• 29 Ago


    Mentre le porte erano chiuse

    Lectio di Gv 20,19-23

    di p. Attilio Franco Fabris

    Mentre le porte del luogo dove si trovavano i discepoli erano chiuse per paura” (v. ). Come ripartire nel nostro cammino di fede e di sequela se le nostre porte sono ben serrate, sprangate a doppia mandata perché presi da mille timori e scoraggiamenti e incertezze?

    Le nostre paura ci immobilizzano, ci impediscono ogni movimento. Il cammino ci mette in gioco verso il nuovo, ma il nuovo ci spaventa ed è meglio rifugiarci nelle nostre piccole sicurezze che comunque prima o dopo saranno, inevitabilmente, spazzate via. Paura di giocarci, paura del futuro, paura di perdere i nostri vantaggi e sicurezze, paura del cambiamento…

    Lo Spirito vuole “abbattere” queste porte sprangate e barricate, infondendo in ciascuno di noi una sventagliata di coraggio e santa intraprendenza. Vuole, col suo solito impeto di vita, farci ripartire, come i discepoli di Emmaus dalle porte della locanda, perché sa bene che saremo sempre tentati di rallentare, fermarci, o deviare dal percorso imboccando strade alternative,vicoli ciechi, angoli bui.

    Chiediamo allo Spirito che soffi in modo sì travolgente da costringerci a muoverci, e che con la forza della Parola udita, nella quale il Risorto nuovamente ci parla e ci invia, trovi in noi disponibilità a riprendere il cammino.

    “Spirito del Signore, vieni su di noi, trasforma il nostro cuore e prendine possesso. Brucia le nostre paure, sciogli le nostre resistenze… Fa’ che non restiamo prigionieri della nostalgia o del rimpianto del passato, ma sappiamo aprirci con serena fortezza alle sorprese di Dio… Rendici vigili, fiduciosi e prudenti nell’attendere il domani della promessa nella fatica delle opere e nella pazienza dei giorni della nostra vita” (B. Forte).

    Lectio

    La nostra pagina evangelica si apre con un’introduzione in cui vengono offerte all’ascoltatore le coordinate di tempo – “la sera di quello stesso giorno” –  e di spazio – “nel luogo dove erano i discepoli” –  all’interno delle quali avviene l’incontro di Gesù risorto con i discepoli impauriti e disorientati dopo i tragici avvenimenti della sua passione e morte. Tutta la scena ha Gesù come protagonista: è lui il punto di convergenza da cui si diparte nuovamente la sequela e la missione.

    Il racconto è ambientato alla “sera del primo giorno della settimana”. E’ il giorno della resurrezione stessa di Gesù: Maria di Magdala ha già portato la buona notizia al gruppo incredulo, Pietro e Giovanni sono già corsi alla tomba vuota.

    L’apparizione di Gesù è descritta da Giovanni come una “venuta” – “venne” -. E’ un verbo significativo perché rimanda all’esperienza liturgica e di preghiera delle comunità cristiane delle origini pervasa insistentemente dall’invocazione “Maranahthà” che potrebbe tradursi con: Vieni, Signore, oppure con: Il Signore viene. Da parecchi indizi, e da tutto il contesto, possiamo cogliere nel nostro brano evangelico una sottintesa volontà dell’evangelista di sottolineare l’esperienza liturgica della comunità come luogo di incontro col risorto (la “sera”, il verbo “venne”, lo stare insieme dei discepoli, il mandato….).

    I discepoli sono “a porte chiuse dentro al luogo dove si trovavano per paura dei Giudei”. Essi hanno paura. Di cosa? Avvertono un’ostilità crescente fuori di quelle stesse mura, e che potrebbe riversarsi su di loro da un momento all’altro come lo è stato per il loro Maestro di cui hanno terrore di fare la fine. Sono tuttavia angosciati e impauriti perché incapaci di dare senso, ragione a tutto ciò che è avvenuto: quella morte di croce è lì fissa dinanzi alla loro coscienza come uno scandalo insormontabile. E’ in fin dei conti una comunità alla deriva, destinata allo sgretolamento, alla dispersione (Tommaso se ne è già andato, e così i due di Emmaus!). Senza il punto di riferimento rappresentato da Gesù essa si sente sola, abbandonata, isolata, impossibilitata a muoversi.

    Dopo questa introduzione “in tonalità minore”, il nostro evangelista ecco procedere con l’esplosione di due scene che vengono a frantumare questa esperienza di vuoto e di angoscia.

    Due scene susseguenti che è possibile porre benissimo in parallelo.

    La prima scena trova il suo nucleo nel riconoscimento di Gesù da parte dei discepoli intimoriti. La prima parola che il risorto pronuncia è: “Pace a voi! – Shalom ‘alekem”. Non si tratta semplicemente di un augurio, ma è una consegna effettiva e autorevole del dono promesso dello “shalom” quale pienezza di vita, quel dono che i profeti e lo stesso Gesù avevano preannunciato come compimento delle promesse dei tempi messianici. Durante i discorsi dell’ultima cena Gesù aveva preannunciato ai suoi: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Gv 14,27), e ancora: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). Finalmente questa shalom tanto attesa può pervadere il cuore di ogni uomo che accoglie il dono della venuta del Signore risorto.

    Dopo queste parole Gesù mostra le ferite delle mani e del costato. La menzione del costato è tipica di Giovanni il quale certamente ci rimanda così alla scena della morte e del costato trafitto dalla lancia (19,34-37). In quel momento “uscirono sangue e acqua” simbolo della vita e del dono dello Spirito che Gesù sta per fare. Notiamo che per Giovanni questo gesto di Gesù risorto non ha alcuna intenzione apologetica, quasi che volesse dimostrare la verità della resurrezione, esso possiede una finalità più profonda di rivelazione; infatti nel nostro evangelista il verbo “mostrare” ha quasi sempre questa valenza “rivelativa” (cfr 2,18; 5,20; 10,32; 14,8).

    La reazione dei discepoli è immediata. I discepoli “vedendo” il Signore che “mostra” le sue piaghe riconoscono in lui il Crocifisso Risorto: “gioirono nel vedere il Signore”.

    Anche la gioia, e non solo la pace, è frutto dell’adempimento della promessa. Sempre nei discorsi di addio Gesù aveva infatti affermato: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia.” (16,21-23). Questa promessa ora si realizza.

    Dopo l’offerta del dono della pace e della gioia, il cuore dei discepoli si infiamma: la “contemplazione” delle piaghe testimoni di un amore “sino alla fine” (13,1), la pace e la gioia che scaturiscono dall’incontro li predispone ad un ulteriore passo, all’accoglienza di un ulteriore dono.

    Si apre così la seconda scena. Essa contiene nel suo nucleo il mandato missionario di Gesù ai discepoli: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Anche questa formula è già presente nei discorsi di addio: “Come tu mi hai inviato nel mondo, così io li ho inviati nel mondo” (17,18). Ciò che appare evidente e caratteristico è che Gesù pone un chiaro parallelismo tra la missione a lui affidata dal Padre e quella che lui affida ai suoi discepoli. Vi è perciò, per i discepoli, una partecipazione alla missione stessa del Figlio, sono chiamati a continuarne “nel mondo” l’opera di annuncio della buona notizia dell’amore del Padre.

    Dopo queste parole di mandato Gesù compie un gesto estremamente significativo: “soffiò su di loro”. Tale gesto è accompagnato dalle parole: “Ricevete lo Spirito santo”. Nell’antico testamento abbiamo due riferimenti importanti: in Gn 2,7 dove Dio creando dalla terra Adamo “soffiò nelle sue narici un alito di vita”, e in Ez 37,9: dove il soffio di Dio è invocato sulle ossa aride “perché riprendano vita” (cfr Sap 15,11). Dunque il gesto di Gesù ha un valore di dono di vita e di nuova creazione. E’ questa, secondo alcuni esegeti, la “pentecoste giovannea”.

    Per rendere effettiva la missione i discepoli, in certo qual modo, hanno bisogno di essere ricreati-rigenerati mediante l’accoglienza della buona notizia della morte di Gesù: ma questa è opera dello Spirito di verità. Vi è perciò una strettissima relazione tra la missione e il dono dello Spirito. Senza quest’ultimo la missione non sarebbe possibile. Invasi dallo Spirito, che li apre all’accoglienza del dono della morte-resurrezione di Gesù, i discepoli sono così consacrati per la missione.

    Questa missione si riassume con l’incarico di annunciare il perdono dei peccati.(cfr Mt 16,19; 18,18. La terza persona plurale – “sono rimessi… sono ritenuti” – sottintende che è Dio stesso che rimette o ritiene i peccati) è un il compito affidato alla comunità cristiana e ai suoi responsabili col il quale essi sono chiamati ad annunciare la buona notizia e di ammettere al battesimo coloro che l’accolgono. E’ inevitabile che l’annuncio della parola e i gesti che l’accompagnano portino un giudizio sul mondo dinanzi al quale gli uomini sono chiamati a scegliere: alcuni l’accolgono ricevendo il perdono altri lo rifiutano indurendosi nel proprio male (14,17; 16,8).

    Collatio

    La comunità dei discepoli rinserrata dentro il cenacolo è allo sbando, il disorientamento è totale e immobilizza ogni sforzo per ripartire. Serpeggia solamente la nebbia dello scoraggiamento e della sfiducia. I discepoli sono incagliati, arenati in quello scoglio “scandaloso” che è la croce. sono come una barca impossibilitata a prendere il largo.

    Per loro, negli angusti orizzonti di quella stanza buia dalle porte e finestre sbarrate, non appare alcuna via di uscita, alcuna soluzione: è l’immobilizzazione così simile alla morte. Sempre la paura paralizza, immobilizza e spegne ogni desiderio. Il cammino fatto fino a quel punto sembra dissolversi come un’illusione da strapazzo.

    Ripartire come? Da dove? È una domanda che avrà sicuramente rimbalzato nelle menti di tutti i discepoli ma alla quale nessuno sa trovare risposta né soluzione.

    Se il Crocifisso risorto non mettesse mano lì dentro sarebbe la catastrofe per tutti. E’ solo l’incontro con lui a possedere la forza straordinaria capace di rimettere in moto quella comunità, di infonderle nuovo dinamismo capace di stravincere ogni paura. E’ il soffio impetuoso dello Spirito donato dal Risorto a possedere la forza travolgente di spingere questo gruppo sparuto e impaurito ad affrontare i confini del mondo per portare la Buona Notizia.

    Cosa significherà per noi “ripartire” nuovamente, come i discepoli, da quel cenacolo ostruito dai massi delle nostre paure?

    Ripartiamo se ci accorgiamo anzitutto che abbiamo ancora tanta strada da fare, e che forse ci siamo per troppo tempo fermati. Capita di trovare persone, autodefinitisi credenti, che si sentono già arrivate, già a posto. A costoro la parola “ripartire” non evoca nulla, non suscita alcun desiderio, perché “ripartire” è un verbo compreso solo da chi abita il mistero, da chi avverte una nostalgia indefinibile di bellezza, di vita e di pienezza di cui si vuole cercare la fonte; è compreso da chi vive una sana insoddisfazione nella propria vita perché sente l’urgenza di cercare nuovamente, di non accontentarsi. Riparte l’uomo “desideroso”, ovvero etimologicamente (desiderio = ad sidera) l’uomo capace di “guardare le stelle”, ovvero di alzare lo sguardo e di uscire dalla stanza chiusa del suo piccolo mondo per cercare qualcosa di più grande, non accontentandosi più del “già visto”. E’ l’uomo desideroso di infinito che richiama a quell’Infinito che è Dio stesso.

    Questo significa vincere il rischio di quella terribile malattia che la miopia della coscienza che porta al ripiegamento su di sé. Ma questo significa la rinuncia a quelle fragili sicurezze fatte di tante piccole e grandi chiusure che sono disseminate nella nostra vita e nelle nostre comunità.

    Vi è inoltre un’ulteriore strada che può spingere a “ripartire”, ad uscire dalla stanza chiusa, ed è quella che possiamo percorrere accanto al dolore. È una strada rischiosa e faticosa perché sollecita fortemente alla rabbia, alla rivendicazione, all’immobilizzazione: come i discepoli impauriti e pervasi dal dolore siamo incapaci di alzare nuovamente lo sguardo e di tornare a sperare.

    Tuttavia, se ci lasciamo interrogare dallo scandalo del male nostro e di quello che ci circonda e che sembra avere l’ultima parola, dall’assurdità della violenza che abita il cuore nostro e di ogni uomo,  avvertiremo la necessità di andare oltre, di uscire, di cercare, di appunto… ripartire. Il dolore possiede la grazia di scomodare la fede scontata fatta di facili risposte artefatte che rinserrano la mente e il cuore.

    In tutto questo ciò che è fuoco che può riscaldarci, vivificarci e illuminarci, ciò che è soffio capace di farci rivivere sarà il nostro “perseverare nell’ascolto della parola”. Una comunità che desidera “ripartire”, è una comunità disponibile all’ascolto. Tale dono impedisce di rinserrarci dentro le illusorie sicurezze delle nostre quattro mura (fatte magari anche di belle progettazioni, di belle celebrazioni, di agende stracariche di impegni ma in cui perdiamo di vista il cardine essenziale).

    Una autentica “ripartenza” porrà Cristo e la Buona Notizia della sua morte e resurrezione al centro di ogni cosa, come perno imprescindibile e insostituibile. Ciò significa lasciare che sia lui il fondamento e la misura di tutto che siamo e facciamo. È necessario in un mondo che vede più che mai la tentazione titanica dell’uomo di farsi misura a se stesso, di voler ripartire da sé stesso per trovarsi poi a girare a vuoto, o “in tondo” come afferma la scrittura parlando dello stolto.

    Contemplando le piaghe del Cristo crocifisso e risorto, riudendo sempre la sua parola che è promessa di pace e perdono, ci apriamo sempre più al soffio del suo Spirito. Ed è lo Spirito a trasformare la nostra vita in un itinerario, un pellegrinaggio, una missione. La vita non sarà più un circolo vizioso avvolto dalle brume delle nostre noie, della nostra sfiducia e  delle nostre paure. Essa si aprirà al futuro di Dio, alla sua promessa… nonostante tutte le nostre porte sprangate.

    Oratio

    L’incontro con te, Signore Gesù, attraverso l’ascolto della tua parola diventi una rinnovata occasione del dono del tuo Spirito di vita su di noi, sulla Chiesa e il mondo intero.

    Soffia ancora Signore Gesù: ne abbiamo bisogno! Come i discepoli spesso ci intristiamo e ripieghiamo nei nostri scoraggiamenti, siamo attanagliati dalle nostre mille paure. Nonostante questo tu “vieni” ancora e sempre in mezzo a noi con il dono della tua presenza fatta parola e pane. Questo rinnovato incontro con te infonde, come un tempo ad Elia stanco e scoraggiato, una nuova energia, ci rialza e ci fa riprendere il tratto di strada. Ora ci inviti a percorrere con te le strade del mondo per portare quello che tu stesso ci hai donato: la pace e la gioia contenute nella Buona Notizia.

    Trasformarci in strumenti di pace e di riconciliazione in questo nostro mondo, in cui troppe barriere e steccati chiusi impediscono di uscire, di incontrarsi, di riconciliarsi. Ci si rinserra nella propria paura e la vita intristisce e la gioia della comunione non viene vissuta.

    Che la comunità dei tuoi discepoli risplenda in questo nostro mondo per la missione che tu le hai affidato: sia capace con la forza dell’evangelo di dissolvere ogni porta chiusa perché tutti si possano incontrare sulla strada ed insieme ripartire verso l’unico Padre di tutti.

  • 23 Ago

    Lo vide e ne ebbe compassione

    Lectio di Lc 10,29-37

    di p. Attilio Franco Fabris

    È  con una certa ammirazione che ancora la gente minimamente informata, anche se lontana dalla fede, guarda alla Chiesa e in modo particolare alla vita consacrata, per il suo contributo benefico svolto a favore di quei settori della società in cui era ed è purtroppo ancora assente una presenza e un’azione di promozione della vita e della dignità di colui che viene considerato “ultimo”. Come ad esempio non ricordare il fondamentale ruolo sociale e culturale, oltre che ovviamente religioso, della chiesa e della vita monastica nella costruzione dell’Europa cristiana che l’ha vista impegnata a favore della promozione umana e spirituale con scuole, università e ospedali, grandi opere di edilizia e bonifica? Come non riandare poi a tutte quelle famiglie religiose che, soprattutto a partire dalla Controriforma sino ai nostri giorni, hanno svolto un servizio impareggiabile nel campo dell’assistenza ai poveri, ai malati e anziani, ai carcerati e ad altre fasce sociali diseredate?

    Si tratta di un patrimonio religioso e sociale che non appartiene solo ad un lontano passato. Esso è ancora quanto mai vivo e attuale, con figure di uno splendido spessore che per lo più vivono nel nascondimento e nell’anonimato perché il bene non fa rumore. Sono ancora oggi tanti gli uomini ma soprattutto donne che si piegano quotidianamente, con una fedeltà spesso eroica, sulle ferite di tanti fratelli e sorelle talvolta e pagando di persona questa loro scelta. Questa schiera di testimoni del passato e di oggi stanno a dire che la provvidenza fa sempre passare per la strada il “buon samaritano”, che ad immagine di Cristo, si prende cura dell’uomo ferito al bordo della strada. Essi ricevono dallo Spirito il carisma della compassione e trovano il coraggio di spendere la propria vita inginocchiati ai piedi del povero, facendosi così, con poche parole, concreto evangelo di un Dio che si china sull’uomo che grida, spesso in silenzio, il suo bisogno di aiuto.

    Chiediamo perciò per loro ma anche per noi allo Spirito un cuore capace di vedere, di farsi accanto, di compatire il piccolo e il povero che incontriamo abbandonato da tutti. Sia lo Spirito a donarci una “carità che non sia oziosa e che operi grandi cose”: “O Fuoco, abisso di carità, tu sei Fuoco che sempre ardi e non consumi:  tu sei pieno di letizia e di gaudio e di soavità.  Al cuore che è ferito da questa fiamma  ogni amarezza appare dolce,  ed ogni peso diventa leggero. E poiché ho detto che arde e non consuma,  ora dico che egli arde consuma,  e distrugge e dissolve ogni difetto, ignoranza,  ed ogni negligenza che è nell’anima.  Poiché la carità non è oziosa,  essa opera grandi cose” (s. Caterina da Siena 1347-1380).

    Lectio

    La parabola del “buon samaritano” è unita redazionalmente all’episodio della richiesta da parte del dottore della Legge di una delucidazione circa il problema del “cosa fare per avere la vita eterna?”.

    La riposta immediata di Gesù è in sintonia col vissuto religioso dell’uomo: egli lo rinvia infatti al nucleo di tutta la Toràh che è riassunto con il comandamento: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso” (10,27). Ma l’uomo di Legge non si accontenta di questa risposta: se per lui, il contenuto dell’amore verso Dio è, probabilmente, – non basta osservare la Legge! – non così è la seconda parte del comandamento riguardante l’amore del prossimo: in questo caso le cose si fanno più complicate perché occorre capire bene chi è il prossimo da amare. La sua deformazione religiosa è inguaribile: chiede a Gesù una casistica che lo aiuti a discernere chi sia il prossimo da amare in modo da avere la vita eterna! “E chi è il mio prossimo?”. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda di Pietro che domanda al maestro quante volte dovrà perdonare il fratello (cfr Mt 18,21). La domanda non è obsoleta; nell’AT è prescritto tale comandamento che però viene inteso come un dovere da assumere nei riguardi ci chi è membro del popolo eletto o al massimo del pellegrino che abita con i giudei; in tutta la letteratura rabbinica contemporanea a Gesù non si trova infatti nessuna ulteriore estensione al concetto di prossimo. Ad esempio nelle normative della comunità di Qumran troviamo questa posizione riferita in modo esplicito: “Amare tutti i figli della luce. Odiare tutti i figli delle tenebre”.

    Alla richiesta di delucidazione circa l’applicazione del comandamento Gesù risponde con una parabola. È tipico della sua pedagogia il non dare mai risposte immediate e teoriche alle domande che gli vengono rivolte. Egli preferisce condurre progressivamente l’interlocutore a scoprire da sé la risposta alla questione posta. E conduce a questa “auto-risposta” non attraverso complicati percorsi fatti di ragionamenti o concetti, ma molto più semplicemente – ma più incisivamente – attraverso immagini o esempi che obbligano al confronto non con la teoria ma con la concretezza della vita. Gesù fa quet’operazione anche in questo caso non rimandando il dottore della Legge nuovamente alle norme ma mettendolo a confronto con fatti concreti di vita.

    Così attraverso la parabola del buon samaritano Gesù porterà il dottore della legge ad un ribaltamento della domanda e della sua impostazione religiosa e morale aprendolo ad un orizzonte che oltrepassa ogni confine normativo.

    Ma veniamo ora alla parabola. Essa ci presenta una scena di vita non inconsueta al tempo di Gesù. La strada che discende da Gerusalemme a Gerico superando un dislivello di circa mille metri è deserta e nello stesso tempo percorsa da pellegrini e mercanti. Per tal motivo era infestata da bande di malavitosi dedite al saccheggio e ad assalti agli incauti viaggiatori. Al centro della parabola sta la figura di “un uomo” “lasciato “mezzo morto” che è stato assalito e ferito da briganti, egli è sul bordo della strada bisognoso di urgente aiuto. Intenzionalmente di quest’uomo bisognoso non viene detto chi sia, quale sia la condizione sociale, la nazionalità, la religione: potrebbe così essere chiunque, si tratti di un pio giudeo oppure di un delinquente o d’un eretico. È “solo” “un uomo” che ha bisogno urgente di un aiuto.

    I personaggi che appaiono nel racconto sono agli antipodi: da un lato due membri della classe elitaria e privilegiata, rappresentati da un sacerdote e da un levita, dall’altro appare inattesa e stridente la figura di un odiato e impuro samaritano. Ma sarà proprio quest’ultimo ad apparirà, a malincuore per il povero dottore delle legge, come colui che porterà a compimento il comandamento della legge che lo renderà beato ovvero erede della vita eterna. E non solo! Siccome il comandamento dell’amore trova in Cristo il suo supremo adempimento ecco che il samaritano diviene addirittura figura del Signore Gesù.

    Il sacerdote e il levita stanno tornando a Gerico alle loro case probabilmente dopo aver terminato il loro servizio al tempio. Entrambi vedono l’uomo sul ciglio della strada bisognoso di aiuto ma di tutti e due si dice che “passano oltre dall’altra parte” (v. 31). Non se ne esplicita il motivo: tutti i motivi potrebbero dunque essere “buoni” per loro. Generalmente si porta come motivazione la normativa circa la purità legale (cfr Lv 21) ma questo varrebbe solo per il sacerdote e non per il levita. Fosse questa la motivazione la lettera della legge permetterebbe loro di sentirsi “a posto”, ma eludendo lo spirito ultimo della legge stessa (Cfr Lc 11,42). Ma più che le motivazioni, che non vengono riportate, all’evangelista interessa piuttosto mettere in scena queste due categorie di persone che rappresentano l’elite religiosa della società giudaica in modo da poterle poi confrontare con l’inatteso personaggio successivo: un samaritano!

    Infatti gli ascoltatori si aspetterebbero, dopo il sacerdote e il levita, l’entrata in scena di un pio giudeo laico (la parabola assumerebbe così un condiviso e diffuso tono anticlericale!). Ma ecco che Gesù, ribaltando queste attese, fa entrare in scena un personaggio scomodissimo per tutti: un odiato, eretico e impuro samaritano! (v. 33).

    La descrizione della condotta del samaritano è fatta con cura in modo da sottolinearne il valore. L’evangelista usa diversi verbi: “passandogli accanto lo vide…n’ebbe compassione…gli si fece vicino… gli fasciò le ferite” (vv 33-34).

    Tra questi verbi uno in modo particolare colpisce per la sua importanza: “ne ebbe compassione” (lett. “si mossero le sue viscere” in riferimento alle viscere materne). Questo verbo “materno” è usato nella Sacra Scrittura per descrivere la compassione di JHWH  verso il povero e il debole, ed è il verbo applicato anche nel Nuovo Testamento a Gesù quando incontra l’uomo bisognoso di aiuto (cfr Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13; 15,20). Si comprende come bene la tradizione abbia sempre visto nella figura del samaritano la figura di Cristo e di conseguenza di Dio stesso che in lui rivela la sua compassione per l’uomo. Alle azioni esterne del samaritano corrisponde dunque un più decisivo e importante movimento interiore (“ne ebbe compassione”) che le motiva..

    Sulle piaghe dell’uomo il samaritano verso vino e olio (nella farmacopea del tempo il vino disinfetta e l’olio lenisce il dolore). Sono certamente dei dettagli che hanno tuttavia lo scopo di far intendere come per Gesù l’amore deve tradurre in gesti concreti.

    Il samaritano è colui che “si prese cura” dell’uomo bisognoso. La stessa espressione ritorna sulle labbra del samaritano al momento della consegna del malcapitato all’albergatore: “prenditi cura di lui” (v.35): la sua opera è in certo qual modo lasciata in eredità, essa va continuata e deve coinvolgere tutti.

    Il dottore della legge, preoccupato della sua casistica, aveva chiesto: “Chi è che devo amare?” ovvero “chi devo considerare prossimo?” (cfr Lv 19,18). Gesù gli risponde addirittura ribaltando l’interrogativo e la prospettiva: “Chi è che ha amato?”. Ovvero “Chi si è fatto prossimo?”. Il dottore della legge deve riconoscere (probabilmente a malincuore e a denti stretti!) che l’odiato samaritano è l’unico ad aver agito giustamente (v. 37).  Le posizioni si sono rovesciate rendendo impossibile una prospettiva impostata sulla casistica. Avviene scandalosamente che l’eretico pratica meglio l’insegnamento della legge del fedele giudeo. Gesù spinge ad un’interpretazione della legge non più legata ad una definizione giuridica ma ad un amore vissuto che rende “prossimi” al “prossimo” che si incontra lungo la strada di ogni giorno.

    La parabola termina con un forte invito-imperativo da parte di Gesù all’uomo: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (v. 37). La risposta è data: la condizione per entrare nella vita eterna (v. 25) è un amore che rende prossimi e si traduce in gesti concreti di compassione e misericordia.

    Collatio

    Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Alla domanda dell’uomo di legge preoccupato della propria giustificazione potremmo rispondere con le parole del profeta Michea:  “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,88). Dinanzi alla prospettiva di un comandamento che apre ad una giustizia e pietà che, in Cristo, non conoscono ormai più confini, la coscienza  ristretta preferirebbe piuttosto chiare delimitazioni per sentirsi giustificata, “a posto con se stessa”.

    Gesù capovolge questa visione nel grande discorso programmatico sulla montagna: “avete inteso, ma io vi dico…” (Mt 5,43-44),  qui egli addita una “giustizia più grande di quella degli scribi e farisei” (Mt 5,20).

    Alla preoccupazione di chi si deve considerare prossimo in modo da offrigli l’aiuto necessario Gesù risponde che è essenziale ribaltare la questione: sono io che devo farmi prossimo. Questo è lo spirito autentico e ultimo della Legge! Prospettiva oltremodo scomoda perché impedisce di porre limiti, di poter alla fine dire: “Ho fatto quel che dovevo”. Accettare la conclusione della parabola implica accettare di oltrepassare tutti quegli schemi e confini in cui vorremmo ingabbiare, per comodità di gestione, il comandamento dell’amore. Solo chi non ama sta a domandarsi chi sia il suo prossimo, chi ama invece è capace di individuare, qui ed ora, chi è e dov’è il suo prossimo perché per lui non esistono più “spazi neutri”.

    Mi ha sempre colpito la frase scolpita a caratteri cubitali sulla facciata della “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di Torino, che il Cottolengo riprese da Paolo apostolo: “Caritas Christi urget nos- L’amore di Cristo ci sospinge… ci obbliga…”. L’opera del Cottolengo come di tanti e tante altre non risponde ad una generica emozione e sempre passeggera filantropia, ma sgorga come risposta ad un incontro con un amore “smisurato” e immeritato che ha cambiato il modo di guardare alla vita: è l’incontro con Cristo che per primo si è chinato su di noi come buon samaritano. Se si sperimenta questo amore come si potrà trattenerlo solo per se stessi? Come non donare ad altri questa sovrabbondanza di compassione ricevuta? Come non mettere in atto nella storia segni di speranza e di amore perché altri si sentano a loro volta amati da Dio? Scrive Giovanni Paolo II: “la sincerità della risposta all’amore di Cristo conduce a vivere da poveri e ad abbracciare la causa dei poveri” (VC 82). È l’amore di e per Cristo che oramai spinge, obbliga a chinarsi verso il piccolo, al povero e il sofferente, verso colui che, agli occhi del mondo, non conta ed è quindi scartato e rifiutato:  “E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25,39-40)).

    Non è più possibile a chi ha fatto esperienza dell’amore di Cristo “non vedere” e “passare oltre”.  La giovane suora madre Teresa di Calcutta era sul treno diretta verso la sede degli esercizi spirituali. In una stazione vede un povero moribondo sul marciapiedi abbandonato da tutti: che fare? continuare il suo viaggio – non ci sono i santi esercizi che attendono! – o scendere dal treno e prendersi cura dell’uomo? La scelta è subito fatta, e sarà determinante per il suo futuro e per la nascita dell’istituto delle Suore della Carità. È vero che “l’opzione per i poveri è insita nella dinamica stessa dell’amore vissuto secondo Cristo “ (VC 82) .

    Come il sacerdote e il levita rischiamo invece di non lasciarci coinvolgere da questo amore, e così passiamo oltre girando lo sguardo altrove, apportando certamente valide motivazioni capaci di mettere a tacere la nostra coscienza così religiosa: “Non tocca a me… se dovessi farmi carico di tutti sarebbe finita… ci devono pensare altri…non posso risolvere tutti i problemi… ci sono cose più urgenti… Ma alla fine non è colpa mia se l’è cercata lui!…”. Siamo così abili ad escogitare scappatoie per poter passare oltre le ferite altrui “illesi” nella nostra falsa coscienza.

    Come non ricordare a questo punto una figura straordinaria di “buon samaritano” dei nostri giorni quale è stato Roul Follerai: spese tutta la sua vita dopo aver incrociato casualmente la sofferenza dimenticata dei lebbrosi. Capì che la sua vita poteva e doveva essere ormai spesa nel chinarsi su  quegli uomini piagati e rifiutati. Sono sue queste parole dette in tutta coerenza: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo.” Follerai cercò di coinvolgere non solo la moglie, bensì il mondo politico, religioso e culturale perché superasse l’indifferenza o la dimenticanza di questo problema. La sua associazione vive e opera ancor oggi con migliaia di volontari.

    Si tratta perciò in primo luogo di saper “vedere” “l’uomo al bordo della strada”! Non è poi così scontato perché restringiamo senza accorgerci il nostro orizzonte alle nostre piccole cose non accorgendoci che così facendo restringiamo la nostra capacità di amare. Il Signore ci invita ad “udire il grido del povero”, “alzare lo sguardo” e “vedere”.

    Solo così può scaturire in noi la compassione. Questa è virtù estremamente rara nella cultura sempre più narcisistica nella quale siamo immersi e che ci vorrebbe costantemente impegnati a centrare tutto su noi stessi, non si ha tempo per gli altri, ci sono sempre cose più importanti da fare. “Cum-patere” significa “soffrire insieme””. In questo senso il primo samaritano è Cristo stesso che porta su di sé, agnello e servo di Dio tutta la nostra infermità. Egli la “con-divide” ovvero la “divide con noi” portandola  insieme a noi. Nelle “Cronache domenicane” del XIII sec. narrando della vita di san Domenico l’agiografo scrive: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione”. “Portare il dolore – di tutti e indistintamente – nel santuario della compassione” è il vertice della sequela di Cristo perché è conformazione piena a lui, che è com-passione di Dio fatta carne. Perché Cristo stesso si identifica col piccolo e il povero, il servizio resi a questi è reso a Cristo stesso: “Cristo si trova sulla terra nella persona dei suoi poveri…Come Dio, ricco, come uomo, povero. E infatti lo stesso uomo già ricco ascese al cielo, siede alla destra del Padre eppure quaggiù tuttora povero soffre la fame, la sete, è nudo” (Agostino, Sermoni 123).

    “Avere compassione” non è questione solo di pii sentimenti o facili entusiasmi. La vera compassione, insegna la parabola, si traduce in scelte e gesti concreti perché “il vangelo si rende operante attraverso la carità” (VC 82). L’apostolo Giacomo ammonisce a non cadere nel tranello di una fede vuota di opere, fatta solo di buone intenzioni e perciò inconsistente e perversa: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2,2-4). La fede vera si traduce obbligatoriamente in opere, ed è quindi con riconoscenza che vediamo come lo Spirito abbia spinto e spinge tuttora a porre in atto gesti concreti di “com-passione” – non importa se grandi o piccoli, anonimi o pubblici – che testimoniano al mondo che Dio “Caritas est”.  “La compassione – scrive p.J. Fuellenbach – non è solo passiva. Richiede la rimozione di ciò che pregiudica la vita in coloro che soffrono. Gesù ha sempre risanato la persona e l’ha portata nuovamente nel tessuto delle relazioni vitale (giustizia)”.

    Prenditi cura di lui” è la consegna che il samaritano fa all’albergatore affidandogli la cura dell’uomo ferito. Il suo servizio diviene così capace di coinvolgere altri, di responsabilizzare altri a proseguirlo. In questo modo si intesse una cultura di “com-passione”, di solidarietà. Le comunità cristiane e religiose dovrebbero divenire autentiche scuole di questo servizio e quindi di evangelizzazione. “Servire i poveri è atto di evangelizzazione e nello stesso tempo sigillo di evangelicità e stimolo di conversione permanente per la vita consacrata, poiché – come dice san Gregario Magno – «Quando la carità si abbassa a provvedere anche agli infimi bisogni del prossimo, allora divampa verso le più alte vette. E quando benignamente si piega alle estreme necessità, allora vigorosamente riprende il volo verso le altezze»“(VC 82). Come non guardare con gratitudine a apprezzamento al sempre maggior coinvolgimento di laici/che in tanti settori di servizio un tempo strettamente riservate alle persone consacrate. Questo non mancherà di portare frutti abbondanti di vita e di testimonianza cristiane! Occorrerà tuttavia tenere sempre presente il rischio di ricadere in un’ottica che vuole tutto organizzare, prescrivere, delimitare. Si cadrebbe così ancora una volta nel tranello della “Legge”. La misura del “fare” non potrà mai essere predeterminata a priori così che sia possibile pensare un momento in cui essa sia esaurita, in cui l’esigenza dell’altro non ci interpella più; essa invece resta inesauribile perché tale è l’appello che ci è rivolto dalla presenza dell’altro.

    Che cosa dobbiamo fare per avere in eredità il Regno? Dio vuole che accogliemmo il suo stile, il suo farsi prossimo ad ogni uomo senza distinzione alcuna. L’attenzione e la cura data all’uomo bisognoso che giace al bordo delle strade delle nostre città diviene annuncio della Buona Notizia di un Dio che si fa vicino all’uomo amandolo concretamente; la vicinanza all’ultimo diviene sacramento della vicinanza di Dio all’uomo.

    Oratio

    È veramente giusto lodarti e ringraziarti, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, in ogni momento della nostra vita, nella salute e nella malattia, nella sofferenza e nella gioia, per Cristo tuo servo e nostro redentore. Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza. Per questo dono della tua grazia, anche la notte del dolore si apre alla luce pasquale del tuo Figlio crocifisso e risorto. (Prefazio Comune IX del Messale Romano).

  • 22 Ago

    Noi serviremo il Signore nostro Dio

    e obbediremo alla sua voce!


    Lectio di Gs 24,1-3.13-25

    di p. Attilio Franco Fabris

    Leggera è l’obbedienza vissuta alla luce dell’Evangelo, perché testimonia una gioiosa appartenenza e una libertà desiderata. Gioiosa appartenenza all’unico e indiviso Signore, libertà desiderata perché ci riscatta da ogni umiliante schiavitù in cui sprofondiamo ogniqualvolta vogliamo sganciarci dal nostro rapporto con il “Dio Uno” al quale solo spetta il nostro servizio di lode.

    La fede non è l’obbedienza, né è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J.Guillet), per cui l’obbedienza vera è la fede radicale riposta unicamente in Dio: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (Gs 24,23).

    L’obbedienza biblica non è un rapporto di dipendenza, di sottomissione dell’uomo a Dio, ma un libero rapporto d’amore sollecitato da Dio stesso attraverso il dono dell’alleanza prima offerta nella Legge e poi nella carne del Figlio.

    Accogliendo questo dono veniamo liberati da ogni idolatria, mettiamo a morte l’uomo vecchio con le sue pretese di indipendenza egocentrica, ci volgiamo a Dio in una esigente relazione d’amore.

    Certo essa non è facile! Questa obbedienza domanda l’assunzione di tutta la propria responsabilità e il rifiuto di ogni scorciatoia comoda attraverso la quale rinunciarvi. La vera obbedienza non è mai disgiunta dalla responsabilità! Gesù ci insegna la via di questa obbedienza, donandoci il suo Spirito che, in lui Figlio obbediente, fa di noi altrettanti figli (cfr Rom 8,15), ed è perciò lo Spirito che dobbiamo invocare perché ci sia dato in Cristo di poter dire a nostra volta: “Abbà sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”: “Vieni, Spirito Santo, dal tuo trono celeste a consacrare i cuori dei tuoi fedeli, tu che il Cristo, la sapienza incarnata, promise di mandare da presso il Padre. Tu sei il “Dono” eterno e nuovo che il Cristo in croce fece alla sua Chiesa, quando la sposò con un’alleanza eterna, ornata di porpora dal sangue del Re. A colui che ti riceve, si aprono i misteri; nell’intimo, tu gli insegni ogni cosa. Questa è la caparra che già su questa terra il Cristo ha voluto dare alla sua Sposa”. (Rabano Mauro, PL 107,211).

    Lectio

    Il testo tratto dal cap. 24 del libro di Giosué è il resoconto del secondo solenne rinnovo dell’alleanza sinaitica (a cui stranamente qui non si accenna) celebrato da tutte le tribù d’Israele dopo la presa di possesso della terra promessa.

    Alcuni esegeti motivano a livello storico l’episodio con la volontà da parte di Giosué di radunare e stringere in un’unica confederazione tutte le tribù in quanto alcune di esse erano già stanziate in terra di Canaan allorquando Giosuè e le altre tribù vi entrarono. Per tale ragione quelle tribù non avevano conosciuta l’alleanza del Sinai.. In tal senso si può affermare che quanto Mosè aveva celebrato sul Sinai (cfr Es 24) viene ora ripetuto e riproposto nell’adunanza di Sichem.

    La struttura del brano e il suo lessico per quanto antichi denotano tuttavia un contesto liturgico con una sottostante teologia dell’alleanza tipica della tradizione “deuteronomistica”. Questa era caratterizzata dalla centralità della storia del popolo eletto letta come un continuo intervento salvifico da parte dell’iniziativa di Dio, il quale domanda una libera risposta di alleanza al “popolo che si è scelto”.

    Il testo ci si offre nella forma di un grande dialogo intessuto tra Giosuè, in qualità di portavoce di JHWH (“Dice il Signore, Dio d’Israele…” v 2), e tutti gli israeliti. Giosué, immediato successore di Mosè, ci appare come figura di mediatore alla stressa stregua del suo predecessore. Interessante come la sua funzione qui appare molto simile a quella successiva dei profeti quando richiameranno il popolo alla fedeltà all’alleanza con JWHW.

    Ma ripercorriamo ora gli elementi e i momenti fondamentali del nostro brano.

    Esso si apre solennemente con la convocazione da parte di Giosuè di “tutte le tribù…insieme agli “anziani d’Israele, i capi, i giudici, gli scribi del popolo” (v 1). L’atto ufficiale che si sta per compiere è di straordinaria importanza se esige la presenza di tutti, nessuno escluso.

    Anche il luogo della convocazione non è casuale: “Sichem” (v. 1). Tale località è centrale nella memoria di Israele: lì infatti JWHW era apparso ad Abramo la prima volta dopo che fu entrato nella terra promessa al fine di rinnovargli l’alleanza (Gn 12,6-8), lì Giacobbe aveva successivamente acquistato un terreno consacrandolo al Signore (Gn 33,18-20). A Sichem, dopo l’ingresso nella terra promessa, sempre ad opera di Giosuè, si era già svolto già un primo grande raduno con un primo rinnovo dell’alleanza (Gs 8,30-35). Sichem, molto prima di Gerusalemme, per molto tempo rivestirà l’importanza di una sorta di “capitale” della confederazione israelita e lì quasi sicuramente vi fu il primo santuario in cui risiedeva l’Arca dell’Alleanza (cfr 8,33). Logico allora che Giosuè scelga proprio Sichem come luogo simbolico strettamente collegato al tema della promessa e dell’alleanza. Ciò che sta per avvenire viene ricollegato in tal modo alla storia e una memoria di fede.

    Tutti “si presentarono davanti a Dio” (v.1): questa è un’espressione tipica utilizzata nel linguaggio liturgico per designare un’adunanza sacra e solenne. Non si tratta anzitutto e solo di un atto politico: è vera e propria azione liturgica celebrata dinanzi al Dio dell’alleanza.

    “Giosuè disse a tutto il popolo: «Dice il Signore, Dio d’Israele…»” (v, 2). Giosuè parla in modo autorevole in nome di Dio stesso, come faranno successivamente i profeti con discorsi strutturati su un identico schema.

    E il raduno assume sin dal principio l’andamento di un solenne dialogo che viene intessuto tra Giosuè e le tribù d’Israele.

    La prima fase del discorso di Giosuè ha come obiettivo il far memoria delle azioni salvifiche di JHWH (i verbi sono tutti alla prima persona singolare: Io…) nei riguardi di Israele a partire da Terach padre di Abramo sino a giungere all’”oggi” (v 15). Vengono perciò ripercorse le grandi tappe di una storia che Israele ha potuto sperimentare come liberazione/salvezza dalla schiavitù dell’idolatria. Un’azione che si apre ora al dono gratuito della terra: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v. 12).

    Dopo aver rievocato l’opera di Dio nel passato (vv 2-13) il discorso si traduce in un invito esplicito a corrispondere al suo dono: “Temete dunque il Signore e servitelo con integrità e fedeltà; eliminate gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume e in Egitto e servite il Signore” (v.14). Importanti sono i verbi “temere” e “servire” i quali sono un condensato del rapporto di Israele con la Legge implicando l’impegno di “servire Dio” con “integrità” e “fedeltà”. Non si cada in compromessi perché si tratta di decidersi per il Dio dell’esodo e della conquista, cioè della storia, contro l’attrattiva del culto delle divinità cananee, egizie e mesopotamiche (v. 14).

    La risposta non è scontata perché l’alleanza offerta da Dio si offre nel rispetto della libertà dell’uomo: “Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire: se gli dèi che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel paese dei quali abitate” (v. 15): in genere il verbo “scegliere” ha come soggetto Dio nei confronti dell’uomo, ma qui appare il contrario perché alla scelta di Dio deve ora corrispondere la scelta dell’uomo.

    La risposta di Israele non tarda, essa è entusiasta ed immediata: “Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Il Signore ha scacciato dinanzi a noi tutti questi popoli e gli Amorrei che abitavano il paese. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio” (vv. 16-17). Queste sono parole significative perché vi si scorge che l’obbedienza di Israele all’alleanza non nasce da un dovere morale o dalla paura, ma dal semplice fatto che Israele ha sperimentato lungo la sua storia che Dio è salvatore e liberatore, fedele alla parola data e dunque affidabile. Siccome “Egli è il nostro Dio” (v. 17), non è più possibile “servire (=obbedire!) altri dei” (v. 16).

    Ma, quasi una doccia fredda, la risposta di Giosuè è un forte richiamo alla serietà di tale decisione. Sembra quasi che Giosuè voglia mettere in guardia il popolo da una risposta troppo scontata: “Se abbandonerete il Signore e servirete dèi stranieri, Egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà”(v.20). Con Dio non si gioca al compromesso: ne va della vita stessa perché l’uomo si gioca interamente nella sua libertà. L’adesione all’Alleanza di Colui che è tre volte“Santo” non può essere presa alla leggera, sull’onda dell’entusiasmo (si tratta della stessa serietà che domanderà Gesù a chi gli chiederà di porsi alla sua sequela: cfr Lc 18.58ss): va ponderata attentamente nelle conseguenze che essa comporta: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati”(v 19). La “santità” (cfr Is 6,3) e la “gelosia” (cfr Es 34,14) di Dio non sopportano contaminazioni: si tratta di una “grazia a caro prezzo” (D. Bonhoeffer)! Non è possibile “servire a due padroni” ammonirà severamente Gesù (cfr Mt 6,24)!

    La reazione delle tribù radunate è unanime al grido: “Noi serviremo il Signore” (v 21). Israele riconosce come vere le parole di Giosué e protesta la sua volontà di mantenersi a sua volta, come lui e la sua famiglia, fedele all’Alleanza. Di questa scelta tutti si rendono “testimoni” gli uni nei confronti degli altri davanti a Dio (v 22).

    Giosuè intima perciò immediatamente al popolo di a mettere in atto tale scelta: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!» (v 23). Si allude qui con chiarezza alla presenza in quel momento di forme idolatriche all’interno delle tribù d’Israele. Non scordiamo pure i reali attestati dell’idolatria di Israele quando si trovava schiavo in Egitto (Ez 20,7-8; 23,3). Significativa allora appare l’esortazione di Giosuè a “rivolgere il cuore verso il Signore”: il cuore sta ad indicare il centro della persona, la sede della sua affettività e volontà. La scelta di sottoscrivere all’alleanza e di servire/obbedire il Signore deve procedere dal centro di se stessi, non può essere imposta dall’esterno: “Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!” (v.24). E’ la stessa risposta del popolo d’Israele a Mosè al termine dell’alleanza del Sinai: “Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).

    A questo punto come gesto finale il testo afferma che Giosuè “concluse l’alleanza” (v 25) o meglio “tagliò un’alleanza”: qui si conclude il brano alludendo forse al sacrifico di animali coma parte integrante del rituale dell’alleanza, come già fece Mosè ai piedi del Sinai (cfr Es 24,3-8).

    Collatio

    Il popolo rispose a Giosuè: «Noi serviremo il Signore nostro Dio e obbediremo alla sua voce!» (v.24). Il verbo “servire” è equivalente ad “obbedire”, ora l’obbedienza suppone l’ascolto della parola nella quale Dio rivela al suo popolo il suo disegno d’amore. “Ascoltare” rappresenta così il verbo più importante della Sacra Scrittura perché l’azione più importante che Dio compie è quella di “parlare”, ovvero di comunicarsi all’uomo!

    Per parlare di “obbedienza” l’ebraico usa il verbo “sama” che significa “ascoltare”: non esiste infatti nell’ebraico una parola corrispettiva al nostro “obbedire”. La stessa radice etimologica la ritroviamo sia nel latino (da ob-audire) e nel greco (hypò =koùo). In quest’ultimo il verbo ascoltare ha come prefisso “hypò” che indica “sotto”: l’idea qui espressa è che l’ascolto-obbedienza implichi un atteggiamento di sottomissione a colui che parla.

    Da cosa si caratterizza l’ascolto autentico della Parola di Dio? Da una costante tensione “non lasciar andare a vuoto alcuna delle parole di Dio” (1Sam 2,19), a custodirle gelosamente, nella consapevolezza che esse sono il cibo di cui l’uomo ha bisogno per raggiungere la vita (cfr Mt 4,4) dalla quale si è allontanato a causa della sua disobbedienza. Questa parola si farà, in Cristo, carne da mangiare per la vita eterna (cfr Gv 6,54). Isaia esplicita bene questa tensione: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,4).

    Nell’assemblea di Sichem ci viene presentato un popolo che radunato dalla Parola di Dio “non si tira indietro” , “non oppone resistenza” alla parola annunciata, ma entusiasta si rende subito disponibile all’obbedienza, riconoscendo in quella parola stessa il principio della sua sussistenza e della sua vocazione. Senza l’ascolto-obbedienza alla parola Israele cesserebbe infatti di esistere:“Oggi sei divenuto il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio” (Dt 27,9-10).

    Un aspetto essenziale dell’obbedienza biblica è il fatto che essa non scaturisce da un precetto moralistico, ovvero non è norma che improvvisamente cala dal cielo imponendosi dispoticamente all’uomo. Essa rispetta la libertà dell’uomo che può anche rifiutarsi di obbedire (come accade al principio, accade e accadrà con tutte le conseguenze che questa scelta comporta). È altamente significativo rileggere il dialogo che viene intessuto tra Dio e il popolo adunato a Sichem: esso è caratterizzato dal fatto che l’alleanza non è imposta al popolo ma proposta alla libertà di tutti e di ciascuno (“se vi dispiace…”v. 15). Essa fa appello dunque a quella libertà nella quale fin dall’inizio il Creatore ha costituito l’uomo, e che ne costituisce la dignità e che sola assicura un reale rapporto d’amore (=alleanza) tra partner.

    A una libertà sganciata da qualsiasi verità e dunque impazzita come oggi purtroppo accade, l’obbedienza biblica si propone come via di accesso alla verità del disegno di Dio, il quale promuove l’autentica realizzazione dell’essere umano. Scriveva Giovanni Paolo II: “Non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà. In effetti l’atteggiamento del Figlio svela il mistero della libertà umana come cammino d’obbedienza alla volontà del Padre e il mistero dell’obbedienza come cammino di progressiva conquista della vera libertà” (VC 91).

    Questa libertà lascia lo spazio anche al tradimento dell’alleanza, ovvero alla disobbedienza. Quando Israele viene meno all’obbedienza  sperimenta immediatamente la schiavitù come conseguenza irrimediabile: “Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi e sulla città santa dei nostri padri, Gerusalemme. Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati, poiché noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te, abbiamo mancato in ogni modo. Non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti” (Dn 3,28ss; cfr Es 17,7). Risuona perciò continuamente l’ammonimento del salmista: Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito…Se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie” (Sal 81,12.14). La disobbedienza conduce all’idolatria, all’indifferenza, ad un vuoto legalismo religioso. L’ingiunzione di Giosué appare dunque chiara: «Eliminate gli dèi dello straniero, che sono in mezzo a voi, e rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele!».(v 23). Israele sperimenterà lungo la storia che quando questa eliminazione non è reale subentrerà il suo sgretolamento e fallimento; ovvero andrà incontro alla morte. In questo senso Giosué premunisce il popolo contro la tentazione della disobbedienza, perché qualora accadesse “egli vi si volterà contro e, dopo avervi fatto tanto bene, vi farà del male e vi consumerà” (v. 20).

    L’obbedienza alla Parola è essenziale all’uomo in vista della sua libertà. Essa infatti lo preserva dall’inginocchiarsi dinanzi ai tanti idoli di ieri e di oggi, l’obbedienza al contrario restituisce l’uomo alla sua dignità di figlio, lo riapre a quella libertà per cui è stato fatto e che fa sì che senta di appartenere  a colui che lo ama: “mediante l’obbedienza si è uniti in maniera più costante e più sicura alla volontà salvifica del Padre” (PC 14).

    Un ulteriore importante aspetto dell’obbedienza che Dio chiede al suo popolo è che essa non è imposta dalla e con la paura. Al contrario essa deve rappresentare una risposta libera e gioiosa al fatto di aver toccato con mano l’azione salvifica di Dio. Gli imperativi divini non sono né dispostici,né tanto meno arbitrari e autoritari. L’obbedienza che Dio chiede è in certo qual modo. .. spiegata, motivata come conseguenza ovvia di ciò che è il Signore e del suo rapporto con il suo popolo.

    Comprendiamo allora perché il discorso di Giosuè si apra con un riepilogo della storia della salvezza che ha condotto Israele fino all’”oggi”: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Es 19,4-5). Anche il Decalogo suppone questo dinamismo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù (Es 20,2).

    Nel discorso di Giosué JHWH è un Dio che si presenta al suo popolo con credenziali di tutto rispetto: “Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati” (v.13). E quel che Dio ha fatto nel passato, lo sta compiendo in questo stesso momento e lo porterà a compimento nel futuro: questa è la convinzione di fede che sta alla base dell’alleanza, ovvero alla risposta positiva dell’uomo a ciò che Dio domanda per il suo bene. A questo punto l’uomo non potrebbe desiderare altro che obbedire: “Insegnami a compiere il tuo volere, perché sei tu il mio Dio” (Sal 142,10)!  Il fare costante “memoria” della presenza e dell’agire del Signore è essenziale perché Israele perseveri nel “servizio”, ovvero nell’obbedienza a JHWH: «Lungi da noi l’abbandonare il Signore per servire altri dèi!7 Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d’Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e ci ha protetti per tutto il viaggio. La nostra obbedienza deve radicarsi nel continuo memoriale di quanto Dio ha fatto, fa e farà per noi: Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,3). Cosicché la “Torah” dovrebbe essere vissuta da Israele non come un peso insopportabile ma come un dono, e l’obbedienza come l’occasione per entrare nel gioco d’amore con JHWH, sperimentando nella comunione con la sua volontà la beatitudine: “beato l’uomo di integra condotta che cammina nella legge del Signore” (Sal 119,1).

    L’obbedienza biblica non è dunque un’obbedienza servile, o “cieca” a dir si voglia; si tratta di un’obbedienza gioiosa, libera  che sgorga da un cuore che ha sperimentato la misura “smisurata” dell’amore di Dio: rivolgete il cuore verso il Signore, Dio d’Israele” (v.23). È questa l’obbedienza che Dio domanda al suo popolo, a ciascuno di noi: un’obbedienza adulta e matura, da figli e non da schiavi (cfr Rm 8,15).

    Ma proprio perché libera, adulta e responsabile essa comporta, ed è il terzo aspetto, forti esigenze e conseguenze: “Voi non potrete servire il Signore, perché è un Dio santo, è un Dio geloso; Egli non perdonerà le vostre trasgressioni e i vostri peccati” (v. 20). L’amore di Dio è esigente! L’obbedienza esige un sacrificio reale di quella volontà che appartiene all’ “uomo vecchio” sospettoso, incredulo e pauroso che sfugge alla Parola nascondendosi e illudendosi di poter costruire autonomamente la propria vita: “con la professione di obbedienza i religiosi offrono a Dio la piena dedizione della propria volontà come sacrificio di se stessi” (PC 14)

    Quando l’obbedienza decade e si snatura? Quando essa invece di radicarsi nella memoria delle opere di Dio si fossilizza nella lettera perdendo in tal modo la sua vera sorgente. Quando questo accade l’obbedienza si snatura, diviene legalismo vuoto e ricerca di autoperfezione e autogiustificazione. Contro questa falsa obbedienza si scaglieranno sia i profeti (cfr Is 1,11-17) come anche Gesù: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” (Mt 23,23)

    Il teologo protestante R. Bultmann scrive: “Dio chiede all’uomo un’obbedienza dal profondo e non dall’esterno. Sino a quando l’azione sta solo accanto all’agire, l’uomo non è totalmente obbediente. L’obbedienza esiste dove l’uomo è volto interamente a ciò che fa, dove è tutto ciò che fa, cioè dove egli non fa qualcosa ubbidendo, bensì è obbediente nel suo essere…L’obbedienza è radicale. Questo significa che l’uomo si trova nella situazione di decisione; se non si dà per lui alcuna possibilità di neutralità, allora deve decidersi tra le uniche due possibilità che ci sono nel suo essere, cioè tra il bene e il male” (R. Bultmann, Gesù).

    Che lo Spirito ci dia sempre di vivere un’obbedienza dal profondo di noi stessi che non scaturisca solo dall’esterno.

    Oratio

    Modello di obbedienza libera, responsabile e matura è Maria. È lei che, come Abramo, con “integrità” e “fedeltà” ha sempre “volto il cuore” unicamente al suo Dio in un “servizio” perfetto alla sua volontà: “eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”..

    A lei dunque affidiamo i propositi sgorgati dall’ascolto della Parola perché la nostra obbedienza si conformi sempre più alla sua perfetta discepola del Figlio: “Santa Maria, donna obbediente, Tu che hai avuto la grazia di “camminare al cospetto di Dio”, fa’ che anche noi, come Te, possiamo essere capaci di “cercare il suo volto “. Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E quando Egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto, e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia”. (mons. Tonino Bello)

  • 20 Ago

    Il tempo dell’antibabele

    Lectio di Isaia 2,1-5

    di p. Attilio Franco Fabris

    Il mondo sta camminando a passi sempre più spediti verso una trasformazione globale. Sta cambiando la cultura, la vita e le strutture sociali e di comunicazione, cambia l’economia sempre più globale: il mondo è realmente diventato più piccolo, un “villaggio globale” come alcuni amano dire. Vediamo le nostre città, e non solo, trasformare il loro volto. Viviamo, volenti o nolenti, uno dei cambiamenti più grandi della storia dell’umanità che segnerà sicuramente una svolta.

    Questo cambiamento è percepito con sentimenti diversi e spesso contrastanti: se ne avvertono le immense potenzialità di bene e di sviluppo per tutti, ma d’altra parte lo si teme perché esso comporta inevitabilmente lo smantellamento di strutture economiche, sociali, politiche, che per secoli avevano assicurato un orizzonte di sicurezza e stabilità.

    Uno dei segni più evidenti di questo cambiamento è dato dal fatto che, sempre più spesso, camminando per strada, salendo sul tram o al supermercato incontriamo donne col velo islamico, volti  neri, occhi a mandorla, sentiamo parlare lingue perfettamente sconosciute, vengono aperti negozi stranieri e inaugurati nuovi luoghi di culto per le religioni più disparate. In alcune scuole e quartieri si sta ponendo il problema di una minoranza fatta di… italiani! Un grande movimento di popoli sta avvenendo sotto i nostri cuori, obbligando ad un incontro, che può purtroppo come sta avvenendo in diverse parti del mondo e anche in Italia degenerare in scontro, di culture.

    Anche il volto delle comunità cristiane e religiose sta cambiando di conseguenza. Alla messa domenicale è facile scambiare il segno della pace a destra con l’africano e a sinistra con una filippina. Tanti istituti religiosi hanno scelto di integrare (talvolta importare!), per motivi più o meno validi, vocazioni provenienti dall’Africa e dall’Asia: per cui nel paesino più sperduto delle montagne dell’Abruzzo non è difficile intravedere l’anziana suora italiana che si accompagna a una giovane consorella indonesiana per andare alla messa celebrata dal prete indiano!

    Ci domandiamo: quale il ruolo della società, della chiesa, della vita religiosa, in questo frangente storico così delicato? Cosa Dio ci sta chiedendo? Quale il segno dei tempi che ci fa scorgere?

    Il profeta Isaia ha la forza e il coraggio di aprire il credente ad una visione di straordinaria bellezza: Dio annuncia che tutti i popoli sono chiamati a percorrere una via di riconciliazione e di pace che li faccia sempre più incontrare e unificare. Si tratta di una via che non passa attraverso i meschini calcoli politici o interessi economici, ma attraverso il riconoscimento che vi è una realtà più grande di ogni singolo popolo, lingua, cultura, religione. Questa realtà noi la chiamiamo Regno di Dio verso il quale tutti siamo incamminati per raggiungerlo in pienezza alla fine dei tempi. Nel frattempo la provvidenza di Dio ci pone nella condizione di pregustarne gli anticipi.

    Nel frattempo a noi collaborare con lo Spirito che fa percorrere alla storia sentieri ancora inesplorati: “Vieni Spirito Santo,scendi come rugiada dal cielo. Fa’ sentire la tua presenza mite, dolce e forte, nel profondo della coscienza. Apri i nostri occhi, fa’ che siano fissi sul volto di Cristo. Apri le nostre orecchie perché ascoltino solo le sue parole. Rendici suoi discepoli. Prepara il nostro cuore all’incontro sempre nuovo con il Signore risorto, in attesa di conoscerlo pienamente accanto a te, con tutti i nostri fratelli nella gioia del Padre, che non avrà mai fine. Allora ogni parola del Signore ci apparirà chiara e luminosa. E noi saremo introdotti nella vita della Trinità. Per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

    Lectio

    La cittadella di Sion raccoglie in sé il Tempio, dimora di Dio, e il palazzo del re suo luogotenente. Sia il tempio che il palazzo reale sono segni che rimandano costantemente all’elezione d’Israele da parte di JWHW e alle sue promesse.  Numerosi testi dell’AT si premurano di ricordare che JWHW abita in Sion: “Il Signore degli eserciti abita sul monte Sion” (Is 8,18), che è lui che “ha fondato Sion e in essa si rifugiano gli oppressi del suo popolo” (Is 14,32). “Sul monte della sua eredità, santuario che le sue mani hanno fondato” (Es 15,17). È da questa sede da lui scelta che JHWH vuole da sempre incontrare e parlare, tramite il profeta, al suo popolo.

    Il profeta Isaia abita proprio in Gerusalemme, e nei suoi oracoli si intravede un grande innamorato della sua città: egli è sempre pronto a decantarne tutta la bellezza che scaturisce dal fatto che Dio stesso abita in essa:“Eccelso è il Signore poiché dimora lassù; egli riempie Sion di diritto e di giustizia”  (33,5).

    Isaia ogni anno ha modo di contemplare il continuo confluire di tutti gli israeliti che in pellegrinaggio, in occasione delle grandi feste, si recano al monte di Sion cantando i “Salmi delle Ascensioni” “in mezzo ai canti di gioia di una moltitudine in festa” (Sal 42,5). Era questo certamente uno spettacolo capace di suscitare memorie antiche e speranze sempre nuove. Una speranza necessaria in quanto il tempo in cui Isaia annuncia il suo oracolo è difficile: la situazione del regno di Giuda è drammatica. Esso è aggredito e strattonato da ogni lato dalle spinte politiche dei paesi circonvicini che lo vorrebbero obbligare ad alleanze in vista di un suo coinvolgimento in una impossibile guerra contro l’Assiria (Is 7,2). Mentre le truppe nemiche si apprestano ad assediare la capitale per ridurla alla sottomissione Isaia rimane fermo nella speranza che la salvezza starà unicamente nell’affidarsi a Dio, non nei poveri e umani calcoli politici. Se Israele confiderà unicamente nel suo Dio Gerusalemme non potrà essere conquistata. Ma il suo annuncio profetico non si ferma qui; egli va oltre offrendo un’ulteriore e sconcertante promessa, quella contenuta nel nostro testo.

    “Ciò che Isaia, figlio di Amoz, vide riguardo a Giuda e a Gerusalemme” (v.1). Isaia “vede” ciò che deve dire, o meglio annuncia ciò che Dio gli mostra. La sua parola sarà perciò infallibile in quanto Parola di Dio! Ciò che Isaia dice non è una sua intuizione, un suo ragionamento ma è “visione”, ovvero capacità/dono di leggere la storia e le vicende con lo sguardo di Dio stesso. Dio stesso che “mostra” il suo disegno servendosi del profeta. E ciò che egli “vede” è in riferimento al regno di Giuda e della sua capitale: la città santa di Gerusalemme.

    “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti” (v.2). Troviamo anzitutto una precisazione riguardante il tempo. Quando avverrà ciò che vede? “Alla fine dei giorni”. Espressione enigmatica che non comporta tuttavia necessariamente la fine della storia. Può stare ad indicare il tempo di un nuovo inizio nel quale il Regno di Dio sarà sperimentato come realtà concreta e nel quale l’umanità potrà sperimentare un cambiamento radicale.

    Una nuova era che inizierà con l’esaltazione del monte di Sion sopra tutti gli altri monti. Isaia vede il monte di Sion – sul quale si erge il grande Tempio costruito da Salomone – elevarsi divenendo il monte più alto della terra. Questo non per suoi meriti… orografici! Ma perché luogo scelto da Dio a sua dimora. Il luogo cui Dio ha legato la propria presenza verrà elevato dalla sua attuale posizione nella quale passa pressoché inosservato cosicché tutto il mondo lo potrà vedere nella sua vera realtà di “monte di Dio”.

    Immediatamente dopo il profeta scorge una folla immensa di pellegrini di ogni razza, popolo e lingua e nazione che si dirige unanimemente verso il santuario di Dio. Se in precedenti oracoli Isaia annunciava lo sterminio dei popoli ribelli (cfr 10,24-34; 17,12-14; 30,19) qui manifesta che Gerusalemme diverrà luogo di incontro per tutti i popoli (lo stesso tema verrà ripreso dal contemporaneo Michea: 4,1-5). Al termine della storia Dio non annienterà dunque i popoli pagani ma ad essi offrirà la conversione, la possibilità della loro spontanea sottomissione all’autorità di Dio: “Verranno molti popoli e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe,perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore”(v.3).

    Sorge inevitabile la domanda: qual è il motivo di questa comune e inattesa attrazione? Questa fiumana di popoli diversi non si reca al monte di Dio per offrire sacrifici o sciogliere voti o per altri scopi cultuali quanto per porsi in ascolto della Parola di JHWH. Da questo ascolto potranno tutti apprendere a camminare nelle vie del Signore: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118,105).

    Dunque la forza di attrazione, il punto di convergenza e di comunione tra tutti i popoli, sarà rappresentato dalla Parola che Dio rivela e che “esce” dal tempio, non vi rimane!, per andare incontro all’uomo. È solo la Parola che può attrarre e unificare i cuori un tempo divisi in un comune desiderio, nella misura in cui la “legge” sarà riconosciuta come verità dal cuore di ciascuno. Ciò significa che al dono della Legge deve far riscontro la disponibilità dell’orecchio all’ascolto e della volontà per realizzare la parola udita cosicché “possiamo camminanare per i suoi sentieri”.

    Il santo monte diviene centro di un duplice movimento: da un lato il concorso universale di tutti i popoli dall’altro la Parola che da esso viene a tutti indistintamente offerta. Il grande cammino umano della storia si trasforma in un cammino dell’uomo verso Dio e di un cammino “di Dio” verso l’uomo. La marcia della storia diviene “santo pellegrinaggio”:Sono canti per me le tue parole, nella terra del mio pellegrinaggio” (Sal 118,54). Le vie del mondo e della storia si trasformano in strade di Dio, nei “suoi sentieri”. La storia per la rivelazione biblica non è un  girovagare a vuoto, senza meta e direzione!

    “Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si  serciteranno più nell’arte della guerra” (v.4). Frutto del convergere al monte di Dio da parte di tutti i popoli, il che rappresenta una dinamica opposta a quella del monte/torre di Babele, è l’instaurarsi di un’era di pace, di riconciliazione: ovvero del regno di Dio. Gli strumenti di morte – spade e lance – sono trasformati in strumenti di vita: vomeri e falci-. I popoli pongono fine alla guerra, le armi sono totalmente  dimesse (forgeranno) perché non avranno più alcun senso di esistere. Le divisioni e le ostilità dell’umanità si dissipano ai piedi del monte quando la Parola è accolta da tutti!

    È utile tener presente che oracoli di questo tenore erano frequenti in tutta l’antica area mediorientale: ad ogni ascesa di un re si annunciava l’avvento di un’era di pace universale, del ritorno alla mitica età dell’oro. Ad esempio un canto che inneggia al faraone Ramses IV proclama: “Coloro che avevano fame sono stati saziati e sono allegri, coloro che erano ignudi sono vestiti di lino fine, coloro che erano in prigione sono stati liberati, coloro che litigavano in questo paese si sono rappacificati”. Ma proprio nel giorno in cui il faraone era proclamato apportatore di pace per il mondo intero egli ritualmente scagliava una freccia in direzione di ciascun punto cardinale: era un gesto simbolico violento tutto teso a scoraggiare chiunque pensasse di attentare alla sicurezza del regno. Il faraone prometteva sì la pace ma sotto l’egida della minaccia dell’impiego delle forze di guerra! Isaia annuncia invece una pace totalmente diversa che trova origine da una direzione totalmente diversa: essa non si basa sulla forza e sul potere violento, non su calcoli umani e diplomatici, ma sull’adesione di tutti i popoli – convocati in “Jerushalaim – Città della Pace” alla Parola di Dio. E’ la Parola che ha la forza di annullare la forza disgregatrice e violenta del peccato di Babele e di porre in atto una nuova creazione che riordini il caos.

    Sion ottiene così lo statuto di città in cui è possibile dissipare e annullare il titanico e drammatico episodio di Babele: in tale città l’ybris dell’uomo antagonista di Dio pretese di costruire il monte artificiale capace di giungere a competere col cielo, ovvero con Dio. Tale progetto ebbe come conseguenza l’instaurarsi del disordine e dell’ingiustizia che scaturì dal fatto che l’uomo pretese (e pretende) di scardinare l’ordine voluto da Dio. Il frutto fu l’incomprensione reciproca, una frantumazione e una dispersione generatrici solo di guerra e divisione. Ora contro questa torre-monte presuntuoso si erge il monte di Sion sul quale Dio dimora e dal quale risuona la parola ricreatrice. Contro l’incomunicabilità, la divisione, l’incomprensione a Sion è donata la Parola capace di riunificare e di far parlare tutti nell’unico linguaggio dell’amore. Coloro che accolgono la Parola cessano di costruire torri capaci di provocare solo divisione e incomunicabilità.

    “ Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore” (v. 5). Fin da ora Israele, la “Casa di Giacobbe”, ha il compito di rendere presente quell’unità che sarà donata a tutti i popoli “alla fine dei giorni”. Esso è chiamato fin d’ora a fare esperienza di ciò che il mondo potrà essere solo nel futuro. Per far questo la strada è una sola: Israele deve “camminare nella luce del Signore”, perché vi è e vi sarà sempre il rischio di deviare dal sentiero non prestando l’orecchio all’ascolto (cfr Is 50,4). Una luce (è ancora la Parola che Dio pronuncia nelle tenebre all’inizio della creazione) scaturisce da Sion capace di far intravedere in un’epoca di buio e incertezza una direzione che contiene in sé una speranza inaspettata: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”  (9,1). Luce che indica la via all’unità di tutti noi in Dio.

    Collatio

    È faticoso dopo il fatidico 11 settembre sperare ancora nella possibilità di uno scambio di mano tra le varie razze, popoli, culture e religioni. I muri di divisione tra est e ovest che, pochi anni prima, si erano abbattuti si sono precipitosamente rialzati. Ne sono stati edificati addirittura di nuovi e proprio nella Gerusalemme in cui Isaia aveva la sua casa! Sui nostri giornali troviamo ogni giorno che l’allontanamento – se non la violenza perpetrata in tanti modi – nei confronti del “diverso”, dello “straniero” e talvolta in nome stesso di Dio, viene troppo spesso utilizzata come l’unica risposta che può garantire la sicurezza del… proprio orticello.

    Eppure in tutta Europa  l’accelerazione dei flussi migratori non si sta arrestando, anzi le dimensioni di questo movimento diviene sempre più planetarie. Ciò che sta avvenendo ci trova un po’ tutti impreparati. Sporadici i casi di una tranquilla convivenza, ancora molto lontane invece le occasioni di un vero incontro. Quasi nessuno ha piacere di avere a fianco del proprio pianerottolo la famiglia rumena, africana o il gruppetto di mussulmani. Il disagio e l’insofferenza ci sono, inutile negarli e sinora la gestione di questo incontro-scontro di culture, razze e religioni diverse è improvvisata. Si tentano normative che hanno la consistenza di un tampone. Il risultato è che, almeno per ora, la nostra società non sta diventando correttamente interculturale ma rimane tutt’al più solo plurietnica di fatto e suo malgrado.

    Le strade perché l’incontro e la fusione avvengano non possono essere dettate solo da strategie politiche od economiche. Generalmente queste sono sempre tentate dall’ybris cosmopolita e fallimentare di Babele! La radice cristiana dell’Europa si è voluta dimenticare. Su quali fondamenta profonde si costruirà la nuova Europa quando ne abbiamo divelto le radici?

    Un ruolo fondamentale l’avranno proprio le religioni. Oggi l’incontro tra le religioni ha fatto molta strada, ma ancora troppo poca a ragione di ciò che esse sono chiamate a fare. Tutte – come insisteva nel suo insegnamento e con i suoi gesti profetici Giovanni Paolo II – avranno un ruolo di primaria importanza per la costruzione di una nuova società multietnica.

    La profezia di Isaia è offerta come visione capace di aiutarci a sperare e ad intraprendere cammini di incontro e di riconciliazione. E allora ci domandiamo: in quale misura la mia fede in Dio mi sta aiutando a superare ostacoli e divisioni e a stendere la mano al fratello e alla sorella perché insieme possiamo “salire al monte del Tempio del Signore”?

    La profezia di Isaia non si è realizzata nel tempo del profeta. Ma la promessa non è stata posta in cantina ad ammuffire. Anzi! Dalla comunità dei discepoli di Gesù è stata nuovamente rilanciata e ampliata a orizzonti ancora più vasti che abbracciano l’universo e l’eternità. L’apostolo Giovanni pronuncia la stessa profezia di Isaia proiettandola alla fine dei tempi, quando tutto “sarà ricapitolato in Cristo”. Egli vede la nuova Gerusalemme, a cui sono confluiti i centoquarantaquattromila di ogni stirpe, lingua e nazione, che discende, come dono, dal cielo da Dio (cfr Ap 21,1). In questa nuova Sion, di cui la Chiesa è già ora sacramento, tutti i popoli hanno iniziato a convergere attorno alla Parola fatta carne: “Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani” (Ap 7,9).

    La Chiesa in Cristo riconosce l’inizio di tale adempimento: Matteo all’inizio del suo vangelo ci  presenta una “casa” in cui attorno a Cristo si raccolgono ebrei e pagani. Luca presenterà a sua volta la stessa “casa” all’inizio degli Atti in cui ebrei, proseliti e pagani si ritrovano accomunati nella fede in Cristo (Atti 2,8-11). All’annuncio del kerygma che scaturisce dalle labbra degli apostoli usciti di corsa dal cenacolo ecco che tutti si pongono in ascolto della Parola. È una Parola  che indica a tutti i “sentieri di Dio” capaci di operare la trasformazione del cuore e indurlo alla pace con Dio e con ogni fratello: “Che cosa dunque dobbiamo fare?”.

    La “fine dei giorni” (v.2) preannunciata da Isaia è perciò iniziata: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi”.  Ciò significa che la grazia di Cristo, “per mezzo della sua croce” (Ef 2,16),  può infrangere ogni separazione, ogni ostilità tra uomo e uomo, tra nazione e nazione: “Egli è la nostra pace, è venuto ad annunziare la pace, pace a coloro che erano lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14.17).

    Quale il futuro che ci aspetta e il ruolo della Chiesa e delle comunità religiose in questo contesto sociale?

    Il futuro appare relativamente chiaro anche se ancora molto lontano: la strada dell’interculturalità sarà quella del riconoscere l’altro nella sua cultura affermando contemporaneamente la propria sicché dal mutuo riconoscimento scaturisca un processo di trasformazione che idealmente porti entrambi a superarsi per giungere ad una realtà completamente nuova, altra da entrambi. In poche parole: il futuro attende il nascere di una sorta di “meticciato culturale”, un colore completamente nuovo come quello della luce della Pentecoste che ingloba tutti i colori. Non si tratterà perciò di abolire le differenze, né di operare separazioni, bensì di far nascere un “nuovo e altro” che prendendo da entrambi va oltre. Per ora la strada percorsa sembra essere solo giunta alla formulazione di un multiculturalismo dove viene sancita e riconosciuta la differenza dando diritto ad un mosaico culturale dove però ognuno è tutelato nella misura in cui rimane rinchiuso nel suo gruppo e di nuovo separato dagli altri.

    Ecco allora il compito della Chiesa e delle altre religioni: quello di porre in atto coraggiosamente iniziative che vadano controcorrente ad un rifiuto generalizzato di questa evoluzione. Come fu capace di visione Giovanni Paolo II quando nel 1986 decise di invitare tutti i rappresentanti delle grandi religione per implorare insieme il dono della pace e della comunione fra i popoli. Ora lo si comprende!

    La chiesa e le altre religioni saranno sempre più chiamate a mostrare di favorire concretamente la pace mondiale e soprattutto di non usare il nome di Dio per dare atto a sfoghi di violenza inconsulta. Per noi cristiani, la dottrina conciliare della Chiesa come “popolo di Dio”, deve essere la forza trainante di questo impegno: e la visione di Isaia torna a rivivere: un unico popolo di diverse culture e lingue in cui le identità di ciascuno sono rispettate ma insieme trascese in quanto tutti tesi ad un “tertium” che è il regno di Dio.

    Saremo capaci come comunità del Crocifisso Risorto di presentarci al mondo in preda alla paura, al sospetto e alla violenza nei confronti del “diverso”, come segno contraddittorio e visibile di comunione? Non dimentichiamo le parole del catechismo della Chiesa cattolica dove si dice che: “la Chiesa è il luogo in cui l’umanità deve ritrovare l’unità e la salvezza. È il “mondo riconciliato”. È la nave che “spiegate le ali della croce del Signore al soffio dello Spirito santo naviga sicura in questo mondo”” (CCC845).

    E veniamo al ruolo delle comunità religiose. Ormai sembra un dato scontato che esse siano incamminate a divenire sempre più “internazionali”. Nella stessa casa troviamo persone consacrate di diverse nazionalità, colore e lingua. Al di là delle motivazioni originarie più o meno valide che hanno portato vari istituti religiosi ad optare per questa scelta, appare evidente che tale situazione appaia oggi provvidenziale visto che anche la nostra società è chiamata a percorrere la stessa strada.

    Allora perché non cogliere questa varietà all’interno delle singole comunità non come un peso che “purtroppo” ci si deve accollare per necessità ma come occasione di autentica evangelizzazione, in cui la comunità presentarsi nel suo ambiente come profezia di una realtà possibile?

    I problemi in questo cammino interculturale non mancheranno certamente ma quante opportunità sono date in essa! Che le nostre comunità divengano consapevoli che si tratta di un “segno dei tempi” di straordinaria importanza, che incalzando sta facendo incamminare l’umanità verso il Regno. La profezia di Isaia si sta realizzando sotto i nostri occhi, non ce ne accorgiamo?

    Oratio

    È veramente giusto renderti grazie,
    e innalzare a te, Signore, Padre buono,
    l’inno di benedizione e di lode.
    Per mezzo del tuo Figlio,
    splendore d’eterna gloria, fatto uomo per noi,
    hai raccolto tutte le genti nell’unità della Chiesa.
    Con la forza del tuo Spirito
    continui a radunare in una sola famiglia
    i popoli della terra,
    e offri a tutti gli uomini la beata speranza del tuo Regno.
    Così la Chiesa risplende
    come segno della tua fedeltà all’alleanza
    promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore,
    che vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
    un solo Dio per i secoli dei secoli. Amen

    (V Preghiera Eucaristica, Prefazio D).

  • 13 Ago

    Assetati di felicità

    Lectio dal Qoelet  2,1-11

    di p. Attilio Franco Fabris

    1 Mi son detto: «Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione». Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto. 2 Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. 3 Allora ho cercato il piacere nel bere, ma senza perdere il controllo. Mi son dato alla pazza gioia. Volevo vedere se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita. 4 Ho fatto anche grandi lavori. Ho fabbricato palazzi, ho piantato vigneti. 5 Ho costruito giardini e parchi, dove ha piantato ogni qualità di alberi da frutto. 6 Ho costruito serbatoi d’acqua per irrigare quegli alberi. 7 Ho comprato schiavi e schiave; avevo molti servi in casa mia, possedevo moltissimi buoi e pecore, più di tutti i re di Gerusalemme. 8 Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti. Ho fatto venire nel mio palazzo cantanti e ballerine: per i miei piaceri, tante belle donne. 9 Insomma, ero diventato più ricco e più famoso di tutti i miei predecessori di Gerusalemme. Per di più, non ho mai perso la testa! 10 Ho soddisfatto ogni mio desiderio; non ho rinunziato a nessun piacere. Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche. 11 Ho tentato di fare un bilancio di tutte le opere che avevo fatte e della fatica che mi erano costate. Ma ho concluso che tutto è vanità, come inseguire il vento. In questa vita sembra tutto inutile.

    (traduzione interconfessionale)

    Perché tanto malessere nella società del… benessere? E’ un interrogativo che si affaccia ripetutamente nella mente di chi possiede ancora – speriamo –  il dono di interrogarsi sulla vita e di non semplicemente “lasciarsi vivere”. Il benessere dovrebbe portare con sé, secondo la nostra “mitologia” culturale, la felicità. Più benessere equivale a più felicità! E chi non desidera essere felice? Così si crede di trovare appagamento in quella vacuità proposta dal consumismo. Ciò che si crede appaghi il cuore è riempirlo di “cose” sempre nuove, di sempre nuove “esperienze”. Ma, ahimè! Come un miraggio nel deserto la felicità è sempre più in là, all’orizzonte sempre irraggiungibile. Così l’insoddisfazione diviene il comun denominatore dell’esperienza umana.

    Noi vogliamo leggere tutto questo non in chiave negativa ma come un’opportunità, un richiamo che spinge il cuore a cercare più a fondo e più in verità. Una sana insoddisfazione si tramuta allora in occasione di grazia, nella quale lo Spirito può suggerire alla nostra coscienza di cercare la “perla preziosa” che ci farà veramente felici: “Cerca la gioia del Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore” canta il salmo 36 (v.3).

    Che il Soffio divino di Dio apra ora le orecchie del cuore ad accogliere il dono della Parola che sarà luce nel nostro cammino di ricerca: Spirito della gioia, noi crediamo che ci sei dato per educarci alla gioia vera, per formarci alla gioia della carità e del servizio, per comunicare a tutti la tua gioia piena che non avrà mai fine. Amen.

    Lectio

    Qoelet – la tradizione lo identifica con lo stesso re Salomone – è un uomo che al termine della sua vita ripercorre tutta la sua lunga esistenza spesa nella ricerca della sapienza apportatrice di felicità. Egli cerca di trarne una valutazione finale: Qoelet ci appare come un uomo che nei confronti della vita ha acquisito uno sguardo a dir poco “disincantato”: “Vanità delle vanità, tutto è vanità e un inseguire il vento”(1,2). Dove la parola “vanità” (ebr. hebel) indica il respiro che si condensa fuggevolmente sullo specchio per poi subito svanire evaporando. Ovvero: nella vita nulla possiede un valore eterno e una consistenza, tutto prima o poi precipita inesorabilmente nell’oblio dello Scheol. Come definire allora il nostro autore: un pessimista e un cinico? Difficile trovare una connotazione adatta. Egli sembra sfuggire a qualsiasi collocazione: forse è semplicemente un uomo capace di penetrare con estrema lucidità e realismo nelle contraddittorie trame della vita.

    Qoelet ha potuto toccare con mano l’inutilità di tutti i suoi sforzi per sfuggire ad un’amara e continua insoddisfazione. Nel suo animo torna incessante l’interrogativo che non gli lascia tregua: può l’uomo eludere l’assurdità con cui la vita gli si presenta? Le promesse della vita alla fine non gli si sgretolano inesorabilmente tra le mani? Non rimane forse solo una nausea insopportabile per ogni cosa, un senso amaro di fallimento? Cosa rimane terminata la festa che illude con le sue promesse di gioia straripante? Solo un senso di vuoto e di cenere.

    Qoelet ha cercato la felicità in ogni direzione. Ha tentato dapprima nella linea della sapienza trasmessa dagli antichi, si è posto alla loro scuola, si è confrontato con essi, ha accolto il loro ammonimento di fuggire la stoltezza: “La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;l’uomo prudente cammina diritto” (Pr 15,21). Ma alla fine egli rimane perplesso, se non deluso. Di fronte alla consapevolezza che il sapiente e lo stolto alla fine scenderanno entrambi nello Scheol e nessuno di loro sarà ricordato il nostro autore costata amaramente: allora a che serve la sapienza? Nulla ricompensa la fatica estenuante a cui l’uomo ha sottostato per giungere alla sapienza (cfr 1,3). Anzi, la sapienza reca con sé una sofferenza ulteriore che scaturisce da una maggior consapevolezza della propria insoddisfazione: “Dove c’è molta sapienza c’è molta tristezza, e, se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore” (1,18). Allora quale vantaggio se ne ricava perseguendola?

    Tuttavia Qoelet non desiste, non si arrende. Egli vuol cercare altrove tentando nuove piste. Il suo progetto a questo punto si fa temerario: egli decide di percorrere addirittura la via della stessa stoltezza. Forse qui scoprirà una risposta. Dandosi ai piaceri della vita il cuore troverà finalmente pace e appagamento?

    E giungiamo così al nostro testo.

    Mi son detto: Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione”(v.1). Teniamo presente che non si tratta di una ricerca sconsiderata; Qoelet “sa”, è “consapevole” che sta cercando una risposta alla sua insoddisfazione proprio nella “stoltezza”: “senza perdere il controllo” annota egli quasi compiaciuto. Decide così con lucidità di percorrere una strada alternativa quasi fosse un osservatore esterno in ascolto delle risonanze del cuore. Vuole costatare “se questo dà felicità all’uomo durante i pochi giorni della sua vita”(v.3).  Sono “i giorni contati” che lo assillano, la breve vita scorre inesorabile e l’uomo angosciato cerca qualcosa che dia ad essa senso e gioia.

    Inizia col buttarsi nel vino e nella “pazza gioia”. Il vino ha la capacità di mettere allegria e di far dimenticare: ma si tratta di un’allegria vuota, che ha solo l’effetto di stordire. Il risultato è la constatazione che: “il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente”(v.2).

    Vista l’inutilità di questa pista eccolo tentarne subito un’altra: gettarsi sull’attività frenetica, sul  lavoro, nella costruzione di grandi opere “faraoniche” che diano la sensazione di essere protagonisti e persone di successo capaci di realizzare qualcosa che resterà nel tempo. Qoelet può affermare con una certa qual fierezza: “Ho fatto anche grandi lavori” (v.4).  Ha fatto costruire “grandi palazzi”, piantare grandi “giardini” (lett. “paradisi” v.5), innaffiati con immense “cisterne d’acqua”.  Per coltivarli si procura ovviamente schiere di “schiavi e schiave più di tutti i suoi predecessori in Gerusalemme” (v.7).

    Dopo aver realizzato tutto questo il cuore rimane tuttavia ancora insoddisfatto. Altra pista: “Ho accumulato molti oggetti d’oro e d’argento. Ho preso le ricchezze e i tesori di altri re e governanti” (v.8). I “tesori di re” sono i frutti delle battaglie vinte, mentre i tesori “dei governanti” sono i tributi degli stati vassalli. La nuova strada alla ricerca della felicità è dunque incrementare all’inverosimile la propria ricchezza. In effetti il denaro non offre un senso di onnipotenza? Con esso l’uomo può accaparrarsi qualsiasi cosa, si illude di poter comprare con essa anche la felicità. Ma già il salmo 48 accennava alla stoltezza del gettarsi nell’illusione della ricchezza: “Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba” (v 9).

    Quale pista rimane? Se stordimento, successo e denaro non sono serviti allora non resta che tentare la strada dei piaceri e del sesso. Ecco il nostro Qoelet circondarsi allora di una corte gaudente e di “tante belle donne” (v.8; cfr 1Re 11,3). Trascorrere le giornate tra musica, balli e piaceri riempirà finalmente il suo cuore?

    Alla fine Qoelet può ben affermare a ragion di causa: “Ho soddisfatto ogni mio desiderio”. Non si è negato nulla! Ha provato di tutto pur di trovare una risposta alla sua insoddisfazione.

    Ma quale la sua risposta finale? Da un lato egli afferma solo un unico guadagno: una certa soddisfazione per ciò che è riuscito a realizzare: “Sono riuscito a godere delle mie attività: questa è stata la ricompensa per tutte le mie fatiche”(v.10).  Ma dopo questa considerazione ecco riaffacciarsi con lucidità spietata il solito e lucido ritornello: “Ma ho concluso che tutto è vanità” (v.11). Sì c’è un guadagno in ciò che si è riusciti a fare con le proprie forze, ma tutto questo a che scopo? L’agire umano, il suo agitarsi, il suo affannarsi alla fine gli risulta senza senso. Chi sa quel che all’uomo convenga durante la vita, nei brevi giorni della sua vana esistenza che egli trascorre come un’ombra?” (6,12).

    La tesi finale di Qoelet sarà che pur ricercando il bene, sola cosa che conta, il cuore dell’uomo rimane insoddisfatto. Il discorso rimane aperto perché rimane una nostalgia di assoluto che attende una rivelazione ulteriore, una nuova possibilità che Qoelet non può ancora intravedere.

    Collatio

    Il libro del Qoelet è un libro attualissimo, può essere dato in mano all’uomo di oggi che vi si rispecchierà alla perfezione. Come Qoelet egli può, in questa nostra società del benessere ammalata di un indefinito malessere, avere tutto, provare tutto… rimanendo, a quanto pare, sempre insoddisfatto. Non è felice anche se la sua vita è piena di “cose”, di nuove opportunità.

    Come bambini scontenti vogliamo giocattoli sempre nuovi: le novità per un certo tempo mettono a tacere il nostro vuoto, le paura, l’ansia. Ma ben presto le “novità” cessano di essere tali e l’insoddisfazione, inesorabile e appiccicaticcia compagna di viaggio, si riaffaccia bussando alla nostra porta e pretendendo un nuovo appagamento in un inesauribile circolo vizioso. Nelle nostre città dove sono offerti a cascata miriadi di svaghi, di divertimenti e di piaceri i volti rimangono nonostante tutto tristi, tirati, fuggevoli, chiusi. Alla fine la vita diviene insopportabile perché sembra tradire quella sete di felicità sempre inappagata: “In questa vita sembra tutto inutile” (v.11) ricorda, scotendo il capo, il nostro Qoelet..

    Vi è il più delle volte un’allegria sguaiata che è una gioia falsa: una maschera della felicità. Essa cerca di nascondere miseramente il vuoto e l’angoscia che si cerca a forza di mettere a tacere, schiacciare, rinchiudere come il bagaglio in una valigia troppo piccola. E quando questa falsa allegria svanisce come “hebel-soffio che svanisce” l’uomo si trova attanagliato dalla noia dalla quale non riesce a fuggire. Non sa più cosa volere e cosa cercare: “Ora voglio provare ogni specie di piacere e di soddisfazione. Ma tutto mi lasciava sempre un senso di vuoto” (v.1). Qoelet è annoiato. Ma cos’è la noia, chi è la sua “infelice madre”? La psicologia insegna che essa è figlia di un rifiuto inconsapevole di un “qualcosa”. Questo rifiuto inconscio crea un vuoto che non è rimpiazzato da nulla se non dalla… noia appunto che sola rimane conscia.  In un testo conciso lo scrittore francese Antoine de Saint Exupery diceva: “E lavorano nella noia /  nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose / e tutto manca”. “Tutto manca” e la noia come un campanello rosso d’allarme segnala un vuoto al quale non si riesce a dare un nome. Rimane l’infelicità: fortunatamente! perché questa può trasformarsi in un richiamo a qualcos’“altro”, impedendoci di sprofondare nella voragine disperata del non senso. L’insoddisfazione allora, come accade a Qoelet, si trasforma in nostalgia di una pienezza di vita avvolta ancora nella nebbia, di un legame che tenga insieme finalmente il tutto: “nulla manca loro / fuorché il nodo divino / che lega tutte le cose”.

    A questo punto diamo atto al coraggio della ricerca di Qoelet che non si ripiega su se stesso e sulla propria infelicità. Ha il coraggio di rimanere in ascolto della propria insoddisfazione, non la nega, non la tarpa, ma accondiscende alla sua richiesta che lo spinge a cercare oltre: “Il divertimento lascia insoddisfatti, l’allegria non serve a niente. Allora ho cercato…” (v.2s).

    Non teme di  percorrere le strade più diverse al fine di trovare una risposta che appaghi finalmente il suo cuore. A questo scopo l’alcol, il sesso, il denaro, il successo divengono percorsi, anche se infruttuosi, di una ricerca consapevole di senso, di felicità. Tutte queste strade per Qoelet si trasformano in successivi – e provvidenziali! – trampolini di lancio per una ricerca che lo costringe ad andare  sempre più in profondità al proprio cuore. E il cuore reclama l’infinito.

    Sant’Agostino afferma più volte che il cuore dell’uomo è stato creato a misura dell’infinito che è Dio stesso. Egli inizia il libro delle sue “Confessioni” con una delle sue frasi lapidarie, riassuntive di tutta un’esperienza, che è un grido di preghiera: “Signore ci hai fatti per te, e il nostro cuore non trova pace finché non riposa in te”. Inutile allora tentare di colmare il proprio vuoto mediante poveri espedienti umani che si riducono alla fine a inutili tentativi di riempirlo di “cose”. Il cuore  mai potrà essere colmato se non da ciò che è infinito: da Dio solo.  Non per nulla il santo appare come l’uomo più felice di questa terra: ha scoperto una gioia piena e infinita che nulla potrà mai turbare. Il monaco Landuino nell’elogio di san Bruno, fondatore della Certosa, poteva affermare di lui: “Sempre erat festo vulto – Il suo volto era sempre gioioso”.

    Il nostro Dio non vuole la sua creatura triste e annoiata: l’ha creata per la gioia che scaturisce dalla comunione nell’amore con lui e con i nostri fratelli. Non per nulla la gioia del regno è paragonata a un festoso banchetto e il primo miracolo di Gesù avviene forse proprio nel contesto gioviale di un pranzo di nozze? Fiodor Dostoevskij, nei “I fratelli Karamazov” fa dire a Mytia, uno dei protagonisti: Signore facci ricordare che il tuo primo miracolo lo facesti per aiutare degli uomini a far festa, alle nozze di Cana. Facci ricordare che chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è sempre pieno della tua misericordia infinita”.

    Oratio

    Dio della mia gioia e del mio giubilo”: sono parole del salmo 42 e il credente, nel grigio e nella noia di tante strade percorse dall’uomo d’oggi, dovrebbe testimoniarlo.

    Signore, donaci allora la tua gioia, quella che hai promesso la sera di pasqua ai tuoi discepoli. Una gioia che nessuno potrà mai toglierci, perché non costruita sulla sabbia delle cose, dei ruoli, dei successi, ma sulla roccia certa che la nostra vita è ancorata alla tua, che tu ci hai fatti per te, per la vita, per la comunione con te. Facci scoprire che la felicità non sta nell’avere ma nel donare senza misura. E che nel dono di noi stessi, in questa partecipazione alla tua passione, possiamo sperimentare la gioia della vita nuova.

    Liberaci dalla tentazione di credere che saranno le cose di questo mondo a riempirci il cuore, liberaci da questa illusione. Fa’ che ti cerchiamo in verità con cuore indiviso, sostieni tu il nostro incerto cammino e la nostra faticosa ricerca: facci sin d’ora toccare con mano che solo tu puoi riempire totalmente il nostro cuore rendendolo capace di amore e di gratuità.

    Annunceremo così al mondo che tu hai colmato la nostra vita della gioia più vera “in misura colma e pigiata”, più di “quando abbondano vino e frumento” (Sal 42). La nostra gioia e il nostro sorriso diverranno testimonianza più di tante altre parole.

  • 12 Ago

    Nel villaggio multiculturale

    Lectio di Atti 8,26-40

    di p. Attilio Franco Fabris

    Volti di colori diversi, lingue diverse, diverse culture e religioni: il mondo va trasformandosi in un piccolo villaggio multiculturale. Ci incrociamo frettolosamente mille volte sulle nostre strade, ciascuno verso la sua meta. Ciascuno portando nel cuore insieme attese e speranze insieme a delusioni e talvolta grossi pesi di sofferenza. Tanti “perché?”che invocano una risposta che non si sa da dove possa giungere, affollano la mente della persona che incontriamo sull’autobus, al supermercato, o sulla metropolitana.

    Ma l’indifferenza se non talvolta il sospetto, la diffidenza o addirittura la paura impongono tra noi e i “diversi”, i “lontani”, una distanza di sicurezza, un allontanamento: innalziamo steccati e muri per difenderci da un presunto pericolo che l’ “altro” sembra inevitabilmente rappresentare.

    O Spirito del Signore risorto tu sei al lavoro in questa onnipresente e sempre incipiente Babele, tu pervadi ogni cosa: vuoi abbattere ogni distanza e indifferenza, vincere ogni timore, disintegrare ogni muro innalzato dalla nostra angoscia. Con la croce di Cristo tu vuoi disintegrare ogni barriera: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo” (Ef 2,14). In te le differenze si trasformano in meravigliosa ricchezza e varietà di doni che vicendevolmente ci arricchiscono. Tu desideri farci incontrare perché “i nemici si aprano al dialogo, gli avversari si stringano la mano, i popoli si incontrino della concordia” (Pregh. Eucarist. Riconc. II).

    Solo così ci trasformeremo in compagni di viaggio gli uni per gli altri. E  a tutti, noi discepoli di Gesù,  offriremo d’udire la sua Parola che salva, la sola capace di offrire vere risposte e aprire nuovi insperati orizzonti di cammino.

    Lectio

    Il vero protagonista si presenta subito nel testo: è lo Spirito del Signore, mediato dalla figura dell’ “angelo”. L’iniziativa dell’annuncio non appare come iniziativa dell’uomo ma dello Spirito del Signore stesso. Da parte dell’angelo vi è un preciso comando: “Alzati e va!” (v. 26).

    L’ubbidienza di Filippo è immediata, senza alcuna obiezione e resistenza. Quest’obbedienza è encomiabile perché umanamente il comando è ambiguo, appare come un controsenso: dirigersi infatti in una “strada deserta verso l’ora di mezzogiorno” significa rischiare di non incontrare nessuno perdendo il proprio tempo e spendendo inutilmente energie. Filippo parte e mentre il nostro è incamminato sotto il sole cocente di mezzogiorno “ecco…”: un senso di sorpresa e di attesa pervade improvvisamente il nostro racconto. Sta giungendo un carro sul quale c’è qualcuno che sta leggendo ad alta voce un rotolo di un libro.

    Il personaggio che Filippo incontra viene descritto con particolare minuziosità dall’autore degli Atti. Viene offerta all’ascoltatore una sua descrizione a vari livelli: etnico, religioso, sociale.

    In primo luogo viene detto che è un “etiope”: l’Etiopia è la nazione posta ai confini della terra abitata  e civilizzata, rappresenta “gli estremi confini della terra” (cfr 1Sam 2,10). Nei testi profetici è interessante notare come l’Etiopia sia nominata tra i popoli che Dio vuole condurre a Gerusalemme alla fine dei tempi. Lo stesso Gesù darà il mandato ai suoi di “essere testimoni fino ai confini della terra”. L’incontro di Filippo con l’etiope realizza così in germe questa promessa e attesa messianica.

    In secondo luogo ci viene presentata la sua fisionomia religiosa. Il nostro etiope è “venuto per il culto a Gerusalemme”. Probabilmente si tratta di quella categoria denominata da Luca col termine di “timorati di Dio”, sono i pagani simpatizzanti del giudaismo di cui accolgono il monoteismo e alcune indicazioni morali ma che non appartengono di diritto al popolo di Israele. Non si tratta dei “proseliti” che a pieno titolo potranno un giorno entrare nel popolo di Dio mediante il rito della circoncisione. Questa considerazione viene rafforzata dal fatto che egli è classificato come “eunuco”. E’ l’aspetto peculiare col quale Luca presenta insistentemente il nostro personaggio. Questa menomazione fisica nell’antichità era contrassegnata da grande disprezzo. Dal punto di vista religioso di Israele l’eunuco è una persona permanentemente impura e quindi esclusa irrimediabilmente dall’assemblea cultuale. Non mancano tuttavia alcuni riferimenti profetici nei quali affiora per i tempi messianici la possibilità che anche gli eunuchi possano un giorno far parte a pieno titolo del popolo dell’alleanza (cfr Is 56,3-8; Sap 3,14-15). E’ un personaggio che Luca sembra voler perciò affiancare a quei “disprezzati” e “ultimi” ai quali viene annunciata la Buona Notizia di Gesù.

    In terzo ed ultimo luogo il testo ci offre l’indicazione del suo “status” sociale:è  “funzionario di Candace, regina di Etiopia, sovrintendente a tutti i suoi tesori”. È quindi un uomo di alto rango, prestigio, cultura e ricchezza. Un rango e una ricchezza che non gli impediscono tuttavia di vivere in profondità una esperienza di “morte” interiore e di umiliazione arrecatagli dalla sua menomazione.

    L’annuncio di Filippo sarà proprio un invito ad affidare la realizzazione della sua vita non alle ricchezze e al prestigio sociale che possiede ma alla promessa del Signore.

    L’eunuco etiope è certamente rappresentativo dell’uomo in ricerca: egli sul carro sta leggendo il rotolo del profeta Isaia. Il diacono Filippo si mostra estremamente rispettoso di questa ricerca. Non la interrompe prepotentemente nell’ansia di inculcare certezze, non tenta di pilotare il discorso in direzioni precostituite. Egli sapientemente si introduce con una semplice domanda: “Capisci ciò che stai leggendo?” (v.30). La risposta è una richiesta indiretta di un aiuto che lo introduca, al di là della lettura, alla comprensione più profondo, diremmo esistenziale: “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” (v. 31).  Non basta dunque leggere, occorre “comprendere”! Ecco allora Filippo proporsi come compagno in questo cammino di “comprensione”.

    Filippo tesse la sua opera di evangelizzazione a partire dalla Scrittura che viene a rivestire un ruolo centrale. Questo cammino che si dipana lungo la strada non sarà solo fisico, geografico, ma soprattutto interiore, un cammino che si trasforma in una forte esperienza di condivisione della Parola dalla quale sola può nascere la fede.

    Il testo di Isaia sul quale si impernia la condivisione è estremamente significativo; ci offre uno spiraglio per comprendere che tipo di evangelizzazione compie Filippo nei confronti dell’eunuco.

    Chiave di volta è la domanda rivolta dall’eunuco a Filippo: “Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?” (v. 34). Non è solo curiosità, egli probabilmente avverte che tale testo potrebbe parlare anche alla sua esperienza aprendogli uno spiraglio di speranza. Non a caso il brano offrirà la possibilità di introdurre l’ascoltatore alla centralità del mistero di umiliazione e esaltazione di Gesù di Nazareth e nello stesso di parlare di riflesso alla reale condizione dell’eunuco.

    Per giungere a tale scopo Luca estrapola dal testo di Isaia alcuni versetti tralasciandone altri al fine di porre in evidenza l’aspetto di umiliazione che rappresenta la morte violenta del Servo di Dio la quale sembra “recidere” drammaticamente e irrimediabilmente ogni sua speranza di discendenza (“la sua vita è stata recisa dalla terra”!). Nonostante questo dramma la potenza di Dio è in grado di ribaltare questa situazione in un rinnovato dono di vita. Ma allora non potrebbe tutto questo potersi riferirsi anche all’esperienza di morte e umiliazione che l’eunuco vive in sé nella sua impossibilità di generare? Egli fissando gli occhi sul Servo sofferente non potrebbe appellarsi ad una speranza di vita, di reintegrazione? L’annuncio di Filippo consisterà nel testimoniare Cristo crocifisso e risorto come promessa di realizzazione di tale speranza.

    Il cuore dell’etiope si apre all’ascolto e all’obbedienza della fede che da esso scaturisce. E’ un itinerario, un cammino di evangelizzazione – di catecumenato potremmo dire in altri termini – al termine del quale si pone come apice la richiesta dell’eunuco: “Ecco qui c’è dell’acqua: che cosa impedisce che io sia battezzato?” (v. 36).  Nella umiliazione della croce e nell’annuncio della resurrezione ogni impedimento può essere decisamente superato, il velo del tempio è stato infatti definitivamente strappato. La domanda dell’eunuco è un forte invito alla comunità cristiana giudaica a superare ogni resistenza, blocco, pregiudizio nella proposta dell’evangelizzazione a tutti i popoli, ad ogni uomo e donna in qualsiasi situazione essi si trovino.

    Filippo si mostra docile non opponendo riserve e resistenze: “e discesero tutti e due nell’acqua, Filippo e l’eunuco, ed egli lo battezzò” (v. 38). Il momento sacramentale pone il sigillo sul cammino iniziatico svolto.

    Al termine le strade dei due si dividono: Filippo è nuovamente “rapito dallo Spirito” e trasportato esattamente alla parte opposta della terra santa: vi sono altri confini da superare, altri popolo da evangelizzare. Da parte sua l’eunuco prosegue la sua strada “pieno di gioia”: è la gioia di colui che ha udito, toccato e veduto la salvezza che gratuitamente in Cristo gli è stata offerta e che lo ha trasformato a sua volta in evangelizzatore.

    Collatio

    Il brano che narra dell’incontro e dell’annuncio dell’evangelo da parte del diacono Filippo all’eunuco etiope è di una ricchezza sorprendente.

    Il primo aspetto che si evidenzia è l’imprevidibilità di questo incontro che sembra nascere dal caso, ma che in profondità è da sempre pensato e progettato dalla Provvidenza di Dio. Anche nell’incontro più inaspettato, strano, imprevisto lo Spirito può agire perché, attraverso l’ascolto e il dialogo, sia offerta all’interlocutore la possibilità di udire la Buona Notizia. Non è un annuncio di massa, anonimo: qui si parla di un annuncio “personalizzato” che raggiunge la persona nella sua concreta e unica  situazione.

    Perché questo si attui necessitano due condizioni: la prima è che l’evangelizzatore, in questo caso Filippo, sia docile, si colga realmente come ministro di una Parola che non gli appartiene ma di cui è semplicemente servitore, e questo fa sì che egli assuma un atteggiamento di totale disponibilità, senza resistenze, pregiudizi, calcoli.

    La seconda condizione è che a sua volta l’interlocutore, in questo caso l’eunuco etiope, si lasci raggiungere dalla Parola, entri in una dinamica di ascolto, di dialogo e di confronto con essa, vincendo anche da parte sua resistenze, paure, pregiudizi.

    L’incontro narrato negli Atti è straordinario proprio perché queste due condizione si presentano, per così dire, allo stato puro. E la conclusione non può essere che una: l’annuncio gioioso da parte dell’evangelizzatore e l’accoglienza piena della Buona Notizia da parte del “catecumeno”.

    Riflettendo su questo incontro la nostra riflessione deve puntare sulla nostra capacità e disponibilità a quell’annuncio che in termini ormai usuali viene definito “nuova evangelizzazione”. Filippo ha il coraggio di percorrere strade realmente nuove, apparentemente improduttive e “stravaganti”, prive di quelle “masse” che facevano la gioia un tempo di tanti predicatori. Ha il coraggio di modalità diverse dettatagli dallo Spirito del Signore: non oppone a questa nuova possibilità ragionamenti fatti di convenienze, comodità, certezze consolidate.

    Da parte nostra troppo spesso dobbiamo riconoscere, come ripetono gli ultimi documenti della CEI, come la nostra pastorale, in un mondo che cambia in questa nostra cultura ormai multietnica,  stenti a decollare in vista di una autentica nuova evangelizzazione, essa è ancora troppo preoccupata della “conservazione dell’esistente”: ancora troppo temiamo di percorrere strade nuove e deserte, e perciò ci accontentiamo del poco di sicuro che ancora ci sembra di possedere ma che vediamo lentamente sgretolarsi tra le mani.  “Teniamo duro” nonostante tutto, con sforzi immani cerchiamo di conservare,  di resistere, ma fino a quando e con quali frutti?  Ci condanniamo a perpetuare stili, modalità, tempi e luoghi di annuncio che ormai hanno fatto il loro tempo e non parlano più all’uomo d’oggi. La vita religiosa con la sua prerogativa di stile profetico, sembra anch’essa annaspare confusa e incerta in quale direzione incamminarsi. Lo Spirito e la Chiesa oggi ci domandano altro.

    La pastorale di evangelizzazione, in questa nostra società multietnica, è tutta da inventare, da sperimentare. Questo significa avventurarsi nel nuovo, nell’incerto, ed è per questo che forse si ha paura di rischiare. Meglio impegnarsi nel ripercorrere avanti e indietro le solite strade anche se poi il ritornello “così non si può andare avanti” continua un po’ dappertutto a risuonare.

    Intraprendere come Filippo strade nuove significa accogliere l’invito a quella “conversione pastorale” a cui più volte richiama il documento dei vescovi italiani “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia” (cfr n. 46).

    Dalla parte dell’uditore la riflessione approda ad altre considerazioni. La figura dell’anonimo eunuco etiope rappresenta emblematicamente tutti coloro che sono in un atteggiamento di autentica ricerca. A qualsiasi popolo, cultura o religione appartengano gli uomini ricercano un senso, una risposta a quegli interrogativi che sono di tutti e di tutti i tempi. Dobbiamo divenire attenti nell’ascoltare la domanda che più o meno esplicita colui che ci sta accanto ci rivolge. Ma può capitare che la nostra ottusità ci renda sordi e ciechi, i nostri preconcetti ci facciano assumere atteggiamenti precostituiti e negativi che impediscono ogni aggancio. Dobbiamo imparare a prestare attenzione, ascolto, accoglienza facendoci discreti compagni di viaggio. La Parola è una spinta a superare quelle barriere che spesso comodamente vorremmo frapporre, per rassicurarci, fra i cosiddetti “vicini” e “lontani”: ma chi può realmente giudicare la vicinanza o meno del cuore che autenticamente ricerca Dio? I nostri criteri sono così ristretti, siamo talvolta ciechi nel non riconoscere il bene e la verità dove meno ce lo aspetteremmo.

    La Parola che gratuitamente abbiamo udita e accolta ci chiama a farci  attenti ad ogni persona, in qualsiasi situazione essa si trovi: a tutti la Parola gratuitamente deve essere ridonata.

    Comprendiamo allora la necessità per la chiesa, per le nostre comunità, di una continua conversione per eludere il rischio di una colpevole chiusura alla grazia dell’evangelo destinato ad ogni uomo. La Chiesa è fatta per evangelizzare!

    E quando la Chiesa evangelizza riscopre nella Parola annunciata la gioia della Buona Notizia e del suo esserne strumento: a tutti deve essere rivolto l’annuncio del nostro essere stati raggiunti da una grazia inestimabile: quella di sentirci amati e accolti da Dio come fratelli, tutti allo stesso modo, e nessuno è escluso da questo sovrabbondante dono. Un incontro di tal sorta non può che trasformarci tutti in nuovi evangelizzatori, in portatori della Buona Notizia facendoci compagni di altri uomini e donne che  a nostra volta incontreremo sul nostro cammino.

    Oratio

    Sulle strade delle nostre città che gli uomini e le donne percorrono spesso oppressi da una solitudine senza risposte siamo da te, o Signore, invitati ad incamminarci, senza calcoli, né progetti ma fiduciosi unicamente nella forza della Parola che ci hai consegnato. Che essa sia annunciata al mondo intero. Tu ci vuoi sulle strade di questo mondo incontrando uomini e donne d’ogni razza, lingua, cultura e religione, e ci mandi senza due tuniche, né bisaccia, né denaro, ma ricchi solo della Buona Notizia che ci hai affidato.

    Rendici capaci di farci compagni di viaggio dei nostri fratelli. Non freddi saccenti con risposte arroganti sempre pronte e stereotipe, ma umili servitori della tua Parola. Fa’ che diveniamo capaci di accoglienza, di ascolto, di dialogo fraterno e sincero. Solo così, insieme, ci apriremo alle sorprese del tuo Spirito capace di allargare il cuore di ciascuno alla grazia dell’evangelo.

    Vinci, o Signore,  le nostre comodità, le nostre paure e resistenze, i nostri tentativi di ripiegarci nella sicurezza delle nostre sacrestie e nel percorrere strade ormai imparate a memoria, incapaci di suscitare in noi meraviglia ed entusiasmo.  Donaci, Signore, il coraggio di lanciarci sulle strade impreviste, e talvolta scomode, sulle quali tu ci vuoi.

    Nella forza della tua Parola nascerà, con colui che incontreremo, condivisione e comunione: le barriere saranno vinte, i pregiudizi abbattuti. E il mondo diventerà casa di fratelli da incontrare col sorriso e un abbraccio di pace.