• 18 Apr
    1. GRAZIA  DIVINA E COLLABORAZIONE DELL’UOMO

     

    A. Sinergia:  l’azione umano-divina

    L’uomo “religioso” ha sempre creduto di dover “ascendere” per trovare Dio. E ascendere vuol dire fatica e lavoro. Ma questo sforzo risulta smisurato alle forze umane. Come pretendere di giungere noi “finiti” all’ “infinito” di Dio? Nella fede cristiana invece è vero il contrario: non siamo noi ad ascendere al cielo, ma è Dio che discende verso di noi per incontrarci e donarci la sua salvezza.

    Nella teologia ascetica viene posta una domanda importante: che funzione hanno, che valore, i nostri sforzi per acquisire la grazia, ovvero la vita divina? (è lo stesso problema rappresentato dal rapporto tra l’ascetica e la mistica, tra la praxis e la theoria).

    L’esperienza spirituale sia orientale che occidentale, soprattutto derivata dal vissuto monastico, insegna che vi è profonda unità tra ascesi e mistica.  Nel progresso della vita spirituale deve esistere sempre una stretta collaborazione tra l’agire umano e la grazia di Dio.

    Qualcuno potrebbe dire: “Allora la grazia non è più grazia!”. Lo Pseudo Macario risponde all’obiezione: gli sforzi umani sono come il lavoro dell’agricoltore. Non basta zappare e seminare. Il raccolto dipende anche dal sole e dalla pioggia. Vi sono annate in cui si raccoglie poco nonostante l’impegno. Ma la regola normale resta sempre valida: meglio si lavorano i campi, migliore sarà la raccolta. Vale perciò la regola: sforzati e Dio verrà in aiuto al tuo sforzo da lui stesso suscitato in te. “Che il sole risplenda o no nel cielo non dipende dal suolo coltivato o meno; ma se il sole risplende, non è indifferente che il suolo sia coltivato o incolto: un campo incolto fa ostacolo all’efficacia fecondatrice del sole. Così è per la grazia: avere o non avere la grazia non dipende dall’uomo, ma dalla liberalità di Dio; l’uomo, tuttavia, se Dio offre la grazia, può porre ostacolo e frustrare i suoi effetti” (C.V. Truhlar)

    Ricordiamo che l’amore di Dio deve incontrare l’amore attivo da parte dell’uomo.

    B. Lavoro

    Ad immagine di Dio che è Creatore-lavoratore anche noi siamo chiamati a collaborare-lavorare con Lui. Vivere vuol dire lavorare con Dio che lavora.

    A causa del peccato il lavoro è divenuto penoso, esso richiede fatica e sudore (cfr Gn 3,19). La pena per il peccato, però non è il lavoro stesso – come nota san Giovanni Crisostomo – ma la fatica, il dolore, il disgusto di lavorare. Il cristiano che si purifica dal peccato e dalle sue conseguenze, libera dalla sua maledizione il lavoro affinché esso diventi di nuovo libera e gioiosa costruzione della propria perfezione, l’espressione dell’amore verso Dio e verso il prossimo.

    E non esiste lavoro più importante di un altro. Esso se è secondo la volontà di Dio è il più importante per me. Fu il principio spirituale che santificò l’umile e semplice vita di san Giovanni Berchman[1]: “Fa’ bene ciò che devi fare!”.Una volta gli chiesero cosa avrebbe voluto fare se avesse saputo di dover morire subito dopo pranzo; rispose: “Andrei a ricreazione con i miei compagni”. Adempiere il proprio obbligo è la migliore devozione e preparazione alla morte.

    Alcuni maestri insegnano ad eseguire tutto come se si trattasse dell’ultima opera della propria vita: consapevolmente, con gioia, con diligenza, ma anche con una santa leggerezza e senza ansia per il domani, o per il risultato esteriore.

    Teniamo poi conto che il nostro lavoro è espressione concreta dell’amore al prossimo. Un lavoro fatto bene, con solerzia, aiuta altri a vivere meglio. Non è indifferente questa attenzione, soprattutto nella propria famiglia, comunità o luogo di lavoro.

    Per questo non ci è lecito disprezzare, come in antico, il lavoro manuale. Fu soprattutto il monachesimo a cambiare tale concezione, ribaltando una tendenza eretica (gli euchiti) che volevano esclusivamente dedicarsi alla preghiera. I cristiani non si vergognano di avere un Maestro che fu per trentanni un umile lavoratore. Paolo era un tessitore. Alcuni apostoli pescatori. San Giovanni Crisostomo se la prende con i cristiani che fanno troppo i “signori”: “Dio ti ha dato le mani, gli schiavi li hanno fatti gli uomini”. Paolo VI nel suo pellegrinaggio in terra santa ebbe a dire a Nazaret: “Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù,  cioè la scuola del Vangelo… Vi impariamo una lezione di lavoro. Oh! Dimora di Nazaret, casa del “Figlio del falegname”! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana… Infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello”.

    E’ vero che il lavoro manuale affatica e talvolta distrae: il suo scopo può apparire a prima vista solo un’utilità materiale. Tuttavia se deve divenire spirituale è necessario attribuirgli uno scopo spirituale perché abbia conseguenze positive a livello spirituale. Perciò è necessario trattare della “retta intenzione” in ogni attività umana, affinché sia trasfigurata.

    C. Attività esteriore ed interiore

    A causa delle occupazioni quotidiane siamo spesso portati a concentrarci sull’esterno. I maestri spirituali ci ammoniscono della necessità, almeno di tanto in tanto, di rientrare in noi stessi, a riprendere contatto con la nostra interiorità.

    È impossibile che l’attenzione per l’esteriore sia completamente eliminata. Ma d’altra parte atti puramente interiori non esistono. Anche un puro pensiero in qualche modo dipende dalla materia e dall’esperienza. E vale il contrario: ciò che abbiamo in mente lo manifestiamo esteriormente.

    Quindi fra pensiero “interno” ed azione “esterna” vi è una relazione simile a quella che c’è tra l’anima e il corpo. Il volto è lo specchio dell’anima ma non rivela mai totalmente il suo segreto.

    D. L’intenzione dà il valore alle opere

    La vera moralità del nostro agire scaturisce dal cuore, ma il cuore non riesce mai completamente ad immetterla nel nostro agire esteriore.

    Rinnovare spesso le buone intenzioni corrisponde allo sforzo di ristabilire l’unità fra l’azione “esterna” e quella “interna”. Anche se sappiamo che questa unità, qui in terra, non sarà mai perfetta. La buona intenzione santifica i mezzi (evidentemente quelli che non sono immorali), l’intenzione cattiva rende immorale anche l’opera in sé buona.

    Affinché un atto sia meritorio non è sufficiente un motivo solo umano. Non basta pentirsi di aver rubato poiché la polizia mi ha scoperto! Il lavoro non è meritorio se lo compio con l’ottica di far soldi. Eppure la maggior parte dei nostri atti sono compiuti con motivazioni puramente umane. Ma teniamo presente che in ogni atto possono partecipare diverse motivazioni Alcuni di questi motivi sono sentiti più vicini, altri sembrano lontani. In teologia si distingue l’intenzione “attuale”, quella che mi spinge immediatamente all’azione (corro se non perdo il treno), dall’intenzione “virtuale”. A quest’ultima non penso, eppure essa è il vero motivo (devo andare a trovare una persona in difficoltà).

    Allora alcuni teiologi affermano che l’opera meritoria deve avere un motivo soprannaturale, questo però non deve necessariamente essere attuale, può essere anche virtuale. Il cristiano ha deciso, una volta per sempre, di voler salvare la propria anima e di evitare tutto ciò che è peccato. Questa intenzione non viene facilmente revocata e allora è valida anche se, nella fretta della vita non ci pensiamo.

    Scrive l’autore dell’ Imitazione di Cristo: “Non fidarti dei tuoi sentimenti; ciò che oggi tu senti potrà cambiare presto. Finché vivrai sarai soggetto, anche tuo malgrado, a questa instabilità, sicché sarai ora lieto, ora triste, ora sereno, ora turbato; ora devoto, ora freddo, ora diligente, ora pigro, ora grave, ora leggero. Ma chi ha lo spirito saggio e illuminato, sta saldo fra questi mutamenti, senza preoccuparsi di ciò che sente dentro di sé, né da qual parte spiri il vento dell’incostanza, procurando che tutta l’attenzione della sua mente sia fissa al giusto e desiderato fine. Soltanto in tal modo, infatti, egli potrà conservarsi fermo e stabile, tenendo fisso in me (nel Signore) lo sguardo puro della sua retta intenzione, attraverso i suoi più vari eventi”. (Imitazione di Cristo, III, 33,1).

    E.  Formulare le intenzioni buone

    Chi vive la vita religiosa più autenticamente diventa sempre più cosciente e consapevole dei motivi superiori, inizialmente nascosti. Egli cerca di rendersene conto e di rafforzarli. Questa pratica viene denominata come un “formulare la buona intenzione”. Dovremmo apprendere l’arte spirituale di svegliare quotidianamente la buona intenzione. Il Movimento dell’”Apostolato della preghiera” ad esempio propone una preghiera specifica: “Cuore divino di Gesù, io ti offro, per mezzo del cuore immacolato di Maria madre della Chiesa, in unione al Sacrificio eucaristico, le preghiere e le azioni, le gioie e le sofferenze di questo giorno: in riparazione dei peccati e per la salvezza di tutti gli uomini, nella grazia dello Spirito Santo, a gloria del divin Padre”.

    La buona intenzione, se formulata, allarga la dimensione soprannaturale del nostro agire; le nostre buone opere divengono meritorie, il nostro lavoro si inserisce maggiormente nel piano della salvezza. Ma questo non deve ridursi a devotissimi sospiri e nulla più! Forse è meglio non partire dall’alto con propositi che rischiano di disperdersi, ma dal “basso” offrendo al Signore quello che in quel momento si sta compiendo. Il teologo K. Rahner[2] definisce questo come “purificazione delle motivazioni”. Gli impulsi molteplici che si vivono durante la giornata ricevono in tal modo tutti la giusta direzione e il giusto valore. Ciò porta come frutto la pace, l’abbandono in Dio, la consapevolezza della sua presenza.

    F.  Forza della volontà umana

    Nella morale cristiana si distinguono tre facoltà: affettività, la ragione e la volontà.

    Ora l’esperienza ci dice che spesso pur conoscendo il bene facciamo il contrario. San Giovanni Crisostomo affermava che: “Nessuno può fare danno all’uomo se non lui stesso”. E i maestri insegnano che “per salvarci non abbiamo bisogno di altro se non il volere”. Ma questo non sembra pelagianesimo[3]?  Secondo Agostino al contrario l’uomo da solo non è altro che peccato, e senza la grazia di Dio non saremmo neppure capaci di pensare il bene tantomeno di farlo.

    La frase di san Giovanni Crisostomo afferma che al cristiano che ha già ricevuto la grazia nel battesimo, per salvarsi necessita anche il voler salvarsi. Paolo apostolo condensa il problema in una frase: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,14).

    G. Libertà

    Nel discorso riguardante la libertà occorre tener presente e salvaguardare sia la piena libertà dell’uomo ma altresì, logicamente, anche la piena e totale libertà di Dio. Dato poi che la libertà umana è riflesso di quella divina, essa deve avere proprietà simili.

    Piena libertà è la possibilità di fare sia il bene che il male: ma come mai allora si definisce peccaminosa la scelta del male fatta in libertà? Occorre uscire da una visione troppo ristretta di libertà.

    San Gregorio di Nissa[4] usa un paragone illuminante: lo fidanzato che ama la sua ragazza si sente libero solo nel momento in cui nulla gli impedisce di prenderla per moglie. In un senso simile era libero anche l’uomo innocente. Aveva libero accesso a Dio, comunicava con lui. Il peccato ha chiuso le porte del Paradiso. Abbiamo, quindi, perduto la libertà di essere con Dio. Non del tutto, però: qualche residuo di quella libertà ci è rimasto, l’uomo lo ha portato con sé dal Paradiso. Ancora adesso possiamo fare la scelta tra il bene e il male. Se decidiamo di fare il bene ci facilitiamo di nuovo, l’accesso a Dio: cresciamo, quindi, nella libertà. Se, al contrario, facciamo il male, approfittiamo della nostra possibilità di scegliere per un ulteriore indebolimento della vera libertà, ponendo ostacoli al nostro libero accesso a Dio. La possibilità di scegliere fra l’uno e l’altro è, quindi, un grande dono. Serve per far crescere la libertà in Cristo. Se ne abusiamo, conduce all’apostasia da Dio, al peccato, e quindi, alla schiavitù.

    Se l’uomo non riconosce su di sé l’unica autorità di colui che lo modella, che lo fa essere, questo uomo perderà la sua libertà molto rapidamente, si foggerà lui stesso dei miti o delle pseudodivinità, si metterà a strisciare davanti a delle altre potenze, e non sarà più se stesso. Esiste una sola potenza che può imporsi a tutta la creazione senza farle violenza: la potenza di colui per mezzo del quale esiste, nella pienezza della sua libertà, la creazione stessa” (J.D. Barthélemy, Dio e la sua immagine)

    Il progresso spirituale è una graduale crescita verso la libertà dei figli di Dio (Rm 8,21). Questa crescita è lenta e faticosa. Faticosa perché, soggiogati dalla menzogna del male, raramente conosciamo la pura libertà e soccombiamo alle illusioni. La relazione con gli altri dovrebbe aiutarci a crescere nel bene, eppure spesso accade il contrario: si vive in un contesto di indifferenza, di violenza. La relazione con Dio è ostacolata da un ambiente ateo, agnostico, materialista e consumista che innalza nuovi idoli contrari al Vangelo. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani». (Benedetto XVI)

    La grazia di Cristo tuttavia svolge in noi se le acconsentiamo la sua opera di liberazione da tutto questo. La fede ci rende liberi dalle opinioni, dalle illusioni, dalle paure. Con l’ascesi possiamo vincere le attrattive al male da parte delle nostre passioni.

    L’iniziativa di tutto questo viene da Dio, il quale da noi esige il nostro libero “fiat”, il nostro libero consenso al bene. La scrittura esorta: Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio (1Pt 2,16)

    H.  L’abbandono alla volontà di Dio

    In ogni opera buona si unisce sia la nostra libera azione come anche la volontà di Dio che l’ha ispirata. La volontà umana è nelle mani di Dio come un libero strumento: è chiamata a sottomettersi liberamente.

    La perfezione, scrive san Vincenzo de’ Paoli[5],  è nell’unire la nostra volontà con quella di Dio in modo tale che vi sia lo stesso volere”. Giungere a questa perfezione è tutt’altro che facile: è un vero rinnegamento di sé. L’obbedienza ai comandamenti è solo un primo passo, fondamentale. Quando preghiamo il Pater dicendo: “Sia fatta la tua volontà” se lo diciamo con amore sincero, ci riconciliamo con tutto ciò che Dio opera nel mondo e con il modo in cui egli dispone della nostra vita. Cassiano scrive “Sia fatta la tua volontà”. Una preghiera di tal genere potrà liberarla dal profondo del cuore colui che crede aver Dio disposto tutte le cose di questo mondo per il nostro bene: gioie e dolori. Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina ha più sollecitudine per la salvezza e il bene di coloro che ad essa si affidano, di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi. (Conferenze, 9,20)

    È più utile immaginarsi la volontà di Dio non come una legge che ordina e proibisce, ma, piuttosto, come una madre tenera che sorveglia ogni passo di suo figlio. Dice Agostino: “Non accade assolutamente nulla di ciò che l’Onnipotente non vuole; o permette che sia fatto o lo fa egli stesso”. Giuliana di Norwich riporta la sua esperienza (Rivelazioni dell’amore di Dio): Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rimanere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene: “Tu stessa – mi disse il Signore – vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene, nient’altro che bene”.

    L’atteggiamento da  assumere è quello che Gesù stesso ci offre: “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?” (Mt 6,25-26).

     I.     La vera e la falsa incuria

    Gli scrittori spirituali greci parlano della “amerimnia”: è la libertà interiore da tutte le preoccupazioni “inutili e utili” (G. Climaco). In effetti viviamo spesso sempre preoccupati per qualcosa, e questo diventa un peso nel nostro camminare nella vita spirituale. Gli insuccessi ci deprimono, esultiamo per i successi: la critica ci toglie il gusto del lavoro, una vana lode ci spinge a fare esagerazioni che non servono a nulla. Volenti o nolenti siamo sotto l’influsso delle impressioni che non corrispondono alla realtà. Spesso ci immaginiamo il risultato positivo dei nostri sforzi magari anche di alto livello spirituale. Sant’Ignazio avverte che il nostro unico scopo è “cercare con ogni sforzo e trovare la volontà di Dio”. Piani e programmi per il futuro hanno senso solo in questo contesto, altrimenti diventano un tiranno che ci schiaccia e che distoglie dall’essenziale. Non ci meraviglia che alcuni santi considerassero come tentazione non solo i programmi, ma anche qualsiasi preoccupazione per il domani.

    Nel tempo in cui la Campania fu desolata da una gravissima carestia, l’uomo di Dio aveva dato via in elemosina a molti poveri tutti i viveri che si trovavano in monastero. Nella dispensa non era rimasto nient’altro che un poco di olio entro un’ampolla di vetro.

    Gli esempi non mancano. Nella vita di Benedetto, Gregorio Magno[6] narra: “Capitò un suddiacono di nome Agapito, e chiese caldamente se poteva avere la carità di un po’ di olio. L’uomo di Dio, che si era proposto di dare via tutto sulla terra per tutto depositare nei tesori del cielo, ordinò che senz’altro gli fosse consegnato quel poco ch’era rimasto. Il monaco incaricato della dispensa, sentì molto bene la disposizione del superiore, ma non aveva proprio alcuna voglia di metterla in pratica. Richiesto poco dopo dal santo se era stata fatta quell’elemosina come aveva comandato, il monaco rispose di non aver dato nulla perché se avesse dato via anche quello, per i monaci non sarebbe poi rimasto più niente. Allora comandò con energica severità che fosse immediatamente gettata dalla finestra l’ampolla di vetro con l’olio, perché nella dispensa nulla rimanesse per disobbedienza; e fu fatto così. Sotto la finestra si apriva un gran precipizio, irto di grossi macigni. L’ampolla di vetro piombò con violenza sui sassi, ma rimase intatta, come se non fosse stata scagliata: non si infranse, né l’olio si versò. L’uomo di Dio la fece raccogliere e, integra com’era, la fece immediatamente consegnare a chi la chiedeva” (c. 22).

    Gli ordini mendicanti nacquero sulla spinta di una riforma della vita religiosa che testimoniasse una completa libertà dal peso e dall’ansia procurata dal possesso di beni. Nonostante il coraggio e fede dei fondatori questi ordine dovettero poi tutti rientrare in una mitigazione della severità dell’ispirazione originale. Vi potrebbero anche essere pericoli in una ricerca fanatica di questa pratica del distacco. È ovvio che guidando l’auto non devo farlo nell’ansia e nella preoccupazione di un incidente, tuttavia devo preoccuparmi di mantenere l’auto in buone condizione, e che io sia ben sobrio e prudente quando guido. San Francesco di Sales scrive: “So che Dio mi chiede di non preoccuparmi né della malattia né della buona salute, ma so anche che è espressa volontà di Dio di chiamare il medico ed usare i medicamenti quando ce n’è bisogno”.

    Sotto l’aspetto psicologico sono due aspetti molto diversi: occuparsi di qualcosa e preoccuparsi.

    Teniamo presente che esiste una falsa fiducia nella Provvidenza (simile al quietismo), una pigra attesa di “ispirazioni”. La Chiesa giustamente aveva condannato la sentenza di Molinos[7]: “Chi ha ceduto la sua libera volontà a Dio, non deve essere preoccupato di nulla, né per l’inferno, né per il paradiso; non deve neanche desiderare la propria perfezione, le virtù, la santità e neanche la sua salvezza”. Può sembrare bello un devoto sospiro: “Lasciamo fare al Signore!”. Però, per utilizzarlo al momento giusto, è bene tenere davanti agli occhi ciò che dice p. Surin nel suo “Catechismo spirituale”: “E’ bene lasciar fare al signore Dio, quando è lui stesso che agisce. Ma non è giusto lasciar fare tutto al Signore, quando egli vuole che facciamo qualche cosa noi”.


    [1] Nacque il 12 marzo 1599 a Diest nelle Fiandre, primogenito dei cinque figli di Giovanni Berchmans, calzolaio e conciatore di pelli, e di Elisabetta, figlia del borgomastro Adriano Van den Hove. Avviatosi verso la vita ecclesiastica, iniziò gli studi latini nella Scuola Grande di Diest; ma nel 1612 il padre si vide costretto per motivi economici, a chiedere a Giovanni di abbandonare gli studi intrapresi e di imparare un mestiere, ma il sostegno di alcuni familiari rese possibile un’altra soluzione più confacente alle doti e all’impegno del ragazzo. A metà settembre 1612, Giovanni entrò infatti nella casa del canonico Froymont, a Malines, per continuare i suoi studi presso la Scuola Grande di questa città, ma serviva al tempo stesso come cameriere il Froymont e come istitutore alcuni giovanissimi ragazzi della nobiltà, convittori nella canonica.  Egli voleva entrare nella Compagnia di Gesù ma dovette superare la resistenza oppostagli dal padre, che sognava per lui una ricca prebenda, vi riuscì in maniera così convincente che il padre stesso, dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1616, abbracciò lo stato ecclesiastico e divenne sacerdote.  Completati gli studi, intenzionato a diventare sacerdote, il 24 settembre 1618 emise la prima professione religiosa divenendo novizio gesuita e nel 1619 si trasferì a Roma per completare gli studi filosofici presso il Collegio Romano (l’attuale pontificia Università Gregoriana) dove, ammalatosi, morì solo due anni dopo, il 13 agosto 1621.

    [2] Karl Rahner crebbe in una famiglia cattolica medio-borghese; suo padre insegnava presso un istituto magistrale. In gioventù frequentò il movimento cattolico del Quickborn dove conobbe Romano Guardini. Dopo aver conseguito la licenza liceale, entrò nell’ordine dei gesuiti nel 1922 (già suo fratello maggiore Hugo vi era entrato nel 1919; altri due fratelli diventarono medici). Studiò in seguito filosofia e teologia a Feldkirch, Pullach, Valkenburg, Freiburg i.Br. e Innsbruck. Decisiva si rivelò, per la formazione di Rahner, la partecipazione ai seminari di Martin Heidegger negli anni 19341936. Nel 1939 Rahner ottenne la prima docenza a Vienna. Negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale svolse pure attività pastorale nella Bassa Baviera. Dopo il conflitto proseguì l’attività di docente, dapprima quale insegnante di dogmatica alla scuola superiore dell’ordine a Pullach. Dal 1948 fu docente e dall’anno successivo professore ordinario di dogmatica presso l’Università di Innsbruck. Nel 1963 Papa Giovanni XXIII lo chiamò fra i teologi del Concilio Vaticano II, alla cui preparazione egli aveva già peraltro contribuito. Nel 1964 Rahner successe a Romano Guardini nella cattedra presso la Ludwig-Maximilians-Universität München. Le sue lezioni presso questa università sul tema “introduzione al cristianesimo” fungeranno da base per la sua opera fondamentale apparsa nel 1975 con il titolo Grundkurs des Glaubens. In questi anni si accese anche il suo impegno, sotto forma di saggi ed articoli, in favore del pacifismo, del disarmo nucleare, dell’aiuto ai paesi del Terzo Mondo e della lotta contro lo sfruttamento dei popoli oppressi (con particolare attenzione ai movimenti della teologia della liberazione).  Dal 1967 al pensionamento, nel 1971, fu professore ordinario di dogmatica e storia del dogma presso la Westfälischen Wilhelms-Universität di Münster. Nel 1971 fu nominato dalla Hochschule für Philosophie München professore onorario per le questioni filosofiche e teologiche “di frontiera”. Nel 1981 si trasferì a Innsbruck, dove morì nel 1984 e dove è sepolto nella cripta della Chiesa dei Gesuiti.

    [3] Il pelagianesimo detto anche pelagianismo o predestinazionismo è un movimento religioso cristiano fondato nei primi secoli del Cristianesimo da Pelagio e Celestio. Le teorie pelagianesime furono combattute da Sant’Agostino e vennero definitivamente condannate come idee eretiche nel Concilio di Efeso del 431. Ciononostante continuò per un certo periodo ad avere influenza in ambito ecclesiastico. Pelagio e Celestio svilupparono questa teoria come reazione al monachesimo ascetico di San Girolamo e al fatalismo manicheo, presente nella Chiesa del tempo: si pensi a Sant’Agostino che in gioventù fu manicheo.  Secondo la Chiesa (sia cattolica sia ortodossa) il pelagianesimo riduceva la salvezza eterna a qualcosa di raggiungibile con le sole proprie forze: magari anche un ideale di santità molto alto e difficile da raggiungere, ma che comunque avrebbe potuto essere conquistato dalla volontà dell’uomo. La dottrina della Chiesa, invece, considerava l’uomo incapace, dopo il peccato originale, di vivere appieno i doni di Dio senza l’ausilio decisivo della sua grazia. Pelagio negava la trasmissibilità a tutta l’umanità del peccato di Adamo (che secondo lui era mortale anche prima di commettere il peccato), motivandola col fatto che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, non di quelle di un altro: venivano così negati anche gli effetti del peccato originale sulla natura umana: era impossibile che l’anima, creata da Dio, fosse caricata di un peccato non commesso personalmente.  Di conseguenza, i pelagiani rifiutavano la prassi del battesimo dei bambini. Negli adulti esso cancellerebbe i peccati commessi in precedenza, mentre non si può dire che questo possa avvenire anche per i bambini; quindi il battesimo degli infanti non avrebbe avuto altro scopo, secondo Pelagio, che quello di aprire loro il “regno dei cieli”: i bambini morti senza battesimo avrebbero comunque la vita eterna, anche se non entrerebbero nel “regno dei cieli”, che è soltanto una porzione eletta del paradiso. All’obiezione che era antica l’usanza di battezzare i bambini, Pelagio rispondeva che il battesimo è l’espressione dell’accoglienza nella comunità cristiana: con il battesimo la persona è incorporata in Cristo, entra nel “regno dei cieli”.  Il pelagianesimo, comunque, prediligeva l’attitudine della libertà umana a scegliere a proprio arbitrio fra il bene e il male e ad adempiere, con le proprie forze, la legge divina.

    [4] Educato dal fratello san Basilio Magno, Gregorio si diede dapprima alla retorica ed alla vita secolare per un’improvvisa crisi spirituale, per poi vivere per un po’ nel monastero di Basilio, e infine dedicarsi, dal 371, all’episcopato della città di Nissa (da cui prese l’epiteto di ‘Nisseno’).  Avversario degli Ariani, fu vittima delle persecuzioni dell’imperatore ariano Valente e dovette lasciare Nissa, accusato di malversazioni economiche, nel 376. Vi rientrò trionfalmente nel 379.  Soprattutto dopo la morte del fratello, quasi raccogliendone l’eredità spirituale, cooperò al trionfo dell’ortodossia. Partecipò a vari sinodi; cercò di dirimere i contrasti tra le Chiese; prese parte attiva alla riorganizzazione ecclesiastica e, come «colonna dell’ortodossia», fu un protagonista del Concilio di Costantinopoli del 381, che definì la divinità dello Spirito Santo. Ebbe vari incarichi ufficiali da parte dell’imperatore Teodosio I, pronunciò importanti omelie e discorsi funebri, si dedicò a comporre diverse opere teologiche. Nel 394 partecipò ancora a un sinodo tenutosi a Costantinopoli. Non è conosciuta la data della sua morte. Gregorio Nisseno, pur essendo il più giovane dei “Padri Cappadoci”, è quello che più coerentemente ed organicamente opera un’assimilazione filosofica della letteratura pagana alla fede cristiana, improntando le sue opere all’affermazione che il valore paideutico della letteratura classica ha per instradare l’anima alla virtù.  Se è un merito questo suo atteggiamento “classicistico”, gli manca però una robusta personalità che, come per Basilio e San Gregorio Nazianzeno, sostenga la speculazione teologica. Il Nisseno è di certo un ottimo dialettico e speculatore e riprende in maniera organica e sistematica la dottrina trinitaria e teologica di Origene, innestandola sul tronco neoplatonico, ma non ha una capacità di trascinare il lettore, nonostante numerosi artifici retorici.  Gregorio, inoltre, è insigne per la sua dottrina spirituale. Tutta la sua teologia non era una riflessione accademica, ma espressione di una vita spirituale, di una vita di fede vissuta. Da grande «padre della mistica» prospettò in vari trattati – come La professione cristiana e La perfezione cristiana – il cammino che i cristiani devono intraprendere per raggiungere la vera vita, la perfezione.

     

     

    [5] Nato da un’umile famiglia contadina a Pouy, un borgo contadino presso Dax, grazie ad un ricco avvocato della zona riuscì a studiare teologia a Tolosa e venne ordinato sacerdote il 23 settembre 1600. Nel 1605, mentre viaggiava su una nave da Marsiglia a Narbona, venne catturato dai pirati turchi e venduto come schiavo a Tunisi: venne liberato due anni dopo dal padrone, che era riuscito a convertire al cristianesimo.  Entrò a corte come cappellano ed elemosiniere di Margherita di Valois; fu poi curato a Clichy, dove mise da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e si dedicò intensamente all’insegnamento del catechismo e soprattutto all’aiuto agli infermi ed ai poveri: fondamentale per la sua maturazione spirituale fu il suo incontro con Francesco di Sales.  Nel 1613 entrò come precettore al servizio dei marchesi di Gondi (il marchese era governatore generale delle galere): grazie al sostegno economico dei suoi protettori, Vincenzo de’ Paoli riuscì a moltiplicare le iniziative caritatevoli a favore dei diseredati e dei bambini abbandonati; su richiesta della marchesa, che intendeva migliorare le condizioni spirituali dei contadini dei suoi possedimenti, nel 1625 formò un gruppo di preti specializzati nell’apostolato rurale (primo nucleo della Congregazione della Missione, i cui membri vennero poi detti Lazzaristi).  Nel 1633, con l’assistenza di Luisa di Marillac, riorganizzò le confraternite assistenziali fino ad allora fondate nella Compagnia delle Figlie della Carità. Le sue opere di carità divennero tanto celebri che Luigi XIII di Francia lo scelse come suo consigliere: si allontanò dalla corte per divergenze con il cardinale Mazzarino e continuò a dedicarsi all’assistenza ai poveri anche durante la lotta della Fronda. Morì nel 1660.  La sua opera ispirò Giuseppe Benedetto Cottolengo, fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza.

     

    [6] Gregorio nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, Prefetto di Roma.  Grande ammiratore di San Benedetto da Norcia, decise di trasformare i suoi possedimenti a Roma (sul Celio) e in Sicilia in altrettanti monasteri e di farsi monaco, quindi si dedicò con assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia. Non poté dimorare a lungo, nel suo convento del Celio poiché il Papa Pelagio II lo inviò come nunzio, presso la corte di Costantinopoli, dove restò per sei anni, e si guadagnò la stima dell’imperatore Maurizio I, di cui tenne a battesimo il figlio Teodosio.  Al suo rientro a Roma, nel 586, tornò alla quiete del monastero sul Celio, vi rimase però per pochissimo tempo, perché il 3 settembre 590 fu chiamato al soglio pontificio dall’entusiasmo del popolo e dalle insistenze del clero e del senato di Roma, dopo la morte di Pelagio II di cui era stato segretario.  In quel tempo Roma era afflitta da una terribile pestilenza. Per implorare l’aiuto divino, Gregorio fece andare il popolo in processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria Maggiore. Roma fu liberata dal morbo e più tardi si disse che, durante la processione, era apparso sulla mole Adriana l’arcangelo Michele che rimetteva la spada nel suo fodero come per annunziare che le preghiere dei fedeli erano state esaudite. Da allora la tomba di Adriano mutò il nome in quello di Castel Sant’Angelo, e una statua dell’angelo vi fu posta sulla cima.  Come papa si dimostrò uomo di azione, pratico e intraprendente (chiamato “l’ultimo dei Romani”), nonostante fosse fisicamente abbastanza esile e la sua salute fosse sempre cagionevole. Fu amministratore avveduto ed energico, sia nelle questioni sociali e politiche per provvedere alle popolazioni bisognose di aiuto e di protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa universale.  Ebbe a trattare con molti paesi europei; con il re visigoto Recaredo di Spagna, convertitosi al Cattolicesimo, Gregorio Magno fu in continui rapporti e fu in eccellente relazione con i re franchi. Con l’aiuto di questi e della regina Brunchilde il pontefice riuscì a tradurre in realtà quello ch’era stato il suo sogno più bello: la conversione della Britannia, che affidò a Sant’Agostino di Canterbury, priore del convento di Sant’Andrea.  A questo proposito si racconta che un giorno, scendendo dal suo convento sul Celio e vedendo sul mercato alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto ed ancora pagani, esclamasse rammaricato: “…Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…”.  In meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent, Edelberto, si convertirono. Era questo un grande successo di Gregorio Magno, il primo della sua politica che mirava ad eliminare i naturali avversari della Chiesa e ad accrescere l’autorità del Papato con la conversione dei barbari.  Si dedicò con sollecitudine anche ai problemi dell’Italia provata da alluvioni, carestie, pestilenze, amministrando la cosa pubblica con puntigliosa equità, supplendo all’incuria dei funzionari imperiali. Organizzò la difesa di Roma minacciata da Agilulfo, re dei longobardi, coi quali poi riuscì a stabilire rapporti di buon vicinato e avviò la loro conversione. Ebbe cura degli acquedotti, favorì l’insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di servitù della gleba.  Riorganizzò a fondo la liturgia romana, ordinando le fonti liturgiche anteriori e componendo nuovi testi, e promosse quel canto tipicamente liturgico che dal suo nome si chiama gregoriano. L’epistolario (ci sono pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo ci documentano ampiamente sulla sua molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con la Sacra Scrittura.  Morì il 12 marzo 604.

    [7] Dopo aver conseguito la laurea in teologia a Valencia, nel 1665 si trasferì a Roma e frequentò la confraternita della Scuola del Cristo.  Nel 1675 compose la Guía espiritual (tradotta in italiano con il titolo Guida spirituale che disinvolge l’anima e la conduce per l’interior camino all’ acquisito della perfetta contemplazione e del ricco tesoro della pace interiore), opera in tre libri nella quale esponeva la dottrina della passività come unica via per giungere alla contemplazione ed alla pace interiore.  Secondo le idee professate dal Molinos, attraverso uno stato continuo di quiete e di unione con Dio, l’anima, resa pura, giungerebbe ad una sorta di indifferenza mistica. Le teorie esposte, che svalutavano l’importanza della liturgia e della pratica sacramentaria della religione cristiana, suscitarono violenti attacchi da parte soprattutto dei Gesuiti.  Nel luglio del 1685 de Molinos fu arrestato dall’Inquisizione e fu avviato il processo. Nei due anni successivi l’accurato esame delle sue opere e della nutrita corrispondenza epistolare portò nel settembre 1687 alla pubblica abiura ed alla condanna alla reclusione perpetua. Lo stesso anno il Papa Innocenzo XI nella bolla pontificia Coelestis Pastor condannò 68 tesi attribuite alla sua opera. Il Molinos passò poi dal carcere ad un monastero, per continuare la condanna; abiurò nuovamente i suoi errori nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva il 13 settembre del 1687 e morì 9 anni dopo.

     

    Posted by attilio @ 13:39

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