• 03 Dic

    Una comunità che si costruisce a partire dalla Parola
    e attorno alla Parola:  Atti 2,42-48

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    E’ il testo noto come “primo sommario” sulla prima comunità cristiana.

    Ci domandiamo: da dove procede questa comunione?  Dal versetto introduttivo ci viene la risposta: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”.

    Sono le “quattro fedeltà” della comunità cristiana primitiva. Esse sono in un rapporto funzionale tra loro: l’ascolto dell’insegnamento apostolico, l’unione fraterna (koinonia) , la frazione del pane, la preghiera.

    Anzitutto un primo dato: la koinonia, l’unione fraterna, nasce dall’ascolto della Parola. La comunità non nasce da sentimenti, propositi, progetti… ma dall’ascolto! Si tratta di una comunione che Dio stesso, attraverso la sua Parola, imbastisce, intesse tra noi. La Parola è una forza che esplica sulle nostre esistenze un’azione attraente e aggregante. Una forza che non illumina solo l’intelligenza, ma tocca il cuore e muove le volontà, innescando un processo di aggregazione che struttura, fra coloro che la ascoltano, relazioni nuove.

    E’ questo ascolto-incontro-con-Dio-mediato-dalla-Parola che fa di noi Chiesa in senso neotestamentario.

    Ci sono infatti diverse forme di aggregazione-comunione dal punto di vista religioso e sociale. Ma non sono comunità neotestamentarie, ovvero Chiesa, senza ascolto della Parola.

    Ecco dunque un criterio importante: possiamo dirci comunità evangelica quando le persone si raccolgono attorno alla Parola. E’ la Parola che chiama e che fa Chiesa (“ekklesia” da “kaleo” – chiamare)  a questa Parola siamo chiamati a rispondere.

    E’ una Parola dunque che ci prende, ci raccoglie, ci mette insieme. Per che cosa? Per continuare ad ascoltare quella Parola e vivere di quella Parola.

    Alcuni potrebbero obiettare: “La comunità in senso evangelico è una comunità di fede! “. Certo lo è. Ma lo potrebbe essere ancora in senso teista, non avendo preso ancora piena coscienza del suo essere comunità cristiana. “Come fai a dirlo?”. Si potrebbe rispondere: dal semplice fatto che la sua esperienza di fede non si fonda prevalentemente sull’ascolto della Parola. Nel migliore dei casi accanto ad altre iniziative, progetti, ecc… si pone anche qualche momento di ascolto della Parola che non è certamente centrale. (cfr la difficoltà dei centri di ascolto nelle parrocchie). Dal punto di vista biblico invece sarebbe naturale dire: “Apparteniamo tutti al gruppo di ascolto, perché l’ascolto della Parola è il fondamento del nostro essere comunità, è l’attività fondamentale che tutti condividiamo. All’interno di questa attività ci ripartiamo i compiti e le funzioni richieste dalla vita comune”.

    Nella vita religiosa non siamo stati educati a questo costruire la comunità attorno all’ascolto concreto (tempi, spazi…) della Parola. Domandiamoci come è maturata la nostra vocazione religiosa e sacerdotale. Certamente la Parola è entrata e ha fatto la sua parte. Ma possiamo affermare che la Parola era ed è realmente il centro di tutto? Probabilmente no: e si tratta di una constatazione di tipo socio-pastorale e di tipo socio-religioso.

    L’ascolto della Parola è ad un tempo ascolto personale e ascolto comunitario. Ma l’ascolto vero e proprio che fonda l’esperienza di fede di tipo biblico, non è quello individuale, ma quello comunitario. Occorre essere almeno in due! (cfr Mt 18,20).

    La condivisione della Parola consente allo Spirito di manifestare con intensità, a coloro che si raccolgono intorno ad essa, la presenza del Signore.

    Perché il Signore Gesù assicura la sua presenza in mezzo a coloro che si radunano nel suo nome? Rispondiamo: perché allora la coscienza di coloro che coltivano l’ascolto della Parola, diventa sensibile alla presenza del Signore. La presenza del Signore non si manifesta “quoad se” perché c’era già; essa si manifesta “quoad audientes”, nel senso che coloro che praticano l’ascolto della Parola, finalmente la percepiscono. Ciò che educa il cuore, la coscienza di coloro che ascoltano, a percepire la presenza di Dio, è la Parola stessa.

    L’ascolto della Parola passa attraverso quello che potremmo chiamare il “circuito” dell’ascolto.

    Quali sono le fasi di questo circuito?

    Rm 10,14 ci dice che l’ascolto parte se c’è qualcuno che parla nel nome del Signore. E’ necessario che qualcuno parli: la tradizione biblica lo chiama “profeta” ovvero colui che si fa servo della Parola e non si vergogna delle cose che ha da dire, e parla faccia a faccia con i suoi interlocutori.

    Quindi perché l’ascolto della Parola di avvii ci vuole qualcuno che ci venga incontro con franchezza, per dirci: “Ho qualcosa da dirti da parte del Signore. Vuoi ascoltare?”.

    Questa Parola non si accontenta di istruire, esortare, annunciare. Il profeta fa ben altro. Interroga, dialoga con chi lo ascolta. Cosicché proprio attraverso l’annuncio (il kerigma), l’istruzione (la catechesi), e l’esortazione (la parenesi) si avvia fra chi annuncia, chi porge la Parola, e chi ascolta un dialogo imbastito dalla Parola. Il filo conduttore di questo dialogo con sono le idee, i propositi, i sentimenti, ma è la Parola che il profeta propone e con cui il suo interlocutore, ascoltando, interagisce. Questa Parola filtra e ricicla tutti i nostri vissuti.

    Ne segue che il dialogare fra di noi, frutto esso stesso dell’ascolto, è un dialogare continuamente con quella Parola in nome della quale ci stiamo incontrando. Le nostre Parole divengono un’eco (le risonanze) della Parola ascoltata.

    Dunque alla fase della “datio verbio” deve seguire la “redditio verbi”. Io ti porgo la Parola, tu cosa mi dici? Cosa ti suggerisce la tua coscienza? Così la Parola viaggia, da coscienza a coscienza, va e viene, viene e va, come la spola di un fuso, come la navetta di un telaio,  e tesse le relazioni nuove che fanno la comunità. Questo processo non è altro che la condivisione della Parola. Per definire  la quale potremmo usare l’espressione “fractio verbi”.

    La condivisione della Parola genera comunione: Una comunione che non è frutto di sapienza umana, di intese umane, ma è frutto della Parola, attraverso la quale il Signore ci mette insieme, accomuna, le ga intreccia, annoda fra loro le nostre vite. Le relazioni che nascono dall’ascolto della Parola sono estremamente forti e significative. Perché? Perché in quanto generate dal sacramento della Parola sono delle relazioni “sacramentali”. L’altro diviene necessario: “Io non posso ascoltare la Parola da solo: ho bisogno di te. Tu hai bisogno di me: Abbiamo bisogno di essere comunità-Chiesa”.

    La condivisione della Parola generando relazioni di condivisione e di comunione, porta alla condivisione della vita. Se colui che con me condivide la Parola è segno vivo della presenza del Signore che parla, se io lo sono per lui, possiamo allora non mettere in comune la vita e i beni? E’ una comunione che nasce spontanea, dalla gioia dell’amore. E’ evidente: attraverso l’esperienza della sacramentalità della relazione ecclesiale passa la libertà dell’amore.

    Come chiameremo la condivisione della vita che scaturisce dalla “fractio verbi”? La chiameremo “fractio vitae”.

    La successione allora delle fasi dell’ascolto si presenta così:

    –     “datio verbi”: l’annuncio della Parola

    –     “redditio verbi”: la risonanza della Parola annunciata nelle nostre coscienza

    –     “fractio verbi”: la condivisione delle nostre risonanze

    –     “fractio vitae”: la condivisione della vita attorno alla Parola

    Solo a questo punto è ragionevole che la “fractio vitae” trovi la sua piena esplicitazione nel gesto della “fractio panis”: Luca, nella gerarchia delle “quattro fedeltà” della comunità primitiva colloca la frazione del pane al terzo posto, dopo l’insegnamento degli apostoli e l’unione fraterna.

    La tradizione cristiana definisce la frazione del pane “fons et culmen vitae christianae”: “culmen” in quanto celebra la comunione fraterna già attuale; “fons” in quanto, nella sua forza sacramentale genera ed incrementa la comunione che celebra.

    Come viviamo la “fractio panis”? Essa è segno vivo che attesta da una parte la consegna che il Signore fa di sé all’umanità, dall’altra la nostra disponibilità ad accogliere e condividere il dono di questa comunione. Una comunione che abbraccia la nostra relazione con Dio e con i nostri fratelli.

    Ora nelle nostre celebrazioni queste dimensioni sono altrettanto presenti? Non è forse che la liturgia eucaristica si presenti troppo spesso come una comunione cultuale, un rito in cui si celebra la comunione mistica fra Dio e l’uomo, e la comunione fraterna si intraveda appena? DA che cosa dipende questo? Stando a quanto detto ciò accade perché la “fractio panis” non è preceduta adeguatamente dalla “fractio verbi”. Come può una comunità spezzare il pane se prima non ha realmente spezzato la vita e come può spezzare la vita se non alla luce e nella forza della parola? Togliendo la condivisione della Parola togliamo vigore, significato, efficacia alla condivisione della vita e del Pane.

    Il Signore, fedele al suo popolo, continua a consegnarsi a noi, attraverso il pane della Parola e i segni del pane e del vino. Ma noi alla mensa della parola mangiamo poco o niente. Saltando la mensa della Parola non coltiviamo più nel Signore le relazioni fra di noi, non celebriamo adeguatamente la comunione fraterna e finiamo, senza accorgercene con lo scavalcare tutte le questioni inerenti alla nostra fraternità.

    Per Luca dunque è dall’ascolto della Parola che discende l’unione fraterna, ed è dall’unione fraterna che discende un’autentica “fractio panis”. Nell’ambito poi della “fractio panis” si svolge la preghiera. Queste “quattro fedeltà” costituiscono le tappe del processo che gradualmente aggrega e struttura la comunità primitiva.

    La carenza della condivisione della Parola rispecchia il progetto del Signore? La liturgia della Parola nell’eucarestia non ha forse assunto forse connotati solo rituali e quindi riduttivi? E questo non viene forse ad offuscare la vitalità e concretezza della celebrazione?

    Dove e come e quando l’assemblea è protagonista della preghiera liturgica? Se il principio della partecipazione del popolo alla celebrazione è uno dei sunti fondamentali riscoperti dal Concilio Vaticano II  da dove cominciare? E’ ovvio dalla liturgia della Parola. Invece generalmente è proprio qui che l’assemblea viene tagliata fuori. A volte si percepisce l’idea che l’assemblea sia protagonista nella misura in cui partecipa al ruolo del presbitero. Non è questa la strada. All’assemblea compete il suo ruolo e la sua partecipazione si attua anzitutto e prevalentemente nell’ambito della liturgia della Parola. E’ l’ascolto della Parola il luogo originario della comunione fra il presbitero e l’assemblea, fra l’assemblea e il presbitero, che si celebra poi attraverso la “fractio panis”.

    Ma sottolineamo: il problema non è se introdurre l’omelia partecipata o no. Il problema che sta a fondo è che l’assemblea sia preparata all’ascolto della Parola, sia esperta della “fractio panis”. L’omelia partecipata può essere un punto di arrivo non di partenza.

    L’assemblea deve essere educata prima e fuori della liturgia eucaristica.

    La riscoperta della centralità della Parola, e della Parola condivisa porta alla riscoperta del “dies dominici”, il giorno nel quale la comunità si raccoglie per ascoltare e celebrare il Signore.

    Se oggi nella nostra gente l’adempimento del precetto vissuto è spesso vissuto con pesantezza, o addirittura tralasciato, non è forse dovuto al fatto che la “fractio panis” ha perduto per essi la valenza di memoriale della passione e morte del Signore? E ciò è avvenuto perché è venuta meno la “fractio verbi” che doveva illustrare il significato di quel pane.

    Tirando le conclusioni di quanto accennato possiamo dire: affinché possiamo ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario che ritroviamo la nostra identità di comunità ecclesiale: ma l’identità ecclesiale dipende dall’ascolto della Parola.

    Quando la prima comunità è divenuta comunità di ascolto della Parola? Fu l’esperienza dei “cinquanta giorni” nel cenacolo nell’attesa dell’adempimento della promessa.

     

     

    Piste di riflessione

    ∑    Nelle nostre comunità si avverte l’urgenza di riscoprire al di là di programmazioni, progetti, finalità… un perno solido in cui riscoprire la nostra identità cristiana, religiosa, sacerdotale, in modo da risolvere quel disorientamento che attanaglia e rischia di bloccare tutti e tutto? Condividi  l’importanza e la centralità dell’ascolto della Parola come forza convocante e aggregante della comunità neotestamentaria, e che questa possa dirsi comunità evangelica solo nella misura in cui in essa l’ascolto abbia il primato?

    ∑    Come la tua comunità vive l’ascolto della Parola? Cosa sinora avete attuato in questa direzione? Puoi dire che questo ascolto abbia il primato su tutto, ovvero che tutto (apostolato, scelte comunitarie…) scaturisce da esso?

    ∑    Cosa concretamente suggerisci perché le comunità della nostra Provincia divengano sempre più comunità evangeliche fondate sull’ascolto della Parola ?

    ∑    In quale misura nelle nostre comunità si attua il circuito della condivisione della Parola “traditio e redditio verbi”?  Ne senti la necessità? Oppure ritieni che una comunità possa costruirsi su altri fondamenti?

    ∑    La funzione profetica a chi compete? Essa è presente nelle nostre comunità e  nella nostra provincia?

    ∑     Cosa proporresti concretamente affinchè le nostre relazioni trovino fondamento, origine, consistenza e significato a partire dalla condivisione del sacramento della Parola?

    ∑    La condivisione della vita trova il suo fondamento nella condivisione della parola. Ed è da queste due condivisioni che assume “spessore” la condivisione del pane nell’eucarestia. In quale misura nella tua comunità si condivide la Parola in vista della condivisione del Pane? Hai l’impressione che l’Eucarestia si riduca a solo gesto cultuale, che però non esprime efficacemente la comunione  tra i membri della comunità? Un gesto sacro che però scavalca le questioni inerenti alla vita fraterna?

    ∑    Cosa suggeriresti concretamente? Cosa occorrerebbe modificare?

    ∑    Nelle nostre celebrazioni avverti che è la nostra vita ad essere condivisa e spezzata alla luce della parola e nel segno vivo del pane?

    ∑     L’affermazione secondo cui per ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario riscoprire la nostra identità ecclesiale ti trova d’accordo? Quali conseguenze concrete comporterebbe l’accettare questo assunto?

     

  • 02 Dic

    Una comunità che conosce la prova: Atti 4,23-31

    a cura di p. attilio franco fabris

    Pietro e Giovanni, dopo la guarigione del paralitico alla porta bella, sono condotti dinanzi al sinedrio.

    Una situazione imprevista. Che sentimenti avranno provato i due apostoli? “Qua le cose si mettono male… Com’è andata per Gesù, così lui ha promesso che sarebbe andata anche per noi… Dobbiamo prepararci…”.

    Cosa avremmo fatto noi? Non è che forse avremmo cercato appoggi, sostenitori, non avremmo forse cercato di entrare nel “giro giusto”? Perché se se ne resta fuori niente protezioni, né… carriera.

    Luca racconta: “Appena rimessi in libertà andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto gli anziani e i sommi sacerdoti”. I due non trovano di meglio che andare di corsa dai loro compagni, a condividere tutto: è la fraternità. Il gusto di raccontare ciò che nel Signore essi hanno vissuto. Ciò che loro hanno vissuto interessa tutta la comunità: “Erano un cuor solo ed un’anima sola”.

    La reazione della comunità è una preghiera, una supplica rivolta al Signore. Una supplica per chiedere di vivere tranquilli e in pace? No! “Ora Signore concedici di annunziare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo servo Gesù”.

    Ciò che la comunità chiede è la franchezza in ordine alla testimonianza della Buona Notizia.

    La preghiera è esaudita, essa è secondo il cuore di Dio (v. 31). Lo Spirito santo scende nuovamente e riempie tutti i presenti. Dunque questa franchezza è il dono principale dello Spirito conferito nella Pentecoste.

    Ma non era già sceso lo Spirito? Sì a Pentecoste appunto. Ma il dono di Dio non è statico, è dinamico, si rinnova continuamente quanto più il cuore si dispone a riceverlo. Il cuore si dispone a riceverlo quanto più accetta di venire sollecitato dagli avvenimenti.

    In una nuova situazione, questa volta di conflitto e di persecuzione, cosa può fare la comunità se non attingere proprio all’esperienza della pentecoste? E come? Attraverso la “memoria passionis”. Ecco il segreto di questa nuova pentecoste. Pietro e Giovanni quando raccontano le loro vicende alla comunità, la aiutano a fare la “memoria passionis”. La comunità non scappa, non impreca, non si dispera, ma nel nome del servo Gesù innalza la sua supplica a Dio per ottenere il dono della franchezza.

    Vi è una convinzione di fondo: ciò che ha toccato intimamente la persona di Gesù ora tocca intimamente la comunità dei discepoli. L’esperienza pasquale di Gesù è la chiave per comprendere quello che sta capitando.

     E questo atteggiamento apre ad una nuova esperienza della Pentecoste.

    Ma la comunità primitiva per reagire all’ostilità del sinedrio ed all’approssimarsi della persecuzione in questo modo, che cammino avrà fatto? Qual è il retroterra della comunità che si raccoglie intorno a Pietro e Giovanni ed invoca dal Signore il dono della parresia?

    La tradizione degli Atti ci suggerisce che ciò è stato reso possibile dal dono dello Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    Le nostre comunit dinanzi alle difficoltà che “strategie di intervento” ti sembra che generalmente adottino? La comunità trova nella “memoria passionis” il criterio di discernimento e di letture delle vicende che essa si trova ad affrontare (cfr Regole e Costituzioni, n.5). E’ presente questo criterio o ne usiamo altri?

    ∑    Credi anche tu che la nostra Provincia abbia bisogno di una nuova esperienza di pentecoste, in quanto anche noi stiamo attraversando situazioni conflittuali difficili? Stiamo vivendo una sorta di persecuzione che si chiama disagio, malessere profondo, sfiducia, stanchezza, pigrizia, resistenza. Tutto questo snerva, sfibra, toglie il gusto del servire il Signore. Siamo inseriti in una cultura secolarista che osteggia in diversi modi la fede. Tutto questo esige franchezza, il coraggio della testimonianza. Cosa proporremo? A quali situazioni nuove stiamo andando incontro?
    Di certo ad una situazione nella quale i credenti si troveranno in una situazione minoritaria. Torneremo nelle catacombe? Metaforicamente sì, cioè inventando e sviluppando dimensioni di vita realmente alternative.

     

  • 01 Dic

    LA PREGHIERA DEL CUORE

     

    Bernard Ugeux IL MORMORIO DELLA SORGENTE INTERIORE, ed. San Paolo,

    Consigli pratici

    Nella storia del cristianesimo si constata che, in numerose tradizioni, esisteva un insegnamento sull’importanza del corpo e delle posizioni corporee per la vita spirituale. Grandi santi ne hanno parlato, come Domenico,Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola… Inoltre, fin dal IV secolo, incontriamo consigli a questo propo­sito nei monaci d’Egitto. Più tardi, gli ortodossi hanno proposto un insegnamento sull’attenzione al ritmo del cuore e sulla respirazione. Se ne è parlato soprattutto a proposito della «preghiera del cuore» (o la «preghie­ra di Gesù», che si rivolge a lui).

    Questa tradizione tiene conto del ritmo del cuore, della respirazione, di una presenza a se stessi per esse­re più disponibili a Dio. È una tradizione molto antica che attinge dagli insegnamenti dei Padri del deserto egi­ziano, monaci che si sono dati totalmente a Dio in una vita eremitica o comunitaria con un’attenzione parti­colare alla preghiera, all’ascesi e al dominio sulle pas­sioni. Essi possono essere considerati i successori dei martiri, grandi testimoni della fede all’epoca delle per­secuzioni religiose, che cessarono quando il cristianesi­mo divenne religione di Stato nell’impero romano. A partire dalla loro esperienza, si sono impegnati in un la­voro di accompagnamento spirituale ponendo l’accen­to sul discernimento di ciò che si viveva nella preghie­ra. In seguito, la tradizione ortodossa ha valorizzato una preghiera in cui alcune parole tratte dai Vangeli so­no accostate al respiro e ai battiti del cuore. Queste pa­role sono state pronunziate dal cieco Bartimeo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Mc 10,47) e dal pub­blicano che prega così: «Signore, abbi pietà di me, pec­catore» (Lc 18,13).

    Questa tradizione è stata riscoperta di recente dalle Chiese d’Occidente, benché risalga a un’epoca ante­riore allo scisma tra i cristiani d’Occidente e d’Orien­te. E’ dunque un patrimonio comune da esplorare e da gustare, che ci interessa in quanto mostra come possia­mo associare il corpo, il cuore e la mente su un cammi­no spirituale cristiano. Ci possono essere convergenze con alcuni insegnamenti provenienti da tradizioni dell’Estremo Oriente.

     La ricerca del Pellegrino russo

     I Racconti di un pellegrino russoci permettono di accostarci alla preghiera del cuore. Attraverso quest’o­pera l’Occidente ha riscoperto l’esicasmo. In Russia esisteva un’antica tradizione secondo la quale certe persone, attirate da un cammino spirituale esigente, parti­vano a piedi attraverso la campagna, come mendican­ti, ed erano accolte nei monasteri, Come pellegrini, an­davano di monastero in monastero, alla ricerca di ri­sposte alle loro domande spirituali. Questa specie di ri­tiro peregrinante, nel quale avevano un ruolo impor­tante l’ascesi e le privazioni, poteva durare diversi anni.

    Il Pellegrino russo è un uomo vissuto nel XIX seco­lo. I suoi racconti furono pubblicati verso il 1870. L’au­tore non è chiaramente identificato. Era un uomo che aveva un problema di salute: un braccio atrofizzato, ed era assillato dal desiderio d’incontrare Dio. Andava da un santuario all’altro. Un giorno, egli ascolta in una chie­sa alcune parole tratte dalle lettere di san Paolo. Inizia allora un pellegrinaggio di cui ha scritto il racconto. Ec­co come egli si presenta:

    “Per grazia di Dio sono cristiano, per le mie azioni un grande peccatore, per condizione un pellegrino senza di­mora e del genere più umile, che vaga da un luogo all’al­tro. Tutti i miei averi consistono in una bisaccia di pan sec­co sulle spalle, e la Sacra Bibbia sotto la camicia. Nient’al­tro. Durante la ventiquattresima settimana dopo il gior­no della Trinità entrai in chiesa durante la liturgia per pre­gare un pò; stavano leggendo la pericope della lette­ra ai Tessalonicesi di san Paolo, in cui si dice: «Pregate in­cessantemente» (1Ts 5,17). Questa massima mi si fissò particolarmente nella mente, e incominciai dunque a ri­flettere: come si può pregare incessantemente, quando per ogni uomo è inevitabile e necessario impegnarsi anche in altre faccende per procurarsi il sostentamento? Mi rivol­si alla Bibbia e vi lessi con i miei occhi quello che avevo udito, e cioè che bisogna pregare «incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18), pregare «alzando al cielo mani pure senza ira e sen­za contese» (1Tm 2,8). Pensavo e pensavo, ma non sape­vo che cosa decidere. «Che fare?», riflettevo. «Dove tro­vare qualcuno che possa spiegarmelo? Andrò per le chiese dove parlano celebri predicatori, forse sentirò qualco­sa di convincente». E andai. Udii molte prediche eccel­lenti sulla preghiera. Ma erano tutti insegnamenti sulla preghiera in genere: che cos’è la preghiera, com’è neces­sario pregare, quali sono i suoi frutti; ma nessuno diceva come progredire nella preghiera. Ci fu sì una predica sul­la preghiera nello spirito e sulla preghiera continua; ma non vi si indicava come arrivarci (pp. 25-26).

     Il Pellegrino è dunque molto deluso, perché ha sen­tito quest’appello a una preghiera continua, ha ascol­tato le prediche, ma non ha ricevuto risposta. Dobbia­mo riconoscere che questo è un problema ancora at­tuale nelle nostre chiese. Sentiamo dire che bisogna pre­gare, siamo invitati a imparare a pregare, ma, in con­clusione, la gente pensa che non ci siano luoghi dove ci si possa fare iniziare alla preghiera, particolarmente a pregare incessantemente e tenendo conto del proprio corpo. Allora, il Pellegrino comincia a fare il giro delle chie­se e dei monasteri. E arriva da uno starec – un monaco accompagnatore spirituale – che lo riceve con bontà, lo invita a casa sua e gli propone un libro dei Padri che gli permetterà di capire chiaramente che cos’è la preghie­ra e di impararla con l’aiuto di Dio: la Filocalia, che si­gnifica in greco l’amore della bellezza. Gli spiega quel­la che si chiama la preghiera di Gesù.

    Ecco quel che gli dice lo starec:

    La preghiera interiore e perpetua di Gesù consiste nell’invocare incessantemente, senza interruzione, il nome divino di Gesù Cristo con le labbra, la mente e il cuore, immaginando la sua presenza costante e chiedendo il suo perdono, in ogni occupazione, in ogni luogo. in ogni tem­po, persino nel sonno. Essa si esprime con queste parole: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!». Chi si abitua a questa invocazione ne riceve grande con­solazione, e sente l’esigenza di recitare sempre questa pre­ghiera, tanto che non può più farne a meno, ed essa stes­sa fluisce spontaneamente in lui. Adesso hai capito che cosa sia la preghiera continua?

     E il Pellegrino esclama colmo di gioia: «Per amor di Dio, insegnatemi come arrivarci!».

    Lo Starec prosegue:

     «Impareremo la preghiera leggendo questo libro, che si intitola Filocalia». Questo libro raccoglie testi tradi­zionali della spiritualità ortodossa.

    Lo starec sceglie un brano di san Simeone il Nuovo Teologo:

    Siedi in silenzio e appartato; china il capo, chiudi gli oc­chi; respira più lentamente, guarda con l’immaginazione dentro il cuore, porta la mente, cioè il pensiero, dalla te­sta al cuore. Mentre respiri, di’: «Signore Gesù Cristo, ab­bi pietà di me», sottovoce con le labbra, oppure solo con la mente. Cerca di scacciare i pensieri, sii tranquillo e pa­ziente, e ripeti spesso questo esercizio.

    Dopo avere incontrato questo monaco, il Pellegrino russo legge altri autori e continua ad andare di mona­stero in monastero, da un luogo di preghiera a un altro, facendo ogni specie di incontri lungo il cammino e ap­profondendo quel suo desiderio di pregare incessante­mente. Egli conta il numero di volte che pronunzia l’invocazione. Fra gli ortodossi la corona del rosario è co­stituita di nodi (cinquanta o cento nodi). È l’equiva­lente del rosario, ma qui non vi sono il Padre nostro e l’Ave Maria rappresentati da grani grossi e piccoli, più o meno distanziati. I nodi sono invece della stessa di­mensione e disposti uno dopo l’altro, con l’unico intento della ripetizione del nome del Signore, pratica che si ac­quisisce progressivamente.

    Ecco come il nostro Pellegrino russo ha scoperto la preghiera continua, a partire da una ripetizione molto semplice, tenendo conto del ritmo della respirazione e del cuore, cercando di uscire dalla mente, per entrare nel cuore profondo, quietare il proprio essere interiore e rimanere così in preghiera permanente.

    Questa storia del Pellegrino contiene tre insegnamen­ti che alimentano la nostra ricerca.

    Il primo pone l’accento sulla ripetizione. Non abbia­mo bisogno di andare a cercare dei mantrafra gli indù, noi ne abbiamo nella tradizione cristiana con la ripeti­zione del nome di Gesù. In numerose tradizioni reli­giose, la ripetizione di un nome o di una parola in rap­porto con il divino o il sacro è il luogo di concentrazio­ne e di acquietamento per la persona e di relazione con l’invisibile. Allo stesso modo, gli ebrei ripetono più vol­te al giorno lo Shemà (la proclamazione di fede che co­mincia con «Ascolta, o Israele…», Dt, 6,4). La ripeti­zione è stata ripresa dal rosario cristiano (che provie­ne da san Domenico, nel XII secolo). Questa idea di ri­petizione è dunque classica anche nelle tradizioni cri­stiane.

    Il secondo insegnamento verte sulla presenza al cor­po, che si riallaccia ad altre tradizioni cristiane. Nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyola, che è stato all’origine della spiritualità dei gesuiti, segnala l’interesse di pre­gare al ritmo del cuore o della respirazione, dunque l’im­portanza di un’attenzione al corpo (cfr. Esercizi spirituali, 258-260). In questa maniera di pregare, si pren­dono le distanze riguardo a una riflessione intellettua­le, a un approccio mentale, per entrare in un ritmo più affettivo, perché la ripetizione non è solamente este­riore, vocale.

    Il terzo insegnamento si riferisce all’energia che si sprigiona nella preghiera. Questo concetto di energia – che si incontra spesso attualmente – è molte volte am­biguo, polisemico (vale a dire che ha significati diffe­renti). Trattandosi della tradizione nella quale si inscri­ve il Pellegrino russo, si parla di un’energia spirituale la quale si trova nel nome stesso di Dio che viene pronun­ziato. Questa energia non rientra nella categoria dell’energia vibratoria, come nella pronuncia della sacra sillaba OM, che è materiale. Sappiamo che il primo man­tra, il mantra originario per l’induismo è la sillaba mi­stica OM. È la sillaba iniziale, che viene dalle profon­dità dell’uomo, nella forza dell’espirazione. Nel nostro caso, si tratta di energie increate, l’energia divina stes­sa, che viene nella persona e la pervade quando essa pronunzia il nome di Dio. L’insegnamento della Filocalia permette dunque di ricollegarsi all’esperienza della ripetizione, del respiro e del corpo, dell’energia, ma assunta in una tradizione cristiana in cui non si tratta di un’energia cosmica, ma spirituale.

    Ritorniamo alla trasmissione della tradizione della preghiera del cuore, dell’invocazione incessante del no­me di Gesù, che si localizza nelle profondità del cuore. Essa risale alte tradizioni dei Padri greci del Medioevo bizantino: Gregorio Palamàs, Simeone il Nuovo Teolo­go, Massimo il Confessore, Diadoco di Fotice; e ai Pa­dri del deserto dei primi secoli: Macario ed Evagrio. Alcuni la riallacciano persino agli apostoli… (nella Filocalia). Questa preghiera si è sviluppata soprattutto nei monasteri del Sinai, al confine dell’Egitto, a partire dal VI secolo, poi sul monte Athos nel XIV secolo. Lì vi­vono ancora centinaia di monaci completamente isolati dal mondo, sempre immersi in questa preghiera del cuore. In alcuni monasteri si continua a mormorarla, come un ronzio di alveare, in altri la si dice interior­mente, in silenzio.

    La preghiera del cuore fu introdotta in Russia verso la metà del XIV secolo. Il grande mistico san Sergio di Radonez, il fondatore del monachesimo russo, la co­nosceva. Altri monaci in seguito l’hanno fatta conoscere nel XVIII secolo, poi essa si è diffusa progressivamen­te al di fuori dei monasteri, grazie alla pubblicazione della Filocalia, nel 1782. Infine, la diffusione dei Racconti del Pellegrino russo a partire dalla fine del XIX secolo l’ha resa popolare.

    La preghiera del cuore ci permetterà di progredire nella misura in cui possiamo appropriarci l’esperienza che abbiamo cominciato, in una prospettiva sempre più cristiana. In quello che abbiamo finora imparato, ab­biamo insistito soprattutto sull’aspetto affettivo e cor­poreo della preghiera e della ripetizione; adesso, fac­ciamo ancora un altro passo. Questo modo di riappro­priarsi un tale procedimento non implica un giudizio o una disistima delle altre tradizioni religiose (come il tantrismo, lo yoga…). Abbiamo qui l’occasione di collocarci nel cuore della tradizione cristiana, a proposito di un aspetto che si è tentato di ignorare nel secolo scor­so nelle Chiese d’occidente. Gli ortodossi sono rimasti più vicini a questa pratica, mentre la tradizione catto­lica occidentale recente si è evoluta piuttosto verso un approccio razionale e istituzionale del cristianesimo. Gli ortodossi sono rimasti più vicini all’estetica, a ciò che si prova, alla bellezza e alla dimensione spirituale, nel senso dell’attenzione all’opera dello Spirito Santo nell’umanità e nel mondo. Abbiamo visto che la paro­la esicasmo significa quiete, ma essa rimanda anche al­la solitudine, al raccoglimento. 

    La potenza del Nome 

    Perché nella mistica ortodossa si dice che la preghiera del cuore è al centro dell’ortodossia? Tra l’altro, perché l’invocazione incessante del nome di Gesù si collega al­la tradizione ebraica, per la quale il nome di Dio è sa­cro, poiché c’è una forza, una potenza particolare in questo nome. Secondo questa tradizione è proibito pronunziare il nome di Jhwh. Quando gli ebrei parlano del Nome, dicono: il Nome o il tetragramma, le quattro let­tere. Essi non lo pronunziavano mai, salvo una volta l’anno, al tempo in cui il tempio di Gerusalemme esi­steva ancora. Soltanto il sommo sacerdote aveva il di­ritto di pronunziare il nome di Jhwh, nel santo dei santi. Ogni volta che nella Bibbia si parla del Nome, si par­la di Dio. Nel nome stesso, c’è una presenza straordinaria di Dio.

    Si ritrova l’importanza del nome negli Atti degli Apo­stoli, il primo libro della tradizione cristiana dopo i Van­geli: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (At 2,21).  Il nome è la persona, il nome di Gesù salva, guarisce, scaccia gli spiriti impuri, purifica il cuore. Ecco che cosa dice a questo proposito un sacerdote or­todosso: «Portate costantemente nel cuore il dolcissi­mo nome di Gesù; il cuore è infiammato dal richiamo incessante di questo nome diletto, di un ineffabile amo­re per lui».

    Questa preghiera si fonda sull’esortazione a pregare sempre e che abbiamo ricordato a proposito del Pelle­grino russo. Tutte le sue parole provengono dal Nuovo Testamento. È il grido del peccatore che chiede aiuto al Signore, in greco: «Kyrie, eleison». Questa formula è utilizzata anche nella liturgia cattolica. E ancora oggi viene recitata decine di volte negli uffizi ortodossi gre­ci. La ripetizione del «Kyrie, eleison» è dunque impor­tante nella liturgia orientale.

    Per addentrarci nella preghiera del cuore, non siamo obbligati a recitare tutta la formula: «Signore Gesù Cri­sto, abbi pietà di me (peccatore)»; possiamo scegliere un’altra parola che ci commuove. Bisogna tuttavia com­prendere l’importanza della presenza del nome di Gesù, quando vogliamo penetrare a fondo il significato di questa invocazione. Nella tradizione cristiana, il nome di Gesù (che in ebraico si dice Jehoshua) significa: «Dio salva». È un modo di rendere presente il Cristo nella nostra vita. Ritorneremo a parlarne. Per il momento, è possibile che un’altra espressione ci si addica meglio. L’importante è prendere l’abitudine di ripetere rego­larmente questa espressione, come un segno di tene­rezza che si esprime a qualcuno. Quando siamo avviati su un cammino spirituale e accettiamo che sia un cam­mino di relazione con Dio, scopriamo dei nomi particolari che rivolgiamo a Dio, nomi che amiamo in mo­do particolare. Sono talvolta nomi affettuosi, pieni di tenerezza, che possono essere detti secondo la relazio­ne che si ha con lui. Per alcuni, sarà Signore, Padre; per altri, sarà Papà, oppure Diletto… Una sola parola può bastare in questa preghiera; la cosa principale è non cambiare troppo spesso, ripeterla regolarmente, e che sia per chi la pronuncia una parola che lo radica nel suo cuore e nel cuore di Dio.

    Alcuni di noi possono essere riluttanti di fronte alle parole «pietà» e «peccatore». La parola pietà disturba perché ha preso spesso una connotazione doloristica o umiliante. Ma se la consideriamo nel suo primo signifi­cato di misericordia e di compassione, la preghiera può anche voler dire: «Signore, guardami con tenerezza». La parola peccatore evoca il riconoscimento delle no­stre povertà. Non vi è in ciò nessun senso di colpa in­centrato su una lista di peccati. Il peccato è piuttosto uno stato in cui percepiamo fino a che punto facciamo fatica ad amare e a lasciarci amare come vorremmo. Peccare significa «fallire il bersaglio»… Chi non rico­nosce di fallire il bersaglio più spesso di quanto vor­rebbe? Rivolgendoci a Gesù, gli chiediamo di avere compassione delle difficoltà che abbiamo a vivere al li­vello del cuore profondo, nell’amore. È una richiesta di aiuto per liberare la sorgente interiore.

    In che modo si fa questa respirazione del Nome, del nome di Gesù? Come racconta il Pellegrino russo, si ri­pete l’invocazione un certo numero di volte utilizzan­do il rosario a nodi. Il fatto di recitarla cinquanta o cen­to volte sul rosario permette di sapere a che punto si è, ma non è questa certamente la cosa più importante. Quando lo starec ha indicato al Pellegrino russo come doveva procedere, gli ha detto: «Tu cominci dapprima con mille volte e poi duemila volte…». Con il rosario, ogni volta che si dice il nome di Gesù, si fa scorrere un nodo. Questa ripetizione fatta sui nodi permette di fis­sare il pensiero, ricorda quello che si sta facendo e aiu­ta così a rimanere consapevoli del procedimento di pre­ghiera. 

    Respirare lo Spirito Santo 

    Accanto al rosario, il lavoro della respirazione ci dà il segno migliore di riferimento. Si ripetono queste pa­role al ritmo dell’inspirazione, poi dell’espirazione in modo da farle penetrare progressivamente nel nostro cuore, come vedremo negli esercizi pratici. In questo caso, i nodi non sono necessari. In ogni modo, anche in questo, non cerchiamo di fare prodezze. Appena ci inol­triamo su un cammino di preghiera con l’obiettivo di ottenere risultati visibili, seguiamo lo spirito del mon­do e ci allontaniamo dalla vita spirituale. Nelle tradi­zioni spirituali più profonde, siano esse giudaiche, in­duiste, buddhiste o cristiane, esiste una libertà in quan­to ai risultati, perché il frutto è già nel cammino. Ab­biamo dovuto farne già l’esperienza. Oseremmo forse affermare: «Sono arrivato»? Tuttavia, senza dubbio, rac­cogliamo già buoni frutti. Lo scopo è di arrivare a una libertà interiore sempre più grande, a una comunione sempre più profonda con Dio. Ciò viene dato imper­cettibilmente, progressivamente. Il solo fatto di essere in cammino, di essere attenti a quel che viviamo, è già il segno di una continua presenza al presente, nella li­bertà interiore. Il resto, non abbiamo bisogno di ricer­carlo: è dato in sovrappiù.

    Gli antichi monaci dicono: soprattutto non bisogna esagerare, non cercare di ripetere il Nome fino a ine­betirsi completamente; lo scopo non è quello di anda­re in trance. Esistono altre tradizioni religiose che pro­pongono metodi per arrivarci, accompagnando il ritmo delle parole con un’accelerazione della respirazione. Ci si può aiutare battendo sui tamburi, o con movimenti rotatori del tronco come in certe confraternite sufi. Si provoca così una iperventilazione, dunque un’iperossigenazione del cervello che determina una modifica­zione dello stato di coscienza. La persona che parteci­pa a queste trances è come trascinata dagli effetti dell’accelerazione della sua respirazione. Il fatto di essere in molti a dondolarsi insieme accelera il processo. Nel­la tradizione cristiana, quel che viene ricercato è la pa­ce interiore, senza nessuna manifestazione particolare. Le Chiese sono sempre state prudenti a proposito del­le esperienze mistiche. Normalmente, nel caso dell’estasi, la persona quasi non si muove, ma ci possono es­sere leggeri movimenti esterni. Non si ricerca nessuna agitazione né eccitazione, la respirazione serve unica­mente da supporto e da simbolo spirituale alla preghiera.

    Perché collegare il Nome al respiro? Come abbiamo visto, nella tradizione giudeo-cristiana, Dio è il soffio dell’uomo. Quando l’uomo respira, riceve una vita che gli viene data da un Altro. L’immagine della discesa della colomba – simbolo dello Spirito Santo – su Gesù al momento del battesimo è considerata nella tradizione cistercense come il bacio del Padre a suo Figlio. Nella respirazione, sì riceve il soffio del Padre. Se in quel mo­mento, in questo respiro, si pronuncia il nome del Fi­glio, sono presenti il Padre, il Figlio e lo Spirito. Nel Van­gelo di Giovanni si legge: «Se qualcuno mi ama, osser­verà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23). La re­spirazione al ritmo dei nome di Gesù dà un senso par­ticolare all’inspirazione. «La respirazione serve da sup­porto e da simbolo alla preghiera. “Il nome di Gesù è un profumo che si effonde” (cfr. Cantico dei cantici, 1,4). Il soffio di Gesù è spirituale, guarisce, scaccia i de­moni, comunica lo Spirito Santo (Gv 20,22). Lo Spiri­to Santo è Soffio divino (Spiritus, spirare), spirazione di amore in seno al mistero trinitario. La respirazione di Gesù, come il battito del suo cuore, doveva essere in­cessantemente legata a questo mistero di amore, come pure ai sospiri della creatura (Mc 7,34 e 8,12) e alle “aspi­razioni” che ogni cuore umano porta in sé. È lo Spirito stesso che prega per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26)» (Serr J.).

    Ci si potrebbe basare anche sul battito del cuore per ritmare la recitazione. E’ questa la tradizione più anti­ca per la preghiera del cuore, ma ci rendiamo conto che ai nostri giorni, con gli attuati ritmi di vita, non abbia­mo più il ritmo cardiaco che aveva il contadino o il mo­naco nella sua cella. Inoltre, bisogna fare attenzione a non concentrarsi esageratamente su quest’organo. Sia­mo molto spesso sotto pressione, dunque non è consi­gliabile pregare al ritmo dei battiti del cuore. Certe tec­niche in rapporto con il ritmo del cuore possono esse­re pericolose. E’ meglio attenersi alla profonda tradi­zione del respiro, ritmo biologico fondamentale quan­to quello del cuore e che ha anche il significato mistico di una comunione con una vita che è data e accolta nella respirazione. Negli Atti degli Apostoli san Paolo di­ce: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28) Secondo questa tradizione noi siamo dunque creati ad ogni istante, siamo rinnovati; questa vita viene da lui e un modo di accoglierla è di respirare coscientemente.

    Gregorio il Sinaita diceva: «Invece di respirare lo Spi­rito Santo, noi siamo riempiti dal respiro degli spiriti malvagi» (sono le cattive abitudini, le «passioni», tutto ciò che rende complicata la nostra vita quotidiana). Fis­sando la mente sulla respirazione (come abbiamo fat­to finora), essa si quieta, e noi sentiamo una distensio­ne fisica, psicologica, morale. «Respirando lo Spirito», nell’articolazione del Nome, possiamo trovare il ripo­so del cuore, e questo corrisponde al procedimento dell’esicasmo. Esichio di Batos scrive: «L’invocazione del nome di Gesù, quando è accompagnata da un deside­rio pieno di dolcezza e di gioia, riempie il cuore di gioia e di serenità. Saremo allora ricolmi della dolcezza di sentire e di provare come un incanto questa esultanza beata, perché cammineremo nella hesychia del cuore con il dolce piacere e le delizie di cui essa riempie l’anima».

    Ci si libera dall’agitazione del mondo esterno, si cal­ma la dispersione, la diversità, la corsa frenetica, per­ché noi tutti siamo spesso sollecitati in maniera molto faticosa. Quando arriviamo, grazie a questa pratica, a una maggiore presenza a noi stessi, in profondità, co­minciamo a sentirci bene con noi stessi, nel silenzio. Do­po un certo tempo, scopriamo che siamo con un Altro, perché amare è essere abitati e lasciarsi amare è lasciarsi abitare. Ritroviamo quello che dicevo a proposito del­la trasfigurazione: il cuore, la mente e il corpo ritrova­no la loro unità originaria. Siamo presi nel movimento della metamorfosi, della trasfigurazione del nostro es­sere. E’ questo un tema caro all’ortodossia. Il nostro cuore, la nostra mente e il nostro corpo si quietano e tro­vano la loro unità in Dio.

    CONSIGLI PRATICI

    Trovare la distanza giusta

    La nostra prima cura, quando ci fermiamo per impara­re la «preghiera di Gesù», sarà di ricercare il silenzio del­la mente, di evitare ogni pensiero e fissarsi nelle profon­dità del cuore. Per questo il lavoro sul respiro è di grande aiuto.

    Come sappiamo, servendoci delle parole: «Io mi la­scio andare, io mi dono, io mi abbandono, io mi ricevo» il nostro scopo non è di arrivare alla vacuità come nella tradizione zen, per esempio. Si tratta di liberare uno spa­zio interiore nel quale possiamo fare l’esperienza di essere visitati e abitati. Questo procedimento non ha nulla di magico, è un’apertura del cuore a una presenza spiritua­le dentro di sé. Non è un esercizio meccanico o una tec­nica psicosomatica; possiamo anche sostituire queste pa­role con la preghiera del cuore. Nel ritmo delta respira­zione, si può dire nell’inspirazione: «Signore Gesù Cristo», e nell’espirazione: «Abbi pietà di me». In quel momento, io accolgo il respiro, la tenerezza, la misericordia che mi sono dati come un’unzione dello Spirito.

    Scegliamo un luogo silenzioso, quietiamoci, invochiamo lo Spirito perché ci insegni a pre­gare. Possiamo immaginare il Signore vicino a noi o in noi, con la fiduciosa certezza che egli non ha altro desiderio che di colmarci delta sua pace. All’inizio, possiamo limitarci a una sillaba, a un nome: Abbà (Padre), Gesù, Effathà (apriti, rivolto a noi stessi), Marana-tha (vieni, Si­gnore), Eccomi, Signore, ecc. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula, che deve essere breve. Giovanni Climaco consiglia: «che la vostra preghiera ignori ogni mol­tiplicazione: una sola parola è bastata al pubblicano e al figliol prodigo per ottenere il perdono di Dio.. La prolissità nella preghiera riempie spesso di immagini e distrae, mentre spesso una sola parola (monologia) favorisce il raccoglimento”.

    Prendiamola con calma sul ritmo della nostra respirazione. La ripetiamo in piedi, seduti o coricati, trattenendo il respi­ro per quanto è possibile, per non respirare a un ritmo troppo rapido. Se restiamo in apnea per un pò di tempo, la nostra respirazione rallenta. Diventa più distanziata, ma siamo ossigenati respirando attraverso il diaframma. Il respiro raggiunge allora un’ampiezza tale che si ha bi­sogno di respirare meno spesso. Inoltre, come scrive Teo­fane il Recluso: «Non preoccupatevi del numero delle pre­ghiere da recitare. Abbiate cura unicamente che la pre­ghiera scaturisca dal vostro cuore, zampillante come una sorgente di acqua viva. Allontanate completamente dal­la vostra mente l’idea di quantità». Anche in questo ca­so, ciascuno deve trovare la formula che gli si addice: le parole da usare, il ritmo del respiro, la durata della recitazione. All’inizio, la recitazione sarà fatta oralmente; a poco a poco, non avremo più bisogno di pronunziarla con le labbra nè di utilizzare un rosario (qualsiasi rosario può andar bene, se non si ha quello fatto di nodi di lana). Un automatismo regolerà il movimento della respirazione; la preghiera si semplificherà e giungerà fino al nostro sub-conscio per pacificarlo. Il silenzio ci pervaderà dall’interno.

    In questa respirazione del Nome, il nostro desiderio si esprime e si approfondisce; a poco a poco entriamo nella pace dell’hesychia. Situando la mente nel cuore – e pos­siamo localizzare un punto fisicamente, se questo ci aiu­ta, nel nostro petto, o nel nostro hara (cfr. tradizione zen), noi invochiamo il Signore Gesù incessantemente; cercando di fare in modo di allontanare tutto ciò che può distrarci. Quest’appren­dimento richiede tempo e non bisogna cercare un risul­tato rapido. C’è dunque da fare uno sforzo per rimanere in una grande semplicità e in una grande povertà, acco­gliendo quello che viene dato. Ogni volta che le distra­zioni ritornano, concentriamoci di nuovo sul respiro e sul­la parola.

    Quando avete preso questa abitudine, quando cammi­nate, quando vi sedete, potete riprendere la vostra respi­razione. Se a poco a poco questo nome di Dio, qualunque sia il nome che gli date, è associato al suo ritmo, sentirete che la pace e l’unità della vostra persona cresceranno. Quando qualcuno vi provoca, se provate un sentimento di collera o di aggressività, se sentite che state per non controllarvi più o se siete tentati di commettere atti che vanno contro le vostre convinzioni, riprendete la respira­zione del Nome. Quando sentite un impulso interiore che si oppone all’amore e alla pace, questo sforzo di ritrovar­vi nelle vostre profondità mediante il respiro, mediante la presenza a voi stessi, mediante la ripetizione del Nome, vi rende vigilanti e attenti al cuore. Questo vi può permet­tere di calmarvi, di ritardare la vostra risposta e di darvi il tempo di trovare la distanza giusta riguardo a un avve­nimento, a voi stessi, a qualcun altro. Può essere un me­todo molto concreto per placare i sentimenti negativi, che sono talvolta un veleno per la vostra serenità interiore e impediscono una relazione in profondità con gli altri.

    LA PREGHIERA DI GESÙ

    La preghiera di Gesù è chiamata preghiera del cuo­re perché, nella tradizione biblica, al livello del cuore si trova il centro dell’uomo e della sua spiritualità. Il cuo­re non è semplicemente l’affettività. Questa parola rimanda alla nostra identità profon­da. Il cuore è anche il luogo della saggezza. Nella mag­gior parte delle tradizioni spirituali, esso rappresenta un luogo e un simbolo importanti; talvolta è collegato al tema della grotta o al fiore del loto, o alla cella interiore del tempio. A questo propo­sito, la tradizione ortodossa è particolarmente vicina al­le fonti bibliche e semitiche. «Il cuore è il signore e il re di tutto l’organismo corporeo», dice Macario, e «quan­do la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, essa regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché lì è l’intelligenza, lì si trovano i pensieri dell’anima, da lì essa attende il bene». In questa tradizione, il cuore è al «centro dell’essere umano, la radice delle facoltà dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la vita spirituale. È la sor­gente, oscura e profonda, da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo e mediante la quale que­sti è vicino e comunica con la Sorgente della vita». Di­re che nella preghiera bisogna passare dalla testa al cuo­re, non significa che testa e cuore si oppongano. Nel cuo­re, c’è ugualmente il desiderio, la decisione, la scelta dell’azione. Nel linguaggio corrente, quando si dice che una persona è un uomo o una donna di gran cuore, si ri­manda alla dimensione affettiva; ma quando si parla di «avere un cuor da leone» si accenna al coraggio e alla determinazione.

    La preghiera di Gesù, con il suo aspetto respiratorio e spirituale, ha lo scopo di far «scendere la testa nel cuo­re»: si arriva così all’intelligenza del cuore. «E’ bene scen­dere dal cervello nel cuore – dice Teofane il Recluso –. Per il momento non ci sono in voi che riflessioni tutte ce­rebrali su Dio, ma Dio stesso rimane all’esterno». È stato detto che la conseguenza della rottura con Dio è una specie di disintegrazione della persona, una perdi­ta dell’armonia interiore. Per riequilibrare la persona con tutte le sue dimensioni, il procedimento della pre­ghiera del cuore mira a collegare la testa e il cuore, per­ché «i pensieri turbinano come fiocchi di neve o sciami di moscerini in estate». Possiamo quindi raggiungere una comprensione molto più profonda della realtà uma­na e spirituale.

    L’illuminazione cristiana

    Poiché pronunciare il nome di Gesù libera il suo sof­fio in noi, l’effetto più importante della preghiera del cuore è l’illuminazione, che non è una manifestazione sentita fisicamente, benché possa avere effetti sul cor­po. Il cuore conoscerà il calore spirituale, la pace, la lu­ce, così bene espresse nella liturgia ortodossa. Le Chie­se d’Oriente sono decorate di icone, ciascuna con il suo lumicino che vi si riflette, segno di una presenza miste­riosa. Mentre nella teologia mistica occidentale si è in­sistito, tra l’altro, sull’esperienza della notte oscura (con le tradizioni carmelitane, come quella di san Giovanni della Croce), in Oriente sono messe in risalto l’illumi­nazione, la luce della trasfigurazione. I santi ortodossi sono trasfigurati più che se ricevessero le stigmate (Nella tradizione cattolica alcuni santi come Francesco d’Assisi hanno ricevuto nella loro carne le tracce delle piaghe della crocifissione, unendosi così alla sofferenza del Cristo crocifisso). Si parla della luce taborica, perché sul mon­te Tabor, Gesù è stato trasfigurato. La crescita spirituale è un cammino di tra­sfigurazione progressiva. E’ la luce stessa di Dio che fi­nisce col riflettersi sul viso dell’uomo. Per questo siamo chiamati a diventare noi stessi icone della tenerezza di Dio, sull’esempio di Gesù. Nella misura in cui ritrovia­mo la nostra sorgente nascosta, a poco a poco la luce interiore traspare nel nostro sguardo. C’è una grazia di commossa partecipazione che imprime una grande dol­cezza nello sguardo e sul viso dei religiosi dell’Oriente.

    È lo Spirito Santo che realizza l’unità della persona. Lo scopo ultimo della vita spirituale è la deificazione dell’essere umano secondo la tradizione ortodossa, va­le a dire una trasformazione interiore che ristabilisce la somiglianza ferita dalla rottura con Dio. L’uomo diventa sempre più vicino a Dio, non con le sue forze, ma per la presenza dello Spirito che favorisce la preghiera del cuore. C’è una grande differenza tra le tecniche di me­ditazione, in cui si cerca di raggiungere un certo stato di coscienza attraverso sforzi personali, e un metodo di preghiera cristiana. Nel primo caso, il lavoro su se stes­si – che è certamente necessario per ogni cammino spi­rituale – è realizzato unicamente da se stessi, eventual­mente con un aiuto umano esterno, per esempio quel­lo di un maestro. Nel secondo caso, anche se ci si ispira ad alcune tecniche, l’approccio è vissuto in uno spirito di apertura e di accoglienza a una Presenza trasfor­mante. A poco a poco, grazie alla pratica della preghiera del cuore, l’uomo ritrova un’unità profonda. Quanta più si radica questa unità, tanto meglio egli può entrare nella comunione con Dio: è già un annuncio della risurre­zione! Tuttavia, non bisogna farsi illusioni. Non c’è nul­la di automatico né di immediato in questo procedi­mento. Non basta essere pazienti, è ugualmente im­portante accettare di essere purificati, vale a dire rico­noscere le oscurità e le deviazioni in noi che impedi­scono l’accoglimento della grazia. La preghiera del cuo­re stimola un atteggiamento di umiltà e di pentimento che ne condiziona l’autenticità; è accompagnata da una volontà di discernimento e di vigilanza interiore. Di fronte alla bellezza e all’amore di Dio, l’uomo prende coscienza del suo peccato ed è invitato a incamminar­si sulla via della conversione.

    Che cosa dice dell’energia divina questa tradizione? Il corpo può risentire anch’esso fin da ora gli effetti dell’illuminazione della risurrezione. Fra gli ortodossi esi­ste un dibattito sempre attuale a proposito delle ener­gie. Sono create o increate? Sono l’effetto di un’azione diretta di Dio sull’uomo? Di quale natura è la deifica­zione? In che modo Dio, trascendente e inaccessibile nella sua essenza, potrebbe comunicare le sue grazie all’uomo, al punto di «deificarlo» con la sua azione? L’interesse dei nostri contemporanei per la questione dell’energia obbliga a soffermarsi brevemente su tale do­manda. Gregorio Palamàs parla di una «partecipazio­ne» a qualche cosa tra il cristiano e Dio. Questo qual­cosa, sono le “energie” divine, paragonabili ai raggi del sole che apportano luce e calore, senza essere il sole nella sua essenza, e che noi tuttavia chiamiamo: sole. So­no queste energie divine che agiscono sul cuore per ri­crearci a immagine e somiglianza. Con ciò, Dio si dona all’uomo senza cessare di essere trascendente a lui. Attraverso questa immagine, vediamo come, mediante un lavoro sul respiro e sulla ripetizione del Nome, pos­siamo accogliere l’energia divina e permettere che si realizzi progressivamente in noi una trasfigurazione dell’essere profondo.

    Il Nome che guarisce

    A proposito del pronunciare il Nome, è importante non porsi in un atteggiamento che rientrerebbe nell’ambito della magia. La nostra è una prospettiva di fe­de in un Dio che è il pastore del suo popolo e che non vuole perdere nessuna delle sue pecore. Chiamare Dio con il suo nome vuol dire aprirsi alla sua presenza e al­la potenza del suo amore. Credere nella forza dell’evo­cazione del Nome, significa credere che Dio è presen­te nelle nostre profondità e aspetta solamente un segno da parte nostra per colmarci della grazia di cui abbia­mo bisogno. Non dobbiamo dimenticare che la grazia è sempre offerta. Il problema viene da noi che non la chiediamo, non l’accogliamo, oppure non siamo capaci di riconoscerla quando essa opera nella nostra vita o in quella degli altri. La recitazione del Nome è dunque un atto di fede in un amore che non cessa di donarsi, un fuoco che non dice mai: «Basta!».

    Adesso forse comprendiamo meglio come, oltre al lavoro che abbiamo iniziato sul corpo e il respiro, è pos­sibile, per quelli che lo desiderano, introdurre la di­mensione della ripetizione del Nome. Così, a poco a po­co, lo Spirito si unisce alla nostra respirazione. In con­creto, dopo un apprendimento più o meno lungo, quan­do abbiamo un momento di calma, quando camminia­mo per strada o quando stiamo nella metropolitana, se entriamo nella respirazione profonda, spontaneamen­te, il nome di Gesù può visitarci e ricordarci chi siamo noi, figli diletti del Padre.

    Attualmente, si ritiene che la preghiera del cuore pos­sa sollecitare il subcosciente e attuare in esso una for­ma di liberazione. Infatti, lì giacciono dimenticate realtà cupe, difficili e angosciose. Quando questo Nome be­nedetto pervade il subcosciente, scaccia gli altri nomi, che sono forse distruttori per noi. Ciò non ha nulla di automatico e non sostituirà necessariamente un pro­cedimento psicanalitico o psicoterapeutico; ma nella fe­de cristiana, questa visione dell’opera dello Spirito fa parte dell’incarnazione: nel cristianesimo, lo spirito e il corpo sono inseparabili. Grazie alla nostra comunione con Dio, che è relazione, pronunciare il suo Nome può liberarci dalle oscurità. Si legge nei Salmi che quando un povero grida, Dio risponde sempre (Sal 31,23; 72,12). E l’amata del Cantico dei Cantici dice: «Io dormivo, ma il mio cuore era desto» (Ct 5,2). Possiamo qui pensare all’immagine della mamma che dorme, ma sa che il suo bimbo non sta molto bene: lei si sveglierà al minimo ge­mito. È una presenza dello stesso genere che si può spe­rimentare nei momenti importanti della vita amorosa, della vita parentale, filiate. Se amare è essere abitati, lo stesso può dirsi anche per la relazione che Dio intrat­tiene con noi. Scoprirlo e viverne è una grazia da chie­dere.

    Quando prepariamo un incontro importante, ci pen­siamo, ci predisponiamo ad esso, ma non possiamo as­sicurare che sarà un incontro riuscito. Ciò non dipende del tutto da noi, ma dipende anche dall’altro. Nell’incontro con Dio, quel che dipende da noi è preparare il nostro cuore. Anche se non conosciamo nè il giorno nè l’ora, la nostra fede ci assicura che l’Altro verrà. A tal fine è necessario che noi ci poniamo già in un approc­cio di fede, anche se è una fede ai primi passi. Avere l’audacia di sperare che effettivamente c’è qualcuno che viene a noi, anche se non sentiamo nulla! È un mettersi continuamente in presenza, cosi come respiriamo ad ogni istante, e il nostro cuore batte senza fermarsi. Il nostro cuore e il nostro respiro sono vitali per noi, così questo mettersi in presenza diventa vitale da un punto di vista spirituale. Progressivamente, tutto diventa vita, vita in Dio. Certamente, non lo sperimentiamo in permanenza, ma in certi momenti possiamo intuirlo Quei momenti ci incoraggiano, quando abbiamo l’im­pressione di perdere tempo nella preghiera, cosa che, senza dubbio, ci accade spesso…

    Attendere l’inatteso

    Noi possiamo attingere dalla nostra propria espe­rienza di relazione, dal ricordo dei nostri stupori da­vanti a ciò che abbiamo scoperto di bello in noi e negli altri. La nostra esperienza ci rivela l’importanza della capacità di riconoscere la bellezza sul nostro cammino. Per alcuni sarà la natura, per altri l’amicizia; in poche parole, tutto ciò che ci fa crescere e ci fa uscire dalla ba­nalità, dal tran tran quotidiano. Attendere l’inatteso ed essere ancora capaci di meravigliarsi! «Attendo l’inat­teso», mi diceva un giorno un giovane in cerca di voca­zione, incontrato in un monastero: allora gli ho parlato del Dio delle sorprese.

    È un cammino che richiede tempo. Ricordiamoci che abbiamo detto che la risposta è già presente nel cam­mino stesso. Siamo tentati di porci la domanda: quan­do arriverò e quando avrò la risposta? L’importante è esserci messi in cammino, bevendo ai pozzi che incon­triamo, pur sapendo che ci vorrà molto tempo per ar­rivare. L’orizzonte si allontana quando ci si avvicina al­la montagna, ma c’è la gioia del cammino che accompagna l’aridità della fatica, c’è la vicinanza dei compa­gni di cordata. Non rimaniamo soli, siamo già rivolti verso la rivelazione che ci aspetta sulla vetta. Quando siamo consapevoli di questo, diventiamo pellegrini dell’assoluto, pellegrini di Dio, senza ricerca del risultato.

    È molto difficile per noi occidentali non mirare all’efficacia immediata. Nel celebre libro indù Bhaga­vadgita, Krishna dice che bisogna lavorare senza desi­derare il frutto della nostra fatica. I buddhisti aggiun­gono che bisognerebbe liberarsi dal desiderio che è il­lusione, per raggiungere l’illuminazione. Molto più tar­di, in Occidente, nel XVI secolo, sant’Ignazio di Loyo­la insisterà sull’«indifferenza», che consiste per lui nel conservare una giusta libertà interiore riguardo a una decisione importante, finché il discernimento conferma la scelta opportuna. Tuttavia, come abbiamo visto, nel cristianesimo il desiderio rimane una realtà importan­te per il cammino spirituale. Esso unifica nell’impulso che ci fa uscire da noi stessi in direzione di una pienez­za, e tutto questo in una grande povertà. Infatti, il de­siderio ci produce un vuoto nell’anima, perché possia­mo desiderare solo ciò che non abbiamo ancora, e dà il suo slancio alla speranza.

    Questo ci aiuta a pensare «giusto», perché il nostro pensiero è anche un pensiero del cuore, e non soltanto un esercizio unicamente intellettuale. La rettitudine del pensiero illuminato dal cuore e gli stati del nostro cuo­re ci dicono qualcosa della rettitudine delle nostre re­lazioni. Lo vedremo presto nella tradizione ignaziana, quando parleremo della «mozione degli spiriti». Que­sta espressione di sant’Ignazio di Loyola è un altro mo­do di parlare degli stati del cuore, che ci dicono come noi viviamo la nostra relazione a Dio e agli altri. Noi occidentali viviamo soprattutto al livello dell’intelletto, della razionalità, e riduciamo talvolta il cuore all’emo­tività. Siamo allora tentati sia di neutralizzarlo, sia d’i­gnorarlo. Per alcuni di noi, quel che non si misura non esiste, ma questo è tuttavia in contraddizione con l’e­sperienza quotidiana, perché la qualità della relazione non si misura.

    Nel mezzo della scissione dell’uomo, della dispersio­ne causata dalla distrazione, la recitazione del Nome al ritmo della respirazione ci aiuta a ritrovare l’unità del­la testa, del corpo e del cuore. Questa preghiera conti­nua può diventare veramente vitale per noi, nel senso che segue i nostri ritmi vitali. Vitale anche nel senso in cui, nei momenti nei quali la nostra vita è messa in di­scussione, minacciata, noi viviamo le esperienze più in­tense. Allora, possiamo chiamare il Signore con il suo Nome, renderlo presente e, a poco a poco, entrare nel movimento dell’illuminazione del cuore. Non siamo ob­bligati ad essere per questo dei grandi mistici. In certi momenti della nostra vita, possiamo scoprire che sia­mo amati in un modo assolutamente indescrivibile, che ci riempie di gioia. È questa una conferma di quel che c’è di più bello in noi e dell’esistenza dell’Essere ama­to; può durare soltanto pochi secondi, e diventare tut­tavia come una pietra miliare sul nostro cammino. Se non c’è una causa precisa a questa gioia intensa, sant’I­gnazio la chiama una «consolazione senza causa». Per esempio, quando non è una gioia che proviene da una buona notizia, da una promozione, da una gratificazio­ne qualunque. Essa ci pervade all’improvviso, e questo è il segno che viene da Dio.

    La preghiera di colui che veglia

    Infine, possiamo parlare brevemente di un metodo di preghiera praticato in ambienti cattolici, non estra­neo a quel che abbiamo considerato finora. Ai giorni nostri, alcuni trappisti americani (cfr. La preghiera centrica del padre trappista  B. Pennington) propongono dì prati­care la «preghiera del vegliante». E’ una preghiera che mira a favorire la concentrazione ed è ripresa da una tradizione, molto antica, conservata in un libro intito­lato LA NUBE DELLA NON-CONOSCENZA. Questo libro è sta­to scritto in Inghilterra nel XIV secolo ed era molto conosciuto alla fine del Medioevo; l’autore è rimasto ano­nimo. Quest’opera viene riscoperta attualmente, grazie a nuove traduzioni. Vi si legge, a proposito dell’uso di una sola parola nella preghiera: Se vuoi ripiegare e avvolgere l’attenzione in una sola parola così da tenerla più saldamente, prendi una parola corta, meglio se di una sola sillaba: più è corta, più si in­tona all’opera dello spirito. Una tale parola può essere «Dio» o ancora «Amore». Scegli una di queste due o un’al­tra di tuo gradimento. E questa parola legala stretta al tuo cuore, così che non se ne stacchi più, qualunque cosa ac­cada. Questa parola sarà il tuo scudo e la tua lancia, sia in pace che in guerra. Con questa parola picchierai sulla nu­be e sull’oscurità che ti sovrasta. Con questa parola sop­primerai ogni pensiero sotto la nube dell’oblio. A tal pun­to che se qualche pensiero ti metterà sotto pressione chie­dendoti cosa mai stai cercando, gli risponderai se non con questa semplice parola. E se si farà avanti con la sua scien­za per spiegarti il significato di quella stessa parola ed esporne le varie proprietà, gli dirai che vuoi conservarla intatta nella sua interezza, e non intendi ridurla in briciole

    I monaci di cui stiamo parlando ripetono parole co­me: alleluia, salvatore, Marana-tha (vieni, o Signore); Kyrie, Signore, Gesù, Padre, Abbà, Spirito Santo, ecc. Ecco le loro regole per questa pratica che è simile a quel che abbiamo visto precedentemente: Scegliamo un luogo relativamente tranquillo dove non saremo interrotti, sediamoci ben dritti, con i piedi posati in piano per terra, chiudiamo gli occhi e rilassiamoci; pre­stiamo attenzione particolarmente alle parti del corpo che sentiamo troppo tese. Possiamo anche appoggiarci su un piccolo banco o un cuscino; l’essenziale è stare comodi (sic) per non muoverci e non disturbare la nostra preghiera.  Cominciamo a ripetere la nostra parola e continuiamo per tutto il tempo della preghiera. Quando ci rendiamo conto di una distrazione ripetiamo la nostra parola dolcemente. Terminato il tempo della preghiera distacchiamocene piano piano recitando il Padre nostro e rialziamoci tranquillamente

    Questi monaci propongono una durata di venti minu­ti, una volta al giorno, di preferenza al mattino. In tale proposta manca la respirazione; non si parla del respiro. Peccato, perché per conservare l’immobilità e per rilas­sare il corpo, la consapevolezza del respiro è molto im­portante. Indichiamo tuttavia una pista per quelli che vo­gliono adeguarsi al lavoro che abbiamo finora fatto se­condo un procedimento più esplicitamente occidentale.

    Nell’uso dei mantra, si utilizza il nome di una divinità o un’altra parola che ha una qualità di vibrazione par­ticolare; si tratta ancora di “energetismo”. Nel nostro pro­cedimento, il nome serve da supporto alla concentra­zione; noi guardiamo soprattutto a un atteggiamento interiore, il suono fisico è secondario. Il nome di Dio è un vero luogo di comunicazione con Qualcuno che è vivo ed esiste. Questo nome agisce in noi per il fatto che siamo stati creati da lui e che da lui riceviamo il re­spiro a ogni momento. E’ dunque molto più di un sup­porto: è una realtà mistica.

    CONSIGLI PRATICI

    Pregare con prudenza e pazienza

    Nella Bibbia, c’è una scelta illimitata di nomi dispo­nibili per rivolgersi a Dio. Nell’Antico Testamento, s’incontra un gran numero di espressioni usate nei salmi: mia roccia, mio baluardo, mia fortezza, mia forza, mia luce, mia salvezza, mio liberatore. Vengono usate le im­magini del pastore, del vignaiolo, dell’amato (Cantico dei Cantici), del padre o della madre, del guerriero, del creatore, del potente, ecc. L’interesse dei Salmi consi­ste nel fatto che rispecchiano tutti i sentimenti umani possibili nei confronti di Dio, dall’abbandono fiducio­so del bambino fino alla collera e al mercanteggiamento affinché Dio agisca. Quanto al Nuovo Testamento, il più frequente è senza dubbio l’appellativo di Padre, ma le parabole presentano aspetti diversi di Dio, provenienti dall’Antico Testamento, Alphonse e Rachel Goettmann propongono anche alcune formule come «da me verso te» nell’espirazione, «tutto, in te» tra le due, e «da te» nell’inspirazione. Oppure «da me verso te» nell’e­spirazione e «da te verso me» nell’inspirazione.     im­portante è vivere intensamente attraverso le parole uti­lizzate. L’uso del Nome mobilita la persona che prega e fa agire la potenza dello Spirito. Non si tratta di ada­giarsi in un mondo chiuso e confortevole. Alphonse e Rachel Goettmann insistono sui legame tra combatti­mento ascetico e preghiera del cuore.
    La preghiera del cuore è stata oggetto di discussione e di sospetto a causa dei rischi di ripiegamento su se stessi e di illusione in quanto ai risultati. La ripetizione assidua di una formula può provocare una vera e propria vertigi­ne. La concentrazione esagerata sulla respirazione o sul ritmo del cuore può determinare malessere in certe persone fragili. C’è anche il rischio di confondere la preghie­ra con il desiderio di prodezze. Non si tratta di forzare per arrivare a un automatismo o a una corrispondenza con un certo movimento biologico. Perciò, in origine, questa pre­ghiera veniva insegnata soltanto oralmente e la persona era seguita da un padre spirituale. Ai giorni nostri, questa preghiera è di pubblico dominio; molti sono i libri che ne parlano e le persone che la praticano, senza un particola­re accompagnamento. Ragione di più per non forzare nulla. Niente sarebbe più contrario al procedimento che il voler provocare un sentimento di illuminazione, confon­dendo l’esperienza spirituale di cui parla la Filocalia con una modificazione dello stato di coscienza. Non si deve trattare né di merito, nè di psicotecnica ricercata per se stessa.

    Questa maniera di pregare non è adatta a tutti. Essa esige una ripetizione e un esercizio quasi meccanico all’i­nizio, che scoraggia alcune persone. Inoltre, sorge un fenomeno di stanchezza, perché il progresso è lento e, tal­volta, ci si può trovare davanti a un vero e proprio muro che paralizza lo sforzo. Non bisogna dichiararsi vinti, ma, anche in questo caso, si tratta di essere pazienti con se stes­si. Non dobbiamo cambiare troppo spesso la formula. Ri­cordo che il progresso spirituale non può essere raggiun­to unicamente mediante la pratica di un metodo, qualun­que esso sia, ma implica un atteggiamento di discernimento e di vigilanza nella vita quotidiana. Infine, ci sono altri modi di pregare in cui l’attenzione al respiro e la consapevolezza del corpo servono vantag­giosamente da introduzione e da preparazione.

     

     

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