• 26 Dic

    UNA COMUNITÀ CHE ASCOLTA:  AT 2,42

    a cura du p. Attilio franco Fabris

    Il retroterra della comunità cristiana primitiva è costituito da una profonda esperienza di ascolto della Parola, e tale esperienza si svolge nel solco della tradizione di Israele. La consegna di Gesù ai suoi nel Cenacolo suona: “Ascolta il primo annuncio e contempla il mistero della passione e resurrezione del Signore”. La differenza tra l’”ecclesia” neotestamentaria e quella veterotestamentaria sta nella nuova esperienza di ascolto indotta dall’esperienza pasquale di Gesù. Ma  a questa esperienza il gruppo dei discepoli erano ben rodati dalla tradizione di fede ebraica.
    L’analogia e la distinzione tra ecclesia antico e vetero testamentaria è importante. Essa pone un interrogativo importante: siamo noi davvero ecclesia neotestamentaria? Cioè: la buona notizia è veramente, in modo vitale, al centro del nostro stare insieme, la forza che ci aggrega? Oppure è una specie di etichetta che si sovrappone dall’esterno alla nostra realtà comunitaria?
    Ma non possiamo rispondere a questa domanda se prima non ce ne facciamo un’altra: possiamo noi considerarci ecclesia dal punto di vista veterotestamentario? Possiamo cioè dire che il nostro stare insieme, il nostro fare comunità si impernia sulla Parola prepasquale e che abbiamo titolo a far concorrenza alla sinagoga, comunità di fede centrata sull’ascolto della Parola di tipo prepasquale?
    Quando ci accorgiamo che la Buona Notizia è ai margini della nostra realtà socio-religiosa, quasi confinata nella soffitta del nostro bagaglio teologico, c’è il rischio di renderci conto che noi non siamo ancora neppure una comunità ecclesiale veterotestamentaria. Se la nostra aggregazione comunitaria non è ancora ispirata, informata dalla Parola di Dio, né del nuovo né del vecchio testamento, vuol dire che abbiamo molto da imparare dalla sinagoga.
    Infatti il Gesù con cui noi ce la facciamo e che presentiamo ai fedeli il più delle volte si identifica prevalentemente con il Gesù prepasquale, ossia con il Gesù della predicazione, dei miracoli, dei segni, che non è ancora il Servo sofferente del Signore, il Kyrios crocifisso, morto e risorto. Ne segue che tutta la pastorale assume un taglio prepasquale piuttosto che pasquale, ossia propriamente evangelico, e noi finiamo col fare una pastorale di tipo più veterotestamentario che neotestamentario. Infatti il Gesù prepasquale, per il fatto che la sua Pasqua non è ancora venuta a mostrare la novità del suo servizio all’uomo, appartiene, come Giovanni Battista ancora all’economia del vecchio testamento. Ne segue che la cristologia che noi proponiamo è di fatto una cristologia prevalentemente prepasquale.

    PISTE DI RIFLESSIONE

    ∑    La Parola che ascoltiamo si impernia sulla Buona Notizia ovvero sul mistero pasquale, o è ancora una Parola improntata all’esperienza di fede veterotestamentaria?
    ∑    La predicazione, il Cristo che annunciamo, è prevalentemente quello prepasquale o pasquale? Cosa proporre per rinnovare la nostra pastorale?

  • 21 Dic

    LE TRE COMPONENTI DELL’ ATTENZIONE
    NELL’ESICASMO CRISTIANO

    di PAOLO OTTAVI  PSICOLOGO

     

     

    PREMESSA

    Quella che presentiamo in queste pagine è una teoria dell’attenzione. Quantunque sia stata estrapolata a partire dalle opere di autori appartenenti ad un contesto particolare —il monachesimo cristiano antico— essa rappresenta comunque una teoria generale —ovvero un sistema di coordinate all’interno del quale è possibile inquadrare e spiegare una serie di dati osservativi— e la cui bontà o meno deve venire valutata come quella di qualunque altra teoria, cioè in funzione della quantità di dati dell’esperienza che riescono a trovare un ordine e un senso all’interno di essa.

    1. CHE COS’È L’ESICASMO

    L’Esicasmo (dal greco esychía, ‘quiete’) è una corrente della spiritualità cristiano-orientale di stampo prevalentemente monastico. Ciò a cui ci riferiamo con questo termine è una realtà che copre un arco di tempo assai vasto: dal IV sec., l’epoca dei Padri del Deserto e dei grandi legislatori monastici, al 1870, data di pubblicazione dei ‘Racconti sinceri di un pellegrino al suo padre spirituale’ definitivo suggello dell’Esicasmo russo.

    L’Esicasmo è pertanto quella tradizione che a diritto raccoglie l’eredità del monachesimo primitivo, quel monachesimo con una spiccata vocazione ascetica che fu dei primi Padri, a partire da s. Antonio; soltanto che traduce l’ascesi corporea in un’ascesi mentale, la lotta per il controllo del corpo in una lotta per il controllo della mente. In ciò esso assorbe anche la forte tendenza mistica propria dei grandi Padri cappadoci del IV secolo (Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa e soprattutto Evagrio Pontico), una mistica influenzata indubbiamente da neoplatonismo e origenismo, ma con notevoli tratti originali. Tra questi, la netta impronta ‘psicologica’ che distingue gli scritti già dei primi autori propriamente ‘esicasti’ —ovvero quelli della scuola del monte Sinai, fiorita tra il VI e VII sec. (Nilo, Giovanni Climaco, Esichio di Batos, Filoteo Sinaita)— e che si sviluppa e si arricchisce nelle varie tappe del suo lungo percorso storico.

    1. PERCHÉ L’ATTENZIONE? LA SFIDA DELLA PREGHIERA INCESSANTE

    Quali sono i motivi che portano dei monaci, dediti ad una vita solitaria, con un minimo di attività manuale di sostentamento, ad opere di pietà e al rispetto dei comandamenti, a sviluppare un interesse così forte, ipertrofico —spesso addirittura dismorfico rispetto alle stesse questioni teologiche— nei confronti dell’attenzione e dei modi per renderla il più possibile stabile, solida, orientata? Tutto ciò nasce dalla sfida, lanciata dai Padri, di prendere alla lettera l’esortazione di s. Paolo alla comunità di Tessalonica di «pregare incessantemente» (1Ts 5,17). Come mettere in pratica questo comandamento se non partendo da un efficace ‘allenamento’ e da una ristrutturazione profonda dell’attenzione tale da rendere possibile per un tempo indefinito l’orientamento della mente?

     a) ridefinizione della preghiera: orationis status

    Innanzi tutto essi pervengono ad una ridefinizione di preghiera: non si tratta di formule da recitare, o per lo meno non solo di questo; la preghiera è uno stato, una diàthesis, una disposizione stabile dell’individuo, un modo di essere-nel-mondo, costantemente orientato verso il polo divino. Chiameremo tale situazione esistenziale dell’individuo orante teotropismo. Ciò che qui ci interessa è vedere come essi giungono ad ottenere tale disposizione stabilmente orientata e cosa intendono con il termine prosoché, ‘attenzione’.

     b) La teoria tripartita dell’attenzione

     Tra i Padri, e in modo particolare tra quelli greci, vi è assoluta concordanza nel considerare l’attenzione quale strumento insostituibile ai fini dell’evitamento del peccato, della pratica dei comandamenti e delle virtù, della meditazione e della preghiera; in una parola, dell’intero cammino di autosviluppo cristiano, e specialmente di quello di stampo monastico. Praticamente in ogni autore esicasta troviamo un accenno o una definizione o un elogio dell’attenzione; forse il più famoso è quello scritto da Niceforo il Solitario, considerato l’‘inventore’ del metodo psicofisiologico dell’Esicasmo: Alcuni dei santi hanno detto che l’attenzione è sorveglianza della mente, altri che è custodia del cuore, altri, sobrietà, altri, quiete [esychía] della mente e altri altre cose. Ma tutte queste sono un’unica e medesima definizione […]. Impara bene che cosa è attenzione e che cosa sono le sue proprietà. Attenzione è indizio chiaro di conversione; attenzione è invocazione dell’anima, odio del mondo e ascensione a Dio; attenzione è rifiuto del peccato e ricupero della virtù; attenzione è piena, indubitabile certezza del perdono dei peccati; attenzione è principio, o meglio, fondamento di contemplazione, giacché per essa Dio si affaccia e si manifesta alla mente; attenzione è imperturbabilità della mente, o meglio, è lo stato di imperturbabilità [«il suo stato immobile»] data in premio all’anima, dalla misericordia di Dio. Attenzione è purificazione dei pensieri, tempio del ricordo di Dio, custode della sopportazione di ciò che sopravviene; attenzione è causa, insieme, di fede, speranza e carità.

    Ci sembra di poter individuare, all’interno dell’universo semantico dell’Esicasmo, tre dimensioni generali dell’attenzione, e, conseguentemente, tre grosse cornici entro le quali inquadrare la totalità delle pratiche di autosviluppo proprie del monachesimo antico.

    Definiamo queste dimensioni come:

    discernimento o attenzione al molteplice;

    concentrazione o attenzione al singolare;

    orientamento o attenzione al molteplice ed al singolare simultaneamente.

    Di ognuna di esse a) daremo una definizione, b) forniremo una panoramica delle tecniche atte a svilupparla e c) ne individueremo le finalità, o, meglio, illustreremo le caratteristiche dello stato (di coscienza) ultimo che discende da una perfetta padronanza di quel livello di attenzione.

    1. L’ATTENZIONE/DISCERNIMENTO

    a) definizione

    Come giustamente viene sottolineato nel Dizionario di Spiritualità non si deve concepire l’attenzione solo come un’immobilizzazione, quasi una fissazione, su un dato. Essa appare […] più spesso come una caccia, una ricerca, uno slancio orientato, come una direzione del pensiero, mobile ed attivo, alla ricerca di un oggetto. Dunque, l’attenzione come ‘potere di selezione’ e come ‘discernimento’, ‘discriminazione’ da operare sui dati di realtà, sugli stimoli, sui pensieri, sulle immagini mentali. Supporto decisivo nella lotta contro la tentazione, in ciò che i monaci chiamano ‘combattimento spirituale’.

    b) tecniche

    Le tecniche più usate a questo scopo vanno dal più generico esame dei pensieri, consistente in una guardia costante ad ogni movimento e ad ogni minima forma prodotta dalla mente —al fine, secondo le parole di Esichio di Batos, di «vedere subito, mentre si formano, le fantasie dei pensieri nella mente»— al più specifico discernimento della natura dei pensieri. Una formula classica degli Apoftegmi, recita a questo proposito: «Ad ogni pensiero che sorge in te, dì: ‘sei tu dei nostri o vieni dal nemico’? E certamente egli confesserà». Le tecniche più formalizzate, in quest’ambito, sono l’esame di coscienza, diffusa e praticata in ogni tradizione religiosa, e l’exagòreusis o manifestazione dei pensieri ad un padre spirituale . Quest’ultima viene spesso erroneamente identificata con la ‘confessione’ (exomológhesis), ma bisogna considerare che «oggetto dell’apertura del cuore al padre spirituale non sono tanto i peccati, quanto i moti dell’anima (ta kinemata), i pensieri (loghismoi), i fantasmi interiori che affiorano nel cuore e nell’immaginazione. Portati alla luce, oggettivati con l’aiuto di un padre spirituale, essi perdono poco per volta il loro carattere ossessionante, le illusioni vengono smascherate e si apprende, con il tempo la delicata arte del discernimento degli spiriti».

    c) finalità: portare allo scoperto ciò che è nascosto: ovvero l’arte del discernimento.

    Tutte queste metodiche brevemente esposte, e molte altre ancora, si propongono di creare e stabilizzare nel monaco uno stato continuo, incessante, di vigilanza sugli stimoli che influenzano il sistema e sulle reazioni individuali ad essi, una «stabile continuità dell’attenzione» (Esichio di Batos), stato che spesso viene indicato con il termine nepsis, ‘sobrietà’. Il fine quindi cui tendono tutte queste pratiche di sviluppo e ristrutturazione della componente discriminativa dell’attenzione è l’arte del discernimento: discernimento dei pensieri e di ogni moto della mente, la diakrisis noemáton, che per i monaci equivale alla perfetta conoscenza di sé.
    Discriminare per eliminare

    A questo punto, discriminati i pensieri, occorre individuare le tecniche più efficaci che permettono l’eliminazione degli stessi per lasciare spazio alla preghiera e alla preghiera incessante, punto di arrivo del percorso di autosviluppo dell’Esicasmo. Anche qui assistiamo alla definizione di metodiche particolari di allenamento dell’attenzione, ma in una nuova forma, quella che comunemente viene chiamata concentrazione.

    4. L’ATTENZIONE/CONCENTRAZIONE

    a) definizione

    Affermano i Padri che per raggiungere lo stato desiderato della mente senza forma né contenuti, che contraddistingue la ‘vera’ preghiera, cioè lo stato di orazione, la mente necessita tuttavia di un oggetto (una frase, un’idea o un’icona) di meditazione, un oggetto coerente col sistema di valori dell’individuo, cognitivamente ed emotivamente significativo, capace di stimolare la devozione dell’orante, unificare le facoltà mentali, e sul quale far convergere (cioè ‘concentrare’) l’attenzione. Ebbene quella che gli esicasti chiamano preghiera monologica contiene in sé tutte queste caratteristiche.

    b) tecniche: la preghiera monologica (monológhistos proseuché)

    Si tratta della ripetizione, per un tempo ed un numero di volte indefinito, di una frase breve, caratterizzata tipicamente dalla presenza a) del nome divino e b) di un’invocazione. Non è possibile qui neppure sfiorare il tema della ripetizione del Nome divino nella mistica di ogni tempo e luogo.

    In greco la formula fonologica consiste nelle parole: Kyrie Iesoû Christè, Yiè toû Theoû, eleisón me.

    Importanza del contenuto della preghiera

    Ci preme comunque fare una considerazione, forse banale ma sicuramente fondamentale, e cioè che il contenuto di un tale oggetto di meditazione non è per nulla indifferente rispetto agli esiti che ci si propone: vale a dire, su qualsiasi frase è possibile concentrare l’attenzione ed ottenerne quindi un qualche beneficio nei termini di un allenamento dell’attenzione; tuttavia alcuni oggetti mentali hanno un potere trasformativo sul sé e sulla coscienza che altre non hanno affatto, evidentemente in relazione principalmente al contenuto emozionale e quindi motivante delle stesse. Ritengo che, come notava padre Ancilli, la monologia «abbia un potere psicologico assai grande» proprio «in quanto invocazione di un nome e quindi di una presenza».  In altri termini, a mio avviso, la relazione che intercorre tra contenuto dell’invocazione e concentrazione è questa: la preghiera deve diventare evocazione mentale di una presenza significativa e motivante; solo così diviene possibile per l’orante fissarvi l’attenzione assai a lungo o addirittura ‘incessantemente’.

    Il metodo esicastico: tecniche psicofisiologiche

    La tradizione esicasta ha sviluppato una metodologia originale di preghiera centrata su una monologia, la cosiddetta preghiera di Gesù, e corredata di alcune tecniche psicofisiologiche che hanno attratto l’interesse di molti studiosi anche in virtù delle similitudini riscontrate con lo Yoga indiano. Riassumiamo brevemente i momenti essenziali del metodo, così come lo presentano i tre autori ‘classici’ dell’Esicasmo athonita del XIII-XIV sec.: Niceforo l’Esicasta, Gregorio Sinaita e lo pseudo-Simeone il Nuovo Teologo; essi descrivono un processo in più livelli che consistono nel:

    1. assunzione di una certa postura corporea: seduto su uno sgabello «alto una spanna», la testa inclinata ed il mento appoggiato sul petto, lo sguardo concentrato «in mezzo al ventre, ossia sull’ombelico (ómphalos

    2. rallentamento del ritmo della respirazione

    3. esplorazione mentale dell’interno del corpo: «cerca mentalmente dentro le tue viscere, per trovarvi il luogo del cuore, dove risiedono le facoltà dell’anima»

    4. unione della mente con il respiro e forzarla ad entrare con lui nel petto fino al «luogo del cuore». Rappresenta ciò che gli autori russi chiamano «stare con la mente nel cuore».

    c) finalità

    Qual è l’esito di una tale pratica? Secondo la tradizione, è contraddistinto tipicamente da una parte dal superamento del senso di sé La preghiera non è perfetta se l’uomo conserva coscienza di sé e si accorge di pregare» scrive G. Cassiano); dall’altra dall’assorbimento totale nell’oggetto di meditazione, tale che scompare il senso della distinzione soggetto contemplante/oggetto contemplato; come efficacemente si esprime Teofane il Recluso: Nello stato di contemplazione la mente e l’intera visione sono prigioniere di un oggetto spirituale così irresistibile che tutte le cose esteriori sono dimenticate e completamente assenti dalla coscienza. La mente e la coscienza sono a tal punto immerse nell’oggetto contemplato che è come se non le possedessimo più.

    linguaggio apofatico

    Termine di questa pratica, dunque, è l’abbandono della molteplicità ed il rifugio nell’unità transpersonale e trans-egoica mediante la concentrazione. La mente, «diviene senza principio, illimitata, sconfinata, senza figura e senza forma, si riveste di impotenza di parola, esercita il silenzio pieno di stupore, si riempie di diletto e subisce cose ineffabili». Qui si vuole rappresentare lo stato di unione apofatica che promana da una perfetta concentrazione dell’attenzione; è lo stato di hesychía, di quiete e di silenzio mentali, il vuoto (kénos) mistico, in cui alla più totale assenza di percezioni esterne e di rappresentazioni interne, fa da immancabile controparte la completa apertura della coscienza a ciò che la trascende.

    problemi

    In che misura un simile stato di coscienza (o di supercoscienza) può venire mantenuto? Quanto è stabile e quanto può durare questa condizione della mente? È questa la risposta definitiva al precetto di pregare incessantemente? Sembrerebbe non esserci alternativa: o l’assorbimento contemplativo, massimamente concentrato, in stato di esychía, oppure la distrazione nell’effimero.
    Ma c’è una terza via, in cui l’individuo mantiene il legame con la dimensione ‘altra’ che ha stretto durante la preghiera e la contemplazione; è un legame che orienta, che getta un solido ponte fra l’umano ed il numinoso, fra il finito e l’infinito. E, di nuovo, questa terza dimensione corrisponde ad un diverso livello di attenzione e ad una diversa modalità di esercitarla per fini autotrasformativi.

     

    1. L’ATTENZIONE/ORIENTAMENTO

    a) definizione

    Circa un secolo fa William James notava un fatto che è stato trascurato da molti e per molto tempo, cioè che l’attività umana non è tutta guidata puntualmente dalla coscienza attentiva, ma anche dalla stimolazione ambientale. È ciò che succede quando, ad esempio, guidando la nostra automobile, ci capita di essere totalmente assorti in un pensiero, in un ricordo o in una fantasia. L’esperienza comune ci insegna che se la strada che stiamo percorrendo ci è familiare, il percorso noto, riusciamo a raggiungere la nostra meta. Come può accadere che un compito così complesso come quello di guidare —che comporta una notevole quantità di azioni, ognuna delle quali richiederebbe di per sé un alto livello attenzione— possa venire eseguito senza prestargli alcuna —oppure un minimo— di attenzione? Certamente, un ruolo importante viene svolto dall’automatizzazione dei movimenti e delle procedure che intervengono nella guida del veicolo, ma rimane il problema del seguire una direzione, una rotta, avendo la mente completamente assorta altrove. È proprio qui che rileviamo l’importanza dell’intuizione di James: l’individuo è in grado di utilizzare la stimolazione ambientale (strade, semafori, curve, palazzi, ecc.) come una sorta di attenzione ausiliare, che gli permette di orientarsi in un territorio (conosciuto) e di raggiungere una meta pur non fruendo dell’attenzione cosciente, quest’ultima temporaneamente impegnata in un compito interno.Se, come abbiamo visto, questa attenzione ausiliare fornita dall’ambiente permette evidentemente un’economizzazione ed al tempo stesso un’ottimizzazione delle risorse attentive, perché allora non potenziarla mediante un’apposita tecnologia? Per i monaci, peraltro, ciò significherebbe uscire dall’impasse costituito dal problema, cui accennavo prima, del ritorno dello spirituale alla vita di ogni giorno, con le sue occupazioni, gli incontri, le molteplici relazioni. Come giustamente nota il padre Špidlík, gli esicasti, per la loro vocazione specifica, non intendevano ritornare nella vita comune. Eppure la PREGHIERA DI GESÙ di per sé rende possibile questo ritorno nel mondo. Non è un puro caso che il suo propagatore divenne un «pellegrino russo». La vita di questi stranniki significa da una parte un distacco continuo da tutti e da tutto; d’altra parte, però, essa comporta continue novità e contatti del tutto inaspettati. Ma tutte le impressioni nuove vengono avvertite e accettate con una disposizione interiore fissa, prodotta dalla giaculatoria che si ripete sempre e che accompagna ogni incontro.

    b) strumenti: preghiera di Gesù

    Vediamo dunque che la pratica tradizionale della PREGHIERA DI GESÙ rende quest’ultima particolarmente atta ad interagire con le attività della vita quotidiana. La tecnica da utilizzare, in questo contesto, non sarà più quella, descritta in precedenza, associata alle tecniche psicofisiologiche. Là, infatti, si prescriveva l’isolamento e la concentrazione assoluti. Qui, invece, il metodo sarà di tipo associativo, come suggerisce l’Abate Filemone (IV sec.): Abbi dunque questo sempre nel tuo cuore: sia che mangi, sia che beva, sia che ti trovi in compagnia di qualcuno, sia fuori di cella, sia per strada, non ti scordare di fare questa preghiera con mente sobria e intelletto stabile […] per adempiere il detto apostolico che prescrive: pregate incessantemente (1Ts 5,17). Fa’ attenzione, dunque, con cura e custodisci il tuo cuore, che non accolga pensieri cattivi o, in qualche modo, vani e inutili; ma sempre, quando dormi e quando ti alzi, quando mangi e quando bevi o sei in compagnia, in segreto, mentalmente, il tuo cuore ora mediti i salmi ora preghi: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me.

    La tradizione successiva preciserà che quello che bisogna fare, piuttosto che evitare gli stimoli esterni come distrazioni, è, al contrario, utilizzarli come segnali da associare alla ripetizione della giaculatoria.

    Il ricordo di Dio

    Preghiera incessante non significa solo ‘giaculatoria incessante’. Scrive Evagrio Pontico: «Le ore della tua giornata saranno: l’ora della lettura, l’ora dell’ufficio, l’ora della preghiera; e per tutta la vita, il ricordo di Dio». Il tema del ricordo di Dio (mnéme Theoú) è, forse, il più ricorrente fra gli autori di cui ci occupiamo; tutti ne scrivono, da Gregorio di Nazianzo a Simeone il Nuovo Teologo, dallo pseudo-Macario a Gregorio Sinaita. Ma la teoria più originale riguardo alla memoria Dei la troviamo nell’opera di Basilio Magno: Che voi mangiate, beviate, qualunque cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio. Sei seduto a tavola? Prega. Portando il pane alla bocca, rendi grazie a Colui che te l’ha donato. Se prendi del vino per rinvigorire il tuo corpo indebolito, ricordati di Colui che ti ha fatto questo dono […]. La fame è passata? Che il ricordo del Benefattore non passi. Quando ti metti il vestito ricordati di Colui che te l’ha dato. Quando ti avvolgi nel mantello, accresci il tuo amore per Dio che ti ha provvisto di abiti adeguati per l’inverno come per l’estate […]. La giornata volge al termine? Ricordati di Colui che ci ha dato il sole per compiere il nostro lavoro diurno e che ha messo a nostra disposizione il fuoco per illuminarci la notte e aiutarci nelle altre necessità della vita. […] Quando levi lo sguardo verso la bellezza del cielo stellato, prega il Signore delle cose visibili, adora l’artista che nella sua saggezza ha creato l’universo. Quando vedi tutta la natura animale immersa nel sonno, adora di nuovo chi, per mezzo del sonno, ci libera […] dalla catena delle fatiche, e con un po’ di riposo ricostituisce il vigore delle nostre forze. […] Così, prega senza posa; non si tratta di compiere la preghiera con parole incessanti, ma di unirti a Dio con tutto l’atteggiamento della tua vita, e tutta la tua vita sarà una preghiera continua .

    Qui Basilio sembrerebbe raccomandare un compito ancora più oneroso rispetto alla concentrazione sulla monologia; un compito che richiede un doppio sforzo di attenzione —a ciò che si sta compiendo e a Dio— una sovrapposizione permanente di discernimento e concentrazione. «Quale sistema nervoso umano può sostenere a lungo questa tensione perpetua?» si domanda I. Hausherr, dal momento che Basilio non ammette alcuna restrizione o alleggerimento. Tuttavia, in realtà «il ricordo di Dio consiste in ben altro che in un pensiero giustapposto alla nostra azione. È qualcosa che penetra, influenza, dirige e determina l’attività stessa».
    Per gli esicasti, come per tutti i mistici di ogni tempo e luogo, «Dio è presente in tutto ciò che esiste come causa della sua esistenza. Ogni realtà è quindi teofania», ogni realtà è in grado di suscitare il senso vivo e concreto della presenza di Dio, espressione, quest’ultima, che, pur non rientrando nel vocabolario proprio dell’Esicasmo, è assai vicina alla concezione basiliana della memoria Dei: La PRESENZA DI DIO costituisce l’essenza di ogni vera preghiera: è la preghiera stessa diffusa e virtualmente operante in tutta la vita. Ai momenti di pura preghiera, di ritiro, di silenzio e di arresto totale di ogni attività terrena segue, nella vita di un cristiano impegnato, la permanenza dello stato di preghiera durante tutte le sue rimanenti attività umane. La PRESENZA DI DIO è un’applicazione della mente per prendere coscienza della realtà di Dio e dei suoi misteri, affinché questi penetrino e informino di sé la vita, orientandola e sospingendola verso l’intimità divina.

    c) finalità

    orientamento

    Ci troviamo, evidentemente, in territori assai prossimi a ciò che abbiamo chiamato orientamento, uno stato dell’attenzione che non si riversa esclusivamente sulla molteplicità dei fenomeni né sul singolo oggetto di meditazione, ma opera un reale collegamento tra queste due dimensioni solo apparentemente irriducibili l’una all’altra. Ciò avviene tramite l’utilizzo —a scopo autotrasformativo e di evoluzione spirituale— dell’ambiente di vita del mistico come supporto dell’attenzione.


    preghiera incessante

    Proprio grazie a questa funzione vicaria o ausiliaria dell’ambiente—che opera come una sorta di ‘rammemoramento costante’ (cfr. sanscrito smrti)— nei confronti dell’attenzione, si realizza finalmente quel proposito che è all’origine non solo dell’Esicasmo, ma della scelta monastica in quanto tale: la preghiera incessante.

    1. CONCLUSIONI

    Siamo partiti con l’intento di fare luce sulla tecnologia autorealizzativa dell’Esicasmo cristiano, e di inquadrarne le singole tecniche all’interno di una teoria ‘trimodale’ dell’attenzione: discernimento, concentrazione e orientamento. L’ordine nel quale abbiamo focalizzato i tre temi non è casuale, ma risponde alle tappe psicologiche dell’itinerario spirituale; vediamole in breve:

    1. si inizia con un processo di purificazione e di perfezionamento mentale, che non può non passare attraverso la conoscenza di sé mediante un lavoro di discernimento sui fenomeni esterni e sul riverbero che essi provocano nel dominio della coscienza (fantasie, pensieri, ricordi, ecc.), fino alle motivazioni più profonde e nascoste; tutto ciò al fine di sperimentare uno stato di sereno dominio della volontà sulla sfera del mentale, che consente

    2. il passaggio al momento ‘positivo’ della pratica spirituale, il cui alla concentrazione sulla preghiera di Gesù ed alla sua articolazione con gli altri elementi del ‘metodo psicofisiologico’ esicastico (postura, respiro, esplorazione interiore), fa da sfondo la ferma determinazione all’estinzione dalla coscienza di qualsiasi pensiero (apóthesis noemáton), sia esso positivo o negativo o semplicemente inutile. Stato intermedio, la «discesa della mente nel cuore» o, come dice Teofane il Recluso, «restare nel cuore con attenzione». Termine di questa seconda fase, l’unione mistica, la ‘deificazione’ (théosis), la theologhía evagriana, l’extasis o excessus mentis di Cassiano, la ‘visione della luce taborica’ di Simeone il Nuovo Teologo; stiamo parlando del grado più alto della contemplazione (theoría), che, come abbiamo visto, per i Padri esicasti è eminentemente apofatica, sostanziata di ‘vuoto’ (kénos).

    3. Infine vi è un terzo momento, quello del ‘ritorno’ alla quotidianità, un ritorno che, però, non può non conservare tracce dell’esperienza estatica; avremo allora —in virtù di un quanto mai prezioso utilizzo dell’ambiente e degli stimoli della vita ordinaria in veste di attenzione ausiliariauna condotta trasformata, ri-orientata in un’ottica concretamente e pienamente religiosa, in cui non vengono mai meno il tenace ricordo di Dio e il sentimento vivo della Sua reale presenza, ed in cui, tramite la contemplazione, con occhi del tutto nuovi, della molteplicità dei fenomeni, si attua quel collegamento solido e costante con il Divino, quella preghiera incessante, che da sempre costituisce lo spirito della scelta monastica ma che, in questa forma, non è idiosincratico rispetto alla vita ‘secolare’; tranne doverla interiormente esperire come la vita di un ‘pellegrino’, cioè di uno che, pur fiorendo e radicandosi nel mondo, ne rimane tuttavia intimamente e profondamente estraneo.

     

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    POLI F., Yoga e Esicasmo, Bologna, EMI, 1981.

    ŠPIDLÍK T., La spiritualità dell’Oriente cristiano. Manuale sistematico,

    Roma, Orientalia Christiana, 1985.

    La spiritualité de l’Orient chrétien II: la prière, Roma, Orientalia

    Christiana, 1988 (OCA 230).

    La preghiera esicastica, in E. ANCILLI (a cura di), La preghiera, vol.

    I, pp. 261-275.

    VENTURINI R., Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1993.

     

  • 19 Dic

    Il servizio dell’evangelizzazione di Gesù :
    Luca 24,36-49

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Appare evidente che Gesù nel Cenacolo si comporta esattamente come si è comportato con i due di Emmaus. E’ la pedagogia del Kerigma: offrire a chi è disposto ad ascoltare e a condividere un servizio della Parola che, alla luce della morte e della resurrezione di Gesù, permetta di rileggere tutta la storia della salvezza. Per poter offrire agli uomini questo servizio dell’evangelizzazione, Dio ha lavorato molto nella storia dell’umanità. E Gesù ha faticato molto allo stesso scopo.

    Ci spieghiamo.

    Distinguiamo l’esistenza di Gesù in tre fasi: la fase prepasquale, la fase pasquale e quella post-pasquale. Nel corso di tutte queste fasi Gesù ha sempre evangelizzato, ma non nello stesso modo. Vediamo perché.

    Il servizio di evangelizzazione del Gesù prepasquale non è molto diverso da quello dei profeti, non per nulla l’evangelizzazione di Giovanni Battista si salda con quella di Gesù e il messaggio iniziale è identico: “Il Regno di Dio è vicino. Convertitevi!”. E’ una buona notizia. La piccola comunità dei discepoli di Gesù è tutta protesa all’evangelizzazione del Gesù prepasquale. E quando questi cerca di prepararla agli avvenimenti della passione si trova sempre dinanzi all’incomprensione.

    Ma quando Gesù entra nella sua passione evangelizza? Certo, ma non più con le parole ma con i fatti. Il Gesù pasquale parla pochissimo, la sua evangelizzazione consiste nella materialità del suo consegnarsi nelle mani degli uomini. Questa consegna, semplice e totale, è in sé e per sé la Buona Notizia. Il servizio decisivo di Gesù non sta anzitutto nei grandi discorsi ch’egli ha fatto durante la sua predicazione, ma essenzialmente nella sua consegna pasquale. Sono i fatti che evangelizzano più che le parole. Allora a che servono le parole? Le parole servono prima e dopo i fatti a rendere intelligibili questi ultimi, ossia a decifrare, decodificare i fatti che l’uomo non è altrimenti capace di interpretare. Le parole del Gesù prepasquale servono a interpretare la Buona Notizia pasquale. E così le parole del Gesù post-pasquale.

    Con la sua resurrezione Gesù entra nella fase post-pasquale del suo ministero di evangelizzazione. Esso consiste nello spiegare a coloro che non hanno assistito alla sua passione e morte il significato dell’una e dell’altra. Perciò il servizio di evangelizzazione del Gesù post-pasquale costituisce il primo “primo annuncio” della storia dell’umanità. In quell’annuncio c’è tutto lui, c’è tutta la sua storia di uomo, la storia della sua relazione con Dio, il suo travaglio, il suo cammino nella speranza, il suo dolore e sofferenza, la sua consolazione e il suo riposo nell’esperienza della fedeltà di Dio.

    Il servizio che il Gesù post-pasquale rende ai suoi è di una qualità, di uno spessore culturale inimmaginabile. Esso è la chiave di comprensione del mistero di Dio e del mistero dell’uomo; è la chiave di interpretazione del mistero della creazione e della redenzione, del principio e della fine, di ciò che era prima della creazione del mondo e di ciò che sarà dopo la fine del mondo, l’eternità; è la chiave di lettura dell’escatologia, è la chiave di accesso al mistero della Trinità.

    La gloria del Signore della Buona Notizia che si manifesta al piccolo e spaurito gruppo dei discepoli nel Cenacolo non consiste nello splendore della sua onnipotenza, ma nelle piaghe di Gesù crocifisso. Questo è l’identikit del Signore della Buona Notizia. La storia dell’umanità, la vicenda della creazione e della caduta, l’avvio con Abramo della storia della salvezza, la storia di Israele, l’incarnazione, il ministero prepasquale e quello pasquale… Tutto è stato, è e sarà in funzione di questo momento. Da rivolgere a chi? A quattro gatti spauriti! Perché proprio a loro? Perché solo a loro? Perché non una manifestazione a tutto il popolo?

    La risposta è chiara: perché il “Primo Annuncio” suppone il confronto con la morte di Gesù, si radica in questo confronto. Suppone ancora che su questa morte ci si interroghi. Ora, i testimoni della morte di Gesù più diretti sono proprio i discepoli. Se Gesù si presentasse al mondo tutta la credibilità della buona notizia sarebbe legata ad un uomo che è resuscitato dai morti, ma nulla più!

    La serietà della buona notizia richiede che un prodotto così raffinato, culturalmente sofisticato come è il kerygma si rivolga proprio a coloro che si confrontano con la morte e la resurrezione di Gesù. Questa indicazione costituisce un criterio metodologico di estrema importanza per noi e per i nostri tentativi di evangelizzazione.

    La contemplazione delle apparizioni di Gesù risorto ci dice che i discepoli non lo accolgono a braccia aperte. Precisiamo che gli evangelisti non ci aiutano a comprendere questo nello stesso modo.

    Mt 28,16-17 (“Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”); Mc 16,8 (“fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di paura”; 16,9-14 (“ Ma essi udito che era vivo ed era stato visto da lei, non vollero credere… neanche a loro vollero credere… li rimproverò per la loro incredulità”). Giovanni fa eccezione: Gv 20.19-20 (“gioirono nel vedere il Signore”), ma vi l’episodio di Tommaso: Gv 20,27 (“non essere incredulo”), e poi perché quel silenzio in cui non risuona nulla nell’episodio della colazione in riva al lago (Gv 21,9-12)? E’ normale questo comportamento?. In Luca 24,38 Gesù dice: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”

    Capiamo che i discepoli dinanzi a Gesù risorto provano dentro di loro risonanze ambivalenti. La presenza di Gesù rinnova lo scandalo della croce e scatena nelle loro coscienze lo scandalo della resurrezione.

    Se il primo scandalo mette in discussione l’identità di Gesù come messia, il secondo scandalo, quello della resurrezione, mette in discussione la stessa identità di Dio scompaginando tutta la struttura di fede prepasquale dei discepoli. E’ per loro un trauma tremendo che mette in discussione tutta la loro fede nell’immagine di Dio fino a quel momento coltivata. Ecco le resistenze da dove nascono. Queste resistenze sono l’ultima disperata battaglia che il Separatore ingaggia contro l’evidenza della Buona Notizia. Si fa forte addirittura della fede prepasquale dei discepoli per opporre resistenza alla Buona Notizia.

    Dinanzi a queste resistenze Gesù avrà sofferto molto. E’ per lui ancora una pasqua di passione: non si sente accolto dai suoi (cfr Gv 1). Ma Gesù non si arrende e continua ad offrire ai suoi il servizio della Parola. Questa riflessione ci consente di capire che la disponibilità dell’amore di Dio alla Passione non si è esaurita con l’esperienza pasquale di Gesù, ma è una disponibilità eterna. Una “passione” che continua nel cuore di Dio dal suo essere e farsi Amore-dono. Quindi una passione che non è solo pasquale, ma anche prepasquale e postpasquale.

    Gesù consegna questo grande tesoro ai discepoli nel cenacolo. Affinché essi digeriscano, assimilino la ricchezza del primo annuncio, Gesù li affida all’azione dello Spirito. E’ un segno di “impotenza” da parte di Gesù. Egli sa che le sue parole e la sua presenza non basteranno, se il cuore dei discepoli non viene scalfito e penetrato dalla Buona Notizia. Ma questa è un’azione che solo lo Spirito può compiere (cfr Gv 14,26).

    Piste di riflessione

    ∑    Il nucleo della buona notizia è la consegna di se stesso che Gesù fa al Padre e agli uomini. Le parole di Gesù prima e dopo gli avvenimenti della passione e morte servono a spiegare, aprire l’intelligenza a questo mistero. Possiamo affermare che la nostra vita e la nostra predicazione ruoti effettivamente intorno a questo nucleo, oppure esso rappresenta uno dei tanti elementi?

    ∑    Ritieni importante il cammino che la provincia sta compiendo per incamminarci verso una consapevolezza sempre più profonda del nostro essere radicati nel “Primo Annuncio”? Cosa suggeriresti concretamente? (cfr Regole e Costituzioni, n. 5)

    ∑    Avvicinarsi ad un Capitolo significa rivivere tutte le dinamiche sinora affrontate. La Chiesa del nostro tempo, per ritrovare la sua identità, ha un bisogno disperato di riscoprire il primo annuncio, per ruminarlo, condividerlo intensamente nei vari cenacoli del nostro tempo. La Chiesa ha affidato il tesoro dell’annuncio del “primo annuncio” proprio alla nostra Congregazione. Questo percorso a ritroso circa il cammino della comunità cristiana primitiva ci porta a riscoprire le origini della nostra stessa identità passionista. E’ tempo di domandarci: la comunità passionista cosa può far di più e meglio, oggi, al servizio del Signore e della Chiesa, per coltivare il tesoro della memoria e del memoriale della Passione?

    ∑    Spesso siamo presi dall’ansia e ci preoccupiamo di convincere, di persuadere a forza di discorsi e di ragionamenti, di iniziative più o meno eclatanti. Non diamo forse sufficiente peso al fatto che  solo la potenza dello Spirito può “convincere” il cuore dell’uomo dell’autenticità della Buona Notizia che annunciamo. E’ Gesù stesso che consegna i suoi all’azione dello Spirito santo, sapendo che essa richiederà tempo, un lungo processo…. E solo dopo questo processo, fatto essenzialmente di “fractio verbi” gli apostoli arriveranno ad un docilità tale da vivere la loro Pentecoste. Solo allora il primo annuncio decolla nel mondo. Tutto questo trova riscontro nella nostra esperienza spirituale ed apostolica?

  • 18 Dic

    Gesù evangelizza i due discepoli di Emmaus:
    Luca 24,13-35

     

    a cura di p. attilio franco fabris

    Troviamo una conferma di quanto sinora detto anche nel famoso brano dei discepoli di Emmaus. Con il racconto dei due di Emmaus inizia la narrazione del ministero di evangelizzazione da parte del Gesù postpasquale. Ci basti dire che i due sanno tutto della morte di Gesù, (e non solo! Sono in possesso di tutti gli elementi: sepolcro vuoto, testimonianza delle donne…), ma essa non costituisce assolutamente per loro una buona notizia, anzi! Il loro abbandono della comunità ci dice che la comunità prepasquale dei discepoli di Gesù non ha futuro, il suo destino è la disgregazione.

    La sfiducia dei due discepoli è massima, tale da respingere ogni proposta di buona notizia. Loro al sepolcro non ci hanno preso neppure la briga di andarci: non ne valeva la pena. E’ proprio a questa coscienza comunitaria prepasquale in agonia, abortita, che si rivolge la Buona Notizia.

    Gesù si accompagna a loro, ma i “loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”, velati dalla loro disperazione. Il viandante discretamente interroga e riceve la risposta delusa di Cleopa che svuota il sacco. Cosa fa il viandante? Ascolta e condivide, condivide e ascolta…. E a un certo punto comincia a dire la sua. Non è questo il circuito della “datio”, della “redditito”, della “fractio verbi”?

    Il viandante offre una chiave di letture degli avvenimenti di tipo biblico: “non bisognava….”. ripercorre in breve tutta la tradizione biblica: da Mosè ai profeti. Facendo questo il viandante fa il “primo annuncio”: è la Buona Notizia. Vorremmo sapere di più circa lo svolgimento di questo dialogo. Luca non lo riporta, lo accenna soltanto. Perché, se questo è il punto decisivo? Perché per la comunità cristiana Luca non sentiva il bisogno di descriverlo talmente era noto e assimilato.  L’essenziale era conosciuto e fatto proprio da tutti.

    Dopo la prima evangelizzazione lungo il cammino il viandante e i due discepoli arrivano all’albergo. “Resta con noi” è la risonanza di Cleopa e del suo compagno. Cosa vuol dire questa risonanza? Vuol dire che la “datio verbi” da parte di Gesù è divenuta “redditio verbi”, poi “fractio verbi” e infine “fractio vitae”. Attraverso il servizio della Parola offerto da Gesù si è innescata tra lui e i due discepoli di Emmaus una relazione così importante, che essi dal viandante-Gesù non vogliono separarsi. Non è questa la riprova che l’ascolto e la condivisione della Parola aggregano, cementano relazioni nuove?

    Gesù si consegna volentieri ai due di Emmaus. Non impone la sua presenza, ma si consegna volentieri. La “fractio vitae” è la condivisione dell’essere. La risonanza “resta con noi” è un invito alla condivisione ed una richiesta di condivisione. Gesù, con la sua iniziativa, condividendo se stesso con Cleopa e il suo compagno, ha risposto a questo bisogno ancor prima che essi ne prendessero coscienza. L’amore dono, sempre pronto ad amare per primo, risveglia nell’uomo il suo bisogno di essere amato e suscita una domanda di amore.

    La condivisione dell’essere fra i tre di Emmaus si completa con la condivisione dell’avere. I tre siedono insieme a mensa. Arriva il momento della “fractio panis”. Perché i due discepoli di Emmaus riconoscono Gesù proprio in quel momento. Forse perché nessuno al mondo spezzava il pane come lo spezzava Gesù, ossia con una convinzione, una partecipazione, una immedesimazione tali, da conferire a quel gesto un’eloquenza imitabile? O forse perché mentre alzava le mani al cielo per la benedizione del pane i discepoli videro ai polsi le piaghe del Crocifisso? Allora l’incontro con quelle piaghe determina la saldatura fra tutto ciò che il viandante ha detto e la morte dell’amico Gesù: quella morte acquista tutta la sua vitalità, la vitalità stessa della Buona Notizia. Ogni uomo per incontrare la Buona Notizia ha bisogno di incontrare le piaghe del Signore?

    Il viandante scompare. Perché?

    Una lettura in profondità ci fa intravedere che lo scomparire di Gesù, il suo interrompere l’esperienza di condivisione con i due discepoli, è un ulteriore dono. Egli infatti vuole offrire loro l’opportunità di ritrovare la sua presenza in seno alla comunità di Gerusalemme (cfr Mt 18,20). Proprio in quella comunità che essi hanno abbandonato in agonia nel Cenacolo. Lo scomparire di Gesù è un segno ed una promessa. Infatti i due, nonostante il buio e la stanchezza, tornano di corsa a Gerusalemme, e la risonanza che li mette in moto è: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?”. In termini teologici: ecco il frutto della condivisione della Parola, la dilatazione del cuore. Il valore sacramentale e salvifico della parola illumina l’intelligenza, pacifica e purifica il cuore, infiamma gli affetti, muove la volontà, apre alla speranza.

    Quando i due tornano al cenacolo trovano una comunità in effervescenza. Non fanno tempo ad aprire bocca che i loro compagni vanno loro incontro dicendo: “Gesù è risorto! L’ha visto Simone”. I versetti successivi raccontano, come già abbiamo visto, della nuova apparizione di Gesù nel cenacolo.

    Piste di riflessione∑    Assomigliamo sotto tanti aspetti i due di Emmaus. Stanchezza, delusione, abbandono di iniziative, dispersione …affliggono le singole persone e le comunità: Portiamo mille giustificazioni. Riscontri questi aspetti forse in te stesso o nella tua comunità, o in certi settori della vita di provincia. Quali le tue considerazioni? Quali le tue proposte?

    ∑    Gesù si fa compagno di viaggio, viandante con i viandanti, ascolta e condivide, dice la sua. Nelle nostre comunità ci rendiamo disponibili ad essere compagni di viaggio con i fratelli, durante il quale ci si ascolti e si condivida il proprio vissuto di fede? Se la condividi come pensi di fare per rendere concreta questa prospettiva?

    ∑    Dalla “fractio verbi” il viandante e i due discepoli passano alla “fractio vitae” e alla “fractio panis”: una suppone l’altra. E tutte e tre costruiscono le autentiche coordinate ecclesiali. Secondo te su quale delle tre risultiamo carenti? Su quale dovremmo insistere in vista di un rinnovamento delle nostre comunità? Cosa proporre?

    ∑    La delusione rischia di allontanarci gli uni dagli altri. Fuggiamo dal Cenacolo in cerca d’altro. E’ solo la presenza del Crocifisso Risorto che può divenire punto di aggregazione e di convergenza. Nella nostra esperienza la comunità è il luogo nel quale ci annunciamo la presenza del risorto o luogo dal quale ci “allontaniamo”?

     

     

  • 16 Dic

    Gesù evangelista del regno e il compito dello Spirito:
    Atti 1,3-5

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Ci domandiamo: nel corso del periodo di “incubazione del kerygma” i discepoli avranno proceduto tutti con lo stesso passo? Crediamo di no: ciascuno avrà avuto il suo passo più o meno veloce. Ma Luca ci suggerisce che la sapienza di Dio ha voluto che essi arrivassero insieme alla meta. Allorché, attraverso la “fractio verbi” del primo annuncio offerto da Gesù, l’intelligenza e l’accoglienza della Buona Notizia è maturata nella coscienza di tutti, il dono del Signore attiva per tutti nello stesso giorno e nello stesso momento.

    A questo punto notiamo che il Gesù postpasquale affida completamente l’efficacia e l’esito del suo servizio nel Cenacolo all’azione dello Spirito santo. Il Gesù prepasquale, esperto e fedele servitore della Parola, aveva da tempo imparato che il ruolo e la funzione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo sono insostituibili. A Gesù compete la semina della Parola attraverso le sue parole e la sua testimonianza. Ma tocca allo Spirito far sì che tutto questo possa essere accolto e “metabolizzato” nella mente e nel cuore dell’uomo.

    Svolto il suo compito Gesù si ritira per lasciare spazio all’azione dello Spirito. Splendida testimonianza di come egli vive la sua creaturalità di strumento di Dio nella storia della salvezza.

    Soffermiamoci a contemplare la docilità dell’evangelista Gesù: egli attualizza, incarna alla perfezione le disposizioni al servizio della Buona Notizia. Potrebbe far sue le parole di Paolo: “Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione, e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1Cor 2,3-4).

    Notiamo ancora che nella sua docilità allo Spirito Gesù si guarda bene dall’esercitare sui suoi pressioni di carattere culturale o affettivo. Li richiama all’ascolto, ma non prende il martello pneumatico per perforare le loro coscienze e introdurre in esse con forza la Buona Notizia.  Il seme è gettato! Sarà la collaborazione tra lo Spirito santo e i suoi amici a far germogliare e maturare quel seme.

    Le considerazioni svolte sin qui ci chiariscono perché per Gesù la consegna ai discepoli di rimanere in città sia così importante. Nella fedeltà a questa consegna si gioca il futuro della buona notizia, della comunità, della storia della salvezza. L’epicentro di tutto è la “memoria-memoriale passionis” proposto da Gesù: è da qui che tutto procede.

    Piste di riflessione

    ∑    siamo convinti che coltivare la “memoria” e il “memoriale passionis” sia la cosa più importante? In teoria certamente sì. Ma nella pratica come questo si concretizza? Non abbiamo tempo da perdere nel cenacolo, ci sono tante cose da fare per dedicarci veramente alla “memoria-memoriale passionis”. Per curare gli interessi del Regno finiamo col disobbedire alla consegna di Gesù ai suoi. Non è forse questo il motivo di base della nostra evangelizzazione così stanca e disorientata?

    ∑    L’atteggiamento di Gesù nella sua opera di evangelizzazione pre e postpasquale trova riscontro nel nostro stile apostolico? La nostra proposta di predicazione con quale atteggiamento viene offerta?

  • 15 Dic

    L’ “incubazione” del Kerygma:
    Luca 24,36-43

     

    a cura di p. attilio franco fabris

     

    Il processo di assimilazione della Buona Notizia si presenta senta a Gesù così problematico da dover egli prevedere per la sua piccola comunità un itinerario di ascolto molto laborioso. Il racconto dell’apparizione di Gesù nel cenacolo in Luca 24,36-43 sottolinea la difficoltà dei discepoli ad accogliere la presenza di Gesù risorto. Egli appare loro come un “fantasma”, ovvero una realtà irreale che non ha nulla da condividere con la nostra esperienza umana. Da dove proviene questa chiusura? Questa difficoltà? Tale difficoltà è dovuta al sovrapporsi, nella coscienza dei discepoli, allo scandalo della crocifissione, dello scandalo della risurrezione. Gesù si rende conto che la sua passione non è ancora terminata: la durezza del cuore dei discepoli, non ancora arresi alla buona notizia, gli chiede di morire ancora una volta per loro. Questo vuol dire che l’incontro fra il Gesù postpasquale e i suoi amici non è ancora una festa, ma una battaglia. A questa passione nuova Gesù si dispone con gratuità e generosità a lui consuete.

    Questo vuol dire che la “memoria passionis” che Gesù, nel Cenacolo propone ai suoi, è nel momento stesso in cui egli la propone un “memoriale passionis”: in altre parole, nel momento in cui Gesù in persona fa della “memoria passionis”, spiega cioè ai suoi il significato della sua morte e questa morte ricorda e ripresenta loro (le piaghe rimangono nel corpo di Cristo!), in quello stesso momento egli è disposto a nuovamente “morire” per loro. Questo “memoriale passionis” è necessario per  introdurre i discepoli nell’intelligenza della Pasqua di Gesù e delle Scritture. Nessuno, al di fuori di Gesù, può offrire ai discepoli il servizio di questa “memoria passionis”. Ma per offrire         questo servizio che si scontra con la durezza di cuore e l’incredulità è necessario che Gesù sia disposto nuovamente a morire .

    Ed ecco: nel Cenacolo, proprio lì, non può esserci “memoria passionis” senza “memoriale passionis”, senza che si rinnovi nuovamente la morte di Cristo. Chi c’è al mondo, se non Gesù stesso, che possa sostenere l’impegno di questo memoriale?

    Nel Cenacolo questa “memoria” e questo “memoriale” non sono elaborati dalla comunità. Non sono proposti dai testimoni della Passione, non da Giovanni, non da Pietro, neppure da Maria. Questa “memoria e memoriale” sono offerti dalla comunità solo dall’unico che li può offrire: Gesù in persona. Se fosse mancata questa auto-testimonianza la buona notizia non si sarebbe mai messa in moto.

    La comunità degli apostoli riceve da Gesù questo tesoro immenso. Un tesoro così grande che i poveri discepoli barcollano, vacillano.

    Gesù consegna questo tesoro ai suoi ripetutamente. Poi affida la comunità all’accompagnamento di Maria e da le sue due consegne alla comunità (restare in città – attendere l’adempimento del dono di Dio). Nel cenacolo a furia di ruminare la testimonianza autobiografica di Gesù la coscienza della comunità arriverà pian piano a comprendere ed accogliere la portata della Buona Notizia, ed entrerà in sintonia con quella “memoria” e quel “memoriale” che Gesù le ha affidato.

    E’ un processo di assimilazione che permette alle loro coscienze di aprirsi alla comprensione del kerygma. Potremmo definirlo il tempo di “incubazione” del primo annuncio. La coscienza si dispone così ad accogliere il dono della pentecoste: quando il cuore accoglie finalmente la Buona Notizia, allora il dono del Signore irrompe generosamente nella vita, e la comunità postpasquale diviene finalmente cristiana.

    Piste di riflessione

    ∑    Ritieni che il kerigma sia da noi già sufficientemente assimilato e annunciato? Da cosa lo deduci?

    ∑    Avverti l’esigenza di attivare tale “incubazione” del Kerygma nel nostro vissuto comunitario ed apostolico. In quale modo si potrebbe farlo?

    ∑    Perché avvertiamo la fatica di fermarci nelle nostre comunità per metterci insieme in ascolto della Parola del Crocifisso Risorto? Da che cosa dipende? Solo dall’educazione ricevuta, o forse anche da una scarsa volontà di attuare condizioni tali da permetterlo? E perché questa scarsa volontà? Forse manchiamo di fiducia in tal senso?

     

     

  • 14 Dic

    Perché “restare in citta’… a far che ?”:
    Luca 24,44-49

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    Gesù nel corso della sua apparizione nel cenacolo da’ ai suoi la duplice consegna: “restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Parole di grande immediatezza ed autorità. Quasi un testamento!

    Quel “restate in città” così vago ed indeterminato che senso ha? Possibile che sia la cosa più utile da farsi? Possibile che in questa proposta si giochi tutto il vangelo, tutto il senso dell’esistenza prepasquale e pasquale di Gesù e della comunità e l’esistenza postpasquale di entrambi? “Restare” a far che? Per che cosa?

    Ma occorre fare un altro passo indietro.

    Nel v. 48 si dice: “di queste cose voi siete testimoni”. E’ un versetto chiave, che ci fa comprendere due cose: la prima è che l’adempimento della promessa e la relativa consegna di Gesù sono in funzione di una testimonianza, la seconda che il “di queste cose” rinvia ad un discorso precedente, vale a dire che in contenuto della testimonianza ch’egli affida ai discepoli, lo possiamo cercare e trovare solo proseguendo nel nostro percorso all’indietro.

    Nei vv. 46-47 si dice: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme”: ecco in sintesi il contenuto della testimonianza affidata da Gesù ai suoi.

    Questa sintesi rappresenta il kerygma, il cuore stesso della Buona Notizia: Gesù crocifisso, morto e risorto costituisce l’adempimento fedele, da parte di Dio, della sua Promessa.

    Ma cosa ha a che vedere la testimonianza del kerygma con il dover restare in città?

    Ce lo spiega Luca stesso con le parole di Gesù al v. 45: “Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse…”.  Queste parole costituiscono un’altra chiave di lettura, esse attestano sei cose fondamentali: 1) la Pasqua di Gesù è l’adempimento delle Scritture; 2) che i discepoli di tutto questo non hanno capito nulla; 3) che la comunità incagliata nelle secche dello scandalo della croce è ancora ferma allo stadio prepasquale; 4) che Gesù è l’unico che della sua Pasqua abbia capito qualcosa; 5) che Gesù è l’unico a poter introdurre i discepoli nell’intelligenza degli avvenimenti pasquali  e delle scritture; 6) che da questo intervento di Gesù dipende la fecondità e il futuro della buona notizia e della comunità dei discepoli. E’ evidente che nell’offrire ai discepoli il servizio di introdurli nell’intelligenza delle scritture, il Gesù postpasquale riconosce il proprio compito fondamentale ed il senso stesso di tutta la sua missione. L’esistenza ed il ministero di Gesù risorto si incentrano su questo servizio da lui reso ai discepoli. E da questo servizio discenderà un giorno la forza della testimonianza al mondo della Buona Notizia da parte degli stessi discepoli.

    Gesù prevede per i suoi amici un processo di maturazione lungo e laborioso. Al fine di comprendere ciò che è avvenuto, e per poter ricevere dal Padre un dono del tutto particolare per trovare il coraggio necessario a testimoniare in piazza la Buona Notizia.

    Tirando la conclusione di quanto detto possiamo allora comprendere il significato delle due consegne: garantire ai suoi un tempo, un luogo, un ambito (At 1,14) in cui assimilare, si potrebbe dire metabolizzare il contenuto della Buona Notizia e così prepararsi a ricevere il dono dello Spirito. Mettere la comunità nella condizione di coltivare la “memoria passionis! Si tratta di una grande esperienza di ascolto, un ascolto che conduca la comunità, attraverso il ministero del Gesù postpasquale, incagliata nelle risonanze prepasquali, all’intelligenza e all’accoglienza del significato della buona notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    Gesù vuole assicurare un tempo , un luogo, un ambito in cui la comunità possa metabolizzare attraverso l’ascolto il contenuto della buona notizia. Ti sembra che le nostre comunità offrano questo itinerario e questo servizio, anzitutto ai suoi membri e ad altri? Se no perché? Avverti l’urgenza di questa proposta?

    ∑    Il nostro “predicare la parola” nasce dopo un itinerario vitale di ascolto come quello vissuto dagli apostoli nel cenacolo? Non rischia spesso di tradursi in un ripetere semplicemente dei contenuti-informazioni religiosi, senza che ciò che viene annunciato sia stato elaborato a livello personale e comunitario in un vissuto di ascolto?

     

  • 12 Dic

    Una comunità che riceve un mandato

    At 1,1-12

    a cura di p. attilio franco fabris

    La manifestazione della presenza del dono del Signore alla prima comunità cristiana viene descritta secondo le categorie delle teofanie del Sinai. Questo sta ad indicare il parallelismo fra la festa ebraica della pentecoste e la Pentecoste cristiana.

    Come nell’A.T. l’antico Israele riceve sul Sinai le tavole della legge (e la Pentecoste ebraica è la festa che celebra il dono della Legge), così la comunità cristiana riunita nel cenacolo riceve il dono della Legge nuova, il dono dello Spirito, la nuova legge del cristiano.

    Come si ricava dal resto del racconto i frutti della pentecoste sono: anzitutto la “parresia”, poi la libertà di comunicare con tutti, nessuno escluso.

    La comunità degli apostoli è nel Cenacolo, sono tutti insieme nello stesso luogo. Da quanto tempo? Cosa ci stanno a fare?

    Non  è possibile stare alla cronologia certo simbolica degli Atti. Stando a questa cronologia verrebbe da dire: “Sono lì da dieci giorni”. In realtà questa cronologia rispecchia l’intenzione di Luca di far cadere il giorno della Pentecoste cristiana nel giorno della Pentecoste ebraica.

    Ma proseguiamo nel cammino a ritroso.

    Luca racconta che dopo l’ascensione gli apostoli tornano a Gerusalemme, ritirandosi nel Cenacolo. Ecco il retroterra della Pentecoste: il gruppo degli apostoli e delle donne, con Maria, è accampato notte e giorno nel “piano superiore” del Cenacolo. A che scopo?

    Dicono gli Atti “tutti erano assidui e concordi nella preghiera” (v.14). Luca sottolinea la fedeltà di questa comunità all’ascolto della Parola, persevera in essa.

    Ma perché gli apostoli sono fermi nel cenacolo? Perché non fanno altro?

    Questa situazione, socio-religiosa, incomprensibile trova la sua giustificazione nella tradizione della consegna ferma, decisa, che Gesù ha dato prima di lasciarli ai suoi amici. Tale tradizione riveste un’importanza fondamentale.

    Facciamo ancora un passo indietro. Cosa può fare Gesù, dopo la sua resurrezione, se non condividere con i discepoli intensamente gli interessi e le vicende del regno di Dio al quale ha consacrato la vita? E’ Gesù che ordina ai discepoli di non allontanarsi da Gerusalemme e di attendere “l’adempimento della promessa del Padre”. Le consegne sono due: non allontanarsi e attendere. Una è condizione per l’altra. E ambedue assicurano l’adempimento “fra non molti giorni” (Quanti? La promessa si adempirà quando Dio vorrà).

    I discepoli non possono valutare anzitempo la portata del dono. E’ impossibile comprendere senza prima averne fatto esperienza.

    Dunque questa comunità accampata nel cenacolo vive questa consegna non in nome di una propria iniziativa, ma in ubbidienza alla parola di Gesù. Quanto durerà? Nessuno lo sa. Gli Atti non ci offrono una spiegazione. Come mai?

    Occorre risalire ancora più indietro. Alla conclusione del Vangelo di Luca, Gesù dà ai suoi la medesima consegna (Lc 24,49). E’ un dettaglio di una grandissima importanza dal punto di vista teologico. Luca lo pone proprio a cerniera tra vangelo e atti, quasi ad affermare che tale consegna costituisce l’epicentro come della sua opera, di tutta l’esperienza cristiana. Ci ritorneremo.

     

    Piste di riflessione

    ∑    Quale significato attribuisci alle consegne date da Gesù ai suoi: di fermarsi a Gerusalemme e di attendere?

  • 10 Dic

    GLI ELEMENTI FONDAMENTALI DELLA PRATICA ESICASTA

     

    PLACIDE DESEILLE  La spiritualità ortodossa e la Filocalia, ed. BORLA,

    1. 1.    Il  combattimento invisibile

    La tentazione di mancare di temperanza, di irritarsi, o di commettere qualche altra colpa, è spesso provocata da un’occasione esterna, dalla presenza di «oggetti», per usare il vocabolario di Evagrio Pontico. Ma, anche in assenza di sollecitazioni esterne, la tentazione può nascere nell’anima, a partire da ricordi o da fantasie, sotto forma di «pensieri» cattivi, cioè di tentazioni puramente interiori. Evagrio nota che i laici che vivono nel mondo sono tentati soprattutto dagli oggetti, mentre i monaci, nella loro solitudine, lo sono di più dai pensieri. Questa distinzione non è d’altra parte rigida, e chiunque vuole impegnarsi seriamente nella vita spirituale deve fare questo combattimento invisibile, senza il quale l’ascesi corporale e le opere esteriori non sarebbero sufficienti. Si può consumare il corpo col digiuno, le veglie e tutti i tipi di lavoro, o moltiplicare le buone opere, e tuttavia rimanere agitati dai molti pensieri e dalle fantasie, che possono portare all’orgoglio, alla fornicazione, alla perdita della fede in Dio e alla disperazione.

    Contro gli uomini che vivono nel mondo, i demoni lottano soprattutto attraverso gli oggetti, mentre contro i monaci, lo fanno più spesso con i pensieri; la solitudine infatti li priva delle cose. Ma quanto più è facile peccare col pensiero che con le azioni, tanto più è duro il combattimento che avviene nel pensiero rispetto a quello che riguarda le cose. Il nous è infatti una cosa estremamente mobile, e, quanto alle fantasie illecite, difficile da dominare (Evagrio Pontico).

    Questa domanda fu posta all’abate Agatone: “Che cosa e meglio: l’ascesi corporale o la custodia del cuore?”  L’anziano rispose: «L’uomo è simile ad un albero: la fatica del corpo  è il fogliame, e la custodia del cuore il frutto. Poiché, secondo la Scrittura, ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco  (Mt 3 10) è chiaro che tutta la nostra cura deve essere per il frutto cioè per la custodia del cuore, ma è necessaria anche la protezione e l’ornamento delle foglie che sono la fatica del corpo» (Agatone).

    Quando un uomo, dopo aver udito la parola di Dio, intraprende la lotta, rigetta tutte le faccende di questa vita, i legami di questo mondo,   tutti i piaceri carnali, rinnegandoli e liberandosene, e se rimane con  perseveranza davanti al Signore, consacrandogli tutto il proprio tempo, scoprirà che nel cuore vi è un’altra lotta, un’altra battaglia, segreta, e una nuova guerra, contro i pensieri suggeriti dagli spiriti di  malizia, e che lo attende un altro combattimento. Così, se non cede e invoca il Signore con una fede  incrollabile e una grande pazienza, aspettando il suo aiuto, potrà ottenere da lui la liberazione dai  legami, dai lacci, dalle sbarre e dalle tenebre degli spiriti di malizia, cioè dalle operazioni delle   passioni nascoste […].

    Per tutto il tempo in cui un uomo è preso dalle cose visibili di questo mondo, circondato dalle varie catene della terra, trascinato dalle passioni malvagie, non sa nemmeno che vi è un altro combattimento, un’altra lotta, un’altra guerra dentro se stesso. Infatti, soltanto quando un uomo si alza per combattere e liberarsi da ogni legame visibile di questo mondo, dagli affari materiali e dai piaceri carnali, e comincia a stare con perseveranza davanti al Signore svuotandosi di questo mondo, può conoscere il combattimento interiore delle passioni che si agitano in lui, la guerra interiore e i pensieri malvagi. Come si è detto, per tutto il tempo in cui uno non lotta, non rinuncia al mondo, non si distacca con tutto il cuore dalle bramosie terrene e non vuole unirsi totalmente e senza riserve al Signore, costui non conosce né le astuzie segrete degli spiriti di malizia, né le passioni malvagie nascoste in lui. Ma è estraneo a se stesso, non sapendo di portare in sé piaghe e passioni segrete; è ancora prigioniero delle cose visibili e volontariamente schiavo degli affari di questo mondo (San Macario l’Egiziano).

    Ma come identificare questi pensieri cattivi?   Evagrio Pontico ne ha composto un elenco, che è rimasto classico. Sarà ripreso, in Occidente, da san Cassiano di Marsiglia, poi, con qualche modifica, da papa san Gregorio Magno (540-604), che porterà a sette i «peccati capitali».

    I pensieri cattivi possono essere tutti ricondotti a otto principali. Il primo è la golosità, il secondo la lussuria, il terzo l’amore del denaro, il quarto la tristezza, il quinto la collera, il sesto l’accidia, il settimo la vanagloria, l’ottavo l’orgoglio. Che tutti questi pensieri agitino o meno la nostra anima, non dipende da noi; ma che si attardino in noi e mettano in movimento la passione o no, ciò dipende invece da noi.

    Il pensiero della golosità suggerisce al monaco di abbandonare al più presto l’ascesi, prospettandogli dolori allo stomaco, al fegato e alla milza, l’idropisia, una lunga malattia, la mancanza del necessario, l’assenza di medicine. Spesso gli suggerisce il ricordo dei fratelli che furono così provati; e talvolta suggerisce a costoro di andare a trovare quelli che si dedicano alla temperanza, per descrivere loro dettagliatamente le proprie malattie, attribuendole all’ascesi.

    Il demone della lussuria costringe a desiderare dei corpi, attacca con la più grande violenza coloro che si dedicano alla temperanza, per spingerli alla rilassatezza, persuadendoli che si affaticano invano. Assilla  talmente l’anima da inclinarla verso tali azioni, fa si che pronunci parole e ne oda, come se la cosa fosse là sotto i suoi occhi.

    L’amore del denaro suggerisce una lunga vecchiaia, il non poter più lavorare con le proprie mani, la minaccia della fame, le malattie che sopraggiungeranno, l’amarezza della povertà, e com’è disonorevole dover mendicare il necessario.

    La tristezza o nasce dalla privazione di una cosa desiderata, oppure accompagna la collera. Ecco come nasce dalla privazione di una cosa desiderata: sono i pensieri a dare l’inizio col riportare alla memoria del monaco la sua casa, i suoi genitori, la sua vita passata; poi, quando essi vedono che, invece di resistere egli vi presta volentieri attenzione e si abbandona con la mente a questi piaceri, si impadroniscono di lui e lo fanno precipitare nella tristezza all’idea che le cose passate non ci sono più e che il suo genere di vita attuale impedisce il loro ritorno. Perciò, più l’infelice anima si è abbandonata con piacere ai primi pensieri, più è abbattuta dai secondi.

     

    Quanto alla collera, essa è una passione estremamente ardente. E’ infatti un ribollimento e un movimento dell’irascibile contro chi ci ha offeso o è sembrato offenderci. Essa riempie l’anima di una continua acredine e si impossessa dello spirito, soprattutto durante la preghiera, agitando sotto i suoi occhi l’immagine di colui che l’ha contrariata […].

    C’è poi il demone dell’accidia, detto anche demonio meridiano (cfr. SaI 90, 6), ed è il più pesante di tutti i demoni. Egli attacca il monaco verso la quarta ora e assedia la sua anima fino all’ora ottava. Comincia dandogli l’impressione che il sole sia lentissimo nella sua corsa o perfino immobile, e che il giorno abbia cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare sempre dalla finestra, lo getta fuori dalla sua cella per scrutare il sole e vedere se l’ora nona è vicina, infine lo sollecita a guardarsi attorno nell’attesa della visita di un fratello. Gli genera avversione verso il luogo in cui dimora, il suo genere di vita, il lavoro delle sue mani; gli insinua il pensiero che non c’è più carità tra i fratelli e che non può contare su nessuno. Se in quei momenti qualcuno viene a rattristarlo, il demonio ne approfitta per aumentare ancora più questa avversione. Gli fa desiderare altri luoghi, dove gli sarà più facile procurarsi il necessario, dove troverà un mestiere più facile e nel quale riuscirà meglio. A questo aggiunge il pensiero che, per piacere a Dio, poco importa il luogo in cui ci si trova, perché è possibile ovunque adorare la divinità. Gli ricorda ancora i genitori e la vita di un tempo. Gli prospetta la lunghezza della vita e gli mette sotto gli occhi le fatiche dell’ascesi. In una parola, lo scuote da capo a piedi, fino al punto che il monaco, abbandonata la sua cella, fugga fuori dallo stadio. Tuttavia, a questo demone non ne segue alcun altro, per cui, se supera il combattimento, l’anima si ritrova in uno stato di pace e in una gioia ineffabile.

    Il pensiero della vanagloria è estremamente sottile, e nasce facilmente in coloro che praticano l’ascesi: cerca in tutti i modi di rendere note le loro lotte, ricerca la gloria che viene dagli uomini, fa loro immaginare demoni che gridano, donne sanate, folle che cercano di toccare i loro abiti; poi predice loro il sacerdozio, fa apparire alla loro porta persone che bramano di vederli al punto di costringerli, se mai non volessero. Dopo averli così innalzati con speranze piene di vanità, li abbandona a se stessi o alle tentazioni del demone dell’orgoglio o a quello della tristezza, che li assalgono con pensieri contrari alla speranza. Consegna infine al demone della lussuria colui che, proprio un istante prima, era un sacerdote così santo da doverlo perfino legare per poterlo ordinare.

     

    Il demone dell’orgoglio provoca all’anima le cadute più terribili. La persuade a non riconoscere che l’aiuto gli viene da Dio; a pensare di stare praticando l’ascesi con successo e di innalzarsi al di sopra degli altri, stimandoli tardi di mente perché non ne riconoscono la superiorità. In seguito sopraggiungono la collera, la tristezza, e – male supremo – lo smarrimento dello spirito e la follia, così come anche visioni di folle di demoni nell’aria (Evagrio Pontico).

    1. 2.     LA SOBRIETA’ SPIRITUALE E IL DISCERNIMENTO  DEGLI SPIRITI

    Le cose sarebbero relativamente semplici se la tentazione si presentasse sempre a viso scoperto. Ma già l’apostolo Paolo metteva in guardia i Corinzi di quanto Satana era capace di trasformarsi in angelo di luce (cfr. 2Cor li, 14). Molte sono le illusioni che attendono al varco il novizio inesperto. Le consolazioni nella preghiera, le lacrime, gli stessi colloqui spirituali possono nascondere delle trappole per chi non è vigilante.

    Le lacrime, se sono causate dal timore, hanno in se stesse la garanzia. Ma se sono causate dall’amore, quando è ancora a uno stadio imperfetti o, come può accadere per certuni, possono facilmente cambiarsi in illusione. A meno che il pensiero del fuoco eterno non abbia acceso il cuore nel momento dell’azione. Ed è significativo notare che in quel momento il fuoco meno nobile è anche il più sicuro.

    Nel tempo della tentazione, ho sperimentato come questo lupo producesse ingannevolmente nella mia anima una gioia, delle lacrime e una consolazione che erano prive di un ragionevole fondamento; e io ero come un bambino: credevo di cogliere un frutto buono, non un oggetto che mi corrompeva (San Giovanni Climaco).

    Esaminiamo, soppesiamo, sorvegliamo le dolcezze che sentiamo durante la salmodia, per distinguere quali provengono dal demone della lussuria e quali dalle parole dello Spirito e dalla grazia e dalla forza che esse contengono. Non ingannarti, o giovane. Ho visto infatti uomini pregare con tutta l’anima per quanti erano loro cari. Credevano di adempiere alla legge dell’amore, ed erano invece mossi dallo spirito di lussuria. Voi tutti che avete deciso di custodire la purezza, ascoltate un’altra furbizia e un altro espediente di quell’astuto, e guardatevene. Qualcuno che aveva esperienza di questa scaltrezza mi ha riferito che molto spesso il demone della lussuria si nasconde completamente, e mentre il monaco siede e conversa con delle donne, gli ispira grandi sentimenti di pietà e forse anche torrenti di lacrime, e gli suggerisce di ammaestrarle parlando loro del ricordo della morte, del giudizio e della castità. Allora le sventurate, ingannate da questi discorsi e dalla sua falsa pietà, accorrono da quel lupo come fosse un pastore, e quando i rapporti sono diventati più familiari ecco che l’infelice viene travolto nella caduta. Esamina attentamente la soavità che provi nella tua anima, per timore che non sia stata preparata con inganno da medici crudeli, anzi da traditori (San Giovanni Climaco).

    Come discernere la moneta falsa? Nulla può sostituire la chiaroveggenza del padre spirituale. Tuttavia, sin dalle origini del monachesimo, sant’Antonio aveva fissato alcuni criteri che possono aiutare a scovare l’illusione. Antonio considerava soprattutto il caso delle apparizioni angeliche o demoniache. Ma la portata delle sue osservazioni è più ampia. Un pensiero, un moto interiore o una ispirazione  accompagnata da pace, gioia, umiltà, è “spirito buono”. Al contrario, tutto ciò che fa nascere nell’anima turbamento, agitazione e durezza porta il segno dello spirito cattivo, anche se l’apparenza è buona

    È possibile e facile, se Dio ne fa la grazia, discernere la presenza degli spiriti buoni da quelli cattivi. L’apparizione dei santi non genera turbamento: “Non griderà,  non alzerà il tono, non farà udire la sua voce nelle strade (Is 42, 2). La loro presenza è così dolce e tranquilla che colma immediatamente l’anima di gioia, esultanza e fiducia. Perché con loro c’è il Signore, il quale è la nostra gioia e la  potenza di Dio Padre. I pensieri  dell’anima rimangono tranquilli e senza turbamento. Essa stessa, immersa nella luce,  può contemplare da sola coloro che le sono apparsi. Allora il desiderio delle cose divine e future si impossessa di lei, e vorrebbe assolutamente unirsi i con loro. Se avviene che, essendo mortali, alcuni temono alla vista degli spiriti buoni, la carità di questi è tale da dissipare questo timore. Allo stesso modo fece Gabriele con Zaccaria (cfr. Lc 1, 13), e l’angelo che apparve alle donne presso il divino sepolcro (cfr. Mt 28, 5),  e quello che secondo il Vangelo, apparve ai pastori e disse “Non temete” (Lc 2, 10). Perché questo timore  non proviene dall’infermità dell’anima, ma dal fatto che essa riconosce la presenza di esseri che le sono superiori. Tali sono le apparizioni dei santi spiriti. Al contrario, l’incursione e l’apparizione dei cattivi spiriti getta nel turbamento; essi vengono con rumore, strepito e grida, e si agitano come giovani senza educazione o briganti. Subito nascono nell’anima il timore, il turbamento e il disordine dei pensieri; la tristezza, il rancore verso gli asceti; l’accidia, l’afflizione, il ricordo dei genitori; la paura della morte; infine i desideri malvagi, il disprezzo della virtù e il disordine dei costumi. Perciò, quando qualche apparizione vi spaventa, se questo timore si dissipa subito e al suo posto provate una gioia ineffabile, ardore, fiducia, conforto, tranquillità nei pensieri, generosità e amor di Dio, e tutto ciò che è stato già detto, prendete coraggio e pregate, perché questa gioia e questo stato quieto dell’anima manifestano la santità di colui che si rende presente (Sant’ Atanasio di Alessandria).

    Mille anni dopo, san Massimo Capsocaliva si esprimerà quasi negli stessi termini nel corso di un colloquio con san Gregorio Sinaita.

    Altri sono i segni dell’inganno, e altri quelli della grazia e della verità dello Spirito.Ecco quelli dell’inganno: quando il Maligno entra in contatto con noi, suscita nell’intelletto il turbamento; lo rende ribelle e indurisce il cuore; gli ispira mollezza e sfiducia; effonde tenebre sui suoi pensieri; rende cattivo lo sguardo; confonde la mente; consegna il povero corpo al tremore; fa apparire davanti agli occhi il fuoco fascinoso dell’errore, e non quello che diffonde una luce chiara e serena. Fa uscire poi di senno e rende l’intelletto demoniaco. Infine fa uscire dalla bocca parole sconvenienti e bestemmie. L’uomo diventa così soltanto irritazione e collera. In lui non vi è più né umiltà, né preghiere, né  lacrime; egli trae continuamente motivo di vanto dalla sua virtù e se ne gloria. Resta chiuso nelle sue passioni, finché perde il senno e va in perdizione. Da questo inganno del  Maligno, o Padre santo, il Signore ci liberi. Quanto ai segni  della grazia, eccoli: quando il Santo entra contatto con noi, unifica l’intelletto donandogli sapienza, umiltà e misura.

    Pone nell’anima il pensiero della morte, del giudizio, dei nostri peccati, e anche del castigo del fuoco. Dona al cuore la perfetta compunzione, l’afflizione e il pianto; rende lo sguardo più dolce, e le lacrime scendono dagli occhi. Più il contatto è ravvicinato, più l’anima trova dolcezza e consolazione nella preziosa Passione di Cristo e nel suo immenso amore per gli uomini. Egli suscita nell’intelletto contemplazioni altissime scevre da inganno […]. In questo modo lo illumina con lo splendore della conoscenza divina. E quando l’intelletto è rapito, nello Spirito Santo, da questa inaccessibile luce divina, esso viene illuminato da questa stessa luce divina e splendente. Ciò rende il cuore quieto, e colui che ha ricevuto tali doni ottiene nel suo intelletto, nel suo cuore, nella sua ragione e nel suo spirito una beatitudine e una gioia ineffabili.

    Dopo che è stata riscontrata la natura cattiva di un pensiero, com’è possibile resistergli efficacemente? A questo scopo è utile conoscere il processo della tentazione, al fine di opporle resistenza al momento opportuno. San Giovanni Climaco ha così descritto le varie fasi della tentazione:

    I padri, dotati di discernimento, hanno distinto gli uni dagli altri l’approccio, l’adesione, il consenso, la prigionia, il combattimento e ciò che viene chiamata passione dell’anima. Questi uomini beati definiscono l‘approccio come la prima apparizione, nel cuore, del semplice pensiero o dell’immagine di un oggetto che si presenta. L’adesione consiste nell’accettare il dialogo con ciò che si è manifestato, seguito o meno da passione. Il consenso è l’acquiescenza dell’anima, accompagnata da diletto, a ciò che le viene proposto. La prigionia è un impulso violento e involontario del cuore; o anche un continuo attaccamento all’oggetto in questione tale da distrugge la buona disposizione della nostra anima. Il combattimento è definito come un confronto, ancora a parità di forze, con l’avversario, in cui l’anima, secondo la scelta della sua volontà, riporta la vittoria o subisce una sconfitta. Essi dicono che la passione, in senso proprio, è un male che da tempo affliggeva segretamente l’anima e che l’ha portata a contrarre un intimo legame con sé, costringendola, con disposizione abituale, a piegarsi ad essa spontaneamente e connaturalmente.        Di tutti questi movimenti, il primo è senza peccato; il secondo non sempre lo è; quanto al terzo, è colpevole o no secondo lo stato interiore del combattente. Il combattimento infine è l’occasione che procura corona o castigo (San Giovanni Climaco).

    L’approccio o suggestione è la semplice apparizione nella coscienza del pensiero di una cosa cattiva, e di un’attrazione verso di essa; potrà essere, per esempio, un pensiero di vendetta, di golosità, un invito a compiacersi in una cattiva tristezza, ecc. Esso è involontario, e sarebbe vano pretendere di impedire che nascano in noi questi moti. Al contrario, dandoci l’occasione di dimostrare il nostro amore per il Signore e mantenendoci nell’umiltà, la tentazione ha un ruolo importante nell’opera della nostra santificazione. È in questo senso che Evagrio Pontico poteva dire: «Togli le tentazioni, e nessuno sarà salvato».

    Nell’adesione o dialogo, riflettiamo sulla tentazione e, in qualche modo, ci intratteniamo con essa. Ciò può non comportare nessuna connivenza segreta con essa e non avere altro fine che opporgli ragioni contrarie. E questo un metodo che non è senza pericolo e che i Padri generalmente sconsigliano, soprattutto agli asceti inesperti. Perché il dialogo può nascondere già un mezzo consenso, un compiacimento inconfessato che non è del tutto esente dal peccato.

    Il consenso è una presa di posizione personale: accettiamo di far consistere il nostro piacere nella gioia cattiva che ci è proposta: aderiamo a questa tensione disordinata e identifichiamo, in qualche modo, il nostro io con essa.

    Se consensi simili si ripetono, generano dapprima la passione, che è la tendenza cattiva promossa a stato di seconda natura, poi la prigionia, vera ossessione, impulso irresistibile in cui la libertà non ha più posto.

    S’impone quindi un’estrema vigilanza che i Padri chiamano custodia del cuore o sobrietà (nepsis). Bisogna combattere i pensieri sin dal loro apparire, sin dallo stadio in cui sono semplici suggestioni:

    Dobbiamo perciò costantemente ricordarci di questo precetto: «Custodisci il tuo cuore con tutte le possibili attenzioni» (Prv 4, 23), e, secondo il comandamento dato da Dio al principio, sorvegliare la testa velenosa del serpente (cfr. Gn 3, 15), cioè l’inizio dei pensieri cattivi, coi quali il diavolo tenta di penetrare nella nostra anima. Non lasciamo che, per negligenza, il resto del suo corpo, cioè il consenso al piacere cattivo, entri nel nostro cuore; se vi entrasse, certamente il suo morso velenoso darebbe la morte all’anima divenuta sua prigioniera. Dobbiamo anche mettere a morte sin dal mattino i peccatori della terra» (SaI 100, 8), cioè i pensieri carnali, e «sbattere contro la pietra i figli di Babilonia» (Salì 36, 9), quando sono ancora piccoli, perché se non li sterminiamo nella loro infanzia, cresceranno grazie alla nostra connivenza e ci combatteranno con ancora più forza per la nostra perdizione – oppure non potremo vincere se non con molta pena e fatica (San Cassiano).

     

    3. LA PREGHIERA “MONOLOGICA” DI GESU’

    Evidentemente, non basta essere vigilanti, mettere allo scoperto i pensieri cattivi e volervisi opporre. Soltanto la potenza di Cristo può permetterci di combatterli vittoriosamente. Già Origene, molto consapevole della stretta unione che c’è tra Cristo e i cristiani sue «membra», insegnava che è il Cristo stesso che continua nei fedeli il suo combattimento contro Satana e che ogni vittoria ottenuta da un cristiano è una vittoria di tutta la Chiesa. E’ dunque principalmente a Origene che risale l’idea del combattimento spirituale come continuazione del combattimento redentore e l’immagine della campagna militare di Cristo e delle due Città contrapposte, che si ritroveranno, nel XVI secolo, nelle meditazioni di sant’Ignazio di Loyola su «il Regno» e “le due Bandiere”.Ma essa è stata profondamente assimilata dai primi monaci e da Evagrio Pontico. Nello stesso tempo, l’antica concezione secondo la quale, nella persona del martire, è il Cristo stesso che soffre e combatteveniva trasferita, dopo la fine delle persecuzioni, al combattimento

    del monaco contro le tentazioni diaboliche. Per questo, alla vigilanza, i maestri spirituali consigliavano di aggiungere un’invocazione a Cristo, breve, ma ripetuta incessantemente. E quella che è stata chiamata «preghiera monologica», composta cioè di una sola breve formula.

    Con questa pratica, i pensieri si spezzeranno contro la potenza vittoriosa di Cristo, che si fa presente appena lo si invoca; contemporaneamente, essa permetterà di opporre al «ricordo del male» il «ricordo di Dio», che nei nostri autori indica la presa di coscienza di questa attrazione divina e di questo senso intimo delle cose di Dio iscritto nell’anima col battesimo. Già Cassiano dava a questo metodo una formulazione quasi definitiva, anche se non conosceva l’invocazione del Nome di Gesù:

    Ogni monaco che tende al ricordo continuo di Dio, deve abituarsi a sussurrare interiormente e a ripetere incessantemente, nel suo cuore, la formula che vi consegno, e, mediante ciò, cacciare la moltitudine degli altri pensieri, perché non potrà realizzarlo se non liberandosi da tutte le cure e le sollecitudini del corpo. E questa una dottrina alla quale siamo stati iniziati dai rari superstiti dei più antichi Padri, e che, anche noi, consegniamo ai rari privilegiati, che abbiano veramente sete di conoscerla. Per conservare continuamente il ricordo di Dio, dovete quindi tenere presente nel vostro spirito, incessantemente, questa santa formula: «Mio Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi» (Sal 69, 2). Non è senza motivo che questo versetto è stato scelto fra tutta la Sacra Scrittura. Esso esprime tutti i sentimenti che la natura umana può concepire, ed è perfettamente adatto a tutti gli stati e a tutte le tentazioni. Vi è in esso l’invocazione di Dio contro tutti i pericoli, l’umiltà di un’umile e pia confessione, la vigilanza che proviene da un’attenzione e da un timore continuo, la considerazione della nostra fragilità, la fiducia di essere esauditi, la certezza di un soccorso sempre presente e pronto a intervenire. Perché colui che invoca incessantemente il suo Protettore è certo di averlo sempre presente (San G. Cassiano)

    I due elementi fondamentali della preghiera di Gesù sono già presenti ante litteram in questo testo degno di nota: anzitutto l’umile confessione della nostra miseria, che sola può aprirci alla grazia, e nella quale i Padri del deserto vedevano, proprio per questo motivo, l’unica via di salvezza: e poi lo stretto legame stabilito tra l’invocazione e la presenza intima del Signore.

    È in Egitto, in un’epoca indeterminata, ma poco posteriore a quella di Cassiano, che la menzione del nome di Gesù sembra sia stata introdotta nella formula della preghiera monologica, che è diventata così: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». Non è mai stata, tuttavia, una formula stereotipa. La sua pratica ammette delle varianti, e l’invocazione può anche ridursi al solo nome di Gesù. I Padri raccomandano però di non variare troppo spesso la formula, perché la monotonia della ripetizione ha un ruolo importante nel metodo.

    Diadoco di Fotica è uno dei primi testimoni di questa «preghiera di Gesù», che è anche una «meditazione del suo santo glorioso Nome”dando al termine «meditazione» il suo antico senso di ruminazione di una parola o di una formula:

    Quando chiudiamo tutte le sue uscite col ricordo di Dio, l’intelletto esige assolutamente da noi un’opera che deve soddisfare il suo bisogno di attività. Bisogna dargli perciò il «Signore Gesù» come la sola occupazione che risponde interamente al suo scopo. E scritto infatti: «Nessuno può dire “Gesù è Signore”, se non nello Spirito Santo» (1Cor 12, 3). Ma per non volgersi ad alcuna fantasia, bisogna che contempli sempre in modo esclusivo questa parola, nel suo segreto. Infatti, tutti quelli che meditano incessantemente nel profondo del loro cuore questo santo e glorioso Nome, possono vedere infine la luce del proprio intelletto. Infatti esso, trattenuto dalla mente con attenta cura, brucia con intensa percezione tutta la sozzura che copre la superficie dell’anima; è detto infatti: «Il nostro Dio è un fuoco divorante» (Dt 4, 24). Il Signore poi sollecita l’anima a un grande amore della sua gloria. Perseverando, attraverso il ricordo dell’intelletto, nel fervore del cuore, questo Nome glorioso e così desiderabile fissa in noi l’abito di amarne la bontà senza che nulla ormai vi si opponga. È questa infatti la perla preziosa che si può acquistare vendendo tutti i propri beni, per godere, alla sua scoperta, di una gioia ineffabile (Diadoco di Fotica).

    Con ciò, Diadoco vuole dire che il Nome di Gesù, come i versetti della Scrittura che gli antichi monaci amavano ruminare con una meditazione incessante,  ha in sé un’efficacia eccezionale per risvegliare nel cuore l’amore divino che in lui è nascosto, in virtù del battesimo, come una scintilla sotto la cenere. Con l’invocazione, il gusto di Dio e delle cose di Dio si fa sentire e trionfa sulle false dolcezze del peccato. Lo spirito può allora «vedere la sua propria luce», espressione evagriana che indica la contemplazione e significa che lo spirito, prendendo coscienza sperimentata dell’inclinazione che lo spinge verso Dio, gusta qualcosa di Dio stesso, poiché questa stessa attrazione è la manifestazione della presenza divinizzante del Cristo e del suo Spirito nell’uomo. In seguito, Diadoco mostra l’intima connessione che deve stabilirsi tra l’invocazione formulata dallo spirito dell’uomo, e l’aspirazione dello Spirito Santo che, a poco a poco, si lascia provare nel fondo del cuore:

    Allora l’anima afferra la grazia stessa che medita e che grida con essa «Signore Gesù», come una madre che insegna al proprio figlio la parola «padre», ripetendola insieme a lui finché lo porti, invece del balbettio infantile, all’abitudine di chiamare distintamente suo padre, anche nel sonno. Per questo l’Apostolo dice: «Allo stesso modo lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). (Diadoco di Fotica).

    Questa abitudine alla preghiera, che prosegue «anche nel sonno», è tutt’altra cosa rispetto a un semplice riflesso automatico originato dalla ripetizione degli atti. Essa è il frutto di una pienezza interiore, di una perfetta unificazione di tutte le energie dell’anima messe al servizio della carità e animate da essa. Il costante ricordo di Dio, al quale conduce l’esercizio dapprima faticoso della preghiera di Gesù, risulta più da uno stato, da un orientamento divenuto spontaneo e stabile del cuore verso Dio, che da una successione di atti. E’, come dirà il patriarca Callisto in un breve trattato tra i più notevoli della Filocalia, un’acqua viva e zampillante che scaturisce dall’anima come da una sorgente perpetua. E’ ciò che assillava l’anima di Ignazio il Teoforo e gli faceva dire: «Ciò che è in me, non è il fuoco avido della materia, ma è l’acqua che opera e che parla» (Callisto II).

    1. 4.     IL METODO PSICO-FISICO

    L’elemento fondamentale del metodo esicasta è quindi la preghiera monologica:  «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!». La tradizione esicasta vi ha aggiunto in seguito l’assunzione di una determinata posizione corporale e di un certo controllo della respirazione. Le prime descrizioni scritte sistematiche che ci sono pervenute risalgono al XIII secolo, ma vari indizi fanno pensare che questo metodo psico-fisico esistesse già, almeno in uno stadio rudimentale, in un’epoca più antica. La necessità assoluta di controllo da parte di un padre spirituale esperto giustifica il carattere dapprima orale della tradizione su questo punto; gli stessi resoconti letterari non pretendono d’altra parte di supplire all’iniziazione vivente, essendo incompleti.

    La testimonianza più antica sul metodo ci viene da Niceforo il Solitario:

    Innanzitutto bisogna che la tua vita sia quieta, pura da ogni preoccupazione, in pace con tutti. Allora entra e chiuditi nella tua cella e, seduto in un angolo, fa’ ciò che ti dico:

    Tu sai che il nostro respiro è l’aria che inspiriamo ed espiriamo grazie al cuore. Perché è il cuore il principio della vita e del calore del corpo. Il cuore attira l’aria per emettere all’esterno il proprio calore, mediante l’espirazione e raggiungere una buona temperatura. Il principio di questa organizzazione, o meglio il suo strumento, è il polmone. Creato poroso dal Creatore, incessantemente introduce ed espelle l’aria come un mantice. Allo stesso modo il cuore, attirando il freddo con il respiro ed emettendo il caldo, conserva imprescindibilmente la funzione che gli è stata assegnata per l’equilibrio del vivente.

    Tu dunque, come ti ho detto, siediti, raccogli il tuo intelletto, introducilo – il tuo intelletto – nelle narici; è quello il cammino che percorre l’aria per andare al cuore. Spingilo, costringilo a scendere nel tuo cuore insieme all’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia che ne seguirà: non avrai nulla da rimpiangere. Come un uomo che rientra a casa dopo un’assenza non trattiene più la gioia di poter ritrovare la moglie e i figli, così l’intelletto, quando si è unito all’anima, trabocca di una gioia e di delizie ineffabili.

    Fratello mio, abitua il tuo intelletto a non affrettarsi ad uscire di là. All’inizio è privo di zelo – è il meno che si possa dire – a causa di questa reclusione e di questa strettezza interiore. Ma, quando si sarà abituato, non proverà più alcun piacere nelle relazioni esterne. Perché «il regno di Dio è dentro di noi» e per colui che si volge verso di esso e lo cerca con la preghiera pura tutto il mondo esterno diventerà vile e detestabile.

    Se fin dall’inizio entri attraverso l’intelletto nel luogo del cuore che ti ho mostrato, siano rese grazie a Dio. Glorificalo, esulta e tieniti sempre occupato in questa attività, ed essa ti insegnerà ciò che tu ignori. Sappi, poi, che quando il tuo intelletto si trova in quel luogo, tu non devi tacere o restare ozioso. Ma non devi avere altra occupazione o meditazione che il grido: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!», senza tregua e ad ogni costo. Questo esercizio, mettendo il tuo intelletto al riparo dalle divagazioni, lo rende impenetrabile e inaccessibile alle suggestioni del nemico e, ogni giorno, lo innalza all’amore e al desiderio di Dio.

    Ma se, fratello mio, nonostante tutti i tuoi sforzi, non giungi a penetrare all’interno del cuore seguendo le mie indicazioni, fa ciò che ti dico e, con l’aiuto di Dio, riuscirai nel tuo scopo. Tu sai che la ragione dell’uomo ha sede nel petto. E’ infatti nel nostro petto che, pur rimanendo mute le labbra, parliamo, decidiamo, ordiniamo le preghiere e i salmi, ecc.  Dopo aver bandito da questa ragione tutti i pensieri (e se vuoi lo puoi), dalle l’invocazione: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” e costringila a gridare interiormente queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, sarai padrone di questo esercizio, esso ti aprirà certamente la porta del cuore, così come ti ho detto. Io stesso ne ho fatto l’esperienza. Insieme alla gioiosa e desiderabile attenzione, vedrai venire a te tutto il coro delle virtù, l’amore, la gioia, la pace e il resto. Grazie ad esse tutte le tue richieste saranno esaudite nel Nostro Signore Gesù Cristo.

    San Gregorio Palamas, che difese il metodo dalle facili accuse dei suoi avversari, così lo commenta:

    Tu lo vedi, fratello: Giovanni (Climaco) ha dimostrato che basta esaminare il problema umanamente, non solo spiritualmente, per vedere che è assolutamente necessario introdurre e mantenere l’intelletto dentro il corpo, quando si è scelto di possedersi veramente e di essere un monaco degno di questo nome secondo l’uomo interiore. D’altra parte, non è sconveniente insegnare, soprattutto ai principianti, a guardare in se stessi e a introdurre il proprio intelletto dentro di sé mediante l’inspirazione. Nessuna persona sensata, infatti, impedirebbe a qualcuno di introdurre in se stesso, attraverso certi procedimenti, il proprio intelletto che non è ancora in grado di contemplare se stesso. Coloro che hanno appena iniziato questa lotta vedono continuamente fuggire il proprio intelletto, appena raccolto, e devono, altrettanto continuamente, ricondurlo; nella loro inesperienza, non si rendono conto che niente al mondo è più difficile da contemplare e più mobile dell’intelletto. Per questo motivo, alcuni raccomandano di controllare l’emissione e la ripresa del respiro e di trattenerlo un poco, in modo da trattenere con esso anche l’intelletto, vigilando sulla respirazione perché, con l’aiuto di Dio, progrediscano fino a impedire al proprio intelletto di uscire verso ciò che lo circonda, e purificarlo, perché possano ricondurlo davvero a un raccoglimento uniforme. Si può anche constatare che questo è un effetto spontaneo dell’attenzione dell’intelletto, perché l’entrata e l’uscita del respiro diventa quieta anche durante una riflessione intensa, soprattutto in coloro che sono nell’esichia col corpo e con la mente […]. Colui che cerca di raccogliere l’intelletto in se stesso per spingerlo non ad un movimento in linea retta (verso l’esterno), ma ad un movimento circolare e infallibile (ritornando su se stesso), invece di girare gli occhi qua e là, come potrebbe non trarne grande profitto fissando il proprio petto o il proprio ombelico come punto di appoggio? Perché non soltanto si raccoglierà in se stesso esteriormente, per quanto gli sarà possibile, conformemente al movimento interiore che va ricercando per il suo intelletto, ma, mediante questo atteggiamento del corpo, invierà verso l’interno del cuore anche la potenza dell’intelletto che si riversa all’esterno attraverso la vista.

    Alcuni ironizzeranno sulla fisiologia «sorpassata» che sembra implicare l’insegnamento degli esicasti. Ma in realtà non è questa a fondare il metodo; essa cerca piuttosto di spiegarlo a posteriori. La cosa più importante è l’esperienza, ed essa ha rivelato a questi spirituali un misterioso ma innegabile legame tra il respiro, e quindi i polmoni, il cuore fisico, e lo spirito (o «intelletto»). E innanzitutto un fatto, e la sua attuazione nel campo della vita spirituale si è rivelata molto feconda. Poco importa, in definitiva, che in seguito sia spiegata con una teoria fondata su dati di ordine anatomico e fisiologico. Lo si è già visto riguardo all’ascesi corporale, per gli esicasti, la cui concezione del complesso umano è vicina a quella della Bibbia. É tutto l’essere, corpo e anima, che deve partecipare della vita spirituale, perché è tutto l’essere che deve ricevere la salvezza ed essere divinizzato. Si tratta sempre di simboleggiare le attitudini dell’anima con gesti del corpo, per permettere «l’integrazione armoniosa di tutto il nostro essere nella sua ascesa verso Dio». D’altronde non si tratta di un metodo, in senso stretto, proporzionato all’effetto che si vuole ottenere, ma soltanto di un aiuto, però non trascurabile. Altrimenti verrebbe compromessa la gratuità del dono di Dio.

    Prima di tutto, è con l’aiuto della grazia divina che l’intelletto riesce in questo combattimento. È la grazia divina che corona l’invocazione monologica rivolta a Gesù Cristo con fede viva, con tutta purezza, senza distrazioni, col cuore. Non è l’effetto puro e semplice del metodo naturale della respirazione praticato in un luogo tranquillo e oscuro. I santi Padri, inventando questo metodo, miravano soltanto a fornire un aiuto, se così si può dire, per raccogliere l’intelletto (San Callisto e Ignazio Xanthopouli).

    La nostra ricerca sulle origini del metodo esicasta ha troppe lacune perché si possa determinare se esistono rapporti d’influenza tra esso e le spiritualità musulmana, induista o buddista, che predicano anch’esse l’invocazione del Nome divino unita a una tecnica respiratoria. Una simile influenza non avrebbe in sé nulla che screditi il metodo: le leggi della fisica umana sono universali, e la grazia, lungi dal distruggere la natura, ne assume il dinamismo profondo, trasfigurandolo. E soprattutto la tecnica è sostenuta, nel nostro caso, da una dottrina autenticamente biblica e cristiana. Senza la fede nei dogmi della creazione dell’universo spirituale e materiale, della salvezza per grazia in Cristo, della risurrezione dei corpi, della deificazione mediante i sacramenti, l’insegnamento che i «santi Padri niptici» ci hanno trasmesso riguardo alla preghiera del cuore sarebbe incomprensibile. L’ultimo fondamento del metodo è la confessione del corifeo degli Apostoli davanti al Sinedrio:  «Non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12).

    In un tempo in cui molti cristiani sono alla ricerca di «una disciplina totale di vita, anche corporale, che favorisca il loro equilibrio e il loro sviluppo spirituale», è interessante per noi ascoltare i vecchi monaci che hanno saputo mettere al servizio del pieno sviluppo della grazia di Cristo nell’uomo una sapienza umana il cui segreto l’Occidente ha perduto.

     

  • 07 Dic

    Non abbiamo che un solo Padre

    Lectio di Mt 6,9-10; Lc 11,2

     

     di p. attilio franco fabris

     

    E’ interessante notare che la religione monoteistica mussulmana tra i “Novantanove Nomi” dati a Dio non contiene quello di “padre”. Troppo forte è per questa religione la concezione di una trascendenza assoluta di Dio per potergli applicare una simbolica che troppo fa riferimento all’esperienza umana e alla fede cristiana. Dalla mancanza di questo titolo attribuito a Dio difficilmente può scaturire la consapevolezza che tutti siamo suoi figli, che l’umanità deve costruirsi come un’unica grande famiglia in cui ciascuno viene accolto, come in ogni famiglia, nella sua uguale dignità, diversità e libertà.

    In contrapposizione  mi piace riportare un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che ha sperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre, sapendo allargare il suo cuore in un abbraccio a tutta l’umanità fosse anche quella più lontana da Dio. Un giorno – racconta Celina sorella di Teresa – entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi).

    Invochiamo dallo Spirito di Gesù la grazia di fare la stessa esperienza della dolce e forte paternità di Dio che aprendoci gli occhi ci fa scoprire nell’altro il fratello e la sorella che lui ci dona: O Spirito santo di Dio, / colomba che scendi dall’alto, / aleggia su noi qui raccolti, / ispira la nostra preghiera./ Un cuore unito chiediamo, / un cuore che sappia ascoltare, / un labbro capace di lode, / che sappia al Padre parlare. / Tu operi tutto in tutti, / i doni son molti e diversi, / ci chiami a formare un sol corpo / e l’unico tempio tuo santo. Amen (dalla Liturgia di Bose).

    Lectio

    Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive, a cui venivano offerti anche sacrifici umani, era chiamato “padre”. Quindi non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica per comprenderne il significato vero.

    Si rimane meravigliati constatando che, nell’Antico Testamento, l’appellativo  “Padre” riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto!). Israele infatti ha osato rivolgersi a JHWH con l’appellativo di “Padre” molto tardi. Questo per il semplice fatto che nelle mitologie pagane limitrofe la paternità di Dio era intesa in senso troppo fisico-materiale, e questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio. L’Antico Testamento userà il titolo di Padre per sottolineare soprattutto la coscienza di Israele di essere stato generato come popolo da parte di  JHWH attraverso il dono dell’alleanza. Da cui scaturisce il dovere di un’obbedienza filiale nei suoi confronti: “Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” (Dt 14,1). Successivamente questa paternità di Dio, attraverso la predicazione profetica, viene estesa a tutti gli altri popoli: “Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio? (Ml 2,10).

    Ma chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro “papà”. E’ il termine aramaico affettuoso e confidenziale con cui il bambino si rivolge al proprio “babbo”. E Gesù, quando parla di Dio e si relaziona con lui nella preghiera, usa abitualmente questo appellativo, suscitando lo scandalo presso i teologi dell’epoca: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18). Il che non può che indicare che il suo rapporto con Dio è caratterizzato da un’assoluta e unica confidenza, intimità e fiducia.

    Dunque nel Nuovo Testamento il volto di Dio “Abbà” è una rivelazione di Gesù anzitutto perché egli stesso si pone dinanzi a lui sin dall’inizio con una chiara autocoscienza del suo essere a pieno titolo suo “Figlio” (cfr Lc 2,49).

    Ma a cosa fa riferimento la rivelazione di Dio “padre-abbà”? Il primo e fondamentale significato dell’appellativo è quello di Dio riconosciuto come fonte originaria della vita e di relazione filiale. E’ da lui che  “proviene ogni paternità in cielo e in terra” (Ef 3,15) per Gesù prima di tutto in quanto Figlio per natura, ma anche per noi che attraverso il nostro unirci a Cristo mediante la fede, incorporati a lui col battesimo, diveniamo a tutti gli effetti figli adottivi: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12); “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Certamente il rapporto tra Gesù e il suo “Abbà” è unico; non troviamo mai che egli preghi insieme ai suoi discepoli dicendo con i discepoli “Padre nostro” (cfr Gv 20,27).  Tuttavia i discepoli di Gesù, entrando a far parte della sua famiglia, imparano a loro volta a rivolgersi a Dio come figli, chiamando Dio familiarmente “Padre” come ha fatto Gesù. E questo è dono dello Spirito (Gal 4,6; Rm 8,15) che ci dona la capcità della parresia ovvero di una “disinvolta confidente familiarità” con Dio (osiamo dire…).  Per il cristiano si instaura perciò con Dio-Abbà un rapporto di grande familiarità che deriva dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio (cfr. Ef 3,11-12). Quando nei testi neotestamentari troviamo l’appellativo “Padre” probabilmente esso traduce sempre l’unica espressione aramaica usata da Gesù: “Abbà”. Egli ci ha rivelato l’immagine di Dio come Padre colmo di misericordia che ha cura dei suoi figli (cfr Lc 15), di cui non si deve e non si può avere paura. Ci ha insegnato a rivolgerci a lui con la semplicità dei bambini (Mt 5,15) perché Egli conosce e ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31; Lc 12,6). È esattamente il contrario di un padre-padrone perché la sua paternità è viscerale, compassionevole, mai possessiva anzi desiderosa di promuovere la vera libertà dei figli.

    L’aggettivo “nostro” nel Pater riportato da Matteo è riferito ovviamente a Dio (“di noi”) e non sta ad indicare certamente possesso: Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo. Si tratta di un’appartenenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’Alleanza: Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).

    La paternità di Dio si esprime al plurale perché il suo amore è per tutti. Egli invita gli uomini a percepirsi e raccogliersi da fratelli in un’unica famiglia, questa è una dimensione fondamentale della richiesta del Regno invocato dalla preghiera del Pater (Mt 5,44-45). Un “Nostro” che è riferito in primo luogo a quella realtà sacramentale del Regno già presente che è la Chiesa, famiglia di Dio. 

    Una ulteriore sfaccettatura dell’aggettivo “nostro” è che il Pater è la preghiera che ci fa passare dall’inizio alla fine dal Tu al Noi; constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu: il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà, e nella seconda parte predomina il noi: da a noi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non indurre noi in tentazione, libera noi dal male. Siamo figli, un unico corpo, un’unica famiglia, fratelli e sorelle raccolti attorno a Cristo che crea tra noi legami più forti di quelli del sangue (cfr Mt 23,8). Mette in luce che l’essere suo popolo è una immensa e gratuita degnazione da parte di lui senza alcun nostro merito, cosa che impedisce di trasformare la grazia dell’elezione in spirito di gretto settarismo.

    Infine, sempre Matteo, inserisce l’espressione “che sei nei cieli” comunissima al tempo del giudaismo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

    Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inaccessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, l’infinito. Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida sulla quale sta il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12). L’espressione “che sei nei cieli” sta dunque ad indicare la totale trascendenza di Dio, il suo mistero inaccessibile, ma non la sua lontananza! Dio è vicino e lontano, Padre e Signore. Il credente unisce confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre” può generare un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile. Tuttavia nella fede siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio: la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa. E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende. E ancora: “che sei nei cieli” è richiamo a Dio come Creatore divenendo  invito a scorgere in ogni cosa un suo dono.

    Sono cieli, che un tempo chiusi, sono ormai spalancati da Gesù (“si spalancarono i cieli” Mt 3,16) a tutta l’umanità perché in lui cielo (Dio) e terra (umanità) sono ormai eternamente riconciliati. Paolo può dire: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6). Il peccato ci aveva allontanato da questi cieli, ma essi sono ridiventati la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2). La nostra conversione non è altro che un ritorno al cielo di Dio dove finalmente l’umanità sarà unica famiglia raccolta nella casa del Padre.

    Meditatio

    Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre per cui si è parlato per la cultura occidentale di una sorta di “morte del padre”. La sua figura legata ad ogni forma di autorità è stata infatti rifiutata – anche violentemente – a partire soprattutto dagli anni ’60 perché avvertita come un ruolo bloccante e frustrante della spontaneità della vita. Si è visto nella figura del “padre” l’avversario-padrone da combattere in quanto rappresentante di tutti i condizionamenti e alienazioni e si è rivendicato, in una società improntata sull’ideologia radicale che rivendica un’autonomia assoluta (fonte di ogni relativismo) il diritto da parte di ognuno di decidere della sua vita, senza riferimento a nessun “padre”, come meglio crede: anche per quanto riguarda la morte. Anche l’ingegneria genetica – quando ha prescisso dal “padre” rivendicando una sua autonomia da ogni valore di riferimento, è entrata talvolta in un gorgo delirante di onnipotenza, dando luogo ad esistenze che alla loro origine mancano del volto del padre-madre. Anzi questo “padre-madre” anonimo è contrassegnato inevitabilmente da una maschera di morte (per ogni embrione fatto crescere molti altri sono lasciati morire!). La conseguenza è che ci troviamo ad aver a che fare sempre più, soprattutto nell’ambito delle nuove generazioni, con un uomo orfano, solo, sperduto, senza radici, frutto unicamente del caso e perciò incapace di affermare la propria identità e dignità più profonda. La vita, propria e altrui, non avendo significato non vale nulla: il quattordicenne può sparare benissimo al barista per non pagare il conto di 20 euro, o se ammalati ci si può gettare dal balcone perché tanto non c’è nessun padre che abbracci e consoli.  La conseguenza è che nell’ “altro” che mi sta di fronte spesso non si è più capaci di vedere il dono di un fratello o di una sorella da accogliere e amare perché parte di me, della mia vita e della mia storia. L’“altro”, spesso anche all’interno della famiglia, è tutt’al più un “qualcuno”, o forse “qualcosa” da sfruttare se debole, da cui sbarazzarsene se dà fastidio, o da cui difendersi se troppo forte perché minaccia la mia libertà. La nostra è così una società di orfani e di figli unici: senza famiglia, senza padre/madre e perciò senza fratelli né sorelle!

    Questa “orfanezza” invece di spingere alla ricerca del volto del vero padre sembra premere in un parossistico tentativo di spegnere solo l’angoscia che da questa assenza deriva: piccoli orizzonti individuali o incontri racchiusi nel “tutto e subito” di piaceri passeggeri e fine a se stessi, ossessioni  di incontri “virtuali” (più si è meglio è!) che vorrebbero rappresentare quella casa in cui toccare con mano il calore dell’affetto e dell’abbraccio che tutti vorrebbero e che, invece, si rivelano come case fredde e anonime che non riscaldano mai a sufficienza il cuore e in cui, nel riflesso del monitor, è sempre e solo il proprio volto a specchiarsi.

    Tutto questa cultura ha inciso fortemente e negativamente anche sul pensare Dio e Dio come Padre. Lo spauracchio di Dio non funziona più per obbligare i più a stare “in casa”, e il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane e l’adulto non ha bisogno di un “Padre”, può rischiare benissimo da sé la vita che sente solo sua. Tutt’al più può far riferimento a una religiosità vaga e universale, ad un cosmo divinizzato… in cui non ci si sente minacciati nella propria indipendenza e autonomia perché non mi interpella chiamandomi per nome.

    Questi sono alcuni tra i tanti motivi dell’allontanamento dalla chiesa, la casa della famiglia di Dio, soprattutto da parte delle nuove generazioni. La religione del Padre è rifiutata o, il che è peggio, lascia completamente indifferenti.  Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi “49 Racconti” una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontà / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te”.  Sono parole estremamente drammatiche che risuonano in un buio vuoto colmo di assurdità, ma quanto mai rappresentative della nostra epoca.

    Questa mala comprensione di Dio non è altro che frutto del peccato, del lasciar continuamente insinuare nel cuore il sospetto di un Dio geloso che non vuole il bene e la gioia delle sue creature: Giovanni Paolo II scriveva nella sua enciclica “Dominus et Vivificantem”: “Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio” .  Ma se Dio che dovrebbe essere mio Padre mi è nemico, come allora posso fidarmi del fratello che mi sta accanto? Come è possibile “metter su famiglia” sia nel senso dello sposarsi come dell’entrare in una comunità cristiana o religiosa? 

    È urgente mettere in atto quella nuova evangelizzazione, desiderio profondo di tutta la Chiesa, capace di annunciare il vero volto del Padre rivelatoci da Gesù. Non è che forse in verità si rifiuti un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi aveva avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica? O ancora: quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto e fanno nell’ambito delle proprie relazioni familiari hanno influenzato in modo negativo anche il loro rapporto con Dio Padre (e con la Chiesa)?

    Questo Padre-Abbà di certo non possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate dalla nostra cultura. Gesù ci rivela un Dio-Abbà-papà che è garante e fonte di vera vita e libertà per tutti i suoi figli e che desidera fortemente che tra loro si instauri l’autentica fraternità, una sola famiglia, racchiusa nel suo progetto sin dal principio”, inaugurata da Gesù con la Chiesa e che è promessa per tutta l’umanità alla fine dei tempi: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro” (Ap 21,2-3).

    L’“Abbà” di Gesù non è certo un padre-padrone geloso della vera libertà dei figli, anzi egli la promuove continuamente in tutti i modi, correndone tutti i rischi e anche perdendoci (cfr la parabola del “figlio prodigo e del padre misericordioso Lc 15). I tratti del volto di questo Dio-Abbà, che si manifestano nell’umanità di Gesù suo Figlio, sono caratterizzati dalla tenerezza, dalla compassione, dalla misericordia, dal perdono, da un amore gratuito senza “se” e senza “ma”.

    La preghiera del Padre Nostro ci propone in sintesi tutto questo come programma non solo di preghiera ma anche di vita. L’orazione del Signore ci fa uscire dal rischio di una religiosità falsa caratterizzata dall’intimismo e individualismo: davanti al Padre, anche nel segreto della nostra stanza (cfr Mt 6,6), Gesù ci insegna a portare non solo noi stessi ma anche tutti coloro per i quali egli ha offerto se stesso. Il Catechismo afferma che “i battezzati non possono pregare il Padre “nostro” senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo diletto. L’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo” (2793). “Pregando il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiede al Padre che tutti siano “una cosa sola”, come lui è “una cosa sola col Padre” (cfr Gv 17,21).

    In famiglia pregare insieme il Pater significherà allora riconoscere gli uni di fronte agli altri – genitori e figli – in una comune professione di fede la comune paternità di Dio da cui procede ogni paternità e questo riconoscimento sarà garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole. In una comunità cristiana e religiosa significherà riconoscere che si è “famiglia” nella misura in cui non si cerca anzitutto di trovare punti di convergenza in se stessi, nei programmi o nelle simpatie vicendevoli,  ma unicamente nella fede in Cristo che ci raccoglie nella sua famiglia: “la Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato “il primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29 ), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo (Cf Ef 4,4-6)” (CCC 2790). Ci si riconosce figli di un unico padre e fratelli tra noi non per legami di sangue (motivazioni umane), ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda di fede nel Signore Gesù. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre” (Mt 12,50).

    Come sono tristi e controtestimonianti comunità grette, chiuse, divise, fredde incapaci di trasmettere una minima esperienza di Dio-Abbà! Come non chiedere allora al Signore che le nostre comunità sappiano dare testimoniare al mondo del nostro essere “famiglia di Dio”, fratelli tra noi, in cui tutti possano sperimentare l’accoglienza, l’abbraccio, il calore, la misericordia del comune Padre-Abbà? Che l’uomo “orfano” e vagabondo solitario nel mondo possa trovare finalmente una casa in cui scoprire che c’è un Padre desideroso di far festa con tutti i suoi figli. 

    Oratio

    Non dire: Padre se ogni giorno non ti comporti come un figlio.
    Non dire: nostro
       se vivi isolato nel tuo egoismo.
    Non dire: che sei nei cieli   se pensi solo alle cose terrestri.
    Non dire: Sia santificato il tuo nome
       se non lo onori.
    Non dire: Venga il tuo regno,   se lo confondi con il successo materiale.
    Non dire: Sia fatta la tua volontà
       se non l’accetti quando essa è dolorosa.
    Non dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano
       se non ti preoccupi di chi non ha nulla da mangiare.
    Non dire: Rimetti a noi i nostri debiti
       se conservi rancore verso tuo fratello.
    Non dire: Liberaci dal male
       se non prendi posizione contro il male.
    Non dire: Amen
       se non hai inteso e non hai accolto   la Parola del Padre Nostro.

     

     

     

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