• 13 Nov

    L’uomo: un pellegrino
    sempre in attesa

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il poeta G. Gibran, nel suo libro più famoso intitolato, Il Profeta scrive: Noi gli erranti sempre alla ricerca della strada più solitaria, mai iniziamo un giorno là dove ne abbiamo terminato un altro, ed ogni levare di sole non ci trova là dove abbiamo ammirato la luce del vespro. Anche quando la terra dorme viaggiamo”.

    L’uomo è presentato come un pellegrino , un pellegrino del tempo. Un tempo inarrestabile, che scorre senza che possa essere afferrato mai, l’uomo non ne è il padrone.

    Ma è proprio questa “drammaticità” del tempo che scorre che colloca l’uomo sempre in posizione nuova nei confronti del suo passato e del suo futuro. E’ il tempo che permette un cammino, un progresso, una crescita, una progettualità, un’attesa.

    Il cammino, il pellegrinaggio,è stato assunto nelle diverse culture come una simbolica di primaria importanza per esprimere lo scorrere del tempo e della vita: per affermare che la vita è un cammino verso un incontro.  Bene perciò il filosofo G. Marcel definisce l’uomo come viator, viaggiatore.

    L’uomo dunque simbolizza se stesso, come un essere in cammino. Ma verso dove? Quale significato dare all’ineffarrabile scorrere del tempo e della vita? Si tratta di darvi un significato.

    Certamente si vuol camminare verso la pienezza della vita e della gioia. Dalla vita attendiamo proprio questo. Tutto l’uomo è teso a questa meta ma è dato costante che la nostra attesa rimane sempre insoddisfatta. Non fosse altro perché sappiamo che all’ultimo orizzonte si delineano le sponde del fiume Lete con la barca di Caronte pronta a farci transitare, per l’ultimo viaggio!

    Ma dentro di sé la nostalgia del desiderio di vita e di gioia permane, non si può soffocare: “esule o pellegrino, in fuga o in marcia, l’uomo è spinto da una nostalgia struggente. Un disagio lo rende inquieto; un dolore lo porta a tornare alla sua vera casa. In nessun luogo trova la patria stabile del suo desiderio. Per questo è essenzialmente un camminatore” (S. Fausti).

    Il cammino della vita e della storia, con le attese che comporta, suggerisce il progredire, il crescere. Dunque il cammino presuppone la durata nel tempo, la pazienza, l’accettazione dell’inevitabile fatica e del rischio, il ravvivare in noi la consapevolezza del cammino stesso e della meta da raggiungere, onde evitare il rischio di percorrere la strada in modo distratto, superficiale e in fin dei conti insensato e inconsapevole.

    Senza durata, senza attesa, non vi è vita né storia, non vi è crescita. E l’uomo non si trova già bell’e fatto all’inizio, quando esce dal grembo della madre: occorre una vita per costruire l’uomo e … non basta! L’esistenza dell’uomo (e come individuo e come società)  ha bisogno perciò della storia. Solo l’uomo è capace di storia (Heidegger parlerà di geschicthe: storia vivente).

    Ma questo dato di fatto forse ovvio per noi non bisogna darlo poi per scontato: esso è il frutto, possiamo affermarlo a pieno diritto, di una rivelazione.

    Se guardiamo alle civiltà arcaiche (all’antica Grecia per esempio o anche alle filosofie orientali) restiamo colpiti dal fatto che il tempo è svuotato in un certo senso di rilevanza. In esse è viva l’angoscia della vita che sfugge sia a livello di individuo come di cosmo… occorre sfuggirvi ad ogni costo. Lo strumento è la visione mitica di un tempo ciclico,  ovvero di un eterno ritorno e incessabile ripetersi delle cose: e questo rende possibile il recupero di tutto ciò che sembra vada irrimediabilmente perduto. Il viaggio di Ulisse, dove l’attesa si risolve in un ritorno e non in un avanzare, ne è l’emblema più significativo. Ovvio che per far questo sia indispensabile sganciarsi dal valore della continuità degli eventi quotidiani; essi assumono significato solo alla luce di un proiettarsi al di là di essi, in un tempo mitico che solo è reale.

    Sulla stessa linea, ma con motivazioni diverse, le filosofie dei secoli passati, tralasciando l’insegnamento biblico, posero l’accento e l’attenzione sugli aspetti immutabili dell’uomo: ovvero sulla sua essenza, sulla sua natura, sulla sua anima. La sua storicità passava in second’ordine. Non interessava più di tanto perché ciò che è più vero e più importante è ciò che è al di là del tempo, ciò che è eterno.

    Per la storia rimaneva uno sguardo di commiserazione e rassegnazione: una povera valle di lacrime dalla quale occorre sfuggire al più presto. E dove l’attesa si risolveva solo in un al di là posto dopo la morte.

    La filosofia esistenzialista porterà al centro proprio l’uomo, in questo figlia del rinascimento e dell’illuminismo, nel suo collocarsi nel mondo e nella storia. L’esistenza appare come un “cammino”, un “compito da assolvere”. Si è compreso, reagendo alla visione precedente che guardava all’essenza e all’eterno, che l’esistenza umana è esistenza temporale, che non si realizza in un solo momento, ma in una continua successione di tempi, strettamente vincolati tra loro. Ed è così che si approda ad una visione di uomo “adulto”, trasformato dalla storia che vive ma altresì capace di trasformare la storia stessa.

    In questa linea nuove correnti filosofiche accentueranno che ormai l’unico protagonista della storia è l’uomo e solo lui. (Si pensi al marxismo, alle correnti storicistiche, ad autori esistenzialisti come J.P. Sartre). Per essi: “L’uomo sarà in seguito, e sarà quale si sarà fatto… l’uomo non è altro che ciò che si fa”). Ma queste filosofie fanno sì che le attese si restringano all’esistere limitato in questo mondo con tutta la loro carica di contraddittorietà e delusione. La nostra attesa ha invece come misura l’infinito.

    Uno sguardo alla nostra cultura rivela un ulteriore accostamento alla storia.

    L’uomo di oggi ha scelto di rinunciare alla storia – e quindi all’attesa – per ripiegarsi sull’istante. Il momento attuale va vissuto con la massima intensità (di piacere) possibile. La nostra cultura vede una ricerca affannosa, angosciata di una moltiplicazione di istanti, che vorrebbero tentare di riempire il vuoto lasciato da una mancanza “di attesa”verso il futuro e “di memoria” per il proprio passato. Disancorato dal passato e dal futuro l’uomo di oggi si ritrova sospeso sull’istante, ma sospeso sul vuoto. E nessuno è più perso di colui che non sa dove andare o di chi e che cosa attendere.

    Ma la rivelazione biblica si parla di un Dio personale e creatore, che intesse un dialogo con l’uomo. Un Dio che ha dato un inizio alla storia e al quale questa appartiene. Con la rivelazione nasce il concetto di storia come luogo teologico, in cui si intesse un rapporto, una storia di alleanza che apre la storia continuamente al futuro di Dio e dunque all’attesa del suo compimento, impedendo al credente di ricadere sia in una visione ciclica della storia stessa, come nel suo svuotamento di significato.

    Ciascuno di noi si colloca in un punto preciso del tempo, con una tensione aperta a diverse possibilità. Ci vediamo situati in una tensione tra un passato già realizzato e un futuro sempre aperto e da costruire insieme al Signore altrimenti “si lavora invano”.

    Per ciascuno il presente è l’aspetto predominante, l’unico realmente posseduto. Un presente però che si estende sia nelle radici del passato come nell’attesa di un futuro che sappiamo essere nelle mani di Dio. Il passato è passato in quanto rimane nel presente come “memoria”, fondamento del mio attuale esistere. Il futuro appare futuro perché già ora, nel presente è anticipato come appello, compito, progetto di crescita. L’uomo è soggetto di speranza.

    Si tratta dunque di un presente teso dinamicamente tra passato e futuro. Se ciò non fosse sarebbe ridotto ad un semplice istante sospeso nel vuoto, nel nulla.

    Non possiamo assumere atteggiamenti errati.

    Essi potrebbero essere sintetizzati così:

    –       il fatalismo e la rassegnazione: è una forte tentazione in questa fase storica di passaggio in cui ci  sembra  di brancolare del buio.

    –       L’alibi: il cercare giustificazioni per non assumersi la resposabilità del proprio e altrui cammino

    –       Il ripiegamento sull’istante privo di “memoria” e di “speranza”, e di progettualità.

    Possiamo assumere atteggiamenti corretti:

    –       La consapevolezza che la storia è in mano a Dio che ci annuncia in Cristo la promessa della vita divina in comunione con lui. Ci ha rivelato perciò il nostro destino ultimo.

    –       La nostra storia non è dunque un girare in tondo ma un pellegrinaggio verso la meta, il ritorno alla casa del Padre. Essa ha una direzione e non possiamo fallire!

    –       Sapremo guardare alla nostra storia e alla storia con gli occhi di Dio, ma occorre un cuore puro, per scorgere che in ogni istante, sia buono o cattivo, Egli ci è vicino e ci apre dinanzi una strada da percorrere, saremo aperti dunque alle sorprese di Dio.

    –       Non vivremo dunque da rassegnati ma responsabili nel camminare ogni giorno nell’umiltà di un sì ai passi che Dio ci chiede di compiere.

    –       Infine consapevolezza che non camminiamo da soli: siamo in cordata con la Chiesa tutta, con i santi che in cielo intercedono, con gli angeli che ci accompagnano. Non siamo dunque mai soli.

     

    Posted by attilio @ 18:57

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