dall’incarico che nel 384 Papa Damaso diede a Girolamo di rivedere il testo latino del Nuovo Testamento e di tradurre il testo ebraico dell’Antico Testamento.
    [2] “Fiet unum ovile unus pastor”.
    [3] Nel 1442, al Concilio di Firenze, decreto: “La sacrosanta chiesa romana… fermamente crede… che nessuno al di fuori della chiesa cattolica, né pagani, né ebrei né eretici o scismatici, parteciperà alla vita eterna, ma andrà al fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli” (Bulla unionis Coptorum Aethiopumque “Cantate Domino”, Decretum pro Iacobitis).
    [4] Lumen Gentium, 16.
    [5] E veramente difficile trovare la ragione per la quale mangiare la carne del maiale o della lepre rende immondo l’uomo (Lv 11,6-7), mentre e possibile cibarsi di “ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e ogni specie di grillo” (Lv 11,22). Si osservano questi divieti perche Dio l’ha detto e non per una loro comprensione razionale.
    [6] “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio” (1 Gv 4,10; Rm 8,31-32).
    [7] “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13; 12,7; Os 6,6).
    [8] Il termine greco che viene tradotto con religione, (gr. deisidaimonia) e composto dal verbo temere (gr. deido) e da dèmone (gr. daimon) e significa il timore degli dei/demoni, paura delle potenze celesti, degli spiriti maligni, superstizione, religione. Nei vangeli la parola religione non si trova, e nel Nuovo Testamento compare una sola volta, ma per indicare la religione ebraica (At 25,19). Piu che di “religione cristiana” sarebbe appropriato parlare di “fede cristiana”.
    [9] San Tommaso arriverà ad affermare, commentando il testo di Paolo “La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6), che “per lettera si deve intendere ogni legge esterna all’uomo, precetti della morale evangelica compresi, che possono uccidere se non esistesse nell’intimo la grazia sanante della fede” (I 2a q. 106 art. 2).
    [10] I cristiani, nati da una cultura greca hanno avuto di fronte al testo un atteggiamento diverso dagli ebrei, nati in una cultura orientale, per i quali ogni lettera e sacra. Furono i cristiani a introdurre la scrittura abbreviata dei “nomina sacra”, ovvero di adoperare delle abbreviazioni per i nomi sacri: invece di kyrios (Signore) scrivevano KC, e invece di theos (Dio) ΘC, ecc. Un manoscritto dell’AT nella versione greca dei Settanta puo essere attribuito con sicurezza all’ambiente cristiano o all’ebraico a seconda che vi siano usate o no tali abbreviazioni dei nomina sacra (K. Aland – B. Aland., Il testo del Nuovo Testamento¸ (Genova: Marietti, 1987, p. 84).
    [11] Se questi capitoli vengono eliminati, l’invito di Gesu di alzarsi e andare via e in sintonia con l’inizio del cap. 18: “Dette queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là del torrente Cedron” (Gv 18,1).
    [12] L’evangelista ha intenzionalmente adoperato un termine greco (porneia) che non ha un solo significato, ma si presta a un vasto ventaglio di contenuti che vanno dall’unione illegale all’adulterio, passando per la prostituzione.
    [13] La Parola di Dio si svela solo a quanti mettono il bene dell’altro al primo posto nella loro esistenza. E’ questa la verità che permette l’ascolto della voce del Signore: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Gv 18,37).
    [14] Mt 8,14-15; 12,1; Mc 2,23; 3,2; Lc 6,1; 13,14; 14,3; Gv 5,10; 9,14.
    [15] “Il creatore non lavora, tanto più questo vale per l’uomo” (Mekhilta Esodo XX; 11).
    [16] “Osserverete dunque il sabato, perché lo dovrete ritenere santo. Chi lo profanerà sarà messo a morte; chiunque in quel giorno farà qualche lavoro, sarà eliminato dal suo popolo. Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore. Chiunque farà un lavoro di sabato sarà messo a morte” (Es 31,14-15; Nm 15,32-36).
    [17]Secondo il Talmud “In sabato non si può raddrizzare una frattura. Colui che si è slogato una mano o un piede non può tenerlo in acqua fredda” (Shabbat, 22,6).
    [18] “Chi assicura che la Torah non viene dal cielo, almeno in quel testo e che Mosè e non Dio lo ha detto.. verrà sterminato in questo mondo e nel mondo a venire” (Sanhedrin B. 99°).
    [19] “Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?… Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo” (Mc 7,19.20).
    [20] Gli evangelisti sono concordi sulla missione di Gesù: battezzare in Spirito santo (Mt 3,11; Mc 1,8; Lc 3,16; Gv 1,33).
    [21] “Nessuno straniero varchi la transenna di recinzione del tempio. Chi verrà acciuffato sarà responsabile verso se stesso della morte che ne seguirà” (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, V, 5, 194).

  • 21 Dic

    LE TRE COMPONENTI DELL’ ATTENZIONE
    NELL’ESICASMO CRISTIANO

    di PAOLO OTTAVI  PSICOLOGO

     

     

    PREMESSA

    Quella che presentiamo in queste pagine è una teoria dell’attenzione. Quantunque sia stata estrapolata a partire dalle opere di autori appartenenti ad un contesto particolare —il monachesimo cristiano antico— essa rappresenta comunque una teoria generale —ovvero un sistema di coordinate all’interno del quale è possibile inquadrare e spiegare una serie di dati osservativi— e la cui bontà o meno deve venire valutata come quella di qualunque altra teoria, cioè in funzione della quantità di dati dell’esperienza che riescono a trovare un ordine e un senso all’interno di essa.

    1. CHE COS’È L’ESICASMO

    L’Esicasmo (dal greco esychía, ‘quiete’) è una corrente della spiritualità cristiano-orientale di stampo prevalentemente monastico. Ciò a cui ci riferiamo con questo termine è una realtà che copre un arco di tempo assai vasto: dal IV sec., l’epoca dei Padri del Deserto e dei grandi legislatori monastici, al 1870, data di pubblicazione dei ‘Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale’ definitivo suggello dell’Esicasmo russo.

    L’Esicasmo è pertanto quella tradizione che a diritto raccoglie l’eredità del monachesimo primitivo, quel monachesimo con una spiccata vocazione ascetica che fu dei primi Padri, a partire da s. Antonio; soltanto che traduce l’ascesi corporea in un’ascesi mentale, la lotta per il controllo del corpo in una lotta per il controllo della mente. In ciò esso assorbe anche la forte tendenza mistica propria dei grandi Padri cappadoci del IV secolo (Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa e soprattutto Evagrio Pontico), una mistica influenzata indubbiamente da neoplatonismo e origenismo, ma con notevoli tratti originali. Tra questi, la netta impronta ‘psicologica’ che distingue gli scritti già dei primi autori propriamente ‘esicasti’ —ovvero quelli della scuola del monte Sinai, fiorita tra il VI e VII sec. (Nilo, Giovanni Climaco, Esichio di Batos, Filoteo Sinaita)— e che si sviluppa e si arricchisce nelle varie tappe del suo lungo percorso storico.

    1. PERCHÉ L’ATTENZIONE? LA SFIDA DELLA PREGHIERA INCESSANTE

    Quali sono i motivi che portano dei monaci, dediti ad una vita solitaria, con un minimo di attività manuale di sostentamento, ad opere di pietà e al rispetto dei comandamenti, a sviluppare un interesse così forte, ipertrofico —spesso addirittura dismorfico rispetto alle stesse questioni teologiche— nei confronti dell’attenzione e dei modi per renderla il più possibile stabile, solida, orientata? Tutto ciò nasce dalla sfida, lanciata dai Padri, di prendere alla lettera l’esortazione di s. Paolo alla comunità di Tessalonica di «pregare incessantemente» (1Ts 5,17). Come mettere in pratica questo comandamento se non partendo da un efficace ‘allenamento’ e da una ristrutturazione profonda dell’attenzione tale da rendere possibile per un tempo indefinito l’orientamento della mente?

     a) ridefinizione della preghiera: orationis status

    Innanzi tutto essi pervengono ad una ridefinizione di preghiera: non si tratta di formule da recitare, o per lo meno non solo di questo; la preghiera è uno stato, una diàthesis, una disposizione stabile dell’individuo, un modo di essere-nel-mondo, costantemente orientato verso il polo divino. Chiameremo tale situazione esistenziale dell’individuo orante teotropismo. Ciò che qui ci interessa è vedere come essi giungono ad ottenere tale disposizione stabilmente orientata e cosa intendono con il termine prosoché, ‘attenzione’.

     b) La teoria tripartita dell’attenzione

     Tra i Padri, e in modo particolare tra quelli greci, vi è assoluta concordanza nel considerare l’attenzione quale strumento insostituibile ai fini dell’evitamento del peccato, della pratica dei comandamenti e delle virtù, della meditazione e della preghiera; in una parola, dell’intero cammino di autosviluppo cristiano, e specialmente di quello di stampo monastico. Praticamente in ogni autore esicasta troviamo un accenno o una definizione o un elogio dell’attenzione; forse il più famoso è quello scritto da Niceforo il Solitario, considerato l’‘inventore’ del metodo psicofisiologico dell’Esicasmo: Alcuni dei santi hanno detto che l’attenzione è sorveglianza della mente, altri che è custodia del cuore, altri, sobrietà, altri, quiete [esychía] della mente e altri altre cose. Ma tutte queste sono un’unica e medesima definizione […]. Impara bene che cosa è attenzione e che cosa sono le sue proprietà. Attenzione è indizio chiaro di conversione; attenzione è invocazione dell’anima, odio del mondo e ascensione a Dio; attenzione è rifiuto del peccato e ricupero della virtù; attenzione è piena, indubitabile certezza del perdono dei peccati; attenzione è principio, o meglio, fondamento di contemplazione, giacché per essa Dio si affaccia e si manifesta alla mente; attenzione è imperturbabilità della mente, o meglio, è lo stato di imperturbabilità [«il suo stato immobile»] data in premio all’anima, dalla misericordia di Dio. Attenzione è purificazione dei pensieri, tempio del ricordo di Dio, custode della sopportazione di ciò che sopravviene; attenzione è causa, insieme, di fede, speranza e carità.

    Ci sembra di poter individuare, all’interno dell’universo semantico dell’Esicasmo, tre dimensioni generali dell’attenzione, e, conseguentemente, tre grosse cornici entro le quali inquadrare la totalità delle pratiche di autosviluppo proprie del monachesimo antico.

    Definiamo queste dimensioni come:

    discernimento o attenzione al molteplice;

    concentrazione o attenzione al singolare;

    orientamento o attenzione al molteplice ed al singolare simultaneamente.

    Di ognuna di esse a) daremo una definizione, b) forniremo una panoramica delle tecniche atte a svilupparla e c) ne individueremo le finalità, o, meglio, illustreremo le caratteristiche dello stato (di coscienza) ultimo che discende da una perfetta padronanza di quel livello di attenzione.

    1. L’ATTENZIONE/DISCERNIMENTO

    a) definizione

    Come giustamente viene sottolineato nel Dizionario di Spiritualità non si deve concepire l’attenzione solo come un’immobilizzazione, quasi una fissazione, su un dato. Essa appare […] più spesso come una caccia, una ricerca, uno slancio orientato, come una direzione del pensiero, mobile ed attivo, alla ricerca di un oggetto. Dunque, l’attenzione come ‘potere di selezione’ e come ‘discernimento’, ‘discriminazione’ da operare sui dati di realtà, sugli stimoli, sui pensieri, sulle immagini mentali. Supporto decisivo nella lotta contro la tentazione, in ciò che i monaci chiamano ‘combattimento spirituale’.

    b) tecniche

    Le tecniche più usate a questo scopo vanno dal più generico esame dei pensieri, consistente in una guardia costante ad ogni movimento e ad ogni minima forma prodotta dalla mente —al fine, secondo le parole di Esichio di Batos, di «vedere subito, mentre si formano, le fantasie dei pensieri nella mente»— al più specifico discernimento della natura dei pensieri. Una formula classica degli Apoftegmi, recita a questo proposito: «Ad ogni pensiero che sorge in te, dì: ‘sei tu dei nostri o vieni dal nemico’? E certamente egli confesserà». Le tecniche più formalizzate, in quest’ambito, sono l’esame di coscienza, diffusa e praticata in ogni tradizione religiosa, e l’exagòreusis o manifestazione dei pensieri ad un padre spirituale . Quest’ultima viene spesso erroneamente identificata con la ‘confessione’ (exomológhesis), ma bisogna considerare che «oggetto dell’apertura del cuore al padre spirituale non sono tanto i peccati, quanto i moti dell’anima (ta kinemata), i pensieri (loghismoi), i fantasmi interiori che affiorano nel cuore e nell’immaginazione. Portati alla luce, oggettivati con l’aiuto di un padre spirituale, essi perdono poco per volta il loro carattere ossessionante, le illusioni vengono smascherate e si apprende, con il tempo la delicata arte del discernimento degli spiriti».

    c) finalità: portare allo scoperto ciò che è nascosto: ovvero l’arte del discernimento.

    Tutte queste metodiche brevemente esposte, e molte altre ancora, si propongono di creare e stabilizzare nel monaco uno stato continuo, incessante, di vigilanza sugli stimoli che influenzano il sistema e sulle reazioni individuali ad essi, una «stabile continuità dell’attenzione» (Esichio di Batos), stato che spesso viene indicato con il termine nepsis, ‘sobrietà’. Il fine quindi cui tendono tutte queste pratiche di sviluppo e ristrutturazione della componente discriminativa dell’attenzione è l’arte del discernimento: discernimento dei pensieri e di ogni moto della mente, la diakrisis noemáton, che per i monaci equivale alla perfetta conoscenza di sé.
    Discriminare per eliminare

    A questo punto, discriminati i pensieri, occorre individuare le tecniche più efficaci che permettono l’eliminazione degli stessi per lasciare spazio alla preghiera e alla preghiera incessante, punto di arrivo del percorso di autosviluppo dell’Esicasmo. Anche qui assistiamo alla definizione di metodiche particolari di allenamento dell’attenzione, ma in una nuova forma, quella che comunemente viene chiamata concentrazione.

    4. L’ATTENZIONE/CONCENTRAZIONE

    a) definizione

    Affermano i Padri che per raggiungere lo stato desiderato della mente senza forma né contenuti, che contraddistingue la ‘vera’ preghiera, cioè lo stato di orazione, la mente necessita tuttavia di un oggetto (una frase, un’idea o un’icona) di meditazione, un oggetto coerente col sistema di valori dell’individuo, cognitivamente ed emotivamente significativo, capace di stimolare la devozione dell’orante, unificare le facoltà mentali, e sul quale far convergere (cioè ‘concentrare’) l’attenzione. Ebbene quella che gli esicasti chiamano preghiera monologica contiene in sé tutte queste caratteristiche.

    b) tecniche: la preghiera monologica (monológhistos proseuché)

    Si tratta della ripetizione, per un tempo ed un numero di volte indefinito, di una frase breve, caratterizzata tipicamente dalla presenza a) del nome divino e b) di un’invocazione. Non è possibile qui neppure sfiorare il tema della ripetizione del Nome divino nella mistica di ogni tempo e luogo.

    In greco la formula fonologica consiste nelle parole: Kyrie Iesoû Christè, Yiè toû Theoû, eleisón me.

    Importanza del contenuto della preghiera

    Ci preme comunque fare una considerazione, forse banale ma sicuramente fondamentale, e cioè che il contenuto di un tale oggetto di meditazione non è per nulla indifferente rispetto agli esiti che ci si propone: vale a dire, su qualsiasi frase è possibile concentrare l’attenzione ed ottenerne quindi un qualche beneficio nei termini di un allenamento dell’attenzione; tuttavia alcuni oggetti mentali hanno un potere trasformativo sul sé e sulla coscienza che altre non hanno affatto, evidentemente in relazione principalmente al contenuto emozionale e quindi motivante delle stesse. Ritengo che, come notava padre Ancilli, la monologia «abbia un potere psicologico assai grande» proprio «in quanto invocazione di un nome e quindi di una presenza».  In altri termini, a mio avviso, la relazione che intercorre tra contenuto dell’invocazione e concentrazione è questa: la preghiera deve diventare evocazione mentale di una presenza significativa e motivante; solo così diviene possibile per l’orante fissarvi l’attenzione assai a lungo o addirittura ‘incessantemente’.

    Il metodo esicastico: tecniche psicofisiologiche

    La tradizione esicasta ha sviluppato una metodologia originale di preghiera centrata su una monologia, la cosiddetta preghiera di Gesù, e corredata di alcune tecniche psicofisiologiche che hanno attratto l’interesse di molti studiosi anche in virtù delle similitudini riscontrate con lo Yoga indiano. Riassumiamo brevemente i momenti essenziali del metodo, così come lo presentano i tre autori ‘classici’ dell’Esicasmo athonita del XIII-XIV sec.: Niceforo l’Esicasta, Gregorio Sinaita e lo pseudo-Simeone il Nuovo Teologo; essi descrivono un processo in più livelli che consistono nel:

    1. assunzione di una certa postura corporea: seduto su uno sgabello «alto una spanna», la testa inclinata ed il mento appoggiato sul petto, lo sguardo concentrato «in mezzo al ventre, ossia sull’ombelico (ómphalos

    2. rallentamento del ritmo della respirazione

    3. esplorazione mentale dell’interno del corpo: «cerca mentalmente dentro le tue viscere, per trovarvi il luogo del cuore, dove risiedono le facoltà dell’anima»

    4. unione della mente con il respiro e forzarla ad entrare con lui nel petto fino al «luogo del cuore». Rappresenta ciò che gli autori russi chiamano «stare con la mente nel cuore».

    c) finalità

    Qual è l’esito di una tale pratica? Secondo la tradizione, è contraddistinto tipicamente da una parte dal superamento del senso di sé La preghiera non è perfetta se l’uomo conserva coscienza di sé e si accorge di pregare» scrive G. Cassiano); dall’altra dall’assorbimento totale nell’oggetto di meditazione, tale che scompare il senso della distinzione soggetto contemplante/oggetto contemplato; come efficacemente si esprime Teofane il Recluso: Nello stato di contemplazione la mente e l’intera visione sono prigioniere di un oggetto spirituale così irresistibile che tutte le cose esteriori sono dimenticate e completamente assenti dalla coscienza. La mente e la coscienza sono a tal punto immerse nell’oggetto contemplato che è come se non le possedessimo più.

    linguaggio apofatico

    Termine di questa pratica, dunque, è l’abbandono della molteplicità ed il rifugio nell’unità transpersonale e trans-egoica mediante la concentrazione. La mente, «diviene senza principio, illimitata, sconfinata, senza figura e senza forma, si riveste di impotenza di parola, esercita il silenzio pieno di stupore, si riempie di diletto e subisce cose ineffabili». Qui si vuole rappresentare lo stato di unione apofatica che promana da una perfetta concentrazione dell’attenzione; è lo stato di hesychía, di quiete e di silenzio mentali, il vuoto (kénos) mistico, in cui alla più totale assenza di percezioni esterne e di rappresentazioni interne, fa da immancabile controparte la completa apertura della coscienza a ciò che la trascende.

    problemi

    In che misura un simile stato di coscienza (o di supercoscienza) può venire mantenuto? Quanto è stabile e quanto può durare questa condizione della mente? È questa la risposta definitiva al precetto di pregare incessantemente? Sembrerebbe non esserci alternativa: o l’assorbimento contemplativo, massimamente concentrato, in stato di esychía, oppure la distrazione nell’effimero.
    Ma c’è una terza via, in cui l’individuo mantiene il legame con la dimensione ‘altra’ che ha stretto durante la preghiera e la contemplazione; è un legame che orienta, che getta un solido ponte fra l’umano ed il numinoso, fra il finito e l’infinito. E, di nuovo, questa terza dimensione corrisponde ad un diverso livello di attenzione e ad una diversa modalità di esercitarla per fini autotrasformativi.

     

    1. L’ATTENZIONE/ORIENTAMENTO

    a) definizione

    Circa un secolo fa William James notava un fatto che è stato trascurato da molti e per molto tempo, cioè che l’attività umana non è tutta guidata puntualmente dalla coscienza attentiva, ma anche dalla stimolazione ambientale. È ciò che succede quando, ad esempio, guidando la nostra automobile, ci capita di essere totalmente assorti in un pensiero, in un ricordo o in una fantasia. L’esperienza comune ci insegna che se la strada che stiamo percorrendo ci è familiare, il percorso noto, riusciamo a raggiungere la nostra meta. Come può accadere che un compito così complesso come quello di guidare —che comporta una notevole quantità di azioni, ognuna delle quali richiederebbe di per sé un alto livello attenzione— possa venire eseguito senza prestargli alcuna —oppure un minimo— di attenzione? Certamente, un ruolo importante viene svolto dall’automatizzazione dei movimenti e delle procedure che intervengono nella guida del veicolo, ma rimane il problema del seguire una direzione, una rotta, avendo la mente completamente assorta altrove. È proprio qui che rileviamo l’importanza dell’intuizione di James: l’individuo è in grado di utilizzare la stimolazione ambientale (strade, semafori, curve, palazzi, ecc.) come una sorta di attenzione ausiliare, che gli permette di orientarsi in un territorio (conosciuto) e di raggiungere una meta pur non fruendo dell’attenzione cosciente, quest’ultima temporaneamente impegnata in un compito interno.Se, come abbiamo visto, questa attenzione ausiliare fornita dall’ambiente permette evidentemente un’economizzazione ed al tempo stesso un’ottimizzazione delle risorse attentive, perché allora non potenziarla mediante un’apposita tecnologia? Per i monaci, peraltro, ciò significherebbe uscire dall’impasse costituito dal problema, cui accennavo prima, del ritorno dello spirituale alla vita di ogni giorno, con le sue occupazioni, gli incontri, le molteplici relazioni. Come giustamente nota il padre Špidlík, gli esicasti, per la loro vocazione specifica, non intendevano ritornare nella vita comune. Eppure la PREGHIERA DI GESÙ di per sé rende possibile questo ritorno nel mondo. Non è un puro caso che il suo propagatore divenne un «pellegrino russo». La vita di questi stranniki significa da una parte un distacco continuo da tutti e da tutto; d’altra parte, però, essa comporta continue novità e contatti del tutto inaspettati. Ma tutte le impressioni nuove vengono avvertite e accettate con una disposizione interiore fissa, prodotta dalla giaculatoria che si ripete sempre e che accompagna ogni incontro.

    b) strumenti: preghiera di Gesù

    Vediamo dunque che la pratica tradizionale della PREGHIERA DI GESÙ rende quest’ultima particolarmente atta ad interagire con le attività della vita quotidiana. La tecnica da utilizzare, in questo contesto, non sarà più quella, descritta in precedenza, associata alle tecniche psicofisiologiche. Là, infatti, si prescriveva l’isolamento e la concentrazione assoluti. Qui, invece, il metodo sarà di tipo associativo, come suggerisce l’Abate Filemone (IV sec.): Abbi dunque questo sempre nel tuo cuore: sia che mangi, sia che beva, sia che ti trovi in compagnia di qualcuno, sia fuori di cella, sia per strada, non ti scordare di fare questa preghiera con mente sobria e intelletto stabile […] per adempiere il detto apostolico che prescrive: pregate incessantemente (1Ts 5,17). Fa’ attenzione, dunque, con cura e custodisci il tuo cuore, che non accolga pensieri cattivi o, in qualche modo, vani e inutili; ma sempre, quando dormi e quando ti alzi, quando mangi e quando bevi o sei in compagnia, in segreto, mentalmente, il tuo cuore ora mediti i salmi ora preghi: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me.

    La tradizione successiva preciserà che quello che bisogna fare, piuttosto che evitare gli stimoli esterni come distrazioni, è, al contrario, utilizzarli come segnali da associare alla ripetizione della giaculatoria.

    Il ricordo di Dio

    Preghiera incessante non significa solo ‘giaculatoria incessante’. Scrive Evagrio Pontico: «Le ore della tua giornata saranno: l’ora della lettura, l’ora dell’ufficio, l’ora della preghiera; e per tutta la vita, il ricordo di Dio». Il tema del ricordo di Dio (mnéme Theoú) è, forse, il più ricorrente fra gli autori di cui ci occupiamo; tutti ne scrivono, da Gregorio di Nazianzo a Simeone il Nuovo Teologo, dallo pseudo-Macario a Gregorio Sinaita. Ma la teoria più originale riguardo alla memoria Dei la troviamo nell’opera di Basilio Magno: Che voi mangiate, beviate, qualunque cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio. Sei seduto a tavola? Prega. Portando il pane alla bocca, rendi grazie a Colui che te l’ha donato. Se prendi del vino per rinvigorire il tuo corpo indebolito, ricordati di Colui che ti ha fatto questo dono […]. La fame è passata? Che il ricordo del Benefattore non passi. Quando ti metti il vestito ricordati di Colui che te l’ha dato. Quando ti avvolgi nel mantello, accresci il tuo amore per Dio che ti ha provvisto di abiti adeguati per l’inverno come per l’estate […]. La giornata volge al termine? Ricordati di Colui che ci ha dato il sole per compiere il nostro lavoro diurno e che ha messo a nostra disposizione il fuoco per illuminarci la notte e aiutarci nelle altre necessità della vita. […] Quando levi lo sguardo verso la bellezza del cielo stellato, prega il Signore delle cose visibili, adora l’artista che nella sua saggezza ha creato l’universo. Quando vedi tutta la natura animale immersa nel sonno, adora di nuovo chi, per mezzo del sonno, ci libera […] dalla catena delle fatiche, e con un po’ di riposo ricostituisce il vigore delle nostre forze. […] Così, prega senza posa; non si tratta di compiere la preghiera con parole incessanti, ma di unirti a Dio con tutto l’atteggiamento della tua vita, e tutta la tua vita sarà una preghiera continua .

    Qui Basilio sembrerebbe raccomandare un compito ancora più oneroso rispetto alla concentrazione sulla monologia; un compito che richiede un doppio sforzo di attenzione —a ciò che si sta compiendo e a Dio— una sovrapposizione permanente di discernimento e concentrazione. «Quale sistema nervoso umano può sostenere a lungo questa tensione perpetua?» si domanda I. Hausherr, dal momento che Basilio non ammette alcuna restrizione o alleggerimento. Tuttavia, in realtà «il ricordo di Dio consiste in ben altro che in un pensiero giustapposto alla nostra azione. È qualcosa che penetra, influenza, dirige e determina l’attività stessa».
    Per gli esicasti, come per tutti i mistici di ogni tempo e luogo, «Dio è presente in tutto ciò che esiste come causa della sua esistenza. Ogni realtà è quindi teofania», ogni realtà è in grado di suscitare il senso vivo e concreto della presenza di Dio, espressione, quest’ultima, che, pur non rientrando nel vocabolario proprio dell’Esicasmo, è assai vicina alla concezione basiliana della memoria Dei: La PRESENZA DI DIO costituisce l’essenza di ogni vera preghiera: è la preghiera stessa diffusa e virtualmente operante in tutta la vita. Ai momenti di pura preghiera, di ritiro, di silenzio e di arresto totale di ogni attività terrena segue, nella vita di un cristiano impegnato, la permanenza dello stato di preghiera durante tutte le sue rimanenti attività umane. La PRESENZA DI DIO è un’applicazione della mente per prendere coscienza della realtà di Dio e dei suoi misteri, affinché questi penetrino e informino di sé la vita, orientandola e sospingendola verso l’intimità divina.

    c) finalità

    orientamento

    Ci troviamo, evidentemente, in territori assai prossimi a ciò che abbiamo chiamato orientamento, uno stato dell’attenzione che non si riversa esclusivamente sulla molteplicità dei fenomeni né sul singolo oggetto di meditazione, ma opera un reale collegamento tra queste due dimensioni solo apparentemente irriducibili l’una all’altra. Ciò avviene tramite l’utilizzo —a scopo autotrasformativo e di evoluzione spirituale— dell’ambiente di vita del mistico come supporto dell’attenzione.


    preghiera incessante

    Proprio grazie a questa funzione vicaria o ausiliaria dell’ambiente—che opera come una sorta di ‘rammemoramento costante’ (cfr. sanscrito smrti)— nei confronti dell’attenzione, si realizza finalmente quel proposito che è all’origine non solo dell’Esicasmo, ma della scelta monastica in quanto tale: la preghiera incessante.

    1. CONCLUSIONI

    Siamo partiti con l’intento di fare luce sulla tecnologia autorealizzativa dell’Esicasmo cristiano, e di inquadrarne le singole tecniche all’interno di una teoria ‘trimodale’ dell’attenzione: discernimento, concentrazione e orientamento. L’ordine nel quale abbiamo focalizzato i tre temi non è casuale, ma risponde alle tappe psicologiche dell’itinerario spirituale; vediamole in breve:

    1. si inizia con un processo di purificazione e di perfezionamento mentale, che non può non passare attraverso la conoscenza di sé mediante un lavoro di discernimento sui fenomeni esterni e sul riverbero che essi provocano nel dominio della coscienza (fantasie, pensieri, ricordi, ecc.), fino alle motivazioni più profonde e nascoste; tutto ciò al fine di sperimentare uno stato di sereno dominio della volontà sulla sfera del mentale, che consente

    2. il passaggio al momento ‘positivo’ della pratica spirituale, il cui alla concentrazione sulla preghiera di Gesù ed alla sua articolazione con gli altri elementi del ‘metodo psicofisiologico’ esicastico (postura, respiro, esplorazione interiore), fa da sfondo la ferma determinazione all’estinzione dalla coscienza di qualsiasi pensiero (apóthesis noemáton), sia esso positivo o negativo o semplicemente inutile. Stato intermedio, la «discesa della mente nel cuore» o, come dice Teofane il Recluso, «restare nel cuore con attenzione». Termine di questa seconda fase, l’unione mistica, la ‘deificazione’ (théosis), la theologhía evagriana, l’extasis o excessus mentis di Cassiano, la ‘visione della luce taborica’ di Simeone il Nuovo Teologo; stiamo parlando del grado più alto della contemplazione (theoría), che, come abbiamo visto, per i Padri esicasti è eminentemente apofatica, sostanziata di ‘vuoto’ (kénos).

    3. Infine vi è un terzo momento, quello del ‘ritorno’ alla quotidianità, un ritorno che, però, non può non conservare tracce dell’esperienza estatica; avremo allora —in virtù di un quanto mai prezioso utilizzo dell’ambiente e degli stimoli della vita ordinaria in veste di attenzione ausiliariauna condotta trasformata, ri-orientata in un’ottica concretamente e pienamente religiosa, in cui non vengono mai meno il tenace ricordo di Dio e il sentimento vivo della Sua reale presenza, ed in cui, tramite la contemplazione, con occhi del tutto nuovi, della molteplicità dei fenomeni, si attua quel collegamento solido e costante con il Divino, quella preghiera incessante, che da sempre costituisce lo spirito della scelta monastica ma che, in questa forma, non è idiosincratico rispetto alla vita ‘secolare’; tranne doverla interiormente esperire come la vita di un ‘pellegrino’, cioè di uno che, pur fiorendo e radicandosi nel mondo, ne rimane tuttavia intimamente e profondamente estraneo.

     

    Bibliografia

    ANCILLI E. (a cura di), La preghiera, Roma, Città Nuova, 1988, 1990, voll. 2.

    – (a cura di), Dizionario Enciclopedico di Spiritualità, Roma, Città

    Nuova, 1990, voll. 3.

    APOPHTHEGMATA PATRUM:

    Versioni italiane:

    I padri del deserto: Detti, a cura di L. MORTARI, Roma, Città Nuova,

    1972, 19802.

    Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. MORTARI, Roma, Città

    Nuova, 1975, 19903, voll. 2.

    BAMBERGER J.E., ‘Mneme-Diathesis’. The psychic dynamism in the

    ascetical theology of st. Basil, Roma, Orientalia Christiana, 1968 (OCP

    34, pp. 233-251).

    BASILIO di Cesarea, Le Regole, a cura di L. CREMASCHI, Magnano

    (VC), Qiqajon, 1993.

    Opere ascetiche, a cura di U. NERI, tr. M.B. ARTIOLI, Torino, Ed.

    Torinese, 1980.

    COLOMBÁS G. M., Il monachesimo delle origini, Milano, Jaca Book,

    1990, voll. 2.

    EVAGRIO PONTICO, Trattato pratico sulla vita monastica, a cura di L.

    DATTRINO, Roma, Città Nuova, 1992.

    GUY J.C., Jean Cassien. Vie et doctrine spirituelle. Parigi, Lethielleux,

    1961.

    HAUSHERR I., La Méthode d’oraison hésychaste, Roma, 1927 (OC 36).

    L’Hésychasme, Étude de spiritualité, Roma, 1956 (OCP 22).

    Les leçons d’un contemplatif. Le traité de l’Oraison d’Evagre le

    Pontique, Parigi, Beauchesne, 1960.

    Hésychasme et Prière, Roma, 1966 (OCA 176).

    JAMES W., The Principles of Psychology, New York, Dover Publ. Inc.,

    1950.

    LARCHET J.C., Thérapeutique des maladies spirituelles. Une

    introduction à la tradition ascétique de l’Église orthodoxe, Suresnes,

    Édition de l’Ancre, 1993.

    L’ARTE della PREGHIERA. Antologia di testi spirituali sulla preghiera

    del cuore, trad. dalla vers. inglese di G. DOTTI, Torino, Gribaudi,

    1980.

    MARX M.J., Incessant prayer in ancient monastic literature, Roma,

    Scuola Sales. del Libro, 1946.

    MIQUEL P., Lexique du désert. Étude de quelques mots-clés du

    vocabulaire monastique grec ancien, Bégrolles, Abbaye de

    Bellefontaine, 1986 (Spiritualité Orientale 44).

    POLI F., Yoga e Esicasmo, Bologna, EMI, 1981.

    ŠPIDLÍK T., La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale sistematico,

    Roma, Orientalia Christiana, 1985.

    La spiritualité de l’Orient chrétien II: la prière, Roma, Orientalia

    Christiana, 1988 (OCA 230).

    La preghiera esicastica, in E. ANCILLI (a cura di), La preghiera, vol.

    I, pp. 261-275.

    VENTURINI R., Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1993.

     

  • 10 Dic

    GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DELLA PRATICA ESICASTA

     

    PLACIDE DESEILLE  La spiritualità ortodossa e la Filocalia, ed. BORLA,

    1. 1.    Il  combattimento invisibile

    La tentazione di mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è spesso provocata da un’occasione esterna, dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma, anche in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell’anima, a partire da ricordi o da fantasie, sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente interiori. Evagrio nota che i laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella loro solitudine, lo sono di più dai pensieri. Questa distinzione non è d’altra parte rigida, e chiunque vuole impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo combattimento invisibile, senza il quale l’ascesi corporale e le opere esteriori non sarebbero sufficienti. Si può consumare il corpo col digiuno, le veglie e tutti i tipi di lavoro, o moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e dalle fantasie, che possono portare all’orgoglio, alla fornicazione, alla perdita della fede in Dio e alla disperazione.

    Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto attraverso gli oggetti, mentre contro i monaci, lo fanno più spesso con i pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che avviene nel pensiero rispetto a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente mobile, e, quanto alle fantasie illecite, difficile da dominare (Evagrio Pontico).

    Questa domanda fu posta all’abate Agatone: “Che cosa e meglio: l’ascesi corporale o la custodia del cuore?”  L’anziano rispose: «L’uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo  è il fogliame, e la custodia del cuore il frutto. Poiché, secondo la Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco  (Mt 3 10) è chiaro che tutta la nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore, ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie che sono la fatica del corpo» (Agatone).

    Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta, rigetta tutte le faccende di questa vita, i legami di questo mondo,   tutti i piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane con  perseveranza davanti al Signore, consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è un’altra lotta, un’altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i pensieri suggeriti dagli spiriti di  malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede e invoca il Signore con una fede  incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà ottenere da lui la liberazione dai  legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di malizia, cioè dalle operazioni delle   passioni nascoste […].

    Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo mondo, circondato dalle varie catene della terra, trascinato dalle passioni malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un’altra lotta, un’altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per combattere e liberarsi da ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con perseveranza davanti al Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore delle passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi. Come si è detto, per tutto il tempo in cui uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie segrete degli spiriti di malizia, né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e passioni segrete; è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari di questo mondo (San Macario l’Egiziano).

    Ma come identificare questi pensieri cattivi?   Evagrio Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in Occidente, da san Cassiano di Marsiglia, poi, con qualche modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati capitali».

    I pensieri cattivi possono essere tutti ricondotti a otto principali. Il primo è la golosità, il secondo la lussuria, il terzo l’amore del denaro, il quarto la tristezza, il quinto la collera, il sesto l’accidia, il settimo la vanagloria, l’ottavo l’orgoglio. Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e mettano in movimento la passione o no, ciò dipende invece da noi.

    Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare al più presto l’ascesi, prospettandogli dolori allo stomaco, al fegato e alla milza, l’idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario, l’assenza di medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono così provati; e talvolta suggerisce a costoro di andare a trovare quelli che si dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie malattie, attribuendole all’ascesi.

    Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca con la più grande violenza coloro che si dedicano alla temperanza, per spingerli alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla  talmente l’anima da inclinarla verso tali azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là sotto i suoi occhi.

    L’amore del denaro suggerisce una lunga vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia della fame, le malattie che sopraggiungeranno, l’amarezza della povertà, e com’è disonorevole dover mendicare il necessario.

    La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata, oppure accompagna la collera. Ecco come nasce dalla privazione di una cosa desiderata: sono i pensieri a dare l’inizio col riportare alla memoria del monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi vedono che, invece di resistere egli vi presta volentieri attenzione e si abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno precipitare nella tristezza all’idea che le cose passate non ci sono più e che il suo genere di vita attuale impedisce il loro ritorno. Perciò, più l’infelice anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è abbattuta dai secondi.

     

    Quanto alla collera, essa è una passione estremamente ardente. E’ infatti un ribollimento e un movimento dell’irascibile contro chi ci ha offeso o è sembrato offenderci. Essa riempie l’anima di una continua acredine e si impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando sotto i suoi occhi l’immagine di colui che l’ha contrariata […].

    C’è poi il demone dell’accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di tutti i demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la sua anima fino all’ora ottava. Comincia dandogli l’impressione che il sole sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori dalla sua cella per scrutare il sole e vedere se l’ora nona è vicina, infine lo sollecita a guardarsi attorno nell’attesa della visita di un fratello. Gli genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il lavoro delle sue mani; gli insinua il pensiero che non c’è più carità tra i fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno viene a rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa avversione. Gli fa desiderare altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale riuscirà meglio. A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in cui ci si trova, perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta la lunghezza della vita e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell’ascesi. In una parola, lo scuote da capo a piedi, fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone non ne segue alcun altro, per cui, se supera il combattimento, l’anima si ritrova in uno stato di pace e in una gioia ineffabile.

    Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce facilmente in coloro che praticano l’ascesi: cerca in tutti i modi di rendere note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro immaginare demoni che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire alla loro porta persone che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo averli così innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi o alle tentazioni del demone dell’orgoglio o a quello della tristezza, che li assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote così santo da doverlo perfino legare per poterlo ordinare.

     

    Il demone dell’orgoglio provoca all’anima le cadute più terribili. La persuade a non riconoscere che l’aiuto gli viene da Dio; a pensare di stare praticando l’ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra degli altri, stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la superiorità. In seguito sopraggiungono la collera, la tristezza, e – male supremo – lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche visioni di folle di demoni nell’aria (Evagrio Pontico).

    1. 2.     LA SOBRIETA’ SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO  DEGLI SPIRITI

    Le cose sarebbero relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto. Ma già l’apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr. 2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella preghiera, le lacrime, gli stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è vigilante.

    Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia. Ma se sono causate dall’amore, quando è ancora a uno stadio imperfetti o, come può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione. A meno che il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell’azione. Ed è significativo notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il più sicuro.

    Nel tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse ingannevolmente nella mia anima una gioia, delle lacrime e una consolazione che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero come un bambino: credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni Climaco).

    Esaminiamo, soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per distinguere quali provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse contengono. Non ingannarti, o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l’anima per quanti erano loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell’amore, ed erano invece mossi dallo spirito di lussuria. Voi tutti che avete deciso di custodire la purezza, ascoltate un’altra furbizia e un altro espediente di quell’astuto, e guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito che molto spesso il demone della lussuria si nasconde completamente, e mentre il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira grandi sentimenti di pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle parlando loro del ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua falsa pietà, accorrono da quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più familiari ecco che l’infelice viene travolto nella caduta. Esamina attentamente la soavità che provi nella tua anima, per timore che non sia stata preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni Climaco).

    Come discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin dalle origini del monachesimo, sant’Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono aiutare a scovare l’illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata delle sue osservazioni è più ampia. Un pensiero, un moto interiore o una ispirazione  accompagnata da pace, gioia, umiltà, è “spirito buono”. Al contrario, tutto ciò che fa nascere nell’anima turbamento, agitazione e durezza porta il segno dello spirito cattivo, anche se l’apparenza è buona

    È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza degli spiriti buoni da quelli cattivi. L’apparizione dei santi non genera turbamento: “Non griderà,  non alzerà il tono, non farà udire la sua voce nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla che colma immediatamente l’anima di gioia, esultanza e fiducia. Perché con loro c’è il Signore, il quale è la nostra gioia e la  potenza di Dio Padre. I pensieri  dell’anima rimangono tranquilli e senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce,  può contemplare da sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future si impossessa di lei, e vorrebbe assolutamente unirsi i con loro. Se avviene che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni, la carità di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con Zaccaria (cfr. Lc 1, 13), e l’angelo che apparve alle donne presso il divino sepolcro (cfr. Mt 28, 5),  e quello che secondo il Vangelo, apparve ai pastori e disse “Non temete” (Lc 2, 10). Perché questo timore  non proviene dall’infermità dell’anima, ma dal fatto che essa riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le apparizioni dei santi spiriti. Al contrario, l’incursione e l’apparizione dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono con rumore, strepito e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito nascono nell’anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la tristezza, il rancore verso gli asceti; l’accidia, l’afflizione, il ricordo dei genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della virtù e il disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi spaventa, se questo timore si dissipa subito e al suo posto provate una gioia ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e amor di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate, perché questa gioia e questo stato quieto dell’anima manifestano la santità di colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di Alessandria).

    Mille anni dopo, san Massimo Capsocaliva si esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio con san Gregorio Sinaita.

    Altri sono i segni dell’inganno, e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito.Ecco quelli dell’inganno: quando il Maligno entra in contatto con noi, suscita nell’intelletto il turbamento; lo rende ribelle e indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi pensieri; rende cattivo lo sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco fascinoso dell’errore, e non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e rende l’intelletto demoniaco. Infine fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L’uomo diventa così soltanto irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiere, né  lacrime; egli trae continuamente motivo di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni, finché perde il senno e va in perdizione. Da questo inganno del  Maligno, o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni  della grazia, eccoli: quando il Santo entra contatto con noi, unifica l’intelletto donandogli sapienza, umiltà e misura.

    Pone nell’anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la perfetta compunzione, l’afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono dagli occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l’anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa Passione di Cristo e nel suo immenso amore per gli uomini. Egli suscita nell’intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno […]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l’intelletto è rapito, nello Spirito Santo, da questa inaccessibile luce divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e splendente. Ciò rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo intelletto, nel suo cuore, nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine e una gioia ineffabili.

    Dopo che è stata riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com’è possibile resistergli efficacemente? A questo scopo è utile conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al momento opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della tentazione:

    I padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l’approccio, l’adesione, il consenso, la prigionia, il combattimento e ciò che viene chiamata passione dell’anima. Questi uomini beati definiscono l‘approccio come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell’immagine di un oggetto che si presenta. L’adesione consiste nell’accettare il dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da passione. Il consenso è l’acquiescenza dell’anima, accompagnata da diletto, a ciò che le viene proposto. La prigionia è un impulso violento e involontario del cuore; o anche un continuo attaccamento all’oggetto in questione tale da distrugge la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è definito come un confronto, ancora a parità di forze, con l’avversario, in cui l’anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta la vittoria o subisce una sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da tempo affliggeva segretamente l’anima e che l’ha portata a contrarre un intimo legame con sé, costringendola, con disposizione abituale, a piegarsi ad essa spontaneamente e connaturalmente.        Di tutti questi movimenti, il primo è senza peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo lo stato interiore del combattente. Il combattimento infine è l’occasione che procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).

    L’approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del pensiero di una cosa cattiva, e di un’attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di vendetta, di golosità, un invito a compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano pretendere di impedire che nascano in noi questi moti. Al contrario, dandoci l’occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e mantenendoci nell’umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell’opera della nostra santificazione. È in questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà salvato».

    Nell’adesione o dialogo, riflettiamo sulla tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo con essa. Ciò può non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non avere altro fine che opporgli ragioni contrarie. E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente sconsigliano, soprattutto agli asceti inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento inconfessato che non è del tutto esente dal peccato.

    Il consenso è una presa di posizione personale: accettiamo di far consistere il nostro piacere nella gioia cattiva che ci è proposta: aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il nostro io con essa.

    Se consensi simili si ripetono, generano dapprima la passione, che è la tendenza cattiva promossa a stato di seconda natura, poi la prigionia, vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.

    S’impone quindi un’estrema vigilanza che i Padri chiamano custodia del cuore o sobrietà (nepsis). Bisogna combattere i pensieri sin dal loro apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:

    Dobbiamo perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore con tutte le possibili attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa del serpente (cfr. Gn 3, 15), cioè l’inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di penetrare nella nostra anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel nostro cuore; se vi entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all’anima divenuta sua prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori della terra» (SaI 100, 8), cioè i pensieri carnali, e «sbattere contro la pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra connivenza e ci combatteranno con ancora più forza per la nostra perdizione – oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San Cassiano).

     

    3. LA PREGHIERA “MONOLOGICA” DI GESU’

    Evidentemente, non basta essere vigilanti, mettere allo scoperto i pensieri cattivi e volervisi opporre. Soltanto la potenza di Cristo può permetterci di combatterli vittoriosamente. Già Origene, molto consapevole della stretta unione che c’è tra Cristo e i cristiani sue «membra», insegnava che è il Cristo stesso che continua nei fedeli il suo combattimento contro Satana e che ogni vittoria ottenuta da un cristiano è una vittoria di tutta la Chiesa. E’ dunque principalmente a Origene che risale l’idea del combattimento spirituale come continuazione del combattimento redentore e l’immagine della campagna militare di Cristo e delle due Città contrapposte, che si ritroveranno, nel XVI secolo, nelle meditazioni di sant’Ignazio di Loyola su «il Regno» e “le due Bandiere”.Ma essa è stata profondamente assimilata dai primi monaci e da Evagrio Pontico. Nello stesso tempo, l’antica concezione secondo la quale, nella persona del martire, è il Cristo stesso che soffre e combatteveniva trasferita, dopo la fine delle persecuzioni, al combattimento

    del monaco contro le tentazioni diaboliche. Per questo, alla vigilanza, i maestri spirituali consigliavano di aggiungere un’invocazione a Cristo, breve, ma ripetuta incessantemente. E quella che è stata chiamata «preghiera monologica», composta cioè di una sola breve formula.

    Con questa pratica, i pensieri si spezzeranno contro la potenza vittoriosa di Cristo, che si fa presente appena lo si invoca; contemporaneamente, essa permetterà di opporre al «ricordo del male» il «ricordo di Dio», che nei nostri autori indica la presa di coscienza di questa attrazione divina e di questo senso intimo delle cose di Dio iscritto nell’anima col battesimo. Già Cassiano dava a questo metodo una formulazione quasi definitiva, anche se non conosceva l’invocazione del Nome di Gesù:

    Ogni monaco che tende al ricordo continuo di Dio, deve abituarsi a sussurrare interiormente e a ripetere incessantemente, nel suo cuore, la formula che vi consegno, e, mediante ciò, cacciare la moltitudine degli altri pensieri, perché non potrà realizzarlo se non liberandosi da tutte le cure e le sollecitudini del corpo. E questa una dottrina alla quale siamo stati iniziati dai rari superstiti dei più antichi Padri, e che, anche noi, consegniamo ai rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete quindi tenere presente nel vostro spirito, incessantemente, questa santa formula: «Mio Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi» (Sal 69, 2). Non è senza motivo che questo versetto è stato scelto fra tutta la Sacra Scrittura. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, ed è perfettamente adatto a tutti gli stati e a tutte le tentazioni. Vi è in esso l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di un’umile e pia confessione, la vigilanza che proviene da un’attenzione e da un timore continuo, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto a intervenire. Perché colui che invoca incessantemente il suo Protettore è certo di averlo sempre presente (San G. Cassiano)

    I due elementi fondamentali della preghiera di Gesù sono già presenti ante litteram in questo testo degno di nota: anzitutto l’umile confessione della nostra miseria, che sola può aprirci alla grazia, e nella quale i Padri del deserto vedevano, proprio per questo motivo, l’unica via di salvezza: e poi lo stretto legame stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.

    È in Egitto, in un’epoca indeterminata, ma poco posteriore a quella di Cassiano, che la menzione del nome di Gesù sembra sia stata introdotta nella formula della preghiera monologica, che è diventata così: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». Non è mai stata, tuttavia, una formula stereotipa. La sua pratica ammette delle varianti, e l’invocazione può anche ridursi al solo nome di Gesù. I Padri raccomandano però di non variare troppo spesso la formula, perché la monotonia della ripetizione ha un ruolo importante nel metodo.

    Diadoco di Fotica è uno dei primi testimoni di questa «preghiera di Gesù», che è anche una «meditazione del suo santo glorioso Nome”dando al termine «meditazione» il suo antico senso di ruminazione di una parola o di una formula:

    Quando chiudiamo tutte le sue uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che deve soddisfare il suo bisogno di attività. Bisogna dargli perciò il «Signore Gesù» come la sola occupazione che risponde interamente al suo scopo. E scritto infatti: «Nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non nello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Ma per non volgersi ad alcuna fantasia, bisogna che contempli sempre in modo esclusivo questa parola, nel suo segreto. Infatti, tutti quelli che meditano incessantemente nel profondo del loro cuore questo santo e glorioso Nome, possono vedere infine la luce del proprio intelletto. Infatti esso, trattenuto dalla mente con attenta cura, brucia con intensa percezione tutta la sozzura che copre la superficie dell’anima; è detto infatti: «Il nostro Dio è un fuoco divorante» (Dt 4, 24). Il Signore poi sollecita l’anima a un grande amore della sua gloria. Perseverando, attraverso il ricordo dell’intelletto, nel fervore del cuore, questo Nome glorioso e così desiderabile fissa in noi l’abito di amarne la bontà senza che nulla ormai vi si opponga. È questa infatti la perla preziosa che si può acquistare vendendo tutti i propri beni, per godere, alla sua scoperta, di una gioia ineffabile (Diadoco di Fotica).

    Con ciò, Diadoco vuole dire che il Nome di Gesù, come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano ruminare con una meditazione incessante,  ha in sé un’efficacia eccezionale per risvegliare nel cuore l’amore divino che in lui è nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con l’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito può allora «vedere la sua propria luce», espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza sperimentata dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questa stessa attrazione è la manifestazione della presenza divinizzante del Cristo e del suo Spirito nell’uomo. In seguito, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo, e l’aspirazione dello Spirito Santo che, a poco a poco, si lascia provare nel fondo del cuore:

    Allora l’anima afferra la grazia stessa che medita e che grida con essa «Signore Gesù», come una madre che insegna al proprio figlio la parola «padre», ripetendola insieme a lui finché lo porti, invece del balbettio infantile, all’abitudine di chiamare distintamente suo padre, anche nel sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). (Diadoco di Fotica).

    Questa abitudine alla preghiera, che prosegue «anche nel sonno», è tutt’altra cosa rispetto a un semplice riflesso automatico originato dalla ripetizione degli atti. Essa è il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unificazione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio, al quale conduce l’esercizio dapprima faticoso della preghiera di Gesù, risulta più da uno stato, da un orientamento divenuto spontaneo e stabile del cuore verso Dio, che da una successione di atti. E’, come dirà il patriarca Callisto in un breve trattato tra i più notevoli della Filocalia, un’acqua viva e zampillante che scaturisce dall’anima come da una sorgente perpetua. E’ ciò che assillava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Ciò che è in me, non è il fuoco avido della materia, ma è l’acqua che opera e che parla» (Callisto II).

    1. 4.     IL METODO PSICO-FISICO

    L’elemento fondamentale del metodo esicasta è quindi la preghiera monologica:  «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». La tradizione esicasta vi ha aggiunto in seguito l’assunzione di una determinata posizione corporale e di un certo controllo della respirazione. Le prime descrizioni scritte sistematiche che ci sono pervenute risalgono al XIII secolo, ma vari indizi fanno pensare che questo metodo psico-fisico esistesse già, almeno in uno stadio rudimentale, in un’epoca più antica. La necessità assoluta di controllo da parte di un padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; gli stessi resoconti letterari non pretendono d’altra parte di supplire all’iniziazione vivente, essendo incompleti.

    La testimonianza più antica sul metodo ci viene da Niceforo il Solitario:

    Innanzitutto bisogna che la tua vita sia quieta, pura da ogni preoccupazione, in pace con tutti. Allora entra e chiuditi nella tua cella e, seduto in un angolo, fa’ ciò che ti dico:

    Tu sai che il nostro respiro è l’aria che inspiriamo ed espiriamo grazie al cuore. Perché è il cuore il principio della vita e del calore del corpo. Il cuore attira l’aria per emettere all’esterno il proprio calore, mediante l’espirazione e raggiungere una buona temperatura. Il principio di questa organizzazione, o meglio il suo strumento, è il polmone. Creato poroso dal Creatore, incessantemente introduce ed espelle l’aria come un mantice. Allo stesso modo il cuore, attirando il freddo con il respiro ed emettendo il caldo, conserva imprescindibilmente la funzione che gli è stata assegnata per l’equilibrio del vivente.

    Tu dunque, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo intelletto, introducilo – il tuo intelletto – nelle narici; è quello il cammino che percorre l’aria per andare al cuore. Spingilo, costringilo a scendere nel tuo cuore insieme all’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che ne seguirà: non avrai nulla da rimpiangere. Come un uomo che rientra a casa dopo un’assenza non trattiene più la gioia di poter ritrovare la moglie e i figli, così l’intelletto, quando si è unito all’anima, trabocca di una gioia e di delizie ineffabili.

    Fratello mio, abitua il tuo intelletto a non affrettarsi ad uscire di là. All’inizio è privo di zelo – è il meno che si possa dire – a causa di questa reclusione e di questa strettezza interiore. Ma, quando si sarà abituato, non proverà più alcun piacere nelle relazioni esterne. Perché «il regno di Dio è dentro di noi» e per colui che si volge verso di esso e lo cerca con la preghiera pura tutto il mondo esterno diventerà vile e detestabile.

    Se fin dall’inizio entri attraverso l’intelletto nel luogo del cuore che ti ho mostrato, siano rese grazie a Dio. Glorificalo, esulta e tieniti sempre occupato in questa attività, ed essa ti insegnerà ciò che tu ignori. Sappi, poi, che quando il tuo intelletto si trova in quel luogo, tu non devi tacere o restare ozioso. Ma non devi avere altra occupazione o meditazione che il grido: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!», senza tregua e ad ogni costo. Questo esercizio, mettendo il tuo intelletto al riparo dalle divagazioni, lo rende impenetrabile e inaccessibile alle suggestioni del nemico e, ogni giorno, lo innalza all’amore e al desiderio di Dio.

    Ma se, fratello mio, nonostante tutti i tuoi sforzi, non giungi a penetrare all’interno del cuore seguendo le mie indicazioni, fa ciò che ti dico e, con l’aiuto di Dio, riuscirai nel tuo scopo. Tu sai che la ragione dell’uomo ha sede nel petto. E’ infatti nel nostro petto che, pur rimanendo mute le labbra, parliamo, decidiamo, ordiniamo le preghiere e i salmi, ecc.  Dopo aver bandito da questa ragione tutti i pensieri (e se vuoi lo puoi), dalle l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” e costringila a gridare interiormente queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, sarai padrone di questo esercizio, esso ti aprirà certamente la porta del cuore, così come ti ho detto. Io stesso ne ho fatto l’esperienza. Insieme alla gioiosa e desiderabile attenzione, vedrai venire a te tutto il coro delle virtù, l’amore, la gioia, la pace e il resto. Grazie ad esse tutte le tue richieste saranno esaudite nel Nostro Signore Gesù Cristo.

    San Gregorio Palamas, che difese il metodo dalle facili accuse dei suoi avversari, così lo commenta:

    Tu lo vedi, fratello: Giovanni (Climaco) ha dimostrato che basta esaminare il problema umanamente, non solo spiritualmente, per vedere che è assolutamente necessario introdurre e mantenere l’intelletto dentro il corpo, quando si è scelto di possedersi veramente e di essere un monaco degno di questo nome secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è sconveniente insegnare, soprattutto ai principianti, a guardare in se stessi e a introdurre il proprio intelletto dentro di sé mediante l’inspirazione. Nessuna persona sensata, infatti, impedirebbe a qualcuno di introdurre in se stesso, attraverso certi procedimenti, il proprio intelletto che non è ancora in grado di contemplare se stesso. Coloro che hanno appena iniziato questa lotta vedono continuamente fuggire il proprio intelletto, appena raccolto, e devono, altrettanto continuamente, ricondurlo; nella loro inesperienza, non si rendono conto che niente al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dell’intelletto. Per questo motivo, alcuni raccomandano di controllare l’emissione e la ripresa del respiro e di trattenerlo un poco, in modo da trattenere con esso anche l’intelletto, vigilando sulla respirazione perché, con l’aiuto di Dio, progrediscano fino a impedire al proprio intelletto di uscire verso ciò che lo circonda, e purificarlo, perché possano ricondurlo davvero a un raccoglimento uniforme. Si può anche constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dell’intelletto, perché l’entrata e l’uscita del respiro diventa quieta anche durante una riflessione intensa, soprattutto in coloro che sono nell’esichia col corpo e con la mente […]. Colui che cerca di raccogliere l’intelletto in se stesso per spingerlo non ad un movimento in linea retta (verso l’esterno), ma ad un movimento circolare e infallibile (ritornando su se stesso), invece di girare gli occhi qua e là, come potrebbe non trarne grande profitto fissando il proprio petto o il proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non soltanto si raccoglierà in se stesso esteriormente, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che va ricercando per il suo intelletto, ma, mediante questo atteggiamento del corpo, invierà verso l’interno del cuore anche la potenza dell’intelletto che si riversa all’esterno attraverso la vista.

    Alcuni ironizzeranno sulla fisiologia «sorpassata» che sembra implicare l’insegnamento degli esicasti. Ma in realtà non è questa a fondare il metodo; essa cerca piuttosto di spiegarlo a posteriori. La cosa più importante è l’esperienza, ed essa ha rivelato a questi spirituali un misterioso ma innegabile legame tra il respiro, e quindi i polmoni, il cuore fisico, e lo spirito (o «intelletto»). E innanzitutto un fatto, e la sua attuazione nel campo della vita spirituale si è rivelata molto feconda. Poco importa, in definitiva, che in seguito sia spiegata con una teoria fondata su dati di ordine anatomico e fisiologico. Lo si è già visto riguardo all’ascesi corporale, per gli esicasti, la cui concezione del complesso umano è vicina a quella della Bibbia. É tutto l’essere, corpo e anima, che deve partecipare della vita spirituale, perché è tutto l’essere che deve ricevere la salvezza ed essere divinizzato. Si tratta sempre di simboleggiare le attitudini dell’anima con gesti del corpo, per permettere «l’integrazione armoniosa di tutto il nostro essere nella sua ascesa verso Dio». D’altronde non si tratta di un metodo, in senso stretto, proporzionato all’effetto che si vuole ottenere, ma soltanto di un aiuto, però non trascurabile. Altrimenti verrebbe compromessa la gratuità del dono di Dio.

    Prima di tutto, è con l’aiuto della grazia divina che l’intelletto riesce in questo combattimento. È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, con tutta purezza, senza distrazioni, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticato in un luogo tranquillo e oscuro. I santi Padri, inventando questo metodo, miravano soltanto a fornire un aiuto, se così si può dire, per raccogliere l’intelletto (San Callisto e Ignazio Xanthopouli).

    La nostra ricerca sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune perché si possa determinare se esistono rapporti d’influenza tra esso e le spiritualità musulmana, induista o buddista, che predicano anch’esse l’invocazione del Nome divino unita a una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe in sé nulla che screditi il metodo: le leggi della fisica umana sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo profondo, trasfigurandolo. E soprattutto la tecnica è sostenuta, nel nostro caso, da una dottrina autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza per grazia in Cristo, della risurrezione dei corpi, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i «santi Padri niptici» ci hanno trasmesso riguardo alla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile. L’ultimo fondamento del metodo è la confessione del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio:  «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12).

    In un tempo in cui molti cristiani sono alla ricerca di «una disciplina totale di vita, anche corporale, che favorisca il loro equilibrio e il loro sviluppo spirituale», è interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio del pieno sviluppo della grazia di Cristo nell’uomo una sapienza umana il cui segreto l’Occidente ha perduto.

     

  • 01 Dic

    LA PREGHIERA DEL CUORE

     

    Bernard Ugeux IL MORMORIO DELLA SORGENTE INTERIORE, ed. San Paolo,

    Consigli pratici

    Nella storia del cristianesimo si constata che, in numerose tradizioni, esisteva un insegnamento sull’importanza del corpo e delle posizioni corporee per la vita spirituale. Grandi santi ne hanno parlato, come Domenico,Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola… Inoltre, fin dal IV secolo, incontriamo consigli a questo propo­sito nei monaci d’Egitto. Più tardi, gli ortodossi hanno proposto un insegnamento sull’attenzione al ritmo del cuore e sulla respirazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della «preghiera del cuore» (o la «preghie­ra di Gesù», che si rivolge a lui).

    Questa tradizione tiene conto del ritmo del cuore, della respirazione, di una presenza a se stessi per esse­re più disponibili a Dio. È una tradizione molto antica che attinge dagli insegnamenti dei Padri del deserto egi­ziano, monaci che si sono dati totalmente a Dio in una vita eremitica o comunitaria con un’attenzione parti­colare alla preghiera, all’ascesi e al dominio sulle pas­sioni. Essi possono essere considerati i successori dei martiri, grandi testimoni della fede all’epoca delle per­secuzioni religiose, che cessarono quando il cristianesi­mo divenne religione di Stato nell’impero romano. A partire dalla loro esperienza, si sono impegnati in un la­voro di accompagnamento spirituale ponendo l’accen­to sul discernimento di ciò che si viveva nella preghie­ra. In seguito, la tradizione ortodossa ha valorizzato una preghiera in cui alcune parole tratte dai Vangeli so­no accostate al respiro e ai battiti del cuore. Queste pa­role sono state pronunziate dal cieco Bartimeo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pub­blicano che prega così: «Signore, abbi pietà di me, pec­catore» (Lc 18,13).

    Questa tradizione è stata riscoperta di recente dalle Chiese d’Occidente, benché risalga a un’epoca ante­riore allo scisma tra i cristiani d’Occidente e d’Orien­te. E’ dunque un patrimonio comune da esplorare e da gustare, che ci interessa in quanto mostra come possia­mo associare il corpo, il cuore e la mente su un cammi­no spirituale cristiano. Ci possono essere convergenze con alcuni insegnamenti provenienti da tradizioni dell’Estremo Oriente.

     La ricerca del Pellegrino russo

     I Racconti di un pellegrino russoci permettono di accostarci alla preghiera del cuore. Attraverso quest’o­pera l’Occidente ha riscoperto l’esicasmo. In Russia esisteva un’antica tradizione secondo la quale certe persone, attirate da un cammino spirituale esigente, parti­vano a piedi attraverso la campagna, come mendican­ti, ed erano accolte nei monasteri, Come pellegrini, an­davano di monastero in monastero, alla ricerca di ri­sposte alle loro domande spirituali. Questa specie di ri­tiro peregrinante, nel quale avevano un ruolo impor­tante l’ascesi e le privazioni, poteva durare diversi anni.

    Il Pellegrino russo è un uomo vissuto nel XIX seco­lo. I suoi racconti furono pubblicati verso il 1870. L’au­tore non è chiaramente identificato. Era un uomo che aveva un problema di salute: un braccio atrofizzato, ed era assillato dal desiderio d’incontrare Dio. Andava da un santuario all’altro. Un giorno, egli ascolta in una chie­sa alcune parole tratte dalle lettere di san Paolo. Inizia allora un pellegrinaggio di cui ha scritto il racconto. Ec­co come egli si presenta:

    “Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza di­mora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’al­tro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan sec­co sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’al­tro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il gior­no della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pre­gare un pò; stavano leggendo la pericope della lette­ra ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate in­cessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a ri­flettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivol­si alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e sen­za contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sape­vo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove tro­vare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualco­sa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccel­lenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è neces­sario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera. Ci fu sì una predica sul­la preghiera nello spirito e sulla preghiera continua; ma non vi si indicava come arrivarci (pp. 25-26).

     Il Pellegrino è dunque molto deluso, perché ha sen­tito quest’appello a una preghiera continua, ha ascol­tato le prediche, ma non ha ricevuto risposta. Dobbia­mo riconoscere che questo è un problema ancora at­tuale nelle nostre chiese. Sentiamo dire che bisogna pre­gare, siamo invitati a imparare a pregare, ma, in con­clusione, la gente pensa che non ci siano luoghi dove ci si possa fare iniziare alla preghiera, particolarmente a pregare incessantemente e tenendo conto del proprio corpo. Allora, il Pellegrino comincia a fare il giro delle chie­se e dei monasteri. E arriva da uno starec – un monaco accompagnatore spirituale – che lo riceve con bontà, lo invita a casa sua e gli propone un libro dei Padri che gli permetterà di capire chiaramente che cos’è la preghie­ra e di impararla con l’aiuto di Dio: la Filocalia, che si­gnifica in greco l’amore della bellezza. Gli spiega quel­la che si chiama la preghiera di Gesù.

    Ecco quel che gli dice lo starec:

    La preghiera interiore e perpetua di Gesù consiste nell’invocare incessantemente, senza interruzione, il nome divino di Gesù Cristo con le labbra, la mente e il cuore, immaginando la sua presenza costante e chiedendo il suo perdono, in ogni occupazione, in ogni luogo. in ogni tem­po, persino nel sonno. Essa si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!». Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande con­solazione, e sente l’esigenza di recitare sempre questa pre­ghiera, tanto che non può più farne a meno, ed essa stes­sa fluisce spontaneamente in lui. Adesso hai capito che cosa sia la preghiera continua?

     E il Pellegrino esclama colmo di gioia: «Per amor di Dio, insegnatemi come arrivarci!».

    Lo Starec prosegue:

     «Impareremo la preghiera leggendo questo libro, che si intitola Filocalia». Questo libro raccoglie testi tradi­zionali della spiritualità ortodossa.

    Lo starec sceglie un brano di san Simeone il Nuovo Teologo:

    Siedi in silenzio e appartato; china il capo, chiudi gli oc­chi; respira più lentamente, guarda con l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla te­sta al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore Gesù Cristo, ab­bi pietà di me», sottovoce con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii tranquillo e pa­ziente, e ripeti spesso questo esercizio.

    Dopo avere incontrato questo monaco, il Pellegrino russo legge altri autori e continua ad andare di mona­stero in monastero, da un luogo di preghiera a un altro, facendo ogni specie di incontri lungo il cammino e ap­profondendo quel suo desiderio di pregare incessante­mente. Egli conta il numero di volte che pronunzia l’invocazione. Fra gli ortodossi la corona del rosario è co­stituita di nodi (cinquanta o cento nodi). È l’equiva­lente del rosario, ma qui non vi sono il Padre nostro e l’Ave Maria rappresentati da grani grossi e piccoli, più o meno distanziati. I nodi sono invece della stessa di­mensione e disposti uno dopo l’altro, con l’unico intento della ripetizione del nome del Signore, pratica che si ac­quisisce progressivamente.

    Ecco come il nostro Pellegrino russo ha scoperto la preghiera continua, a partire da una ripetizione molto semplice, tenendo conto del ritmo della respirazione e del cuore, cercando di uscire dalla mente, per entrare nel cuore profondo, quietare il proprio essere interiore e rimanere così in preghiera permanente.

    Questa storia del Pellegrino contiene tre insegnamen­ti che alimentano la nostra ricerca.

    Il primo pone l’accento sulla ripetizione. Non abbia­mo bisogno di andare a cercare dei mantrafra gli indù, noi ne abbiamo nella tradizione cristiana con la ripeti­zione del nome di Gesù. In numerose tradizioni reli­giose, la ripetizione di un nome o di una parola in rap­porto con il divino o il sacro è il luogo di concentrazio­ne e di acquietamento per la persona e di relazione con l’invisibile. Allo stesso modo, gli ebrei ripetono più vol­te al giorno lo Shemà (la proclamazione di fede che co­mincia con «Ascolta, o Israele…», Dt, 6,4). La ripeti­zione è stata ripresa dal rosario cristiano (che provie­ne da san Domenico, nel XII secolo). Questa idea di ri­petizione è dunque classica anche nelle tradizioni cri­stiane.

    Il secondo insegnamento verte sulla presenza al cor­po, che si riallaccia ad altre tradizioni cristiane. Nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola, che è stato all’origine della spiritualità dei gesuiti, segnala l’interesse di pre­gare al ritmo del cuore o della respirazione, dunque l’im­portanza di un’attenzione al corpo (cfr. Esercizi spirituali, 258-260). In questa maniera di pregare, si pren­dono le distanze riguardo a una riflessione intellettua­le, a un approccio mentale, per entrare in un ritmo più affettivo, perché la ripetizione non è solamente este­riore, vocale.

    Il terzo insegnamento si riferisce all’energia che si sprigiona nella preghiera. Questo concetto di energia – che si incontra spesso attualmente – è molte volte am­biguo, polisemico (vale a dire che ha significati diffe­renti). Trattandosi della tradizione nella quale si inscri­ve il Pellegrino russo, si parla di un’energia spirituale la quale si trova nel nome stesso di Dio che viene pronun­ziato. Questa energia non rientra nella categoria dell’energia vibratoria, come nella pronuncia della sacra sillaba OM, che è materiale. Sappiamo che il primo man­tra, il mantra originario per l’induismo è la sillaba mi­stica OM. È la sillaba iniziale, che viene dalle profon­dità dell’uomo, nella forza dell’espirazione. Nel nostro caso, si tratta di energie increate, l’energia divina stes­sa, che viene nella persona e la pervade quando essa pronunzia il nome di Dio. L’insegnamento della Filocalia permette dunque di ricollegarsi all’esperienza della ripetizione, del respiro e del corpo, dell’energia, ma assunta in una tradizione cristiana in cui non si tratta di un’energia cosmica, ma spirituale.

    Ritorniamo alla trasmissione della tradizione della preghiera del cuore, dell’invocazione incessante del no­me di Gesù, che si localizza nelle profondità del cuore. Essa risale alte tradizioni dei Padri greci del Medioevo bizantino: Gregorio Palamàs, Simeone il Nuovo Teolo­go, Massimo il Confessore, Diadoco di Fotice; e ai Pa­dri del deserto dei primi secoli: Macario ed Evagrio. Alcuni la riallacciano persino agli apostoli… (nella Filocalia). Questa preghiera si è sviluppata soprattutto nei monasteri del Sinai, al confine dell’Egitto, a partire dal VI secolo, poi sul monte Athos nel XIV secolo. Lì vi­vono ancora centinaia di monaci completamente isolati dal mondo, sempre immersi in questa preghiera del cuore. In alcuni monasteri si continua a mormorarla, come un ronzio di alveare, in altri la si dice interior­mente, in silenzio.

    La preghiera del cuore fu introdotta in Russia verso la metà del XIV secolo. Il grande mistico san Sergio di Radonez, il fondatore del monachesimo russo, la co­nosceva. Altri monaci in seguito l’hanno fatta conoscere nel XVIII secolo, poi essa si è diffusa progressivamen­te al di fuori dei monasteri, grazie alla pubblicazione della Filocalia, nel 1782. Infine, la diffusione dei Racconti del Pellegrino russo a partire dalla fine del XIX secolo l’ha resa popolare.

    La preghiera del cuore ci permetterà di progredire nella misura in cui possiamo appropriarci l’esperienza che abbiamo cominciato, in una prospettiva sempre più cristiana. In quello che abbiamo finora imparato, ab­biamo insistito soprattutto sull’aspetto affettivo e cor­poreo della preghiera e della ripetizione; adesso, fac­ciamo ancora un altro passo. Questo modo di riappro­priarsi un tale procedimento non implica un giudizio o una disistima delle altre tradizioni religiose (come il tantrismo, lo yoga…). Abbiamo qui l’occasione di collocarci nel cuore della tradizione cristiana, a proposito di un aspetto che si è tentato di ignorare nel secolo scor­so nelle Chiese d’occidente. Gli ortodossi sono rimasti più vicini a questa pratica, mentre la tradizione catto­lica occidentale recente si è evoluta piuttosto verso un approccio razionale e istituzionale del cristianesimo. Gli ortodossi sono rimasti più vicini all’estetica, a ciò che si prova, alla bellezza e alla dimensione spirituale, nel senso dell’attenzione all’opera dello Spirito Santo nell’umanità e nel mondo. Abbiamo visto che la paro­la esicasmo significa quiete, ma essa rimanda anche al­la solitudine, al raccoglimento. 

    La potenza del Nome 

    Perché nella mistica ortodossa si dice che la preghiera del cuore è al centro dell’ortodossia? Tra l’altro, perché l’invocazione incessante del nome di Gesù si collega al­la tradizione ebraica, per la quale il nome di Dio è sa­cro, poiché c’è una forza, una potenza particolare in questo nome. Secondo questa tradizione è proibito pronunziare il nome di Jhwh. Quando gli ebrei parlano del Nome, dicono: il Nome o il tetragramma, le quattro let­tere. Essi non lo pronunziavano mai, salvo una volta l’anno, al tempo in cui il tempio di Gerusalemme esi­steva ancora. Soltanto il sommo sacerdote aveva il di­ritto di pronunziare il nome di Jhwh, nel santo dei santi. Ogni volta che nella Bibbia si parla del Nome, si par­la di Dio. Nel nome stesso, c’è una presenza straordinaria di Dio.

    Si ritrova l’importanza del nome negli Atti degli Apo­stoli, il primo libro della tradizione cristiana dopo i Van­geli: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21).  Il nome è la persona, il nome di Gesù salva, guarisce, scaccia gli spiriti impuri, purifica il cuore. Ecco che cosa dice a questo proposito un sacerdote or­todosso: «Portate costantemente nel cuore il dolcissi­mo nome di Gesù; il cuore è infiammato dal richiamo incessante di questo nome diletto, di un ineffabile amo­re per lui».

    Questa preghiera si fonda sull’esortazione a pregare sempre e che abbiamo ricordato a proposito del Pelle­grino russo. Tutte le sue parole provengono dal Nuovo Testamento. È il grido del peccatore che chiede aiuto al Signore, in greco: «Kyrie, eleison». Questa formula è utilizzata anche nella liturgia cattolica. E ancora oggi viene recitata decine di volte negli uffizi ortodossi gre­ci. La ripetizione del «Kyrie, eleison» è dunque impor­tante nella liturgia orientale.

    Per addentrarci nella preghiera del cuore, non siamo obbligati a recitare tutta la formula: «Signore Gesù Cri­sto, abbi pietà di me (peccatore)»; possiamo scegliere un’altra parola che ci commuove. Bisogna tuttavia com­prendere l’importanza della presenza del nome di Gesù, quando vogliamo penetrare a fondo il significato di questa invocazione. Nella tradizione cristiana, il nome di Gesù (che in ebraico si dice Jehoshua) significa: «Dio salva». È un modo di rendere presente il Cristo nella nostra vita. Ritorneremo a parlarne. Per il momento, è possibile che un’altra espressione ci si addica meglio. L’importante è prendere l’abitudine di ripetere rego­larmente questa espressione, come un segno di tene­rezza che si esprime a qualcuno. Quando siamo avviati su un cammino spirituale e accettiamo che sia un cam­mino di relazione con Dio, scopriamo dei nomi particolari che rivolgiamo a Dio, nomi che amiamo in mo­do particolare. Sono talvolta nomi affettuosi, pieni di tenerezza, che possono essere detti secondo la relazio­ne che si ha con lui. Per alcuni, sarà Signore, Padre; per altri, sarà Papà, oppure Diletto… Una sola parola può bastare in questa preghiera; la cosa principale è non cambiare troppo spesso, ripeterla regolarmente, e che sia per chi la pronuncia una parola che lo radica nel suo cuore e nel cuore di Dio.

    Alcuni di noi possono essere riluttanti di fronte alle parole «pietà» e «peccatore». La parola pietà disturba perché ha preso spesso una connotazione doloristica o umiliante. Ma se la consideriamo nel suo primo signifi­cato di misericordia e di compassione, la preghiera può anche voler dire: «Signore, guardami con tenerezza». La parola peccatore evoca il riconoscimento delle no­stre povertà. Non vi è in ciò nessun senso di colpa in­centrato su una lista di peccati. Il peccato è piuttosto uno stato in cui percepiamo fino a che punto facciamo fatica ad amare e a lasciarci amare come vorremmo. Peccare significa «fallire il bersaglio»… Chi non rico­nosce di fallire il bersaglio più spesso di quanto vor­rebbe? Rivolgendoci a Gesù, gli chiediamo di avere compassione delle difficoltà che abbiamo a vivere al li­vello del cuore profondo, nell’amore. È una richiesta di aiuto per liberare la sorgente interiore.

    In che modo si fa questa respirazione del Nome, del nome di Gesù? Come racconta il Pellegrino russo, si ri­pete l’invocazione un certo numero di volte utilizzan­do il rosario a nodi. Il fatto di recitarla cinquanta o cen­to volte sul rosario permette di sapere a che punto si è, ma non è questa certamente la cosa più importante. Quando lo starec ha indicato al Pellegrino russo come doveva procedere, gli ha detto: «Tu cominci dapprima con mille volte e poi duemila volte…». Con il rosario, ogni volta che si dice il nome di Gesù, si fa scorrere un nodo. Questa ripetizione fatta sui nodi permette di fis­sare il pensiero, ricorda quello che si sta facendo e aiu­ta così a rimanere consapevoli del procedimento di pre­ghiera. 

    Respirare lo Spirito Santo 

    Accanto al rosario, il lavoro della respirazione ci dà il segno migliore di riferimento. Si ripetono queste pa­role al ritmo dell’inspirazione, poi dell’espirazione in modo da farle penetrare progressivamente nel nostro cuore, come vedremo negli esercizi pratici. In questo caso, i nodi non sono necessari. In ogni modo, anche in questo, non cerchiamo di fare prodezze. Appena ci inol­triamo su un cammino di preghiera con l’obiettivo di ottenere risultati visibili, seguiamo lo spirito del mon­do e ci allontaniamo dalla vita spirituale. Nelle tradi­zioni spirituali più profonde, siano esse giudaiche, in­duiste, buddhiste o cristiane, esiste una libertà in quan­to ai risultati, perché il frutto è già nel cammino. Ab­biamo dovuto farne già l’esperienza. Oseremmo forse affermare: «Sono arrivato»? Tuttavia, senza dubbio, rac­cogliamo già buoni frutti. Lo scopo è di arrivare a una libertà interiore sempre più grande, a una comunione sempre più profonda con Dio. Ciò viene dato imper­cettibilmente, progressivamente. Il solo fatto di essere in cammino, di essere attenti a quel che viviamo, è già il segno di una continua presenza al presente, nella li­bertà interiore. Il resto, non abbiamo bisogno di ricer­carlo: è dato in sovrappiù.

    Gli antichi monaci dicono: soprattutto non bisogna esagerare, non cercare di ripetere il Nome fino a ine­betirsi completamente; lo scopo non è quello di anda­re in trance. Esistono altre tradizioni religiose che pro­pongono metodi per arrivarci, accompagnando il ritmo delle parole con un’accelerazione della respirazione. Ci si può aiutare battendo sui tamburi, o con movimenti rotatori del tronco come in certe confraternite sufi. Si provoca così una iperventilazione, dunque un’iperossigenazione del cervello che determina una modifica­zione dello stato di coscienza. La persona che parteci­pa a queste trances è come trascinata dagli effetti dell’accelerazione della sua respirazione. Il fatto di essere in molti a dondolarsi insieme accelera il processo. Nel­la tradizione cristiana, quel che viene ricercato è la pa­ce interiore, senza nessuna manifestazione particolare. Le Chiese sono sempre state prudenti a proposito del­le esperienze mistiche. Normalmente, nel caso dell’estasi, la persona quasi non si muove, ma ci possono es­sere leggeri movimenti esterni. Non si ricerca nessuna agitazione né eccitazione, la respirazione serve unica­mente da supporto e da simbolo spirituale alla preghiera.

    Perché collegare il Nome al respiro? Come abbiamo visto, nella tradizione giudeo-cristiana, Dio è il soffio dell’uomo. Quando l’uomo respira, riceve una vita che gli viene data da un Altro. L’immagine della discesa della colomba – simbolo dello Spirito Santo – su Gesù al momento del battesimo è considerata nella tradizione cistercense come il bacio del Padre a suo Figlio. Nella respirazione, sì riceve il soffio del Padre. Se in quel mo­mento, in questo respiro, si pronuncia il nome del Fi­glio, sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito. Nel Van­gelo di Giovanni si legge: «Se qualcuno mi ama, osser­verà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). La re­spirazione al ritmo dei nome di Gesù dà un senso par­ticolare all’inspirazione. «La respirazione serve da sup­porto e da simbolo alla preghiera. “Il nome di Gesù è un profumo che si effonde” (cfr. Cantico dei cantici, 1,4). Il soffio di Gesù è spirituale, guarisce, scaccia i de­moni, comunica lo Spirito Santo (Gv 20,22). Lo Spiri­to Santo è Soffio divino (Spiritus, spirare), spirazione di amore in seno al mistero trinitario. La respirazione di Gesù, come il battito del suo cuore, doveva essere in­cessantemente legata a questo mistero di amore, come pure ai sospiri della creatura (Mc 7,34 e 8,12) e alle “aspi­razioni” che ogni cuore umano porta in sé. È lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)» (Serr J.).

    Ci si potrebbe basare anche sul battito del cuore per ritmare la recitazione. E’ questa la tradizione più anti­ca per la preghiera del cuore, ma ci rendiamo conto che ai nostri giorni, con gli attuati ritmi di vita, non abbia­mo più il ritmo cardiaco che aveva il contadino o il mo­naco nella sua cella. Inoltre, bisogna fare attenzione a non concentrarsi esageratamente su quest’organo. Sia­mo molto spesso sotto pressione, dunque non è consi­gliabile pregare al ritmo dei battiti del cuore. Certe tec­niche in rapporto con il ritmo del cuore possono esse­re pericolose. E’ meglio attenersi alla profonda tradi­zione del respiro, ritmo biologico fondamentale quan­to quello del cuore e che ha anche il significato mistico di una comunione con una vita che è data e accolta nella respirazione. Negli Atti degli Apostoli san Paolo di­ce: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) Secondo questa tradizione noi siamo dunque creati ad ogni istante, siamo rinnovati; questa vita viene da lui e un modo di accoglierla è di respirare coscientemente.

    Gregorio il Sinaita diceva: «Invece di respirare lo Spi­rito Santo, noi siamo riempiti dal respiro degli spiriti malvagi» (sono le cattive abitudini, le «passioni», tutto ciò che rende complicata la nostra vita quotidiana). Fis­sando la mente sulla respirazione (come abbiamo fat­to finora), essa si quieta, e noi sentiamo una distensio­ne fisica, psicologica, morale. «Respirando lo Spirito», nell’articolazione del Nome, possiamo trovare il ripo­so del cuore, e questo corrisponde al procedimento dell’esicasmo. Esichio di Batos scrive: «L’invocazione del nome di Gesù, quando è accompagnata da un deside­rio pieno di dolcezza e di gioia, riempie il cuore di gioia e di serenità. Saremo allora ricolmi della dolcezza di sentire e di provare come un incanto questa esultanza beata, perché cammineremo nella hesychia del cuore con il dolce piacere e le delizie di cui essa riempie l’anima».

    Ci si libera dall’agitazione del mondo esterno, si cal­ma la dispersione, la diversità, la corsa frenetica, per­ché noi tutti siamo spesso sollecitati in maniera molto faticosa. Quando arriviamo, grazie a questa pratica, a una maggiore presenza a noi stessi, in profondità, co­minciamo a sentirci bene con noi stessi, nel silenzio. Do­po un certo tempo, scopriamo che siamo con un Altro, perché amare è essere abitati e lasciarsi amare è lasciarsi abitare. Ritroviamo quello che dicevo a proposito del­la trasfigurazione: il cuore, la mente e il corpo ritrova­no la loro unità originaria. Siamo presi nel movimento della metamorfosi, della trasfigurazione del nostro es­sere. E’ questo un tema caro all’ortodossia. Il nostro cuore, la nostra mente e il nostro corpo si quietano e tro­vano la loro unità in Dio.

    CONSIGLI PRATICI

    Trovare la distanza giusta

    La nostra prima cura, quando ci fermiamo per impara­re la «preghiera di Gesù», sarà di ricercare il silenzio del­la mente, di evitare ogni pensiero e fissarsi nelle profon­dità del cuore. Per questo il lavoro sul respiro è di grande aiuto.

    Come sappiamo, servendoci delle parole: «Io mi la­scio andare, io mi dono, io mi abbandono, io mi ricevo» il nostro scopo non è di arrivare alla vacuità come nella tradizione zen, per esempio. Si tratta di liberare uno spa­zio interiore nel quale possiamo fare l’esperienza di essere visitati e abitati. Questo procedimento non ha nulla di magico, è un’apertura del cuore a una presenza spiritua­le dentro di sé. Non è un esercizio meccanico o una tec­nica psicosomatica; possiamo anche sostituire queste pa­role con la preghiera del cuore. Nel ritmo delta respira­zione, si può dire nell’inspirazione: «Signore Gesù Cristo», e nell’espirazione: «Abbi pietà di me». In quel momento, io accolgo il respiro, la tenerezza, la misericordia che mi sono dati come un’unzione dello Spirito.

    Scegliamo un luogo silenzioso, quietiamoci, invochiamo lo Spirito perché ci insegni a pre­gare. Possiamo immaginare il Signore vicino a noi o in noi, con la fiduciosa certezza che egli non ha altro desiderio che di colmarci delta sua pace. All’inizio, possiamo limitarci a una sillaba, a un nome: Abbà (Padre), Gesù, Effathà (apriti, rivolto a noi stessi), Marana-tha (vieni, Si­gnore), Eccomi, Signore, ecc. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula, che deve essere breve. Giovanni Climaco consiglia: «che la vostra preghiera ignori ogni mol­tiplicazione: una sola parola è bastata al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono di Dio.. La prolissità nella preghiera riempie spesso di immagini e distrae, mentre spesso una sola parola (monologia) favorisce il raccoglimento”.

    Prendiamola con calma sul ritmo della nostra respirazione. La ripetiamo in piedi, seduti o coricati, trattenendo il respi­ro per quanto è possibile, per non respirare a un ritmo troppo rapido. Se restiamo in apnea per un pò di tempo, la nostra respirazione rallenta. Diventa più distanziata, ma siamo ossigenati respirando attraverso il diaframma. Il respiro raggiunge allora un’ampiezza tale che si ha bi­sogno di respirare meno spesso. Inoltre, come scrive Teo­fane il Recluso: «Non preoccupatevi del numero delle pre­ghiere da recitare. Abbiate cura unicamente che la pre­ghiera scaturisca dal vostro cuore, zampillante come una sorgente di acqua viva. Allontanate completamente dal­la vostra mente l’idea di quantità». Anche in questo ca­so, ciascuno deve trovare la formula che gli si addice: le parole da usare, il ritmo del respiro, la durata della recitazione. All’inizio, la recitazione sarà fatta oralmente; a poco a poco, non avremo più bisogno di pronunziarla con le labbra nè di utilizzare un rosario (qualsiasi rosario può andar bene, se non si ha quello fatto di nodi di lana). Un automatismo regolerà il movimento della respirazione; la preghiera si semplificherà e giungerà fino al nostro sub-conscio per pacificarlo. Il silenzio ci pervaderà dall’interno.

    In questa respirazione del Nome, il nostro desiderio si esprime e si approfondisce; a poco a poco entriamo nella pace dell’hesychia. Situando la mente nel cuore – e pos­siamo localizzare un punto fisicamente, se questo ci aiu­ta, nel nostro petto, o nel nostro hara (cfr. tradizione zen), noi invochiamo il Signore Gesù incessantemente; cercando di fare in modo di allontanare tutto ciò che può distrarci. Quest’appren­dimento richiede tempo e non bisogna cercare un risul­tato rapido. C’è dunque da fare uno sforzo per rimanere in una grande semplicità e in una grande povertà, acco­gliendo quello che viene dato. Ogni volta che le distra­zioni ritornano, concentriamoci di nuovo sul respiro e sul­la parola.

    Quando avete preso questa abitudine, quando cammi­nate, quando vi sedete, potete riprendere la vostra respi­razione. Se a poco a poco questo nome di Dio, qualunque sia il nome che gli date, è associato al suo ritmo, sentirete che la pace e l’unità della vostra persona cresceranno. Quando qualcuno vi provoca, se provate un sentimento di collera o di aggressività, se sentite che state per non controllarvi più o se siete tentati di commettere atti che vanno contro le vostre convinzioni, riprendete la respira­zione del Nome. Quando sentite un impulso interiore che si oppone all’amore e alla pace, questo sforzo di ritrovar­vi nelle vostre profondità mediante il respiro, mediante la presenza a voi stessi, mediante la ripetizione del Nome, vi rende vigilanti e attenti al cuore. Questo vi può permet­tere di calmarvi, di ritardare la vostra risposta e di darvi il tempo di trovare la distanza giusta riguardo a un avve­nimento, a voi stessi, a qualcun altro. Può essere un me­todo molto concreto per placare i sentimenti negativi, che sono talvolta un veleno per la vostra serenità interiore e impediscono una relazione in profondità con gli altri.

    LA PREGHIERA DI GESÙ

    La preghiera di Gesù è chiamata preghiera del cuo­re perché, nella tradizione biblica, al livello del cuore si trova il centro dell’uomo e della sua spiritualità. Il cuo­re non è semplicemente l’affettività. Questa parola rimanda alla nostra identità profon­da. Il cuore è anche il luogo della saggezza. Nella mag­gior parte delle tradizioni spirituali, esso rappresenta un luogo e un simbolo importanti; talvolta è collegato al tema della grotta o al fiore del loto, o alla cella interiore del tempio. A questo propo­sito, la tradizione ortodossa è particolarmente vicina al­le fonti bibliche e semitiche. «Il cuore è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo», dice Macario, e «quan­do la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, essa regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché lì è l’intelligenza, lì si trovano i pensieri dell’anima, da lì essa attende il bene». In questa tradizione, il cuore è al «centro dell’essere umano, la radice delle facoltà dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale. È la sor­gente, oscura e profonda, da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e mediante la quale que­sti è vicino e comunica con la Sorgente della vita». Di­re che nella preghiera bisogna passare dalla testa al cuo­re, non significa che testa e cuore si oppongano. Nel cuo­re, c’è ugualmente il desiderio, la decisione, la scelta dell’azione. Nel linguaggio corrente, quando si dice che una persona è un uomo o una donna di gran cuore, si ri­manda alla dimensione affettiva; ma quando si parla di «avere un cuor da leone» si accenna al coraggio e alla determinazione.

    La preghiera di Gesù, con il suo aspetto respiratorio e spirituale, ha lo scopo di far «scendere la testa nel cuo­re»: si arriva così all’intelligenza del cuore. «E’ bene scen­dere dal cervello nel cuore – dice Teofane il Recluso –. Per il momento non ci sono in voi che riflessioni tutte ce­rebrali su Dio, ma Dio stesso rimane all’esterno». È stato detto che la conseguenza della rottura con Dio è una specie di disintegrazione della persona, una perdi­ta dell’armonia interiore. Per riequilibrare la persona con tutte le sue dimensioni, il procedimento della pre­ghiera del cuore mira a collegare la testa e il cuore, per­ché «i pensieri turbinano come fiocchi di neve o sciami di moscerini in estate». Possiamo quindi raggiungere una comprensione molto più profonda della realtà uma­na e spirituale.

    L’illuminazione cristiana

    Poiché pronunciare il nome di Gesù libera il suo sof­fio in noi, l’effetto più importante della preghiera del cuore è l’illuminazione, che non è una manifestazione sentita fisicamente, benché possa avere effetti sul cor­po. Il cuore conoscerà il calore spirituale, la pace, la lu­ce, così bene espresse nella liturgia ortodossa. Le Chie­se d’Oriente sono decorate di icone, ciascuna con il suo lumicino che vi si riflette, segno di una presenza miste­riosa. Mentre nella teologia mistica occidentale si è in­sistito, tra l’altro, sull’esperienza della notte oscura (con le tradizioni carmelitane, come quella di san Giovanni della Croce), in Oriente sono messe in risalto l’illumi­nazione, la luce della trasfigurazione. I santi ortodossi sono trasfigurati più che se ricevessero le stigmate (Nella tradizione cattolica alcuni santi come Francesco d’Assisi hanno ricevuto nella loro carne le tracce delle piaghe della crocifissione, unendosi così alla sofferenza del Cristo crocifisso). Si parla della luce taborica, perché sul mon­te Tabor, Gesù è stato trasfigurato. La crescita spirituale è un cammino di tra­sfigurazione progressiva. E’ la luce stessa di Dio che fi­nisce col riflettersi sul viso dell’uomo. Per questo siamo chiamati a diventare noi stessi icone della tenerezza di Dio, sull’esempio di Gesù. Nella misura in cui ritrovia­mo la nostra sorgente nascosta, a poco a poco la luce interiore traspare nel nostro sguardo. C’è una grazia di commossa partecipazione che imprime una grande dol­cezza nello sguardo e sul viso dei religiosi dell’Oriente.

    È lo Spirito Santo che realizza l’unità della persona. Lo scopo ultimo della vita spirituale è la deificazione dell’essere umano secondo la tradizione ortodossa, va­le a dire una trasformazione interiore che ristabilisce la somiglianza ferita dalla rottura con Dio. L’uomo diventa sempre più vicino a Dio, non con le sue forze, ma per la presenza dello Spirito che favorisce la preghiera del cuore. C’è una grande differenza tra le tecniche di me­ditazione, in cui si cerca di raggiungere un certo stato di coscienza attraverso sforzi personali, e un metodo di preghiera cristiana. Nel primo caso, il lavoro su se stes­si – che è certamente necessario per ogni cammino spi­rituale – è realizzato unicamente da se stessi, eventual­mente con un aiuto umano esterno, per esempio quel­lo di un maestro. Nel secondo caso, anche se ci si ispira ad alcune tecniche, l’approccio è vissuto in uno spirito di apertura e di accoglienza a una Presenza trasfor­mante. A poco a poco, grazie alla pratica della preghiera del cuore, l’uomo ritrova un’unità profonda. Quanta più si radica questa unità, tanto meglio egli può entrare nella comunione con Dio: è già un annuncio della risurre­zione! Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Non c’è nul­la di automatico né di immediato in questo procedi­mento. Non basta essere pazienti, è ugualmente im­portante accettare di essere purificati, vale a dire rico­noscere le oscurità e le deviazioni in noi che impedi­scono l’accoglimento della grazia. La preghiera del cuo­re stimola un atteggiamento di umiltà e di pentimento che ne condiziona l’autenticità; è accompagnata da una volontà di discernimento e di vigilanza interiore. Di fronte alla bellezza e all’amore di Dio, l’uomo prende coscienza del suo peccato ed è invitato a incamminar­si sulla via della conversione.

    Che cosa dice dell’energia divina questa tradizione? Il corpo può risentire anch’esso fin da ora gli effetti dell’illuminazione della risurrezione. Fra gli ortodossi esi­ste un dibattito sempre attuale a proposito delle ener­gie. Sono create o increate? Sono l’effetto di un’azione diretta di Dio sull’uomo? Di quale natura è la deifica­zione? In che modo Dio, trascendente e inaccessibile nella sua essenza, potrebbe comunicare le sue grazie all’uomo, al punto di «deificarlo» con la sua azione? L’interesse dei nostri contemporanei per la questione dell’energia obbliga a soffermarsi brevemente su tale do­manda. Gregorio Palamàs parla di una «partecipazio­ne» a qualche cosa tra il cristiano e Dio. Questo qual­cosa, sono le “energie” divine, paragonabili ai raggi del sole che apportano luce e calore, senza essere il sole nella sua essenza, e che noi tuttavia chiamiamo: sole. So­no queste energie divine che agiscono sul cuore per ri­crearci a immagine e somiglianza. Con ciò, Dio si dona all’uomo senza cessare di essere trascendente a lui. Attraverso questa immagine, vediamo come, mediante un lavoro sul respiro e sulla ripetizione del Nome, pos­siamo accogliere l’energia divina e permettere che si realizzi progressivamente in noi una trasfigurazione dell’essere profondo.

    Il Nome che guarisce

    A proposito del pronunciare il Nome, è importante non porsi in un atteggiamento che rientrerebbe nell’ambito della magia. La nostra è una prospettiva di fe­de in un Dio che è il pastore del suo popolo e che non vuole perdere nessuna delle sue pecore. Chiamare Dio con il suo nome vuol dire aprirsi alla sua presenza e al­la potenza del suo amore. Credere nella forza dell’evo­cazione del Nome, significa credere che Dio è presen­te nelle nostre profondità e aspetta solamente un segno da parte nostra per colmarci della grazia di cui abbia­mo bisogno. Non dobbiamo dimenticare che la grazia è sempre offerta. Il problema viene da noi che non la chiediamo, non l’accogliamo, oppure non siamo capaci di riconoscerla quando essa opera nella nostra vita o in quella degli altri. La recitazione del Nome è dunque un atto di fede in un amore che non cessa di donarsi, un fuoco che non dice mai: «Basta!».

    Adesso forse comprendiamo meglio come, oltre al lavoro che abbiamo iniziato sul corpo e il respiro, è pos­sibile, per quelli che lo desiderano, introdurre la di­mensione della ripetizione del Nome. Così, a poco a po­co, lo Spirito si unisce alla nostra respirazione. In con­creto, dopo un apprendimento più o meno lungo, quan­do abbiamo un momento di calma, quando camminia­mo per strada o quando stiamo nella metropolitana, se entriamo nella respirazione profonda, spontaneamen­te, il nome di Gesù può visitarci e ricordarci chi siamo noi, figli diletti del Padre.

    Attualmente, si ritiene che la preghiera del cuore pos­sa sollecitare il subcosciente e attuare in esso una for­ma di liberazione. Infatti, lì giacciono dimenticate realtà cupe, difficili e angosciose. Quando questo Nome be­nedetto pervade il subcosciente, scaccia gli altri nomi, che sono forse distruttori per noi. Ciò non ha nulla di automatico e non sostituirà necessariamente un pro­cedimento psicanalitico o psicoterapeutico; ma nella fe­de cristiana, questa visione dell’opera dello Spirito fa parte dell’incarnazione: nel cristianesimo, lo spirito e il corpo sono inseparabili. Grazie alla nostra comunione con Dio, che è relazione, pronunciare il suo Nome può liberarci dalle oscurità. Si legge nei Salmi che quando un povero grida, Dio risponde sempre (Sal 31,23; 72,12). E l’amata del Cantico dei Cantici dice: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (Ct 5,2). Possiamo qui pensare all’immagine della mamma che dorme, ma sa che il suo bimbo non sta molto bene: lei si sveglierà al minimo ge­mito. È una presenza dello stesso genere che si può spe­rimentare nei momenti importanti della vita amorosa, della vita parentale, filiate. Se amare è essere abitati, lo stesso può dirsi anche per la relazione che Dio intrat­tiene con noi. Scoprirlo e viverne è una grazia da chie­dere.

    Quando prepariamo un incontro importante, ci pen­siamo, ci predisponiamo ad esso, ma non possiamo as­sicurare che sarà un incontro riuscito. Ciò non dipende del tutto da noi, ma dipende anche dall’altro. Nell’incontro con Dio, quel che dipende da noi è preparare il nostro cuore. Anche se non conosciamo nè il giorno nè l’ora, la nostra fede ci assicura che l’Altro verrà. A tal fine è necessario che noi ci poniamo già in un approc­cio di fede, anche se è una fede ai primi passi. Avere l’audacia di sperare che effettivamente c’è qualcuno che viene a noi, anche se non sentiamo nulla! È un mettersi continuamente in presenza, cosi come respiriamo ad ogni istante, e il nostro cuore batte senza fermarsi. Il nostro cuore e il nostro respiro sono vitali per noi, così questo mettersi in presenza diventa vitale da un punto di vista spirituale. Progressivamente, tutto diventa vita, vita in Dio. Certamente, non lo sperimentiamo in permanenza, ma in certi momenti possiamo intuirlo Quei momenti ci incoraggiano, quando abbiamo l’im­pressione di perdere tempo nella preghiera, cosa che, senza dubbio, ci accade spesso…

    Attendere l’inatteso

    Noi possiamo attingere dalla nostra propria espe­rienza di relazione, dal ricordo dei nostri stupori da­vanti a ciò che abbiamo scoperto di bello in noi e negli altri. La nostra esperienza ci rivela l’importanza della capacità di riconoscere la bellezza sul nostro cammino. Per alcuni sarà la natura, per altri l’amicizia; in poche parole, tutto ciò che ci fa crescere e ci fa uscire dalla ba­nalità, dal tran tran quotidiano. Attendere l’inatteso ed essere ancora capaci di meravigliarsi! «Attendo l’inat­teso», mi diceva un giorno un giovane in cerca di voca­zione, incontrato in un monastero: allora gli ho parlato del Dio delle sorprese.

    È un cammino che richiede tempo. Ricordiamoci che abbiamo detto che la risposta è già presente nel cam­mino stesso. Siamo tentati di porci la domanda: quan­do arriverò e quando avrò la risposta? L’importante è esserci messi in cammino, bevendo ai pozzi che incon­triamo, pur sapendo che ci vorrà molto tempo per ar­rivare. L’orizzonte si allontana quando ci si avvicina al­la montagna, ma c’è la gioia del cammino che accompagna l’aridità della fatica, c’è la vicinanza dei compa­gni di cordata. Non rimaniamo soli, siamo già rivolti verso la rivelazione che ci aspetta sulla vetta. Quando siamo consapevoli di questo, diventiamo pellegrini dell’assoluto, pellegrini di Dio, senza ricerca del risultato.

    È molto difficile per noi occidentali non mirare all’efficacia immediata. Nel celebre libro indù Bhaga­vadgita, Krishna dice che bisogna lavorare senza desi­derare il frutto della nostra fatica. I buddhisti aggiun­gono che bisognerebbe liberarsi dal desiderio che è il­lusione, per raggiungere l’illuminazione. Molto più tar­di, in Occidente, nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyo­la insisterà sull’«indifferenza», che consiste per lui nel conservare una giusta libertà interiore riguardo a una decisione importante, finché il discernimento conferma la scelta opportuna. Tuttavia, come abbiamo visto, nel cristianesimo il desiderio rimane una realtà importan­te per il cammino spirituale. Esso unifica nell’impulso che ci fa uscire da noi stessi in direzione di una pienez­za, e tutto questo in una grande povertà. Infatti, il de­siderio ci produce un vuoto nell’anima, perché possia­mo desiderare solo ciò che non abbiamo ancora, e dà il suo slancio alla speranza.

    Questo ci aiuta a pensare «giusto», perché il nostro pensiero è anche un pensiero del cuore, e non soltanto un esercizio unicamente intellettuale. La rettitudine del pensiero illuminato dal cuore e gli stati del nostro cuo­re ci dicono qualcosa della rettitudine delle nostre re­lazioni. Lo vedremo presto nella tradizione ignaziana, quando parleremo della «mozione degli spiriti». Que­sta espressione di sant’Ignazio di Loyola è un altro mo­do di parlare degli stati del cuore, che ci dicono come noi viviamo la nostra relazione a Dio e agli altri. Noi occidentali viviamo soprattutto al livello dell’intelletto, della razionalità, e riduciamo talvolta il cuore all’emo­tività. Siamo allora tentati sia di neutralizzarlo, sia d’i­gnorarlo. Per alcuni di noi, quel che non si misura non esiste, ma questo è tuttavia in contraddizione con l’e­sperienza quotidiana, perché la qualità della relazione non si misura.

    Nel mezzo della scissione dell’uomo, della dispersio­ne causata dalla distrazione, la recitazione del Nome al ritmo della respirazione ci aiuta a ritrovare l’unità del­la testa, del corpo e del cuore. Questa preghiera conti­nua può diventare veramente vitale per noi, nel senso che segue i nostri ritmi vitali. Vitale anche nel senso in cui, nei momenti nei quali la nostra vita è messa in di­scussione, minacciata, noi viviamo le esperienze più in­tense. Allora, possiamo chiamare il Signore con il suo Nome, renderlo presente e, a poco a poco, entrare nel movimento dell’illuminazione del cuore. Non siamo ob­bligati ad essere per questo dei grandi mistici. In certi momenti della nostra vita, possiamo scoprire che sia­mo amati in un modo assolutamente indescrivibile, che ci riempie di gioia. È questa una conferma di quel che c’è di più bello in noi e dell’esistenza dell’Essere ama­to; può durare soltanto pochi secondi, e diventare tut­tavia come una pietra miliare sul nostro cammino. Se non c’è una causa precisa a questa gioia intensa, sant’I­gnazio la chiama una «consolazione senza causa». Per esempio, quando non è una gioia che proviene da una buona notizia, da una promozione, da una gratificazio­ne qualunque. Essa ci pervade all’improvviso, e questo è il segno che viene da Dio.

    La preghiera di colui che veglia

    Infine, possiamo parlare brevemente di un metodo di preghiera praticato in ambienti cattolici, non estra­neo a quel che abbiamo considerato finora. Ai giorni nostri, alcuni trappisti americani (cfr. La preghiera centrica del padre trappista  B. Pennington) propongono dì prati­care la «preghiera del vegliante». E’ una preghiera che mira a favorire la concentrazione ed è ripresa da una tradizione, molto antica, conservata in un libro intito­lato LA NUBE DELLA NON-CONOSCENZA. Questo libro è sta­to scritto in Inghilterra nel XIV secolo ed era molto conosciuto alla fine del Medioevo; l’autore è rimasto ano­nimo. Quest’opera viene riscoperta attualmente, grazie a nuove traduzioni. Vi si legge, a proposito dell’uso di una sola parola nella preghiera: Se vuoi ripiegare e avvolgere l’attenzione in una sola parola così da tenerla più saldamente, prendi una parola corta, meglio se di una sola sillaba: più è corta, più si in­tona all’opera dello spirito. Una tale parola può essere «Dio» o ancora «Amore». Scegli una di queste due o un’al­tra di tuo gradimento. E questa parola legala stretta al tuo cuore, così che non se ne stacchi più, qualunque cosa ac­cada. Questa parola sarà il tuo scudo e la tua lancia, sia in pace che in guerra. Con questa parola picchierai sulla nu­be e sull’oscurità che ti sovrasta. Con questa parola sop­primerai ogni pensiero sotto la nube dell’oblio. A tal pun­to che se qualche pensiero ti metterà sotto pressione chie­dendoti cosa mai stai cercando, gli risponderai se non con questa semplice parola. E se si farà avanti con la sua scien­za per spiegarti il significato di quella stessa parola ed esporne le varie proprietà, gli dirai che vuoi conservarla intatta nella sua interezza, e non intendi ridurla in briciole

    I monaci di cui stiamo parlando ripetono parole co­me: alleluia, salvatore, Marana-tha (vieni, o Signore); Kyrie, Signore, Gesù, Padre, Abbà, Spirito Santo, ecc. Ecco le loro regole per questa pratica che è simile a quel che abbiamo visto precedentemente: Scegliamo un luogo relativamente tranquillo dove non saremo interrotti, sediamoci ben dritti, con i piedi posati in piano per terra, chiudiamo gli occhi e rilassiamoci; pre­stiamo attenzione particolarmente alle parti del corpo che sentiamo troppo tese. Possiamo anche appoggiarci su un piccolo banco o un cuscino; l’essenziale è stare comodi (sic) per non muoverci e non disturbare la nostra preghiera.  Cominciamo a ripetere la nostra parola e continuiamo per tutto il tempo della preghiera. Quando ci rendiamo conto di una distrazione ripetiamo la nostra parola dolcemente. Terminato il tempo della preghiera distacchiamocene piano piano recitando il Padre nostro e rialziamoci tranquillamente

    Questi monaci propongono una durata di venti minu­ti, una volta al giorno, di preferenza al mattino. In tale proposta manca la respirazione; non si parla del respiro. Peccato, perché per conservare l’immobilità e per rilas­sare il corpo, la consapevolezza del respiro è molto im­portante. Indichiamo tuttavia una pista per quelli che vo­gliono adeguarsi al lavoro che abbiamo finora fatto se­condo un procedimento più esplicitamente occidentale.

    Nell’uso dei mantra, si utilizza il nome di una divinità o un’altra parola che ha una qualità di vibrazione par­ticolare; si tratta ancora di “energetismo”. Nel nostro pro­cedimento, il nome serve da supporto alla concentra­zione; noi guardiamo soprattutto a un atteggiamento interiore, il suono fisico è secondario. Il nome di Dio è un vero luogo di comunicazione con Qualcuno che è vivo ed esiste. Questo nome agisce in noi per il fatto che siamo stati creati da lui e che da lui riceviamo il re­spiro a ogni momento. E’ dunque molto più di un sup­porto: è una realtà mistica.

    CONSIGLI PRATICI

    Pregare con prudenza e pazienza

    Nella Bibbia, c’è una scelta illimitata di nomi dispo­nibili per rivolgersi a Dio. Nell’Antico Testamento, s’incontra un gran numero di espressioni usate nei salmi: mia roccia, mio baluardo, mia fortezza, mia forza, mia luce, mia salvezza, mio liberatore. Vengono usate le im­magini del pastore, del vignaiolo, dell’amato (Cantico dei Cantici), del padre o della madre, del guerriero, del creatore, del potente, ecc. L’interesse dei Salmi consi­ste nel fatto che rispecchiano tutti i sentimenti umani possibili nei confronti di Dio, dall’abbandono fiducio­so del bambino fino alla collera e al mercanteggiamento affinché Dio agisca. Quanto al Nuovo Testamento, il più frequente è senza dubbio l’appellativo di Padre, ma le parabole presentano aspetti diversi di Dio, provenienti dall’Antico Testamento, Alphonse e Rachel Goettmann propongono anche alcune formule come «da me verso te» nell’espirazione, «tutto, in te» tra le due, e «da te» nell’inspirazione. Oppure «da me verso te» nell’e­spirazione e «da te verso me» nell’inspirazione.     im­portante è vivere intensamente attraverso le parole uti­lizzate. L’uso del Nome mobilita la persona che prega e fa agire la potenza dello Spirito. Non si tratta di ada­giarsi in un mondo chiuso e confortevole. Alphonse e Rachel Goettmann insistono sui legame tra combatti­mento ascetico e preghiera del cuore.
    La preghiera del cuore è stata oggetto di discussione e di sospetto a causa dei rischi di ripiegamento su se stessi e di illusione in quanto ai risultati. La ripetizione assidua di una formula può provocare una vera e propria vertigi­ne. La concentrazione esagerata sulla respirazione o sul ritmo del cuore può determinare malessere in certe persone fragili. C’è anche il rischio di confondere la preghie­ra con il desiderio di prodezze. Non si tratta di forzare per arrivare a un automatismo o a una corrispondenza con un certo movimento biologico. Perciò, in origine, questa pre­ghiera veniva insegnata soltanto oralmente e la persona era seguita da un padre spirituale. Ai giorni nostri, questa preghiera è di pubblico dominio; molti sono i libri che ne parlano e le persone che la praticano, senza un particola­re accompagnamento. Ragione di più per non forzare nulla. Niente sarebbe più contrario al procedimento che il voler provocare un sentimento di illuminazione, confon­dendo l’esperienza spirituale di cui parla la Filocalia con una modificazione dello stato di coscienza. Non si deve trattare né di merito, nè di psicotecnica ricercata per se stessa.

    Questa maniera di pregare non è adatta a tutti. Essa esige una ripetizione e un esercizio quasi meccanico all’i­nizio, che scoraggia alcune persone. Inoltre, sorge un fenomeno di stanchezza, perché il progresso è lento e, tal­volta, ci si può trovare davanti a un vero e proprio muro che paralizza lo sforzo. Non bisogna dichiararsi vinti, ma, anche in questo caso, si tratta di essere pazienti con se stes­si. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula. Ri­cordo che il progresso spirituale non può essere raggiun­to unicamente mediante la pratica di un metodo, qualun­que esso sia, ma implica un atteggiamento di discernimento e di vigilanza nella vita quotidiana. Infine, ci sono altri modi di pregare in cui l’attenzione al respiro e la consapevolezza del corpo servono vantag­giosamente da introduzione e da preparazione.

     

     

  • 23 Nov

     LE VIE ALLA CONOSCENZA DI DIO

    OBIETTIVO DEL CORSO:

    EVIDENZIARE LE DIFFICOLTA’ IN ORDINE ALLA COMUNICAZIONE UMANA E SPIRITUALE

     


    L’approccio al Kerigma non è sufficiente per aprire alla comunicazione spirituale.

    Questa problematica s’inserisce nel processo più vasto della

    • Consegna della Parola
    • Risonanza della Parola

    Questa tematica sta diventando d’attualità; è il servizio della Parola scandito dalla Traditio e dalla Redditio. Essa si propone come Premessa al Primo Annuncio.

    E’ possibile una Traditio Verbi senza una Redditio? La prassi consiste in una proposta d’ascolto, ma non prevede la redditio. Ciò può essere valido nella pastorale ordinaria, ma è senz’altro insufficiente per un’Iniziazione alla fede.

    Come si organizza la Redditio? Nella tradizione cristiana dell’Effatà.

    Nell’ultimo incontro CEI, Mon. Chiarinelli ha rilevato come, nonostante tutti gli aggiornamenti e gli sforzi fatti in ordine ad una catechesi rinnovata, non si è approdati a nulla.

    COME DIRE GESU’ CRISTO AGLI UOMINI DEL NOSTRO TEMPO?

     Il problema non è solo dottrinale, ma operativo.

    L’annuncio della Buona Notizia  propone un’esperienza d’ascolto. Cosa significa Ascoltare?

    Risponde la Santa Scrittura? L’ascolto è la via alla conoscenza di Dio.

    Ma questo è vero per ogni esperienza religiosa? No! L’affermare che la conoscenza di Dio passa attraverso l’ascolto è una scelta culturale che va rispettata; non si tratta di una parola in un senso metaforico, è una parola “acustica”. Privilegia l’orecchio rispetto all’occhio. La forma si coglie: questo ci richiama a quel filone di filosofia che contrapponeva l’epistemologia di tipo occidentale centrata sulla vista, a quella di tipo semitico centrata, invece, sull’ascolto.

    Attraverso lo sguardo cosifico la realtà e la possiedo, perciò anche Dio diventa oggetto. L’udito “si tende”a cogliere una Parola che gli è rivolta.

    L’occhio tende a possedere la verità e spersonalizza il rapporto. Anche nei rapporti interpersonali quando “si scruta con gli occhi” c’è il tentativo di possedere la personalità dell’altro. In questo modo non si costruisce sicuramente una fraternità; essa nasce da un ascolto umile, che pone quindi lo sguardo verso il basso, in atteggiamento di accoglienza dell’altro così com’è e come si manifesta.

    Il primo approccio (fondato sullo sguardo) è quello della tradizione greco/latina, il secondo è quello della tradizione biblica.

    Nell’impostazione semitica la conoscenza dell’oggetto naturale, ha come modello la conoscenza interpersonale che rispetta il soggetto e non lo assimila ad un oggetto da esplorare e possedere.

    La nostra educazione, scolastica e non, è tutta di tipo occidentale; l’apprendimento è stato fondato sull’occhio e sulla ragione, piuttosto che sull’ascolto.

    Alla luce della nostra esperienza di conoscenza e di riflessione religiosa, quali sono le vie della conoscenza di Dio?

    • La contemplazione della natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La mediazione della tradizione

    LA CONTEMPLAZIONE DELLA NATURA

    E’ la via universale alla conoscenza di Dio; Dio s’identifica con una manifestazione della natura: il vulcano, il tuono, il turbine ecc…

    La conoscenza di Dio a livello universale passa attraverso la contemplazione (sguardo che insiste, che si sofferma sulla realtà e la interpreta); da qui nasce il mito.

    Chiediamoci: quanto ha inciso nell’evoluzione della nostra esperienza religiosa l’incontro con Dio attraverso la natura?

    • La dolcezza della natura
    • La maestosità della natura
    • L’immensità del mare, la distesa placida delle acque illuminate dall’alba o dal tramonto
    • Il mormorio della risacca sulla riva del mare
    • Il mare in burrasca

    La montagna è il luogo dell’incontro con Dio; sulle alture si respira il mondo di Dio.

    Ma perché il senso religioso mette Dio nella natura? Si tratta di un’oggettivazione cosmologica che evidenzia la percezione della trascendenza di Dio. Dio E’ in alto e non lo posso raggiungere. Che cosa mi è inesplorabile? Il cielo.

    Pensate:

    • Al silenzio
    • Al fruscio del vento
    • Al miracolo della primavera: sui rami secchi e spogli spunta una gemma verde
    • Alla nascita di un bambino….

    Vi siete ricordati alcuni particolari nella vostra storia? Quegli incontri con la natura sono stati mediazioni dell’incontro con Dio?

    Come può la nostra pastorale ricuperare quel patrimonio che è legato al vissuto di fede e di provvidenza vissuto dalle nostre persone anziane?

    • Pastorale delle stelle: “I cieli narrano la gloria di Dio…”
    • Pastorale della montagna “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?”

    Purtroppo il recupero di questi valori è affidato ai movimenti ambientalisti, così che la natura è proposta in chiave antireligiosa:

    Che cosa dice l’esperienza di fede al riguardo? Che il Signore prende l’iniziativa attraverso queste manifestazioni della natura, per toccarci, per visitarci; è come se il Signore aspettasse il momento in cui la nostra attenzione si posa su un particolare e una voce interiore c’invitasse:”Guarda, solleva lo sguardo, mi manifesto a te attraverso un riflesso della gloria del mio Volto”.

    Il contatto con la natura ha un aspetto particolare, ma non sempre questo ha un seguito di tipo religioso….

    Dall’analisi delle vostre esperienze si comprende che attraverso la contemplazione della natura possiamo vivere sentimenti contrastanti:

    • Sintonia, pace, armonia che acquieta, placa (in questo senso possiamo parlare di un’efficacia sacramentale).
    • Senso d’estraneità, di lontananza, d’esilio.

    Risonanze contrastanti, antagoniste, ambivalenti:le stelle affascinanti possono essere molto calde e molto fredde; l’universo sterminato segno di un Assoluto vicino, prossimo, è nello stesso tempo infinitamente lontano…A volte accanto alla sensazione di essere protetti e custoditi, sperimentiamo l’esperienza del naufrago, dell’abbandonato, del derelitto alla deriva.

    “Sono qui su questa terra, trafitto da un raggio di sole”.

    La natura svela l’infinito; è cifra e icona dell’infinito, ma Dio è al di là.

    Ma chi è Dio? Che cosa è il mio quotidiano che nello stesso tempo è prevedibile e imprevedibile?

    In questo contrasto si colloca il momento religioso.

    Dio merita fiducia oppure no?

    Quest’esperienza dell’incontro con Dio nella natura è segnata DALL’AMBIGUITA’: bellissima la natura, ma questa si trasforma in orrore; incantevole il paesaggio fino a che tutto va e non si trasforma in disagio…

    Bella la vita, ma  poi c’è la morte! Chi ha l’ultima parola, la vita o la morte?

    Dio chi è? Nostro creatore e anche nostro carnefice, Colui che ci ha creato a termine? Ma perché la vita è segnata dalla morte?

    Queste sono le grandi tematiche in cui la nostra coscienza deve addentrarsi! Noi non svegliamo gli interrogativi perché viviamo di rendita delle risposte che ormai sono diventate nostre.

    Mi lascio interrogare dalle angosce dell’uomo del nostro tempo il quale dice: ma DIO DOVE E’?Che cosa  può dire ad un malato terminale l’esuberanza della natura?Da una parte contempla i fiori spuntare su un ramo secco e, dall’altra, sperimenta il disfacimento della carne nel suo fisico

    ABBIAMO UN’ALTRA RISPOSTA ATTRAVERSO QUELLO CHE CI VIENE CONSEGNATO CON LA MORTE E LA RISSURREZIONE DI GESU’

    La vita è per la morte? Se si, la vita è la celebrazione della morte!

    Israele ha vissuto molto quest’interrogativo e non ha mai sviluppato in proprio la credenza dell’immortalità dell’anima. La risposta a quest’interrogativo era: La generazione, i figli!

    Oggi la nostra società ha abolito questa risposta;

    e allora cosa resta agli uomini del nostro tempo? La speranza cristiana no, la risposta della generazione neppure e così restiamo con la nostra incertezza, tiriamo avanti con la nostra vista corta per poi cadere nella voragine della solitudine e della vecchiaia, con la prospettiva dell’eutanasia.

    Oggi ci si proietta nella prospettiva del CARPE DIEM dove va a finire l’amore? Diventa solo una rapina. La vita è una benedizione o una maledizione? (cfr. Giobbe).

    Nel nuovo Testamento troviamo spunti del genere (cfr. Rom. 1 ecc…) Ma le riflessioni che abbiamo fatto sull’ambiguità della conoscenza di Dio attraverso la natura non smentiscono, ma completano la riflessione di S. Paolo.

    Oggi si deve pretendere che una conoscenza naturale di Dio trasferisca sul piano della teologia biblica. C’è o non c’è Dio!Il vero problema è quello di sempre: chi è Dio. La nostra tradizione culturale si è intestardita per mostrare l’esistenza di Dio, all’uomo biblico interessa sapere CHI E’ DIO!

    LA VIA DELL’INTERIORITA’= VIA DELLA COSCIENZA

    Le quattro vie della conoscenza di Dio non sono separate tra loro ma si intersecano, portano a dare a ciascuno di noi un particolare volto di Dio; un forte legame esiste tra la via della conoscenza di Dio attraverso la natura e la via della conoscenza di Dio nell’interiorità. Il contatto con la natura porta l’uomo a contatto con Dio: il nostro desiderio di contemplare Dio attraverso la natura si trasforma in un desiderio interiore: sentire Dio dentro di sé, nel profondo del proprio cuore, un dolore acuto, una necessità che se non consumata ci porta ad una consumazione.

    Nel cuore dell’uomo abita la verità. Ascolta la profondità della tua coscienza e nel profondo coglierai la voce di Dio: Già nel tempio di Gerusalemme la parte più interna è la CELLA; nel Santo dei Santi abitava Dio. La presenza del Signore nel tempio di Gerusalemme era legata al fatto che lì vi erano conservate le Tavole della Legge, la Verga d’Aronne, un vasetto con la manna….

    La nostra coscienza è un tempio e, nella sua parte più intima, vi abita Dio.

    Fare silenzio…fare vuoto…Interiorità abissale! Nella notte del profondo della coscienza si accende l’alba della verità! l’interiorità è una via sapienziale.

    “Anche di notte il mio cuore m’ istruisce…” E S: Paolo “…Lo Spirito prega dentro di noi con gemiti inesprimibili!” Sono inesprimibili proprio perché veniamo associati alla preghiera dello Spirito che prega così: sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno….

    L’interiorità comporta delle condizioni:

    • Il silenzio: dove c’è confusione è difficile raggiungere quello stato necessario per guardare dentro di sé
    • Il raccoglimento
    • La separazione dalla vita ordinaria troppo chiassosa e dispersiva : l’effetto delle preoccupazioni disperdono la nostra vita, occorre quindi fare ordine, trovare il tempo dello stare con e non del fare.                     
    • La guida di un compagno di cammino, di una guida più esperta di noi: fare luce nel cuore attraverso l’esperienza di un altro cuore; nel cuore c’è il bene e il male, abbiamo bisogno di aiuto perché quello che abbiamo dentro può essere il tutto o il contrario del tutto.
    • L’iniziazione alla vita dello Spirito

    La coscienza è una realtà sacra, perché nel profondo di essa scopro di Dio

    La domanda che facciamo è questa:

    Quanto ciascuno di noi ha conosciuto il Signore attraverso la via dell’interiorità?

    L’allontanamento dagli uomini, dal chiasso, ecc… comporta sempre uno strappo; tale strappo è compensato dalla presenza di Dio. Il Sapiente è colui che “riconosce i sapori”, “tasta” il gusto interiore della coscienza; conosce il sapore delle cose, le cose che valgono e quelle che non valgono.

    La tradizione cristiana dice: di Dio non si dice nulla, quindi mettiamoci in ascolto.

    Molti sono gli interrogativi che sorgono nell’animo umano. Io chi sono? Una realtà definita o l’avventura del mio essere io? Più cresco nella conoscenza di me e più mi accorgo di non conoscermi; più so chi sono e più io so di non sapere chi sono.Questo comporta dolore, perché è una profonda sofferenza. L’identità è un dono, non è una conquista. Per crescere ognuno di noi ha bisogno di assumere il rischio della propria soggettività: è il rischio della solitudine e la strada per arrivarvi è quella dell’interiorità.

      • Se comincio a aderire al cammino della verità, dove andrò a finire?
      • Mi troverò d’accordo con quello che sono stato, con quello che credo di essere?Ma è possibile che la nostra pastorale, portatrice di tanti tesori, debba essere sopraffatta dall’ultimo guru

    L’umanità del nostro tempo, così superficiale, ha abbandonato la via dell’interiorità, così che chiunque venga dall’Oriente può aprire una sua scuola e trova ADEPTI proprio perché risponde ad un bisogno.

    Le questioni di tipo psicologico e spirituale si sovrappongono. Nella realtà del nostro tempo la coscienza è talmente poco coltivata che nessuna proposta di tipo spirituale può essere fatta senza una presa di coscienza di carattere psicologico.

    Il bisogno di fare branco è così grande che i giovani sono sempre più incapaci di stare da soli, “farsela con sé è sempre una gran fatica”.Questo porta a una gran povertà interiore.

    Attraverso l’animazione di gruppo è possibile portare ad una scoperta dell’interiorità e da lì, poi, si farà gustare il poter stare da soli.

    Una grande operazione culturale sarebbe quella di aiutare gli uomini del nostro tempo a ritrovare una coscienza, proprio perché i mezzi d’evasione di cui si dispone sono potenti e pericolosi.

    • Quanto credito merita il mio sentire?
    • La mia percezione interiore di Dio è autentica oppure è una mia costruzione?
    • Sto davvero parlando con qualcuno, o il mio è un monologo?

    Anche questa via, però, è segnata da ambiguità e ambivalenza!

    Resta però sempre il dubbio e se anche per quanto ci riguarda, viviamo serenamente questo dubbio, di fronte al mondo la nostra esperienza interiore non dice nulla.

    Il credente deve imparare a stare al mondo in umiltà, per portare con mansuetudine i sospetti e i dubbi degli altri. Dobbiamo riconoscere questa difesa, per permettere al mondo di sospettare e di diffidare della nostra esperienza. L’esperienza interiore si dà, è antitrionfalistica e non è arrogante!

    Attraverso questa via sperimentiamo quindi che Dio è buono e cattivo, è presenza amorosa ed accogliente e, nello stesso tempo, giudice rigoroso e severo.

    San Giovanni dice: “se la tua coscienza ti rimprovera, ricordati che Dio è più grande del tuo cuore! (Cfr. Ps. 138-63)

    L’interiorità spirituale ci interroga sulla nostra identità, ma al fondo della verità di noi stessi non arriveremo mai; non potremo mai conoscerci come siamo conosciuti.

    Nolite judicare! Il processo conclusivo della conoscenza è il giudizio, quando Gesù dice: non giudicate! ci sollecita a non tirare delle conclusioni, perché gli elementi che noi abbiamo delle persone non sono mai esaustivi. La maturità sapienziale della coscienza porta ad usare verbi tipo “mi sembra, mi pare…”, nel senso che nelle decisioni bisogna procedere, ma in punta di piedi, consapevoli della precarietà delle nostre conoscenze.

    Le nostre non sono mai conclusioni assolute, ma sempre provvisorie, aperte alla verifica. Nella parrusia vedremo più chiaro e conosceremo così come siamo conosciuti.

    LA VIA DELL’INTELLIGENZA

    L’intelligenza è lo strumento privilegiato per ogni tipo di conoscenza, anche attraverso l’intelligenza, la coscienza s’interroga:

    • Qual è il senso della vita?
    • Da dove vengo?
    • Dove vado?

    Una coscienza superficiale chiaramente si pone questi interrogativi in modo superficiale.

    Questo è un problema di consapevolezza antropologica, di serietà, di maturità. Questi interrogativi a volte si conciliano con un’esperienza di fede, altre volte si scontrano. “Dio è un rischio” dice Prezzolino. Come spiegare questo? Dio, attraverso la sua assenza, confonde la sapienza degli intelligenti.

    Chiediamoci :

    • Che ruolo ha avuto l’intelligenza nella nostra esperienza di fede? (Nel passato)
    • Che ruolo ha oggi l’intelligenza nella mia esperienza di fede?
    • L’intelligenza è un appoggio o uno strumento?
    • Prima il credere per capire o prima il capire per credere?
    • La presentazione del Kerigma esige di avere davanti delle persone credenti o non credenti?

     

     

     

    Se rispondiamo “credo ut intelligam” siamo in una posizione pre-biblica. La fede è una questione di livelli.

    • Cosmo-biologico (panteista)
    • Dio trascendente e personale (teista)
    • Teismo veterotestamentario
    • Teismo biblico pre-pasquale (N.T.: Dio incarnato)
    • Teismo biblico post-pasquale (N.T.: Gesù Cristo morto e risorto)

    La nostra formazione teologica è servita a supportare in maniera organizzativa la nostra fede preesistente, oppure è venuta a seminare scompiglio?

    Oggi ci troviamo in un contesto del tutto particolare che possiamo così definire:

    la cultura attuale non ha punti fermi, ci troviamo a confronto con un pensiero debole.

    Come si usa l’intelligenza? Esiste un’intelligenza di tipo sapienziale laico che prende Dio sul serio, ed è premessa per l’esperienza sapienziale di tipo biblico.

    Esiste anche un’esperienza sapienziale di tipo laico, che comporta una “ riverenza” per la verità

    E una scelta di tipo morale. L’intelligenza non ha da essere superba, perché quando si pone con superbia siamo alle prese con un’intelligenza stupida, proprio perché non riconosce i suoi limiti.

    L’umile non è colui che si fa piccolo, ma colui che riconosce d’ essere piccolo. L’umiltà non è un processo di “abbassamento”, ma il riconoscimento del proprio essere limitati. La superbia è la perdita del senso della misura, quindi l’intellettuale superbo è uno stupido.  

    ,         Il luogo in cui si realizza la conoscenza della verità oggettiva è l’intersoggettività! Per cui

    • La coscienza credente ricorre all’intelligenza per comunicare quanto ha imparato e non solo attraverso l’intelligenza
    • La coscienza non credente ricorre all’intelligenza per riuscire a dimostrare le proprie tesi

    Nella tradizione biblica l’importanza dell’intelligenza è attestata: confronta il libro di Giobbe, in particolare i capp. 6-16. L’uomo non difende Dio, ma difende se stesso e le sue posizioni.

    La sapienza di Dio è insondabile…ma Dio ascolta l’uomo nella sofferenza, non lo censura come fa l’apologeta.Forse gli uomini del nostro tempo non ci ascoltano perché trovano in noi solo dei difensori della fede e non dei consolatori  

    LA VIA DELLA TRADIZIONE

    Comprende tutto quanto è legato al contesto in cui siamo inseriti, alla cultura dominante, alla testimonianza degli altri. A questo si possono aggiungere le rappresentazioni sacre, gli oggetti religiosi, gli edifici religiosi, ecc…

    La nostra esperienza di fede è stata alimentata dal contesto delle persone con le quali abbiamo vissuto.

    Ci possiamo chiedere:

    • Quello che vivo, in che misura è mio e in che misura mi è stato dato dall’ambiente?
    • Riusciamo ad evidenziare che la nostra esperienza personale è “indotta”, alimentata, nutrita dalla realtà circostante, al punto che diventa difficile distinguere quello che è della nostra coscienza e quello che ci è mediato dall’esterno?
    • Come, dove e quando posso essere davvero me stesso? Da solo? No! Ma attraverso la comunione.

      

     

    Il saggio è colui che ha la bocca sul cuore; lo stolto è colui che ha il cuore sulla bocca. Non c’è una parola senza un cuore, non c’è un cuore senza una parola!

    Le ambiguità e l’ambivalenza sono presenti anche in quest’ultima via, come del resto, lo sono anche quelle precedenti.

    Per convincerci è sufficiente che ci chiediamo:

    • I miei contenuti mentali sono o non sono autentici?
    • Le mediazioni ambientali che ho ricevuto sono o no autentiche?
    • In che misura sono presenti gli uni o le altre e come faccio a stabilirlo?

     Queste quattro vie della conoscenze di Dio, comuni all’uomo universale, sono state segnate dall’ambiguità e dall’ambivalenza.

    Possiamo ora stendere una piccola tabella avendo a disposizione 100 punti che suddivideremo in base all’incidenza che le quattro vie hanno avuto IERI ed OGGI, NELLA NOSTRA ESPERIENZA DI FEDE:

    IERI (ANNO ORIENTATIVO)                                   OGGI

     . natura _____________                                               ___________

    . interiorità __________                                           ___________

    . intelligenza _________                                          ___________

    . tradizione __________                                             ___________

     

    Conclusioni 
    Dai confronti fatti usciamo tutti confermati sia nella conoscenza di queste quattro vie come pure nella solidarietà con qualsiasi credente sulla faccia della terra.Non c’è credente in questo mondo che non arrivi alla conoscenza di Dio attraverso la mediazione della natura, l’interiorità, l’esercizio della ragione e la mediazione dell’ambiente.Queste quattro vie, comunque, portano in sé l’ambiguità e l’ambivalenza. C’è quindi nella nostra vita il momento dello strappo; costa molto dolore e comporta pure il rischio di “ buttare il bambino con l’acqua sporca”.Ps. 27 : “Mio Padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”

    Applicazioni

    Sono stato generato dall’ambiente in cui sono nato, cresciuto e poi mi sono distaccato; io sono stato generato sotto tanti punti di vista, ma all’esperienza di generazione si accompagna sempre l’esperienza d’abbandono. Ciò è indispensabile per passare ad un atteggiamento adulto e dire: Signore, fammi assumere la responsabilità di portare il mio mattoncino.

    E’ l’esperienza del compromesso istituzionale. Fino a quando siamo soli coltiviamo la fede ma in modo molto idealista, quando entriamo in confronto ci accorgiamo dello scarto che esiste tra l’ideale e il reale.

    Ad es: Quando io annuncio la Buona Notizia, chi mi ascolta può dire “che bravo, eccezionale…”, quando vivo nella comunità cosa diranno i miei confratelli?

    Quando presentiamo la Buona Notizia ad un catecumeno rimane entusiasta; quando entra nella Chiesa (istituzione) coglie la profonda distanza tra Vangelo e vita.

    E’ difficile trovare un credente che faccia Chiesa con sé stesso! Il credente vuole condividere con gli altri la sua esperienza di fede. Il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con i defunti! La prima divinità che l’uomo conosce sono gli antenati; attraverso il rapporto affettivo con i trapassati si apre alla percezione divina. Ecco perché il culto dei morti è la matrice d’ogni esperienza religiosa. Qual è il primo invisibile di cui si fa esperienza? La persona cara defunta!

    Le quattro vie appena analizzate usano un linguaggio particolare:

    • La natura
    • L’interiorità
    • L’intelligenza
    • La tradizione
    La tradizione biblica ci presenta la via particolare dell’incontro con la PAROLA E IN PARTICOLARE CON LA PAROLA DEL PROFETA. Questa via s’inserisce nella quarta (quella della tradizione), ma si differenzia da essa. La differenza tra questa Parola e quella dell’ambiente è che questa Parola è l’unica capace di risolvere il dramma dell’ambivalenza e dell’ambiguità delle quattro vie. Il fenomeno della profezia è tipico della cultura biblica.
  • 21 Nov

    INIZIAZIONE ALL’ASCOLTO

    LA COSCIENZA E LE SUE CONTRORISONANZE

     

    a cura di p. Attilio franco fabris su appunti di p. Virginio S. sj

     

     

     

    Un Dio che parla all’uomo

     L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Ma cosa significa ascoltare?

    Il dizionario italiano (Devoto) da questa definizione: trattenersi volontariamente e attentamente ad udire, prestare attenzione o partecipazione a qualcuno o a qualcosa in quanto informazione o motivo di riflessione o anche devozione.

    Trattenersi:  ovvero dare tempo fermandosi da tutto il resto.

    Volontariamente: implica una decisione, una scelta che si impone fra tante

    Attentamente: impiegando tutte le nostre energie

    Ad udire: L’ascoltare è anzitutto un fatto acustico

    Qualcuno o qualcosa: io posso pormi in ascolto di un’altra persona come anche di un fatto, di una realtà che mi sta dinanzi.

    Informazione, riflessione, devozione: qui si dice il motivo per cui ascolto. Quella determinata persona o realtà può offrirmi qualcosa di nuovo in vista della mia esistenza.

    Ma ora facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schamà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Dunque “ascoltare” è un’azione complessa che non comporta il semplice “udire”. E’ una realtà che viene a toccare il mio io profondo (= la coscienza) interrogandomi. 

    L’“ascolto”, come forse da noi sinora inteso, è un termine forse per noi troppo astratto. Ad esempio quando vogliamo metterci “in ascolto della Parola”, pensiamo ad una sorta di riformulazione interiore dei contenuti che chiamiamo meditazione, quandi ad una esperienza interiore. In tal modo tendiamo a spiritualizzare l’ascolto.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio” (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione. L’ascolto e la parola sono doni che ci vengono offerti per uscire dalla nostra solitudine e dalla nostra angoscia.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    A questo punto è utile poter constatare nella nostra esperienza quotidiana quanto viviamo l’esperienza dell’ascolto inteso come interazione, comunione, condivisione con i nostri simili:

    Da un breve sondaggio potremmo prendere subito atto che:

    –         dialogare e ascoltare è difficile, faticoso, preferiamo fare altro: “Ci sono cose più importanti”

    –         che è quanto mai carente nella nostra vita. Ci limitiamo per lo più a comunicare “informazioni”.

    –         Che questa mancanza ci getta in un clima di solitudine, paura, incertezza e talvolta angoscia.

    Questo ci fa comprendere che la prima vocazione dell’uomo che è quella di poter interagire attraverso il dialogo e l’ascolto con l’altro e con l’Altro è spesso disattesa, gettandoci di conseguenza in un mondo nel quale ci ritroviamo soli, incapaci di comunicare.

    1. 1.  natura e dinamiche della coscienza

    Il luogo dell’ascolto

     La parola che ascoltiamo non raggiunge solo le nostre orecchie.

    Sarebbe solo suono e nulla più.

    Essa invece raggiunge la nostra interiorità, ovvero viene a toccare la nostra coscienza.

    Qui la parola può suscitare una molteplicità di sentimenti, emozioni, ricordi.

    La parola non ci lascia indifferenti, sempre però che siamo disposti ad ascoltarla, ovvero ad “accoglierla”.

    Cos’è la coscienza?

    Anzitutto ci domandiamo: cos’è la coscienza?

    La parola deriva dal latino “cum-scire”-“sapere-con”.

    Un “sapere” con chi?

    Con se stessi evidentemente!

    In tal senso la parola coscienza è sinonimo di “autocoscienza” (è una tautologia).

    Tentiamo una definizione:

    la coscienza è la facoltà immediata di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale. E’ la capacità di interagire con la realtà in maniera diversa.

    (la coscienza è stata identificata attraverso diversi termini nelle diverse culture: I latini chiamavano la coscienza “anima”, da cui animato (colui che interagisce con la realtà) e inanimato (colui che non può interagire). In greco essa veniva chiamata “psiché”: mente, ovvero la capacità dell’uomo di interagire con la realtà interpretandola, studiandola, modificandola… Gli ebrei la chiamavano “nefesch”: “soffio-respiro-gola-stomaco”. La coscienza come esperienza tangibile del nostro appartenere alla vita (=il grande soffio di Dio)).

    Infatti, tutta la realtà continuamente mi offre degli stimoli che provocano in me delle reazioni.

    Fatti, persone, parole…

    Ogni incontro suscita in me reazioni diverse: queste da dove nascono? Dalla mia coscienza.

    Ricordiamo che l’attività della coscienza non è prerogativa del solo uomo, essa appartiene in diversa misura a tutte le forme di vita esistenti (animali e vegetali): anch’esse si pongono in misura differenziata a diverso livello in interazione con la realtà che le circonda.

    La differenza è che nell’uomo questa capacità di interazione è al massimo, per cui egli riesce addirittura a governare la realtà stessa.

    coscienza e risonanze

     Nella coscienza dunque esistono delle reazioni alla realtà:

    le chiamiamo “risonanze”.

     

    Che rapporto esiste tra coscienza e risonanza?

    Che confini esistono tra le due esperienze?

    Dove finisce l’una e inizia l’altra?

    Dobbiamo affermare che possiamo conoscere la coscienza non in se stessa ma solo attraverso le sue risonanze.

    La coscienza non è un’attività già precostituita e formata nell’uomo. Essa si struttura mano a mano e nella misura in cui essa viene attivata ed educata.

    Sono proprio le reti fittissime delle risonanze a strutturare la nostra coscienza.

    Hanno perciò un ruolo determinante nella formazione della coscienza la rete di relazioni e l’ambiente con cui essa si trova ad interagire (soprattutto nei primi tre anni di vita).

    Io sono frutto delle mie risonanze, ovvero del mio vissuto.

    E’ per questo che è difficilissimo de-strutturare una coscienza.

    Il ragionamento non serve. Occorreranno esperienze di relazioni e un ambiente tali da poter ristrutturare la coscienza, ma è impresa faticosissima che provoca moltissime resistenze e sofferenze.

    Il nostro contesto culturale non facilita l’ascolto della coscienza.

    I nostri ritmi sono spesso frenetici, i tempi liberi sono imbottiti da TV e mass media, la pubblicità ci assedia. In famiglia il dialogo e l’ascolto vicendevole è spesso molto carente….

    Tutto questo lo potremmo definire quasi un “complotto” al fine di impedire all’uomo di ascoltarsi e di ascoltare. E’ bombardato da sollecitazioni, immagini, suoni, falsi bisogni….

    La pubblicità, ad esempio, sa bene che quando l’uomo ascoltasse la sua coscienza il suo potere svanirebbe all’istante perché l’uomo ritornerebbe ad essere padrone della sua vita e delle sue scelte.

    L’uomo di oggi, così apparentemente immerso nella realtà, si ritrova angosciosamente sempre più solo, perché lontano dal nucleo centrale della sua stessa esistenza.

    Vive all’esterno, lontano dal sé, e quindi solo e sperduto in questo mondo.

    Per ovviare a tale angoscia non rimane altro che incrementare ancor più l’imbottimento di sollecitazioni esterne che vengano a colmare il vuoto esistente. Droga, alcol, sesso, denaro, lavoro stressante, mass-media, gioco d’azzardo… sono gli strumenti più usati a raggiungere tale scopo.

    LIVELLI E STRUTTURAZIONE DELLA COSCIENZA

     Esistono più livelli della coscienza in cui le risonanze possono sorgere.

    Alcune risonanze sono facili da cogliere e da individuare, altre invece si collocano a livello più profondo e quindi sono più difficili da cogliere.

    Questo perché?

    Per il fatto che la nostra coscienza sussiste a più livelli: da un livello conscio ad uno in-conscio.

    L’uomo infatti può vivere in diversi modi e a diversi livelli il suo essere presente a se stesso, ovvero l’ascolto della sua coscienza: da un massimo di autoconsapevolezza ad una coscienza quasi assente.

    Teniamo tuttavia presente che la pienezza della consapevolezza di sé non è data alla natura dell’uomo. Infatti per tutti noi esistono tanti aspetti (bisogni, avvenimenti, traumi…) che non sono accessibili alla nostra coscienza. Tuttavia questi aspetti continuano a far parte del nostro essere e contribuiscono a creare atteggiamenti e comportamenti di cui non riusciamo a dare a livello conscio una risposta adeguata. Molto di noi, forse la maggior parte, rientra in ciò che non riusciamo a spiegare perché non conosciamo.

    Questo ci ricorda che l’obiettività e la libertà umana soffrono di una certa qual limitazione.

    Se il livello conscio è la punta dell’icemberg, quello subconscio e inconscio rappresenta il resto (il 90% !).

    Definizioni

     Ciò che fa la differenza tra conscio e inconscio, tra coscienza e non, è il grado di accessibilità o consapevolezza del comportamento alla propria introspezione, cioè l’ampiezza con la quale possiamo avvertire e riferire ciò che si muove nel nostro essere interiore.

    Possiamo suddividere la nostra coscienza a tre livelli differenti:

    1. la coscienza conscia:  esprime il normale campo di coscienza che la persona ha di sé. Comprende tutto ciò che è immediatamente presente o accessibile alla consapevolezza.
    2. Il subconscio: è costituito da tutti quei contenuti psichici non imnmediatamente presenti alla coscienza ma che possono essere richiamati alla consapevolezza mediante mezzi ordinari quali la riflessione, l’intrispezione, l’esame di coscienza, la meditazione…
    3. L’inconscio:  è l’insieme di tutti quei contenuti che giacciono nel più profondo di noi stessi, depositati e accumulatisi per anni e anni. Essi possono essere riportati alla luce della consapevolezza solo attraverso strumenti professionali quali ad esempio le tecniche psicoterapeutiche. L’inconscio è conosciuto indirettamente tramite i suoi effetti (es. atti sintomatici, perturbati, rimossi, sogni,…)

    La conoscenza delle nostre aree subconsce e inconsce (quando necessario) è di fondamentale importanza per la crescita della persona. Spesso soffriamo e facciamo soffrire perché non ci conosciamo a sufficienza, perché manchiamo di consapevolezza.

    Ovvero siamo poco capaci di ascolto della nostra coscienza.

    Ricordiamo che non  esiste una divisione netta, tra i due mondi c’è un rapporto di sfumatura. Tra conscio e inconscio esiste una certa qual comunicazione. Una comunicazione che si attua però secondo modalità diversificate.

    Nessuno può giungere a possedere in toto la sua coscienza.

    L’uomo è mistero a se stesso. E questo provoca inquietudine e insicurezza.

    Quando ci troviamo di fronte alla risonanze della nostra coscienza non dobbiamo demonizzarle: esse esistono e basta, e chiedono che noi ne prendiamo atto.

    Troppo spesso le nostre risonanze, quelle che emergono a livello di “subconscio e inconscio” non sono prese in considerazione, non vengono accolte né amate. Mentre esse rappresentano il nostro vissuto più profondo.  La conseguenza è che noi viviamo fuori casa, ovvero lontano da noi stessi, non ci conosciamo e abbiamo paura di farlo.

    RISONANZE DELLA COSCIENZA E INTERAZIONE CON LA CORPOREITÀ

     Generalmente noi opponiamo vita interiore (coscienza) a vita esteriore (corporeità).

    Invece esiste un rapporto strettissimo di interdipendenza tra le risonanze della coscienza e la nostra corporeità: pensiamo ad esempio all’esperienza del dolore, della gioia, del pianto…

    Le risonanze trasbordano nella corporeità, si “somatizzano”.

    Possiamo affermare che la corporeità “drammatizza” le nostre risonanze. Noi continuamente e il più delle volte inconsapevolmente “drammatizziamo” il nostro vissuto interiore. Quindi vi è una strettissima interazione tra corporeità e coscienza.

    La risonanza oggettivata nella corporeità cerca una comunicazione: Perché infatti allora “somatizzerei” la risonanza? Perché ho bisogno di comunicarla! Perché attraverso la manifestazione-comunicazione la risonanza ottiene il suo massimo livello di autoconsapevolezza.

    In questo senso io ho bisogno degli altri. Un bisogno disperato di confidare il mio vissuto a qualcuno.

    Cosa succede in ogni relazione?

    Una continua interazione delle coscienze che in tal modo si manifestano e si strutturano.

    Ora il dialogo tra due coscienze è possibile solo attraverso la comunicazione delle risonanze e attraverso la loro manifestazione attraverso la corporeità.

    Ecco l’itinerario:

    – Concepimento della risonanza

    – oggettivazione della risonanza

    – manifestazione della risonanza (e viceversa)

    Ma questa interazione è trasparente, naturale, spontanea?

    Oppure, come il più delle volte succede, è conflittuale? Ovvero a livello di concepimento della risonanza provo un determinato sentimento e a livello di corporeità lo nego, e viceversa.

    Dobbiamo riconoscere, prendendo in esame la nostra stessa quotidianità, che tra coscienza e corporeità l’interazione non è quasi mai fluida. Essa incontra resistenze, ostacoli.

    Queste resistenze, questi ostacoli noi le possiamo chiamare controrisonanze.

    Le controrisonanze ossia sono quelle barriere che più o meno coscientemente noi frapponiamo all’emergere delle risonanze della coscienza.

    Le potremmo così elencare:

    –         la paura di essere (diventare) se stessi

    –         la paura degli altri

    –         la gelosia di sé

    –         l’inerzia

    –         la frenesia

    –         il conflitto con la verità

    –         la rivalità

    LE CONTRORISONANZE

    1.     PAURA DI ESSERE (DIVENTARE) NOI STESSI

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.

    Esiste nel profondo della coscienza un dettato: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”. Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo e le sue capacità

    –         la nostra storia e i nostri errori

    –         i nostri sentimenti ed emozioni

    –         la nostra personalità

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esiste allora solo una soluzione: rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale”. La coscienza rifugge dunque o nell’io ideale o a modelli ideali esterni, e questo per rifuggire dal confronto imbarazzante con il proprio io reale avvertito come pericoloso.

    Ma questo provoca ulteriore divisione interiore, sofferenza ed esperienze di frustrazione.

    La paura e l’insicurezza non mi lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire, ma preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere.

    Questa controrisonanza viene messa a tacere sin dall’inizio, nel cuore della coscienza, che si trova così subito divisa, impedendosi di ascoltarsi veramente se stessa. (cfr “L’emoroissa” Mc 5)

    B.     PAURA DEGLI ALTRI

    E’ la paura di non essere come gli altri si aspettano da noi. Ci sentiamo in dovere di rispondere alle aspettative degli altri.

    Questa situazione è data dalla paura di non essere accettati dagli altri, rifiutati. Abbiamo paura della solitudine.

    Ma tale controrisonanza ci trasforma in “maschere” che cambiano  a seconda delle persone e delle situazioni.

    Alla fin fine ci condanniamo alla vera solitudine che è quella dell’isolamento del nostro io che non sa più riconoscersi.

    Es. biblico: Gv 5 “Il paralitico guarito”

    C.     LA GELOSIA DI SE’

    E’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno. E’ data dalla paura di essere spossessati. Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso.

    “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”.

    Io sono mio: e basta! Io mi comunico tanto quanto io decido. Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio. Tale risonanza riguarda quelli che sono i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    In questo contesto l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve. La conseguenza è che intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé (la “privacy”)m ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze.

    Questa controrisonanza è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale. Quello che chiamo la mia ricchezza è la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più. L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla privacy? Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Es. Biblico: Anania e Saffira: Atti 5,1-12

    D.    L’INDOLENZA, L’INERZIA DI MOTO E DI QUIETE

    La coscienza fatica a mettersi in moto al presentarsi della risonanza. L’inerzia di quiete impedisce il prendere atto della risonanza nella coscienza.

    La coscienza si perde di vista, disattende il momento presente, la risonanza emergente infatti disturba e indispone.

    Quante possibilità di sviluppo infatti vengono mortificate dall’indolenza della coscienza? Quante potenzialità sono frustrate?

    Questa controrisoananza è all’origine del conservatorismo perché il cambiamento scomoda.

    O al contrario non sto mai fermo, mi agito, sempre in movimento ma non ho il coraggio di fermarmi per ascoltare la mia coscienza: con la scusa delle urgenze dimentichiamo l’essenziale.

    Anche questa è una resistenza al cambiamento.

    Es. biblico: le dieci vergini, la parabola dei due figli.

    E.     IL CONFLITTO CON LA VERITA’

     La coscienza è affamata di informazioni.

    Ma alcune verità fanno male, disturbano.

    Perché? Perché provocano dei conflitti nella coscienza.

    E allora la coscienza si trova a far fronte a verità di questo tipo che emergono in lei; si difende diventando parziale: si schiera dalla parte che decido io perché fa più comodo.

    Anche la ricerca dell’assoluta infallibilità significa rifiuto della verità di me stesso la quale comporta la mia fallibilità. Le certezze assolute ricercate ad ogni costo sono il tentativo estremo di tamponare le nostre insicurezze.

     

    Es biblico: Acab e Michea: 1 Re 22

    F.      LA RIVALITA’

    La controrisonanza della rivalità si scontra con la risonanza della coscienza dell’altro, di fronte alla verità. E’ come se dovessi darla vinta all’altro.

    Il confronto con l’altro è faticoso, a volte doloroso e ci pone sulle difensive.

    La rivalità ricerca una vittoria fasulla.

    Esiste una rivalità aperta ed una occulta, mimetizzata.

    Essa si manifesta nella fatica di dire: “Ho sbagliato!”. Ci può essere un apparente consenso in cui scindo la coscienza dalla sua manifestazione.

    Es biblico: Gv 9 “il cieco nato”;

    CONCLUSIONE

    Al termine dell’itinerario circa le nostre controrisonanze possiamo dire che al fondo di tutto esse dicono la non accettazione di crescere, di seguire sino in fondo la nostra strada. Crescere vuol dire soffrire e io a questo non ci sto. Esse dicono ancora la nostra volontà di salvarci da soli (il vero peccato), di risolvere da noi stessi i problemi restando all’interno del nostro orizzonte umano senza riconoscere la nostra dipendenza da Dio. L’autosufficienza dice chiusura, incomunicabilità: non ho bisogno degli altri.

    Vero peccato è dunque il ritrovarsi incapaci di crescere, di essere noi stessi, confusionati dai nostri tentativi di salvarci da soli e di evitare le fatiche del cambiamento che è invece la stessa vita.

    Queste controrisonanze esplicitano l’esperienza di disgregazione della nostra coscienza.

    Mettono alla luce la frattura che esiste tra coscienza e corporeità, tra coscienza e coscienza.

    Esse sono barriere che ostacolano le nostre risonanze.

    Occorre aiutare la coscienza a riprendere contatto con la nostra corporeità, questa è fondamentale non un’appendice della coscienza.

    Questo fa comprendere il perché nella spiritualità biblica il corpo è tanto importante.

    Es. l’importanza della prostrazione, dell’imposizione delle mani, dell’alzare le mani…

    Il linguaggio corporeo può divenire strumento di discernimento delle mozioni spirituali.

    L’iniziativa di Dio dovrà fare i conti con tutte queste nostre resistenze.

    Se Dio parla non lo fa per arenarsi nei problemi della comunicazione, ma per risolverli. La Parola di Dio è viva ed efficace proprio per ridare all’uomo gli strumenti di una comunicazione nella verità.

    Il punto di partenza è l’uomo sordo e muto, che non sa né ascoltare e dunque parlare veramente. C’è bisogno che Dio, l’unico che sa veramente comunicare, intervenga su questa povera realtà dell’uomo per trasformarla.

    ***

    Es. biblico Mc 7,31-37

    (si drammatizza il gioco infantile sulla piazza del villaggio con la presenza del bambino sordomuto)

    Il sordomuto dalla nascita non può interagire.

    Con il sordomuto non si può giocare bene. A giocare con lui non ci si diverte. Gli altri (i forti, gli intelligenti) sono preferiti e scelti.

    In questo mondo si delineano due schieramenti: i forti e i deboli. I deboli si arrangino: peggio per loro.

    Il sordomuto è sempre più emarginato: egli non risponde alle aspettative degli altri. Perciò si sente scartato.

    Colui che è emarginato, scartato può reagire a questa situazione in diversi modi.

    1. con il servilismo: accetto un ruolo subalterno e insignificante pur di non essere allontanato dal gruppo
    2. con la ricerca di potere: cerco di acquistare la benevolenza del gruppo magari rimettendoci
    3. con la rappresaglia: cerco di farla pagare al gruppo, attraverso propositi di sabotaggio o di violenza.
    4. L’alleanza con un salvatore: il quale si mette dalla parte del debole (ma fino a quando? E con quali motivazioni?)

    Dunque la relazione con il sordomuto non è una relazione facile.

    Non riesce a giocare con gli altri, manca della capacità di comunicazione e quindi di interazione che è fondamentale per il collocarsi all’interno del gruppo.

    La mancanza di comunicazione rende dunque estremamente difficile la relazione del sordomuto con il resto del gruppo.

    Vi è un disagio vicendevole per cui:

    –         il sordomuto sempre più si apparta dal “gioco” di gruppo, relegandosi in una sempre più grande solitudine

    –         il gruppo estranea sempre più il sordomuto, in quanto diverso e quindi difficile da integrare con gli altri.

    Il sordomuto vive perciò una grande esperienza di solitudine e perciò di sofferenza. Le sue risonanze sono: “Io non sono importante per gli altri come io vorrei”, “Non mi sento amato come desidererei, anzi rifiutato”, “Non c’è posto per me nel mondo… nessuno mi vuole”.

    L’emarginazione produce sempre un movimento di autoemarginazione. L’autoemrginazione si strutturalizza e le dinamiche di sviluppo della persona ne vengono ad essere sempre più mortificate.

    E’ utile analizzare come il sordomuto-emarginato ed autoemarginato vivrà l’esperienza del bisogno di affetto nell’esperienza sessuale ( ci si vergogna di stare col sordomuto, mi squalifica: per cui lo allontano), si prendono le distanze da lui, non ci si associa con i perdenti, e come si collocherà nel mondo del lavoro…. E il sordomuto si vergognerà di essere quel che è, si sentirà in colpa, non accetterà la sua situazione, la vivrà come una “morte”.

    Confronto con la mia esperienza

    A questo punto sarà possibile una lettura della mia storia personale alla luce della vicenda del sordomuto.

    • riconosco una qualche corrispondenza fra il vissuto del sordomuto e il mio? Lo sento affine? Lo sento cugino o fratello?
    • Mi sento a mio agio nella piazza del villaggio? Ossia in mezzo agli altri?

    Lettura dell’esperienza

    Come mai io, pur non avendo l’handicap fisico del sordomuto, sento una consonanza con il suo vissuto?

    Quale sarà il mio handicap?

    Sono le mie controrisonanze.

    Esse vengono a distorcere la mia comunicazione e interazione con la realtà e con gli altri. Le controrisonanze generando difficoltà di comunicazione ed interazione  mettono in moto gli stessi dinamismi del sordomuto.

    Siamo perciò a livello della coscienza. Essa è sordomuta!

    Certo, con una buona analisi, vedremo come in noi le controrisonanze hanno una ricaduta sulla corporeità.

    L’incontro con Gesù

    Drammatizzazione dell’incontro con Gesù…

    Dove è il sordomuto?

    Chi lo porta a Gesù? Come?

    Quali risonanze?

    Come l’approccio con questo profeta straniero?

    Quali i passi da dover fare per acquistare la fiducia del sordomuto da parte di Gesù?.

    Gesù deve  portare lontano dalla piazza il sordomuto, lontano dai condizionamento nei quali è incappato, Ricreare con lui e per lui una situazione verginale di comunicazione.

    Gesù avrà intrapreso dei passaggi graduali di avvicinamento… deve necessariamente passare attraverso l’economia umana della relazione.

    Ovvero occorre una iniziazione.

    Gesù si propone al sordomuto, cerca una via per entrare in relazione con lui.

    Gesù tocca le orecchie.

    E’ il punto debole di quell’uomo, da cui parte tutto il suo disagio.

    Mette realmente il dito nella piaga di quell’uomo.

    Avrà resistito il sordomuto nel vedere Gesù toccare la sua piaga?

    Probabilmente per il sordomuto è faticoso accettare che Gesù entri nella sua vita, nella sua morte. In questo modo infatti egli la oggettiva, la sottolinea, Lasciar entrare l’altro nelle mie piaghe fa soffrire. Quanto quelle orecchie furono oggetto di scherno e di vergogna!

    E Gesù vuole mettere le dita proprie in quelle ferite della sua vita.

    Ma questa accoglienza della mia morte rende la mia morte vivibile.

    Dice il Signore: “Lasciamo condividere la tua morte e la tua morte si metterà  a servizio della tua vita”.

    La rivalità direbbe: “No! Le mani nelle mie orecchie non le metti!”.

    Quanto tempo sarà stato necessario affinché il sordomuto si lasci fare da Gesù? Tutto il tempo necessario, minuti, ore, giorni, anni…..

    Che esperienza straordinaria di accoglienza finalmente vive il sordomuto. In quel gesto Gesù si lancia totalmente e vi si coinvolge totalmente con la sua corporeità. Quella corporeità che diviene strumento di salvezza per il sordomuto.

    Gesù mette la sua saliva sulla lingua del sordomuto. E’ un trapianto di bocca espresso simbolicamente. Un gesto non violento, che chiede tempo, inventiva, collaborazione, fiducia.

    Gesù prega. Emette un respiro: è faticoso quello che sta avvenendo per lui e per l’uomo. Esso esprime attesa e speranza. È già preghiera.

    Il sordomuto osserva attentamente.

    Gesù pronuncia una parola autorevole, un comando: “Apriti! Effatà!”.

    Gesù va all’origine del male.

    E subito è il miracolo: ode, parla correttamente.

    “Che mi hai fatto?”.

    Risonanze del sordomuto guarito….

    Tutti abbiamo problemi di comunicazione. In essi ci dibattiamo oscillando tra il rifiuto degli altri, il rancore, il risentimento, il bisogno…

    Solo Gesù di Nazaret fa uscire dal carcere della solitudine il sordomuto facendolo entrare nuovamente in comunione con sé, con gli altri, con Dio.

    Riconosciamo un circolo vizioso tra incapacità di comunicare ed indurimento della coscienza: l’uno crea l’altro e viceversa.

    Solo una Parola, la parola di qualcuno che sa parlare davvero, sa penetrare nella coscienza attraverso il corpo, è capace di sbloccare l’ascolto e la comunicazione in quest’uomo e quindi di strapparlo dalla sua solitudine e dal suo conflitto con la realtà.

    Attualizzazione

    Vi sono tre livelli di attualizzazione:

    –         catechetico-didattico

    –         parenetico

    –         kerigmatico

    Dice il catecheta:

    L’uomo vive una condizione di sordomutismo, ma Dio sa ascoltare e sa parlare.

    Il Dio biblico è specialista nella comunicazione con l’uomo. Dio è energia di comunicazione e perciò di vita. Per questo egli può aprire le orecchie e sciogliere la lingua, per entrare in comunicazione con noi.

    Le nostre sordità e i nostri mutismi non hanno l’ultima parola. Non bisogna dare spazio alle risonanze che parlano della sordità e del mutismo di Dio.

    Ma è proprio vero? Chi mi assicura che questa accadrà?

    Risponde il pareneta:

    Non ti scoraggiare. Non aver paura. Vedrai…. Il signore viene a salvarti. Egli metterà la sua capacità di comunicare al tuo servizio. Non dire “Non ci posso far niente. Sarò sempre fuori posto nel mondo”.  Ravviva la speranza.

    L’esortazione non può dire di più.

    Occorre l’intervento dell’evangelista-profeta.

    Io ho una buona notizia da darti.

    Il Signore vuole operare nella tua vita. Quando? Ora!

    Quello che il Signore ha fatto al sordomuto lo vuole fare anche a te. Adesso.

    Le tue controrisonanze, che sono la tua sordità, sono talmente forti che non puoi liberartene da solo.

    Non accanirti contro di esse, non ti colpevolizzare. Io lotterò per te.

    Se ti senti come il sordomuto, qui ed ora, vieni in mezzo. E il Signore che ha operato sul sordomuto opererà anche in te.

    Io dirò alle tue orecchie e alle tue labbra nel suo nome “Effatà”.

    Non ti propongo una teoria, ma un’esperienza.

    Metti la parola di Gesù alla prova.

    Infatti l’ascolto è un dono suo non una tua conquista.

    Quella che ti faccio è una proposta semplicissima contro la quale si scagliano le tue controrisonanze.

    Ma sarà solo l’esperienza a dirti se questa parola è vera o no.

    E’ solo la verifica che può accreditare la catechesi e la parenesi. Queste senza profezia rimangono senza fondamento.

    Quali gli effetti dell’Effatà?

    Comincio a distinguere le controrisonanze con più lucidità e velocità. Divengo perciò più trasparente a me stesso.

    In un certo qual senso un maggior ascolto aggrava la mia consapevolezza della mia sordità e del mio mutismo. Ma è via obbligata per una progressiva liberazione.

    Trovo più libertà nel contraddire le mie controrisonanze. Trovo il coraggio di dissubbidire ad esse.

    L’effatà è un vero è proprio esorcismo, il primo esorcismo nel cammino dell’iniziazione.

    Infatti la mia situazione di sordo e di muto risponde ad una situazione oggettiva di peccato, di schiavitù. Le controrisonanze sono più forti di me, non provengono infatti da me ma da colui che è il divisore, il separatore, l’accusatore.

    Chi può compiere l’effatà?

    Lo può fare chiunque crede nell’efficacia del nome di Gesù. Certo occorre uno che dia l’avvio: è il profeta-evangelista.

    Perché è così efficace, spesso più di un sacramento:

    perché finalmente porto davanti al signore la mia morte. E questo dà una valenza forte perché vi gioco totalemente e liberamente la mia disponibilità. Questo porre la mia morte ai piedi della croce ha una forte carica battesimale.

    La comunità in mezzo alla quale si pronuncia l’effatà è la nuova piscina battesimale.

    Il movimento pendolare

    Sarà tipico nella persona emarginata un movimento pendolare. Ovvero tentativi di proposte di tecniche di inserimento che possono avere più o meno successo.

    Se va bene è un’esperienza gratificante ( “pur di essere dei vostri sono disposto a qualsiasi cosa”)

    Se non va bene è esperienza di progressivo isolamento (“Io vi voglio bene, ma voi non mi volete bene, allora anch’io non vi voglio bene”)

    Quanto durerà l’allontanamento? Finché il bisogno non rimetterà in moto il tentativo di riavvicinamento (“Io ho bisogno di voi!”).

     

     

     

     

  • 20 Nov

    La problematica dell’ascolto nella s. Scrittura

     a cura di p. Attilio Franco Fabris su appunti di p.Virgino S. sj

    L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schemà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    Davar: parola/fatto

    Alla ricchezza semantica del verbo “shamà” corrisponde l’altrettanta ricchezza del termine “davar”: parola” e “dibber”: dire.

    Davar però non significa solo “parola” bensì anche “fatto, accadimento, evento”.

    Se “davar” oltre che parola significa “fatto”, essa può essere oltre “fatto” anche “parola”. 

    Noi occidentali facciamo fatica a cogliere il nesso tra queste due valenza.

    Noi tenderemmo istintivamente a privilegiare l’accezione di “davar” come “parola”: nella cultura biblica questo è impossibile: tra i due significati ci è un’inscindibile interazione (cfr. Dei Verbum, 2ss).

    Per capire meglio bisogna partire dal fatto che le culture antiche riconoscevano il valore dell’uomo a partire dal valore della sua parola. L’uomo – per esse- è la sua parola, si misura sulla sua parola.

    Per analogia: l’unica parola che ha veramente il massimo valore è quella di Dio, in quanto infallibile e vera: fa quel che dice e dice quel che fa.

    In Israele l’uomo vero non è il chiacchierone e neppure uno che tace. E’ piuttosto uno che ascolta e pensa molto, e che quando parla pesa, pondera le sue parole. Quando parla sa quel che dice, manifesta senza paura la verità del suo cuore, e si assume la responsabilità delle sue parole. Ciò che dice è e ciò che dice fa. (cfr. Sir 21,25-26; 27,5-6… Mt 5,37).

    Questo substrato antropologico ha fatto sì che Israele si sia trovato un giorno a fare i conti con la serietà della “Parola” di Dio mediata dall’incontro con i mediatori di cui Dio stesso si è servito. Una parola che si presenta sovrana della storia, in grado immancabilmente di fare quel che dice. Questo incontro ha fatto sì che si applicasse a Dio l’antropomorfismo del suo “parlare” all’uomo. Dio di per sé non “parla”, ma gli uomini sì.

    Dunque la riflessione teologica di Israele sull’operatività della Parola suppone l’esperienza dell’incontro con questa stessa parola nella storia mediata dai servi della Parola.

    Ma l’incontro con la Parola per l’uomo diviene scontro in quanto è inevitabile che la Parola debba fare i conti con la diffidenza e la sfiducia da parte dell’ascoltatore.

    Teniamo presente che il punto di arrivo dell’ascolto non si risolve infatti in qualche azione isolata e puntuale, ma piuttosto richiede un atteggiamento permanente, un modo diverso di stare al mondo, che può essere riassunto con l’espressione: “Cammina davanti a Dio, con lui, sulla sua Parola” (cfr. Gn 17,1; Mi 6,8).

    Il servizio della Parola

    Parlare di primato della Parola significa “dire la Parola” e dunque del “servizio della Parola”. Infatti non c’è Parola se non c’è parola (cfr. Rm 10,14).

    Il Dio della rivelazione biblica parla agli uomini servendosi della mediazione di altri uomini.

    A questo punto possiamo già ricavare due coordinate fondamentali dell’esperienza religiosa di tipo biblico e che scaturiscono proprio dal primato della parola:

    1. la centralità del servizio della Parola
    2. la centralità dell’ascolto.

    Quando si parla di “servizio della Parola” occorre parlare di una molteplicità di servizi.

    Infatti questo servizio abbraccia una grande varietà di forme che vanno dalla più semplice ed elementare divinazione (es. il consulto degli “urim”) a quella più raffinata che è la “profezia”.

    L’A.T. presenta almeno sei tipi diversi di servizi e relativi mediatori:

    –         l’angelo del Signore o di Dio

    –         il sacerdote

    –         il veggente (ro’eh)

    –         il visionario (horeh)

    –         l’uomo di Dio

    –         il profeta (navì)

    Quest’ultimo è il termine più usato (più di trecento volte) ma è alquanto generico. Navì è “colui che parla davanti” ovvero che ha il coraggio di dire in faccia le cose come stanno (cfr. 1Re 22; 2Re 5); ed è “colui che parla in vece e in nome di un altro”. Tali valenze comportano un raggio alquanto allargato di tale servizio alla Parola.

    La pedagogia della Parola

    L’intento fondamentale della Parola, a cui spetta sempre l’iniziativa, è quello di porsi al servizio dell’uomo proponendogli un rapporto di comunione e collaborazione (è il tema fondamentale dell’Alleanza).

    Ma nel perseguire questo intento la Parola incontra grandi ostacoli: anzitutto la paura e la diffidenza dell’uomo nei riguardi di Dio; vi si aggiungono inoltre l’incredulità, lo scetticismo, il sospetto. Il tutto in qualche modo “avvalato” “giustamente” dalla kenosi con cui la Parola generalmente si manifesta.

    Cosa ne segue?

    Che la Parola non può fare breccia nel cuore dell’uomo se non conquistando anzitutto la sua fiducia.

    Come raggiunge questo obiettivo?

    Mettendo anzitutto in conto queste resistenze e sviluppando al fine di superarle una sua pedagogia che prevede un suo accostarsi all’uomo non in modo casuale, irruente, improvviso, violento ma al contrario in modo graduale, progressivo, ovvero proporzionato alla capacità e alla disponibilità all’ascolto dell’uomo stesso.

    Potremmo enucleare in sei tappe tale pedagogia adottata dalla Parola

    1. l’iniziativa della Parola. E’ lei che cerca l’uomo rassicurandolo: “Non temere!”
    2. Offerta della solidarietà di Dio al fine di realizzare la vita dell’uomo.
    3. Dialogo con l’incredulità dell’uomo, persuasione circa l’affidabilità della proposta.
    4. Indicazione di una via e dei mezzi al fine di verificare tale affidabilità.
    5. Se l’uomo accetta: offerta della propria guida e accompagnamento: “Io sarò con te”
    6. Compiuta la verifica nuovo invito alla collaborazione in funzione della sua vita per una realizzazione ancora più ampia.

    Tale pedagogia la possiamo chiamare: pedagogia della promessa.

    Infatti quando la Parola si presenta all’uomo gli si fa incontro come una promessa per la sua vita.

    Si tratta di una promessa unilaterale, gratuita, incondizionata, attraverso la quale Dio offre all’uomo di porsi al servizio della sua vita. Dio in cambio non chiede nulla, non pretende di insegnare nulla (non fa la predica!), né lo esorta ad alcunché. Domanda solo fiducia.

    Non è questa già una buona notizia?

    L’ebraico non conosce il termine “promessa”. In tutti i testi questa valenza è sempre resa con la parola “davar”.

    Infatti, come abbiamo visto, la pregnanza di davar “parola-fatto riportata a Dio indica una davar che immancabilmente produce, effettua quel che dice, ovvero costituisce già attuale il futuro che annuncia. Tale pregnanza esime dalla ricerca di un vocabolo specifico per “promessa”.

    Affermare che la parola si presenta all’uomo come promessa comporta un’importante conseguenza:

    l’uomo non può dare fiducia alla parola fintanto che non ne sperimenta, almeno in parte, l’affidabilità ovvero l’adempimento.

    La Scrittura testimonia che il più delle volte l’uomo non giunge a dare fiducia alla parola, al profeta, a Dio se non dopo averlo messo alla prova secondo le indicazioni della Parola stessa, verificandone così l’autenticità e l’attendibilità.

    Ovvero l’uomo biblico non giunge alla fede, se non sperimenta il già ( è la promessa innesco/caparra). Il che non esclude, anzi è in vista, del non ancora, ovvero un successivo rilancio per un’ulteriore promessa ancor più vasta (la promessa maggiore).

    La pedagogia della parola nell’AT mira a condurre l’uomo ad una fiducia assoluta nella promessa, tale da far un giorno a meno della rassicurazione dell’adempimento parziale storico (cfr. il sacrificio di Isacco Gn 22).

    La fiducia pura nella promessa è il modello della speranza biblica. Paolo la chiamerà: “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Il Kerigma

    Che nome daremo a tale servizio della Parola? Un servizio che asseconda la pedagogia della Parola stessa al servizio dell’uomo?

    Tale servizio nella tradizione biblica si chiama: Kerygma.

    Tale servizio si presenta perciò come il fondamento per ogni ulteriore servizio della Parola: ovvero come fondamento della catechesi e della parenesi.

    Concludendo

    Al termine di queste nostre riflessioni possiamo così giungere a specificare alcune coordinate essenziale su cui si struttura l’esperienza biblica e il servizio della Parola che ad essa fa riferimento:

    1. 1.      la centralità del servizio della Parola
    2. 2.      la centralità dell’ascolto
    3. 3.      la centralità della promessa
    4. 4.      la centralità dell’adempimento (anche parziale)
    5. 5.      la centralità del kerygma come servizio della Parola/promessa
    6. 6.      la dipendenza delle altre forme di servizio alla parola del Kerygma.
  • 13 Nov

    L’uomo: un pellegrino
    sempre in attesa

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità, un’attesa.

    Il cammino, il pellegrinaggio,è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica di primaria importanza per esprimere lo scorrere del tempo e della vita: per affermare che la vita è un cammino verso un incontro.  Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Dalla vita attendiamo proprio questo. Tutto l’uomo è teso a questa meta ma è dato costante che la nostra attesa rimane sempre insoddisfatta. Non fosse altro perché sappiamo che all’ultimo orizzonte si delineano le sponde del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a farci transitare, per l’ultimo viaggio!

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia, con le attese che comporta, suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata, senza attesa, non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta! L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Il viaggio di Ulisse, dove l’attesa si risolve in un ritorno e non in un avanzare, ne è l’emblema più significativo. Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto. E dove l’attesa si risolveva solo in un al di là posto dopo la morte.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava all’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”). Ma queste filosofie fanno sì che le attese si restringano all’esistere limitato in questo mondo con tutta la loro carica di contraddittorietà e delusione. La nostra attesa ha invece come misura l’infinito.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia – e quindi all’attesa – per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede una ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancanza “di attesa”verso il futuro e “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare o di chi e che cosa attendere.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio e dunque all’attesa del suo compimento, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    Ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità. Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto e da costruire insieme al Signore altrimenti “si lavora invano”.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nell’attesa di un futuro che sappiamo essere nelle mani di Dio. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –       il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  di brancolare del buio.

    –       L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –       Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

    Possiamo assumere atteggiamenti corretti:

    –       La consapevolezza che la storia è in mano a Dio che ci annuncia in Cristo la promessa della vita divina in comunione con lui. Ci ha rivelato perciò il nostro destino ultimo.

    –       La nostra storia non è dunque un girare in tondo ma un pellegrinaggio verso la meta, il ritorno alla casa del Padre. Essa ha una direzione e non possiamo fallire!

    –       Sapremo guardare alla nostra storia e alla storia con gli occhi di Dio, ma occorre un cuore puro, per scorgere che in ogni istante, sia buono o cattivo, Egli ci è vicino e ci apre dinanzi una strada da percorrere, saremo aperti dunque alle sorprese di Dio.

    –       Non vivremo dunque da rassegnati ma responsabili nel camminare ogni giorno nell’umiltà di un sì ai passi che Dio ci chiede di compiere.

    –       Infine consapevolezza che non camminiamo da soli: siamo in cordata con la Chiesa tutta, con i santi che in cielo intercedono, con gli angeli che ci accompagnano. Non siamo dunque mai soli.

     

  • 12 Nov

    L’esychia

     Archimandrita Kallistos: da “Sobornost” N ° 3- 19

    tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero

     I.                  I DIFFERENTI LIVELLI DELL’ESYCHIA

    Una delle storie dei “Detti dei Padri del deserto” descrive una visita di Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti chiesero all’abate Pambo: “Di’ qualcosa di edificante all’Arcivescovo“. Ed il vecchio rispose: “Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole“. Questa storia indica l’estrema importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la qualità dell’immobilità e del silenzio. “Dio ha scelto l’esychia al di sopra di ogni altra virtù” è detto altrove nei “detti dei padri del deserto”. Come insiste S. Nilo di Ancira: “È impossibile che l’acqua infangata si possa chiarificare se si continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco senza l’esychia“.

    Esychia, comunque, significa ben di più della semplice astenzione dal parlare fisico. Il termine può essere invece interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più profondi ed interiori.

         Esychia e solitudine

    Nelle fonti più antiche il termine “esicasta” e il relativo verbo “esichazo” generalmente denota un monaco che vive in solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si ritrova pure nei “Detti dei Padri del deserto“, in Cirillo di Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione di Giustiniano. Il termine esychia continua ad essere adoperato con questo significato anche in autori posteriori, come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio, di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più esteriore.

    Esychia e la spiritualità della cella

    Esychia – dice l’abate Rufo nei “Detti” – è dimorare nella propria cella nel timore e nella conoscenza di Dio, astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria. Tale esychia è madre d’ogni virtù e protegge il monaco dalle frecce infuocate del nemico“. Rufo continua mettendo l’esychia in relazione col ricordo della morte e conclude dicendo: “Siate vigilanti sulla vostra anima“. Esychia è qui associata con un altro termine chiave della tradizione del deserto, “nepsis“, sobrietà spirituale o vigilanza. Quando “esychia” è collegata con la cella, il termine si riferisce ancora alla situazione esterna, dell’esicasta nello spazio; ma questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e spirituale. L’esicasta, nel senso di uno che rimane con attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre un solitario, ma può essere anche un monaco vivente in comunità. L’esicasta è, allora, uno che obbedisce all’ingiunzione di Abba Mosè: “Vai a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto“. Egli tiene a mente il consiglio che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera di servizio caritatevole: – Qualcuno domandò ad Arsenio, “I miei pensieri mi tormentano dicendomi: – Non puoi digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che questo è pure una forma di amore”. L’anziano, riconoscendo i germi seminati dal demonio, gli disse: – “Vai, mangia, bevi e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la tua cella“. Perché egli sapeva che la permanenza paziente in cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.

    La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in un famoso detto di S. Antonio d’Egitto: “I pesci muoiono se s’attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia“. Il monaco che rimane nella cella è come la corda d’uno strumento accordato. L’esychia lo mantiene in uno stato di alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa né di sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua anima diviene grassa e flaccida.

    La cella, compresa come struttura esterna dell’esychia, è vista soprattutto come un laboratorio di incessante preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane immobile e in silenzio nella sua cella, è il continuo ricordo di Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di cordoglio. “Siedi nella tua cella“, dice abba Ammonas a un vecchio che si propone d’adottare qualche ostentata forma d’ascetismo, “mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere salvato“.

    Le parole del pubblicano “Dio abbi compassione di me peccatore” sono strettamente parallele alla formula della preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti. Ritorneremo a tempo debito all’argomento dell’esychia e della invocazione del nome. La clausura della cella monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo confratello eremita Barsanufio: “La cella in cui è rinchiuso vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché contiene la dimora di Dio“.

    Per l’esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera, santuario e luogo d’incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è espresso con particolare efficacia nel detto “La cella dal monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio parlò a Mosè“. Questa nozione della cella come punto focale della Presenza divina, si ritrova nelle parole d’ un eremita copto contemporaneo, Abuna Matta al-Meskin. Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di andare in pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose: “Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti? Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze spirituali della città santa si possono trovare in questa radura“.

    A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal significato esteriore a quello più interiore del termine “esychia”. Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola significa non solo una condizione esteriore, fisica, ma anche uno stato dell’anima. Denota l’attitudine d’uno che sta nel suo cuore di fronte a Dio. “La cosa principale” dice il vescovo Teofane il Recluso (1815-94) “è stare di fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita“. E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio significano per l’esicasta.

    Esychia e il “ritorno in sé stessi”

    Questa comprensione più interiorizzata di “esychia” è perfettamente espressa nella definizione classica dell’esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): “L’esicasta è uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale“. L’esicasta, nel vero senso del termine, non è qualcuno che ha viaggiato all’esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che “ritorna in sé stesso” chiudendo la porta della sua mente. “Ritornò in sé” è detto del figliuol prodigo e questo è ciò che anche l’esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo “Il Regno di Dio è dentro di voi” e cerca di “guardare il cuore con tutta l’attenzione” (Pr. 4,23).

    Reinterpretando la nostra definizione originale dell’esicasta come di un solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine è uno stato dell’anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.

    Il “ritorno in sé” è descritto con precisione da S. Basilio il Grande ( + 379) e da S. Isacco di Siria (VII sec.). “Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne“, scrive Basilio, “né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero di Dio“. “Siate in pace con la vostra anima” intima Isacco, “e allora cielo e terra saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perché una sola è l’entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere“.

    A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola “esychia”.

    In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era ancora tutore dei figli dell’imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: “Mostrami come posso essere salvato“. E una voce rispose: “Arsenio. sfuggi dagli uomini e sarai salvato“. Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: “Arsenio, sta’ lontano, sta, in silenzio, sta’ in quiete, perché queste sono le radici della libertà del peccato“. Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell’esychia. Il primo è spaziale, il “fuggire gli uomini“, esternamente, fisicamente. Il secondo è ancora esterno, il “rimanere in silenzio“, il desistere dal parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta; perché anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione. Per conseguire la vera quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo, dall’esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama “Negotiosum silentium“, il silenzio attivo e creativo.

    S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: “Chiudi la porta della tua cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti“. Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell’esicasta con la società. Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, eppure nel cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore. Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale, ma il suo stato spirituale. È vero che alcuni scrittori dell’oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all’affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non è certo opinione comune. Ci sono storie nei “Detti”, in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d’Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente pari a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò dal Monte Athos a Tessalonica, per essere di esempio e guida ad un gruppo di laici. Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo “pregate incessantemente” si applica a tutti i cristiani senza eccezioni. A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini “vita attiva” e “vita contemplativa” per essi “vita attiva” non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l’insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù. Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella “vita attiva“.

    E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la “vita contemplativa“. S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile “nel mezzo delle città” come “nelle montagne e nelle celle“. Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna. E così come è possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poemen, “un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo. Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioè, egli non dice nulla all’infuori di ciò che è utile agli altri“.

    Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori – dozzine e anche centinaia in un sol giorno – non perciò tralasciavano la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri. Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal silenzio.

    In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e “praticare il silenzio di cui i padri parlano“. Giovanni non fu d’accordo “come i più” rispose “tu non capisci cosa s’intende col silenzio di cui parlano i padri. Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca“.

    Esychia e povertà spirituale

    La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore e ritorno in sé, implica un passaggio dalla molteplicità all’unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente deve diventare “nuda. Questo aspetto dell’esychia è reso esplicito in un’altra definizione di S. Giovanni Climaco: “Esychia è mettere da parte i pensieri“. In ciò egli adatta una citazione di Evagrio “preghiera è mettere da parte i pensieri“. La esychia implica un progressivo autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla in purezza il mondo di Dio. L’esicasta, da questo punto di vista, è uno che è avanzato dalla “praxis” alla “theoria. Dalla vita attiva alla contemplativa. S. Gregorio dei Sinai contrappone l’esicasta al “praktikos” e continua a parlare “degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro cuore e di astenersi dai pensieri“. L’esicasta, quindi, non è tanto uno che s’astiene dall’incontrare e parlare con gli altri, quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è “sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio“.

    Questo “puro silenzio”, sebbene sia denominato “povertà spirituale“, è lontano dall’essere una semplice assenza o privazione. Se l’esicasta spoglia la propria mente da ogni concetto di provenienza umana, per quanto sia possibile, il suo scopo in questo “autoannullamento” è del tutto costruttivo. Che egli possa essere riempito dall’Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto notare bene da S. Gregorio il Sinaita: “Perché dilungarsi nel parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo“. “La preghiera è Dio“; “non è tanto qualcosa che io faccio, ma qualcosa che Dio sta facendo in me” … “non io, ma Cristo in me” . Il programma dell’esicasta è delineato esattamente nelle parole del Battista riguardo al Messia: “Egli deve crescere ma io diminuire“.

    L’esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma per entrare nella attività di Dio. Il suo silenzio non è assenza, non è negativo – una pausa vuota tra due parole, un breve riposo prima di riprendere il discorso – ma del tutto positivo; un atteggiamento di attenzione, di vigilanza, e soprattutto di ascolto. L’esicasta è per eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di un Altro: “Stai in quiete e sappi che io sono Dio” .

    Nelle parole di S. Giovanni Climaco “L’esicasta è uno che dice dormo, ma il mio cuore resta vigile” . Ritornando in sé stesso, l’esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio senza parole del suo creatore. “Quando preghi” osserva uno scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia “devi tu stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera“. – o più esattamente – lasciar parlare Dio. L’uomo dovrebbe sempre star zitto e lasciar Dio solo parlare. Questo è ciò che l’esicasta mira ad ottenere. Esychia perciò denota la transizione della “mia” preghiera alla preghiera di Dio che opera in me – o per usare una terminologia del vescovo Teofane – dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera ‘che agisce da sé‘ o che ‘muove da sé’.

    Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è identico all’incessante preghiera dello Spirito Santo dentro di noi. Come dice S. Isacco di Siria “Quando lo Spirito prende dimora in un uomo questi non cessa di pregare, perché lo Spirito continuerà a pregare costantemente in lui. Allora né nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve, quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore“.

    Altrove Isacco paragona questo entrare nella preghiera spontanea, ad un uomo che varca una porta, dopo che la chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi quando il padrone sopraggiunge fra loro. “Ciò che avviene in seguito è l’ingresso nel tesoro. A questo punto ogni bocca ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell’uccello veloce, tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della casa“. Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e nell’attività di Dio, l’esychia è qualcosa che, durante l’età presente, gli uomini possono ottenere solo ad un grado limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è riservata nella sua pienezza nell’età a venire. Nelle parole di Isacco “Il silenzio è un simbolo del mondo futuro“.

    II.               ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU’

     In linea di principio esychia è un termine generico per la preghiera interiore, ed abbraccia una varietà di più specifici modi di pregare. In pratica, comunque, la maggioranza degli scrittori ortodossi più recenti, usano la parola per designare un sentiero spirituale in particolare: l’invocazione del nome di Gesù. Occasionalmente, sebbene con minor giustificazione, il termine “esicasmo” è impiegato in un senso ancor più ristretto ad indicare la tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono usati in connessione con la “preghiera di Gesù”.

    L’associazione dell’esychia col nome di Gesù e, come sembra, col respiro – si ritrova già in S. Giovanni Climaco: “Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione. Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e allora conoscerete il valore dell’esychia“. Qual’è la relazione tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l’invocazione del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora descritto?

    La preghiera, è stato detto, è “metter da parte i pensieri“, un ritorno dal molteplice all’unità. Ora chiunque faccia un serio sforzo di pregare interiormente, stando di fronte a Dio, con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio della sua disintegrazione interiore – della sua incapacità di concentrarsi nel momento presente, nel “Kairos”. I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche ronzanti (vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna). Questa mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui ed ora con l’intero essere, è una delle più tragiche conseguenze della caduta. Che si deve fare? La tradizione ascetica dell’Oriente ortodosso distingue due principali metodi per superare i “pensieri”. Il primo è diretto: contraddire i nostri “logismi”, incontrarli faccia a faccia, tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente. Quando sono represse con violenza, le nostre fantasie, tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si può cercare di distogliere l’attenzione da essi e guardare altrove. La strategia spirituale diviene così positiva invece che negativa: l’obiettivo immediato non è tanto svuotare la mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da Barsanufio e Giovanni di Gaza. “Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici” consigliano “perché è esattamente ciò che vogliono, e non desisteranno. Ma rivolgiti al Signore per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a niente“.

    È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri con un violento sforzo della volontà. È di poco o di nessun valore il dire a noi stessi “smetti di pensare”; si potrebbe dire ugualmente “smetti di respirare”. “La mente razionale non può restare oziosa” insiste S. Marco il monaco. Come posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio interiore? Anche se non è possibile far desistere completamente l’inquieta intelligenza dalla sua instabilità, ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera. Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà gradualmente resi capaci di distaccarci da esso. L’invocazione ripetuta ci aiuterà a “lasciare andare” i pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio. Questo “lasciar andare” sembra corrispondere a ciò che Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come di un “mettere da parte” i pensieri. Non un selvaggio conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione, ma un gentile eppur persistente atto di distacco.

    Tale è la psicologia ascetica presupposta nell’uso della preghiera di Gesù. L’invocazione del nome ci aiuta a focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo punto. “Attraverso il ricordo di Gesù Cristo” scrive Filoteo del Sinai (IX-X sec.) “raccogliete la vostra mente dispersa“. La preghiera di Gesù è da considerarsi come un ‘applicazione del secondo metodo: l’indiretto, di combattere i pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino. L’invocazione ripetuta ci aiuta a “lasciar andare” e a distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri “logismi. Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente, continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. “Per fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri” dice il vescovo Teofane “dovete legare la mente con un pensiero, o con il pensiero di uno solo – il pensiero del Signore Gesù“.

    Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: “Quando abbiamo bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come sola attività il Signore Gesù“.

    Tale in generale è il modo in cui la “preghiera di Gesù” può essere usata per stabilire l’esychia all’interno del cuore. Ne derivano due importanti conseguenze.

    Primo, per conseguire il suo proposito l’invocazione dovrebbe essere ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d’esperienza provata (ma non di un principiante che deve procedere con cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto è possibile. Aiuti esterni, come l’uso del comboschini (= una specie di “rosario” ortodosso) e il controllo del respiro, hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire questo ritmo regolare.

    In secondo luogo, durante la recitazione della “preghiera di Gesù“, la mente dovrebbe essere vuota d’immagini mentali, per quanto ciò è possibile. Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere recitata nell’oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di fronte ad un’icona illuminata da candele o da lampada votiva.

    Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando diceva la preghiera usava riporre l’orologio nell’armadio per non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.

    “La preghiera di Gesù” non è una forma di meditazione discorsiva sugli eventi della vita di Cristo. Quelli che invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore un’intensa e bruciante convinzione che essi stanno nella immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e rispondendo a sua volta. Tale consapevolezza della presenza di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( + 395) “lo Sposo è presente, ma non è visibile“.

     III.            PREGHIERA E AZIONE

    Esychia, dunque, implica una separazione dal mondo – separazione esteriore oppure interiore, e talvolta entrambe: esteriore per mezzo della fuga nel deserto; interiore attraverso il “ritorno in sé” e il “mettere da parte i pensieri. Per citare i “Detti dei Padri del deserto”: “A meno che uno non dica nel suo cuore: io solo e Dio siamo nel mondo, non troverà riposo“. “Da solo al Solo“. Ma non è forse ciò egoistico, un rifiutare il valore spirituale della creazione materiale ed un evadere le proprie responsabilità verso i propri simili? Quando l’esicasta chiude gli occhi e le orecchie al mondo esterno, come faceva Silvano nella sua cella al monte Athos, quale servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo prossimo?

    Consideriamo questo problema sotto due principali punti di vista. In primo luogo: l’esicaismo è colpevole delle stesse distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell’occidente del XVII sec.? Finora si è deliberatamente evitato di tradurre “esychia” con “quiete” a causa del significato sospetto connesso al termine “quietista”. L’esicasta non si trova in pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste? In secondo luogo, qual’è l’attitudine dell’esicasta rispetto al suo ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?

    Il principio fondamentale del quietismo – è stato detto – è la condanna di ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l’uomo per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal punto, da non curarsi né di cielo, né d’inferno, né della propria salvezza. L’anima rifiuta coscientemente non solo tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto quale il desiderio per la virtù, l’amore di Cristo, l’adorazione delle persone divine, per restare semplicemente nella presenza di Dio in pura fede. Una volta che si sia conseguito l’apice della perfezione il peccato è impossibile.

    Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è decisamente non quietista. Esychia significa non passività ma vigilanza, “non l’assenza di lotta ma l’assenza di incertezza e confusione. Anche qualora un esicasta sia avanzato al livello della “Theoria” o contemplazione, egli non deve desistere dall’impegno della “praxis” o azione, cercando con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio. Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi, l’uno cessante quando l’altro inizia; ma piuttosto come due livelli d’esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti simultaneamente nella vita di preghiera. Ciascuno deve lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo è il chiaro insegnamento di S. Antonio d’Egitto: “Il compito principale dell’uomo è d’essere memore dei suoi peccati al cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro. Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre guerre: udire, parlare, vedere; ma c’è una cosa che deve continuamente combattere – la battaglia che è dentro il suo cuore“.

    È vero che l’esicasta come il quietista, non usa la meditazione discorsiva nella sua preghiera, ma sebbene l’esychia comporti un “lasciare andare” o un “mettere da parte i pensieri e immagini“, ciò non implica da parte dell’esicasta un atteggiamento di “completa passività“, né l’ assenza di “ogni atto distinto quale… l’amore di Cristo“. Il “lasciare andare” del male o dei logismi banali, durante la ripetizione della “preghiera di Gesù”, e la loro sostituzione con l’unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo positivo in sé stesso per controllare i pensieri. L’invocazione del nome è certamente una forma del “restare in presenza di Dio in pura fede“, ma allo stesso tempo è contrassegnata da un attivo amore per il Salvatore e da un’acuta nostalgia di condividere ancora più pienamente la vita divina. I lettori della Filocalia non possono non restare colpiti dall’ardore di devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di immediata e personale amicizia per il “mio Gesù”.

    A differenza del quietista, l’esicasta non fa alcuna dichiarazione d’essere senza peccato o immune da tentazioni. L’apatheia o “indifferenza”, di cui parlano i testi ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia impossibile peccare. “Apatheia” dice S. Isacco di Siria: “Non consiste nel non sentire più le passioni, ma nel non accettarle“. Come insiste S. Antonio, l’uomo deve “aspettarsi tentazioni fino all’ultimo respiro” e con le tentazioni c’è sempre la genuina possibilità di cadere nel peccato. “Le passioni restano vive” dice abba Abraham “ma son legate dai santi“. Quando un anziano afferma: “Sono morto al mondo” il vicino replica gentilmente “Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il corpo. Tu puoi dire: ‘ Sono morto ‘ ma Satana non è morto“.

    Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è strettamente connessa con l’amore, ciò indica il contenuto dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui l’uomo è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma la sua nuova e rinnovata energia; è uno stato dell’anima in cui l’ardente amore per Dio e per l’uomo non lascia spazio per passioni egoistiche e animalesche. A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase espressiva: “Il fuoco dell’apatheia“. Tutto ciò a dimostrare l’abisso tra esicasmo e quietismo.

    Per venire ora alla seconda questione: dato per scontato che la tradizione esicasta di preghiera non è “quietista”, in un senso sospetto ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?

    Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei “Detti” su tre amici che divennero monaci. Il primo adotta come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l’uno contro l’altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel deserto. Dopo un certo tempo, i primi due diventano completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci di fronteggiare tutte le richieste a loro poste. Prossimi alla disperazione, vanno dal terzo monaco, l’eremita, e gli dicono i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua in una ciotola e dice: “guardate”. L’acqua è torbida e turbolenta. Attendono alcuni minuti. L’eremita dice “guardate ancora”. Il sedimento è affondato e l’acqua interamente chiara; essi possono vedere i propri volti come in uno specchio. “Questo è ciò che avviene – dice l’eremita – a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto nel deserto, riconosce le proprie colpe“. Così finisce la storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano applicato la parabola dell’eremita; forse saranno ritornati nel mondo portando dentro di sé qualcosa dell’esychia del deserto. In questo caso, le parole del terzo monaco sarebbero interpretate nel significato che l’azione sociale, di per sé stessa, non è sufficiente, se non c’è un centro immobile nel mezzo della tempesta. Se uno, pur nel mezzo delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di direzione spirituale e vien fatto a pezzi.

    Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX sec. sarebbero propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una certa misura, essere eremiti del cuore. Ma era questa l’intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore della vita eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò solleva subito l’intero problema dell’apparente egoismo e negatività di questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è, allora, la vera relazione dell’esicasta con la società? Deve essere immediatamente ammesso che, similmente al movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta del XVIII sec., e nella Ortodossia contemporanea i centri principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica strettamente integrata, nascosta dal mondo. Molti autori esicasti esprimono una preferenza definita per lo “skete” nei confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in una grande comunità è considerata troppo distraente per la pratica intensiva della preghiera interiore. Pure, anche se l’ambiente esterno dello “skete”, considerato come ideale, pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un monopolio esclusivo. Sempre il criterio è quello non della condizione esteriore ma del suo stato interiore. Certe condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre per il silenzio interiore; ma non c’è alcuna situazione di sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.

    S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo discepolo Isidoro nel mondo; molti dei suoi compagni più vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa. S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è possibile per ogni cristiano; concluse egli stesso la sua vita come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.) servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti, afferma con grande enfasi: “Ciascuno dovrebbe mantenere la propria arte o professione. Il generale dovrebbe continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra, l’artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore, cambiare d’abito, compromettere la propria salute, o fare in genere cose non sagge, perché è del tutto possibile rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò che si ha, eppure praticare la meditazione continua“.

    Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la “vita più alta” è lo stato a cui Dio chiama ciascuno personalmente: “Molti considerano la vita eremitica come la più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il lavoro di governo, di istruzione o di educazione o d’amministrazione della chiesa… Da parte mia, comunque, non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né loderei l’uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata“. La via dell’esychia è dunque aperta a tutti: l’unica cosa necessaria è il silenzio interiore non esteriore. E sebbene questo silenzio interiore presupponga il “mettere da parte” le immagini nella preghiera, l’effetto finale di questa negazione è l’asserzione vivida del valore ultimo di tutte le cose e di tutte le persone in Dio. La via della negazione è contemporaneamente la via della superaffermazione.

    Ciò risulta molto dalla “Via del pellegrino“. L’anonimo russo che è l’eroe del racconto trova che la costante ripetizione della “preghiera di Gesù” trasfigura la sua relazione con la creazione materiale, cambiando tutte le cose in un sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti. “Quando… pregavo con tutto il mio cuore” egli scrive “tutto attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi, l’erba, gli uccelli, la terra, l’aria, la luce sembravano volermi dire che esistevano per amore dell’uomo, che testimoniavano l’amore di Dio per l’uomo, che tutto provava l’amore di Dio per l’uomo, che tutto pregava a Dio e cantava la sua lode. Così arrivai a capire quello che la Filocalia chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura … sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio“. Analogamente l’invocazione del Nome trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili “… ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più come prima, pieno di preoccupazioni. L’invocazione del nome di Gesù rallegrava il mio cammino. Tutti erano gentili con me era come se ciascuno mi amasse… se qualcuno mi fa del male, mi basta pensare ‘come è dolce la preghiera di Gesù’ e l’offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto“.

    Un ‘ulteriore evidenza della natura affermativa dell’esychia rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data dagli esicasti al mistero della trasfigurazione. Il metropolita Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei Rublev e l’altra di Teofane il greco: “L’icona di Rublev mostra Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche che illuminano tutto ciò che è attorno. Questa luce cade sui discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d’erba. In questa luce, che è… la Gloria divina, la luce divina stessa inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere solo in Dio“. Nell’altra icona “le vesti di Cristo sono argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano attorno sono pure bianchi argento e blu. Tutto dà un’impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina… non danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l’impressione che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la stessa luce riflette e risplende come se la vita divina accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le facesse tutte tendere verso se stessa. A questo punto la situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo “Dio è tutto in tutto“. Tale è il duplice effetto della “Gloria” della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e dentro di loro.

    Lo stesso duplice effetto è prodotto dall’esychia. La preghiera del silenzio interiore non è negativa rispetto al mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette all’esicasta di guardare al di là del mondo verso l’invisibile creatore; e in questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo con occhi nuovi. Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come per la prima volta. Ciò è vero del viaggio della preghiera come anche di altri viaggi. L’esicasta può apprezzare il valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista, perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.

    Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec., san Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a difendere precisamente le potenzialità spirituali della creazione materiale ed in particolare il corpo fisico dell’uomo. Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono l’esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento verso il mondo. L’esicasta nega per riaffermare; si ritira per ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione esteriore, Evagrio Pontico dice: “Monaco è chi è da tutto separato e a tutto unito“. L’esicasta opera un atto di separazione esternamente, ritirandosi in solitudine; interiormente “mettendo da parte i pensieri”. Eppure l’effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro possibilità nascoste. Ciò è visibile con maggior evidenza nel caso dei grandi “startsi”. Uomini come S. Antonio d’Egitto e S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed isolamento fisico. Eppure l’effetto ultimo di tale isolamento fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale compassione.

    Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire. S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa. Questo è reso meno paradossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): “Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini“. E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata. Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera; non con ciò che fanno, ma con ciò che sono, non esternamente ma esistenzialmente. Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria: “Sto a guardia delle mura“.

     

  • 03 Nov

    SOLITUDINE, SILENZIO E QUIETE

    I tre stadi della vita solitaria

    Di John Chryssavgis

    Tratto da: A.A.V.V, IL DESERTO DI GAZA – Barsanufio, Giovanni e Doroteo – ed. Qiqajon

     

    La Palestina e gli Anziani di Gaza

    Grazie a una situazione storica privilegiata e a una colloca­zione geografica strategica, la regione di Gaza può fregiarsi di un’eredità propria, contrassegnata sia da continuità sia da crea­tività, in rapporto alla primitiva pratica della solitudine e del silenzio. Il facile accesso a questa regione sia per mare che per terra insieme alla sua vicinanza all’Egitto, alla Siria e alla Terra santa, da un lato, e il suo carattere remoto e desertico, dall’al­tro, avrebbero reso Gaza, a partire dalla fine del IV secolo, un rifugio unico per espressioni della vita ascetica importanti e in­novative.

    In Palestina i monaci erano generalmente coscienti delle loro radici bibliche. Un tempo i profeti avevano camminato in questi luoghi; questo era il deserto dove Gesù aveva pregato e la terra dove erano stati seminati per la prima volta i semi del mar­tirio. Al tempo stesso i monaci erano coscienti delle loro radici ascetiche e confessavano apertamente il loro debito nei con­fronti dei padri e delle madri d’Egitto.

    A Gaza e in Palestina la topografia della regione e la spiri­tualità tradizionale contribuirono in egual misura a un’intensa e feconda atmosfera di solitudine e di silenzio. Non solo, ma, come vedremo più avanti, il genere di vita dei due più noti anziani, Barsanufio il Grande e Giovanni il Profeta, produsse un retaggio di sottili variazioni della via dell’anima.

    Non sappiamo esattamente quando – o perché – Barsanufio giunse nella regione collinare di Thabatha, presumibilmente dall’Egitto, scegliendo di condurre in questa terra la vita ritira­ta del recluso in un piccola cella. Sappiamo, però, che dal suo ritiro egli offrì preziosissimi consigli a numerosi asceti che, pa­rallelamente al diffondersi della straordinaria reputazione del discernimento e della compassione del Grande anziano, si ra­dunarono attorno a lui. A un certo punto, tra il 525 e il 527, l’altro Anziano, abba Giovanni il Profeta, venne a vivere accanto a Barsanufio, condividendo lo stesso genere di vita e svolgendo il medesimo ministero.

    Forse con l’intento di imitare questo genere di vita, l’intera comunità di Thabatha assunse la forma di un raggruppamento di varie celle, in cui monaci ed eremiti vivevano gradi diversi di reclusione. A mio avviso fu l’intensità della solitudine e il posto di primaria importanza attribuito al silenzio che più tardi favo­rirono l’estendersi del monastero con la creazione di laborato­ri, case di accoglienza per gli ospiti, un’infermeriae una chie­sa per l’istruzione dei visitatori.

    Barsanufio e Giovanni rappresentavano la continuazione e, per molti versi, un’incarnazione dei principi diventati teso­ro comune nel deserto egiziano. In particolare, Barsanufio era chiaramente plasmato dalla concezione evagriana che “mona­co è colui che, separato da tutti, è unito a tutti“. Non apren­do la porta all’anziano monaco egiziano che chiedeva di veder­lo, Barsanufio in realtà lasciava la porta aperta a tutti! Alcuni aspetti del suo genere di vita sono naturalmente reminiscenze di precedenti modelli del monachesimo della Giudea che era geo­graficamente e spiritualmente abbastanza vicino a Barsanufio e a Giovanni. Cirillo di Scitopoli descrive quanto Eutimio (+ 473) desiderò una vita di solitudine, ma anche il fatto che egli si prese cura di organizzare i suoi monaci in piccole comunità, ritirandosi successivamente in una regione più lontana, dove si ripeté lo stesso processo.

    L’uso stesso di comunicare in silenzio attraverso qualcun al­tro – che è sicuramente un’importantissima dimensione del comunicare per iscritto – inteso come misura di protezione della propria solitudine, trova un precedente in abba Isaia, che du­rante i cinquant’anni della propria reclusione in questa stessa regione, comunicava regolarmente tramite Pietro l’Egiziano. Isaia comunque non raggiunse mai la misura di Barsanufio e Giovanni; questo modo di comunicazione e di conversazione con i discepoli non costituì mai un elemento centrale nel suo ministero spirituale. Ma tale modo di dare consigli non era completamente originale né del tutto eccezionale nella regione. Paradossalmente l’invisibilità e l’inaccessibilità di Barsa­nufio e di Giovanni divennero le ragioni della loro visibile no­torietà e attrazione. Il genere di vita che ambedue condussero e al quale incoraggiarono altri comporta un equilibrio di solitu­dine e di silenzio: E tu pratica la quiete per cinque giorni e incontra i fratelli gli altri due; e se il tuo stare in cella è secondo Dio, se sai cioè che cosa vuoi stando in cella, certo non cadrai nelle grinfie del demone della vanagloria. Infatti colui che sa che cosa è venuto a fare in una città, questo vuole e non svia il suo cuo­re, altrimenti verrebbe meno allo scopo che si è prefisso.

    Cos’è allora che l’anima desidera imparare attraverso la soli­tudine, il silenzio e la quiete? Quali sono le variazioni spirituali della reclusione monastica e della quiete?

    La via dell’anima

     Barsanufio e Giovanni tracciano una distinzione tra solitudi­ne, silenzioe quiete. Sebbene gli Anziani di Gaza non siano sempre precisi nella distinzione da essi delineata, sottolineano tuttavia come sia importante dedicare del tempo a esaminare i diversi aspetti dell’anima e i principi particolari che la governano. Nel nostro tempo in cui vigono una comunicazione istanta­nea e un apprezzamento immediato dei desideri, sembra che di noi stessi e delle motivazioni che si celano dietro le nostre azioni conosciamo meno che di ogni altro argomento. La conoscenza di sé è invece il cuore della solitudine, la base del silenzio e il centro della quiete.

    In un qualche momento del lungo cammino che conduce dall’infanzia alla maturità, molti di noi hanno perso il contatto con le facoltà vitali che ci permettono di conoscere noi stessi. Forse parte del problema è dovuto al fatto che ci siamo propo­sti traguardi impossibili, che possono essere raggiunti soltanto dagli angeli. La spiritualità del deserto insegnò agli anziani di. Gaza che la perfezione appartiene soltanto a Dio; noi non siamo chiamati a rinunciare alla nostra imperfezione o a dimenticarla. La stessa fragilità e vulnerabilità della vita rivela la primaria importanza di affrontare e accettare i nostri desideri interiori e le nostre personali debolezze. La verità è che la presenza di Dio si può discernere al cuore di queste tensioni e di queste prove.

    Barsanufio e Giovanni certamente comprendono le vie dell’anima e le seduzioni della tentazione. Essi hanno piena coscienza del fatto che se non compiamo la scelta radicale di rinun­ciare ai legami e al modo di pensare che ci è familiare, attraverso un atto di xeniteìa – per mezzo del quale entriamo nel territorio straniero e impariamo a parlare l’estraneo linguaggio della so­litudine – non possiamo cominciare ad articolare il linguaggio dell’anima. Gli Anziani di Gaza erano perciò consapevoli che, sebbene ci siano tante vie di conoscenza di sé quanti sono gli esseri umani, le differenze tra di noi sono di fatto molto lievi. Ancor più, essi riconoscono che la profondità della solitudine, del silenzio e della quiete è determinata da norme specifiche e da regole spirituali. Spesso le nostre vite sono complicate da re­gole e norme; siamo angosciati o spaventati dall’idea di restare soli, incapaci di ascoltare, poco propensi ad amare. Barsanufio e Giovanni propongono vie pratiche e semplici: stare seduti in cella, praticare il silenzio, cercare la quiete. La vita spirituale è una via per spezzare cattive abitudini e stabilirne di nuove al loro posto: “Per chi siede in cella, recidere la volontà è disprez­zare il sollievo della carne in tutto“.

    E Barsanufio adotta l’immagine della costruzione di una casa per descrivere la dura lottae lo sforzo continuo  richiesti dalla pratica del silenzio e della quiete: Se vuoi costruire la tua casa, dapprima prepara il materiale e tutto l’occorrente: spetta quindi all’operaio venire e co­struire. L’occorrente per la costruzione di un tale edificio consiste in una fede salda (cf. 1Pt 5,9) per costruire le mura, luminose finestre di legno che lascino entrare la luce del sole per illuminare la casa, affinché non sia trovata in essa alcuna tenebra (cf. 1Gv 15). Le finestre di legno sono i cinque sensi [spirituali], rafforzati dalla croce preziosa del Cristo, che introducono la luce del sole spirituale di giustizia (cf. Ml 3,20) e non permettono che appaia nella casa alcuna tenebra, intendo dire la tenebra del nemico e di colui che odia il bene. Poi ti occorre un tetto che ripari la casa, affinché di giorno non ti bruci il sole né la luna di notte (Sal 120 [1211,6). Il tetto indica l’amore verso Dio, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8) e protegge la casa e non lascia che il sole tramonti sulla nostra ira (cf. Ef 4,26), affinché non lo troviamo nel giorno del giudizio (Mt 10,15) come accusatore che ci brucia nel fuoco della geenna (cf. Mt 5,22) e non troviamo la luna ad attestare la rilassatezza e l’indolenza delle nostre notti. Questa casa deve poi avere una porta, che lascia entrare e custodisce chi rimane dentro. Quando dico “porta”, tu, fratello, pen­sa come porta spirituale al Figlio di Dio che dice: Io sono la porta (Gv 10,9).

    Nella casa dell’anima, poi, la qualità fondamentale della soli­tudine è l’attenzione o la vigilanza; la qualità essenziale del silen­zio è l’ascolto o l’obbedienza, e la qualità essenziale della quiete è la comunione o l’amore. Non c’è obbedienza senza vigilanza e non vi può essere comunione senza solitudine. Quando queste tre qualità coesistono, la lotta ascetica ci consente di scoprire l’anima profonda e di prendere con noi la nostra anima ovun­que andiamo: “E se giungerai a praticare la quiete, troverai ri­poso e grazia dovunque tu viva questa quiete”.

    La solitudine: la porta dell’anima

    La solitudine è ciò che ci accorda il tempo e lo spazio per di­ventare attenti agli altri e a noi stessi. È un prerequisito nella via del progresso spirituale. In risposta a un tale che gli chiedeva preghiere, Barsanufio scrive: “Fratello, non costringermi a par­lare poiché io desidero abbracciare quiete e silenzio “.

    E con un monaco che gli chiedeva se doveva accettare de­naro per nutrire i poveri, abba Giovanni è parimenti radicale, apparentemente privo di carità: devi evitarlo a tutti i costi “an­che se tu vedessi davanti alla tua cella un uomo strangolato“. Ambedue gli Anziani avvertono con quanta facilità la carità e il servizio sono utilizzati come giustificazione per sfuggire al la­voro interiore di conversione. Riconoscono che perfino la pre­ghiera può diventare un pretesto per evitare il difficile lavoro della solitudine e del silenzio. E’ per questo motivo che abba Giovanni stabilisce: “Trattandosi di elemosina, non tutti sono in grado di comprendere l’argomento, ma solo quelli che hanno raggiunto la quiete e l’afflizione per i propri peccati”.

    Barsanufio spiega in che cosa anzitutto consista la solitudi­ne: “Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo“. E Giovanni aggiunge: “Stare in cella è ricordar­si dei propri peccati e piangerli e affliggersi (cf. Gc 4,9); vigilare perché la mente non sia fatta prigioniera. Ma, se lo fosse, ricon­durla in fretta nel suo luogo”.

    Purtroppo, tuttavia, noi tendiamo a confondere la conoscen­za di sé con il ripiegamento su se stessi. Ma in realtà la conoscenza di sé ci conduce dal ripiegamento su di sé all’oblio di se stessi: Fratello, odia perfettamente per amare perfettamente; allontanati perfettamente, per avvicinarti perfettamente; aborrisci l’adozione, per ricevere l’adozione (cf. Gal 4,5); rinuncia a fare la tua volontà, e fa’ la volontà di Dio; taglia te stesso e lega te stesso; fa’ morire te stesso e fa’ vivere te stesso (cf. 1Pt 3,18); dimentica te stesso, e conosci te stesso. Ed ecco che hai le opere del monaco.

    Curiosamente, mentre promuoviamo la necessità di conoscere e amare gli altri, in cambio tralasciamo spesso di conoscere noi stessi nella solitudine. Barsanufio ripete la ferma convinzione di abba Alonio: “Io e Dio siamo soli al mondo”. Barsanufio afferma: “Che tu sia solo e ti affatichi un pò, ti giova più che avere un altro“. Davvero, non siamo mai meno soli di quando siamo soli: “Mentre lottate in questa lotta non siete soli, ma anche molti altri lottano insieme a voi con le loro preghiere (cf. Col 4,12)”.

    Essere consapevoli delle ragioni per cui facciamo quello che facciamo facilita la consapevolezza delle ragioni per cui gli altri fanno quello che fanno e infine l’accettazione degli altri per quello che sono. Il narcisismo non è tanto conoscenza di sé, quanto piuttosto insufficiente conoscenza del vero io. Le persone ripiegate su se stesse e centrate su di sé normalmente soffrono per un io troppo piccolo piuttosto che per un io troppo grande.

    Spesso cerchiamo la comunione in una direzione sbagliata. Invece di guardare dentro di noi, ci volgiamo fuori di noi, verso gli altri. Per questa via il movimento di separazione della so­litudine non diventa affatto il primo passo verso la comunione con gli altri: “Fratello, scruta il tuo cuore da solo nella tua cella e troverai donde ti è venuta la durezza del tuo cuore“. La comunione si sviluppa a partire dall’interno e riflette il mondo interiore dell’anima. Essa costituisce il solido fondamento a partire dal quale possiamo raggiungere gli altri, perfino Dio stesso. Dice un detto apocrifo attribuito a Gesù nel Vangelo di Tommaso: 

    Quando di due farete uno,  allorché farete la parte interna come l’esterna,  la parte esterna come l’interna  e la parte superiore come l’inferiore allora entrerete nel Regno.

    La solitudine allora è ciò che dona stabilità. È come una bussola segreta nella nostra relazione con Dio, con gli altri e con noi stessi. Ci mette in grado di distinguere tra coinvolgimento personale e desiderio di piacere agli altri (anthroparéskeia) che deve essere rigorosamente confessata. La solitudine conduce al silenzio, che altro non è «se non chiudere il proprio cuore al dare e al ricevere (cf. Fil 4,15), al cercare di piacere agli uomini, e a ogni altra attività».

    La solitudine concerne la dimensione dell’essere e non semplicemente quella del fare. Essa rende l’anima attenta e recettiva, disposta semplicemente a chiedere e attendere umilmente: “Se non ti scoraggi per la fatica, troverai l’umiltà; e se troverai l’umiltà, riceverai anche il perdono dei peccati… Se ti lasci umiliare, riceverai la grazia e la grazia ti aiuterà“.

    Barsanufio e Giovanni affermano chiaramente che la preghiera non è mai esaudita per le vie che ci attendiamo: “Dio regolerà la cosa in un modo che non conosci“. In realtà la preghiera è esaudita per vie che trascendono – e forse addirittura annientano – una fiducia in se stessi che cerca risultati immediati o mete prestabilite. Allora la solitudine non può essere identificata con l’egoismo; la solitudine dissolve l’autoreferenzialità, conduce a considerarsi un nulla, a ciò che Barsanufio e Giovanni chiamano apséphiston: Sii libero da ogni sollecitudine e allora sarai completamente libero per Dio; muori ad ogni uomo; questo è il vivere da stranieri; tieni alla disistima di te stesso e troverai il tuo pensiero imperturbato.

    Barsanufio e Giovanni si muovono costantemente sul filo del rasoio tra l’importuno demone della vanagloria da un latoe il tenebroso abisso della disperazione: Fratello, quanto più l’uomo sprofonda nell’umiltà, tanto più progredisce. Rimanere nella tua cella ti è inutile, perché così tu resti senza afflizione; e se sei senza sollecitudine prima del tempo, il nemico ti prepara un turbamento maggiore – della quiete in cui credi di essere, così da condurti a dire: Magari non fossi mai nato (Gb 3,3; Ger 20,14).

    Spesso è raccomandato l’equilibrio: «Non camminare né dentro, né fuori, ma nel mezzo delle due cose, comprendendo qual è la volontà del Signore“. E ancora: “Il non presumere riguardo al ritiro, né disprezzare la distrazione degli affari, questa è la via di mezzo“.

    Il progresso nella via dell’anima richiede però fatica e tempo. Non cambiamo all’improvviso, divenendo in modo magico persone nuove e dimenticando tutte le nostre colpe passate. Non possiamo mai fuggire da ciò che siamo; non possiamo mai sfuggire alle tentazioni e alle passioni, al nostro carattere, alla vanità, alla paura, all’invidia, alla delusione o all’arroganza. Barsanufio ci ammonisce a non entrare in cella “a motivo della viltà”, ma solo “a motivo della preghiera”. Giovanni aggiunge: “Quando ricorri al silenzio per ascesi, allora è buono; quando invece non è così ma taci temendo il turbamento, allora è dannoso”.

    In ultima analisi, il grado di comprensione e accettazione dell’altro sarà proporzionato al grado di comprensione e tolleranza di noi stessi. Siamo uniti l’uno all’altro più dalla nostra debolezza e dai nostri fallimenti che dalla nostra forza e dai nostri successi. Nella solitudine della cella, attraverso tentazioni e tensioni, l’asceta diventa dolorosamente cosciente di ciò che gli manca. Allora l’asceta è tormentato dall’assenza di amore e aspira a una comunione profonda. La cella simbolizza il porto sicuro dell’anima, che nessuno lascia e al quale ciascuno può sempre volontariamente fare ritorno per scoprire sempre di più l’io profondo, senza temere la prova dolorosa o la lotta fino al sangue che ciò può portare con sé. Tale scoperta attraverso la solitudine può diventare una fonte di salvezza. Abbracciare la solitudine nel deserto della cella o dell’anima significa conoscere che cosa pensi, capire come stai e infine accettare gli altri senza il bisogno di difendere te stesso. Significa ancora diventare responsabile senza la minima ombra di autogiustificazione. Ciò è fonte di vulnerabilità e di apertura.

    In questo senso, cioè come fonte di vulnerabilità, la solitudine ci mette in rapporto con la croce di Cristo. Giovanni scrive: “Allora sarà solitudine, perché ha portato la croce“. Chi è stato spinto – da sofferenze personali o da condizioni di vita difficili – a un “punto di rottura” possiede spesso una visione della realtà estremamente ricca, che appare molto meno in chi non ha conosciuto conflitti. In verità la realtà del conflitto come parte costante e cruciale della vita è difficile da accettare. Il modo in cui noi viviamo le tensioni e le difficoltà influenza il nostro modo di accettare noi stessi e gli altri. La solitudine ci ricorda che l’anima non è una regione libera da conflitti dove possiamo evadere o ignorare i pericoli del mondo e le tentazioni dell’anima: Entrare nella cella significa entrare nella cella dell’anima ed esaminarla e raccogliere il nostro pensiero distaccandolo da ogni uomo: allora sentiamo dolore e compunzione. Ciò che impedisce la compunzione è la tua volontà propria; se infatti l’uomo non taglia la sua volontà, il cuore non sente dolore.

    La solitudine, insomma, possiede la capacità di assorbire ogni sorta di dolore e di trasformare ogni genere di tentazione e di tensione in speranza e gioia: “La tentazione porta l’uomo a pro­gredire; dove c’è il bene, là scoppia la lotta. Non temere dunque le tentazioni ma gioisci, poiché ti portano a progredire”. Non c’è da meravigliarsi che gli Anziani di Gaza ripetano insistentemente la necessità di gioire nel Signore: Gioisci nel Signore; gioisci nel Signore; gioisci nel Signore! Il Signore custodirà la tua vita, il tuo corpo, il tuo spirito da ogni male, da ogni attacco diabolico, da ogni fantasia angosciosa

    E ancora: Non possiamo essere senza tentazioni. D’altra parte esse ci insegnano la pazienza … Il nostro Maestro ha sopportato ogni patimento per amor nostro; e come mai noi, ricordandoci di lui, non sopportiamo, per divenire suoi compartecipi (cf. 1Cor 9,23)? Guarda che noi abbiamo ricevuto il comandamento di rendere grazie in tutto (cf. 1Ts 5,18).

    È qui che la solitudine incontra il servizio agli altri e la cella si apre al mondo intero: “Per raccogliere il proprio spirito non ci sono momenti fissi, né ore, né tanto meno giorni; si deve invece sopportare, con rendimento di grazie … Questa è la compassione“.

    Il silenzio: la via dell’anima

     Se la solitudine ci fa dono della consapevolezza e della vigilanza, il silenzio ci educa all’arte dell’ascolto e dell’attenzione. Nella solitudine è importante lo spazio tra le persone; nel silenzio quello tra le parole. Questo spazio è sempre necessario; “il silenzio è più ammirabile e più glorioso“, è sempre migliore, “bello e meraviglioso più di ogni altra cosa“, “bello in ogni caso“, “più necessario e utile di ogni altra cosa“. Il contatto fisico e la comunicazione verbale sono unite alla comunione e all’amore quanto il silenzio. È questo il motivo per cui Barsanufio afferma che il silenzio ci è chiesto da Dio; non dirà mai questo della quiete, che è un dono. La solitudine offre lo spazio e la possibilità di ascoltare e di assumere quello che l’altro sta dicendo e comunicando. Questo avviene perché nella relazione noi portiamo quello stesso io con cui noi siamo o non siamo in rapporto a quando restiamo soli. Gli Anziani infatti rim­proverano severamente quelli che si lamentano di aver perduto, nell’incontrare i fratelli, i doni spirituali conseguiti nella solitudine, come ad esempio, il silenzio.

    Il silenzio è una qualità che ci porta ad avere coscienza che ciò che sta accadendo nel mondo degli altri è importante. Al contrario, il canale di congiunzione tra l”‘io” e il “tu” può accrescere la “consapevolezza” della forza dei miei desideri e dei miei pregiudizi, nella mia mente e nel mio cuore. Quale risultato, io creo la mia versione del “tu”, con infima o nulla possibi­lità di contatto o comunicazione con l’altro. Domanda. Mi accade, mentre mi intrattengo con qualcuno, di distrarmi improvvisamente, al punto sia di sembrare al di là di me, sia di dimenticare l’argomento in corso, non perché la mente sia trasportata verso qualcos’altro, ma perché è fuori di se… Risposta. Questa è una guerra del diavolo, che vuole confondere l’uomo davanti ai presenti. Ma se manifesti loro la cosa con libertà, dicendo: “Perdonatemi, il diavolo mi ha distratto”, è lui a restare confuso e la guerra cessa. Parla dunque con sobrietà.

    Questi anziani riconoscono che dove l’io è impoverito, anche la relazione è compromessa. Ora, Barsanufio e Giovanni sono ben consci che per giungere alla conoscenza di sé abbiamo bisogno di fidarci almeno di un’altra persona: Domanda del medesimo allo stesso. Ti prego, padre, di dirmi come posso sapere se sono nella sottomissione e se abbandono la mia volontà… Risposta. Da questo puoi sapere se vivi da cenobita: se non fai niente di tua volontà, né il mangiare da solo, né con i fratelli, ma se fai senza discutere le cose che ti vengono ordinate. Domanda dello stesso. Quando faccio una carità ai fratelli, mi viene la tentazione di vantarmene; è male se lo faccio di nascosto per mezzo dell’igumeno, piuttosto che personalmente? …Risposta. Tu devi fare attenzione in tutti e due i casi, perché entrambi offrono un’occasione alla vanagloria. Tuttavia, farlo per mezzo dell’igumeno è più leggero, perché il tuo cuore ci trova una sola occasione di lotta: contro se stesso. Se invece lo fai direttamente, il combattimento è duplice: non solo con il tuo cuore, ma anche con gli uomini.

    L’obbedienza è essenzialmente un atto di attento ascolto; è l’arte di ascoltare profondamente (hypakoé). Barsanufio è cer­to che ogni volta che si fa silenzio di propria iniziativa, quel si­lenzio viene dal diavolo e produce turbamenti e ire. Insomma, l’ammonimento fondamentale è una sorta di reminiscenza dell’educazione ricevuta in una buona scuola elementare: “Non parlare mai prima di essere interrogato”. Ma lo scopo che ci si prefigge non è quello di soffocare o reprimere la volontà, bensì di rafforzare e rinsaldare la volontà: “Non esaltarti se il tuo di­scorso è accettato, né affliggerti se non lo è”.

    L’obbedienza è la misura e il criterio dell’autentica solitudine e del silenzio: “Se vuoi sapere se è dannoso o vantaggioso stare in cella per conto proprio, considera questo segno: se ci stai per obbedienza, sappi che è vantaggioso “.

    Naturalmente il delicato equilibrio tra solitudine e comunio­ne non può essere veramente raggiunto senza la grazia divina. Il vero silenzio e la vera quiete sono un riflesso della quiete che esiste nella santa Trinità: Se hai preparato così la tua casa [nel silenzio] … ecco che [il Figlio di Dio] viene col Padre benedetto e con lo Spirito santo e pone la sua dimora presso di te (cf. Gv 14,23) e ti insegna cos’è la quiete e illumina il tuo cuore (cf. Ef 1,18) di gioia ineffabile (cf. 1Pt 1,8).

    Ma ancora, è difficile reggere il sottile equilibrio tra solitudine e comunione senza l’aiuto di un padre spirituale. Grazie a qualcun altro che ha fiducia in noi, cominciamo fiduciosamente – cioè attraverso la fiducia e l’apertura del cuore – a riscoprire il solido terreno interiore. Condividere apertamente i nostri pensieri e le nostre tentazioni con almeno un’altra persona, ci porta a conoscere i desideri e i conflitti che guidano il nostro comportamento. E l’essere preparati ad ascoltare e ad accettare la realtà della nostra natura e noi stessi, ci rende più consapevoli e più attenti agli altri. La nostra capacità di entrare in noi stessi per imparare e crescere è in definitiva anche la possibilità che noi abbiamo di diventare consapevoli della presenza degli altri e attenti ai pesi degli altri.

    Una ragione valida per condividere con gli altri i propri pensieri è che la maggior parte di noi sono critici severi verso se stessi; noi ci ergiamo contro noi stessi con durezza, proprio quando più avremmo bisogno di tolleranza e di compassione, virtù proprie degli Anziani di Gaza. E benché l’obbedienza sia un concetto in contrasto con le contemporanee nozioni di liberazione e di indipendenza, è vero che quando si è incapaci di costruire anche un piccolo pezzetto di terreno solido, termini come libertà e volontà hanno scarsa risonanza.

    Citando frequentemente Gal 6,2 – “Portate i pesi gli uni degli altri” – Barsanufio e Giovanni sottolineano che la responsabilità per “i pesi degli altri” è un punto critico per la crescita spirituale. Assumere e riconoscere la propria responsabilità dinanzi agli effetti dei pensieri e delle azioni implica rinunciare ad accusare gli altri, che di conseguenza divengono meno minac­ciosi per noi: Il medesimo aveva letto nei detti dei padri che colui che vuole davvero essere salvato, deve anzitutto, vivendo insieme agli uomini, sopportare oltraggi, ingiurie, danni, disprezzo, perché i suoi sensi siano liberati e così si innalzi alla quiete perfetta … Disse dunque a se stesso: “Io miserabile non ho fatto nemmeno una di queste cose ma, scandalizzando tutti a motivo della mia infermità, mi sono separato dagli uomini. Devo forse allora ritornare in mezzo agli uomini? E, con l’aiuto di Dio, fare come dicono i padri e così giungere alla quiete perché la mia fatica non sia vana (cf. 1Ts 3,5)

    Il silenzio poi è l’alfabeto del linguaggio della tolleranza e dell’amore. La comunione è spesso travolta sotto il rullo compressore delle nostre parole! Barsanufio preferisce il silenzio; Giovanni invece confessa di amare la conversazione: “Se la persona che mi interroga fosse come me, la mia loquacità non mi lascerebbe star zitto senza rispondergli, perché la mia lingua non si lascia trattenere“. E afferma: “Poiché noi, per la nostra debolezza, non siamo giunti a percorrere la via dei perfetti, parliamo“. Dopo tutto, come osserva a un certo punto: Quanto al silenzio di cui parlano i padri, tu non sai che cos’é, e sono molti a non saperlo. Questo silenzio infatti non è tacere con la bocca: ci può essere un uomo che dice migliaia di parole utili, e questo gli viene contato come silenzio; e un altro che dice una sola parola inutile, e gli viene contata come trasgressione degli insegnamenti del Salvatore.

    Questo equilibrio tra solitudine e comunione caratterizza il monastero di Serido. Le celle avevano finestre che permettevano la conversazione con i visitatori; e i monaci erano incoraggiati a rispondere ai bisogni degli ospiti, inclusi i laici e i parenti, “non per compiacere gli uomini, né come chi cerca lode, ma con cuore puro” (cf. 1Tm 1,5). Infine abba Giovanni parla di “non-silenzio” ( asiòpeton o tò mé siopàn) quando uno è si silenzioso, però non manifesta sinceramente i suoi pensieri e perciò non ottiene la guarigione. Ambedue, parola e silenzio, possono essere falsi. Quando la nostra teologia è disgiunta dagli altri, quando essa non ha relazione con questo mondo, allora è un falso linguaggio, è cattiva comunicazione. Barsanufio e Giovanni sono poco tolleranti verso le chiacchiere spiritualiche riducono Dio a un oggetto piccolo e maneggevole. Non ci offrono un libro di ricette per la nostra guarigione e salvezza, per quanto seducente possa essere il “rattoppo”. Barsanufio e Giovanni sanno che l’essere umano è imprevedibile; è troppo complesso perché un tale procedimento possa portare benefici duraturi. Più diventa possibile fare previsioni su qualcuno, meno tale persona è reale. Stiamo in guardia dalle persone che hanno sempre la risposta pronta!

    La quiete: la risurrezione dell’anima

    La solitudine e il silenzio sfociano infine nel mistero della quiete. Questo è il momento in cui percepiamo che Dio è il fondamento del nostro essere, “la solida pietra”della nostra costruzione, davanti alla quale non siamo più spaventati della nostra debolezza o della nostra piccolezza. Abba Giovanni dice: “Dove c’è quiete, mitezza e umiltà, abita Dio”. E Barsanufio afferma che la quiete è un dono spirituale, dato da Dio “nei tempi opportuni”.

    La quiete è strettamente legata alla morte. Essa riflette la nostra attesa del mondo a venire. Sii vigilante, ammonisce Barsanufio: “vigila, fratello: sei mortale e sono brevi i tuoi giorni”. Dice ancora: “La cella nella quale uno è sepolto come in una tomba, per il nome di Gesù, è un luogo di riposo … è diventata un santuario, dato che contiene la dimora di Dio (cf. Ef 2,22).

    La quiete può in certo senso rassomigliare alla morte, è simile alla lenta crescita silenziosa di germogli seminati profondamente nel terreno: crescita nascosta, ma reale. Barsanufio paragona “la quiete perfetta“a una nave che giunge nel porto; dapprima essa “è sbattuta e agitata dalle onde e dai flutti; ma quando giunge nel porto, si trova in una grande calma“.

    Si vive la vita in pienezza solo quando ci si è posti di fronte alle cose ultime, cioè alla mancanza di senso e alla morte. Dal modo con cui noi ci confrontiamo e ci sottraiamo a queste cose ultime, derivano profonde conseguenze per la nostra esperienza di solitudine, di silenzio e di quiete. Il ricordo della morte è fondamentale nella vita spirituale, è una memoria quotidiana e tangibile della nostra debolezza e imperfezione. Se vogliamo uscire dalla vita nella bellezza e nella luce, dobbiamo semplicemente pensare alla morte. A fatica si può trovare, in case di cura e ospedali, un senso di perfezione, che per giunta è solo apparente. Il ricordo della morte permette alla debolezza di essere rivelata in verità; allora la falsità può essere apertamente svelata e la guarigione può cominciare.

    La quiete tuttavia non è soltanto qualcosa che fa paura; è anche qualcosa di sacro. La quiete è strettamente legata al desiderio della “vita in abbondanza (cf. Gv 10,10), al di là della “mera sopravvivenza“. La maggior parte di noi tende a negare la relazione tra la morte e la quiete entrando nel turbine dell’attivismo che fa della morte una realtà improbabile o forse impossibile. La quiete è come un’attesa rispettosa e riverente. Essa e un rinnovato senso di anticipazione, un’apertura alla risurrezione in cielo. Nella quiete siamo consapevoli di essere vivi e non morti, di avere bisogni e tentazioni e di essere capaci di affrontarli e di assumerli senza fuggire. Nella quiete non siamo vuoti, non siamo soli, non siamo timorosi. Nella quiete sappiamo che Dio è (cf. Sal 45 [46],11); quest’esperienza può accadere in un istante oppure occupare tutta una vita.

    Infine la quiete introduce un elemento apofatico nella via della comunione e dell’amore. Perché attraverso la quiete giunge il consolante invito ad avvicinare gli altri tramite la “non-conoscenza”. Se restiamo fermi alle nostre precomprensioni o alle nostre paure dell’altro, non potremo mai godere di un perfetto silenzio. Quando “conosciamo” qualcuno, finiamo per chiudere subito gli occhi al processo continuo di cambiamento e di crescita dell’altro. Noi limitiamo noi stessi quando fissiamo gli altri unicamente nel passato e non sappiamo gioire della loro potenzialità. Nell’isolamento della solitudine possiamo rischiare di essere quello che siamo; nell’eco prodotta dal silenzio possiamo rischiare di porci davanti agli altri come essi sono; e nella comunione della quiete possiamo accogliere gli altri nella loro interezza, nella loro dimensione eterna, al di là di quello che possiamo comprendere, sopportare o semplicemente sfruttare.

    Conclusione

    Secondo una leggenda conservata nella Storia ecclesiastica di Evagrio Scolastico, al tempo in cui Evagrio scrive (593 ca.) circa cinquant’anni dopo la data presunta della morte di Barsanufio, si credeva che il Grande anziano fosse ancora vivo. Quando il patriarca di Gerusalemme diede ordine di aprire la porta della sua cella, ne uscì una fiamma di fuoco. Il silenzio di Barsanufio fu una dimostrazione più forte della sua stessa morte.

    Solitudine, silenzio e quiete sono valori monastici che presentano sottili, ma significative, variazioni dell’anima. Per molti aspetti esse costituiscono un equivalente della triplice distinzione evagriana tra praktiké, theorìa e theologhìa. Tuttavia, con la loro particolare distinzione delle variazioni dell’anima, che aprirà la via al pensiero monastico delle generazioni successive, Barsanufio e Giovanni offrono una nuova prospettiva alternativa di questo mondo, e non un’occasione di fuggire la realtà del mondo. Definendo i tre stadi della vita solitaria essi sottoli­neano il fatto che noi possiamo essere veramente uniti quando siamo veramente separati. Questa è essenzialmente l’esperienza di lasciare la presa e di affidarsi. È la capacità di dimenticare se stessi nello sforzo di raggiungere l’altro. Solitudine, silenzio e quiete riguardano veramente “ogni pensiero, ogni affare e condotta e preoccupazione“della nostra vita. Ogni relazione richiede la stessa prossimità e la stessa separazione, la stessa accoglienza e la stessa distanza.

    In questo senso i tre stadi della vita solitaria rappresentano una sfida per la paradossale o ideologica collisione che talvolta è messa in luce nella tradizione del deserto tra l’ideale del silenzio e la realtà della verbosità. Questa era la via dei padri del deserto trasmessa attraverso Evagrio Pontico e abba Zosima. Era l’insegnamento ricevuto e ripetuto da Barsanufio e Giovanni che dichiara che uno può essere con gli altri anche quando non è presente. Questa è l’idea che ispira la poesia australiana di Michael Leunig intitolata Sedendo sul muretto:

                “Vieni a sederti accanto a me”
    ho detto a me stesso;
    e, anche se non ha senso,
    mi sono tenuto per mano
    come un piccolo segno di fiducia
    e insieme sedevo [solo] sul muretto.

     

     

« Previous Entries    Next Entries »