• 07 Dic

    Non abbiamo che un solo Padre

    Lectio di Mt 6,9-10; Lc 11,2

     

     di p. attilio franco fabris

     

    E’ interessante notare che la religione monoteistica mussulmana tra i “Novantanove Nomi” dati a Dio non contiene quello di “padre”. Troppo forte è per questa religione la concezione di una trascendenza assoluta di Dio per potergli applicare una simbolica che troppo fa riferimento all’esperienza umana e alla fede cristiana. Dalla mancanza di questo titolo attribuito a Dio difficilmente può scaturire la consapevolezza che tutti siamo suoi figli, che l’umanità deve costruirsi come un’unica grande famiglia in cui ciascuno viene accolto, come in ogni famiglia, nella sua uguale dignità, diversità e libertà.

    In contrapposizione  mi piace riportare un episodio tratto dalla vita di Teresa di Lisieux, una piccola del Regno, che ha sperimentato nella sua vita un abbandono totale e fiducioso nelle mani del Padre, sapendo allargare il suo cuore in un abbraccio a tutta l’umanità fosse anche quella più lontana da Dio. Un giorno – racconta Celina sorella di Teresa – entrando nella cella della nostra cara sorella rimasi sorpresa dalla sua espressione di grande raccoglimento. Cuciva con slancio e tuttavia sembrava perduta in una profonda contemplazione. “A che pensi?” le chiesi. “Medito il Pater noster” mi rispose “ è così dolce chiamare Dio Padre Nostro!”. E le spuntarono le lacrime agli occhi. Teresa amò Dio come un bambino vuole bene al babbo con incredibili manifestazioni di tenerezza. Durante la sua malattia accadde che, parlando di lui, prese una parola per un’altra e lo chiamò papà. Noi ridemmo ma lei riprese tutta commossa: “Oh sì, è proprio mio papà, e quanto mi è dolce dargli questo nome (Consigli e ricordi).

    Invochiamo dallo Spirito di Gesù la grazia di fare la stessa esperienza della dolce e forte paternità di Dio che aprendoci gli occhi ci fa scoprire nell’altro il fratello e la sorella che lui ci dona: O Spirito santo di Dio, / colomba che scendi dall’alto, / aleggia su noi qui raccolti, / ispira la nostra preghiera./ Un cuore unito chiediamo, / un cuore che sappia ascoltare, / un labbro capace di lode, / che sappia al Padre parlare. / Tu operi tutto in tutti, / i doni son molti e diversi, / ci chiami a formare un sol corpo / e l’unico tempio tuo santo. Amen (dalla Liturgia di Bose).

    Lectio

    Numerosi erano i popoli antichi che usavano chiamare Dio con il nome di “Padre”. Ma occorre fare attenzione; non tutti coloro che chiamano Dio col nome di Padre si rivolgono allo stesso Dio; anche Assur il dio sanguinario di Ninive, a cui venivano offerti anche sacrifici umani, era chiamato “padre”. Quindi non basta fermarsi al titolo, ma occorre guardare la realtà che esso indica per comprenderne il significato vero.

    Si rimane meravigliati constatando che, nell’Antico Testamento, l’appellativo  “Padre” riferito a Dio sia usato pochissime volte (15 in tutto!). Israele infatti ha osato rivolgersi a JHWH con l’appellativo di “Padre” molto tardi. Questo per il semplice fatto che nelle mitologie pagane limitrofe la paternità di Dio era intesa in senso troppo fisico-materiale, e questa era una visione incompatibile con l’altissima concezione spirituale che Israele aveva di Dio. L’Antico Testamento userà il titolo di Padre per sottolineare soprattutto la coscienza di Israele di essere stato generato come popolo da parte di  JHWH attraverso il dono dell’alleanza. Da cui scaturisce il dovere di un’obbedienza filiale nei suoi confronti: “Voi siete figli di JHWH, vostro Dio” (Dt 14,1). Successivamente questa paternità di Dio, attraverso la predicazione profetica, viene estesa a tutti gli altri popoli: “Non abbiamo noi tutti un unico padre? Non ci ha creati un solo Dio? (Ml 2,10).

    Ma chiamare Dio “Padre” non significa ancora chiamarlo “Abbà”: parola con cui i bambini si rivolgevano al loro “papà”. E’ il termine aramaico affettuoso e confidenziale con cui il bambino si rivolge al proprio “babbo”. E Gesù, quando parla di Dio e si relaziona con lui nella preghiera, usa abitualmente questo appellativo, suscitando lo scandalo presso i teologi dell’epoca: “Proprio per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5,18). Il che non può che indicare che il suo rapporto con Dio è caratterizzato da un’assoluta e unica confidenza, intimità e fiducia.

    Dunque nel Nuovo Testamento il volto di Dio “Abbà” è una rivelazione di Gesù anzitutto perché egli stesso si pone dinanzi a lui sin dall’inizio con una chiara autocoscienza del suo essere a pieno titolo suo “Figlio” (cfr Lc 2,49).

    Ma a cosa fa riferimento la rivelazione di Dio “padre-abbà”? Il primo e fondamentale significato dell’appellativo è quello di Dio riconosciuto come fonte originaria della vita e di relazione filiale. E’ da lui che  “proviene ogni paternità in cielo e in terra” (Ef 3,15) per Gesù prima di tutto in quanto Figlio per natura, ma anche per noi che attraverso il nostro unirci a Cristo mediante la fede, incorporati a lui col battesimo, diveniamo a tutti gli effetti figli adottivi: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12); “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). Certamente il rapporto tra Gesù e il suo “Abbà” è unico; non troviamo mai che egli preghi insieme ai suoi discepoli dicendo con i discepoli “Padre nostro” (cfr Gv 20,27).  Tuttavia i discepoli di Gesù, entrando a far parte della sua famiglia, imparano a loro volta a rivolgersi a Dio come figli, chiamando Dio familiarmente “Padre” come ha fatto Gesù. E questo è dono dello Spirito (Gal 4,6; Rm 8,15) che ci dona la capcità della parresia ovvero di una “disinvolta confidente familiarità” con Dio (osiamo dire…).  Per il cristiano si instaura perciò con Dio-Abbà un rapporto di grande familiarità che deriva dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio (cfr. Ef 3,11-12). Quando nei testi neotestamentari troviamo l’appellativo “Padre” probabilmente esso traduce sempre l’unica espressione aramaica usata da Gesù: “Abbà”. Egli ci ha rivelato l’immagine di Dio come Padre colmo di misericordia che ha cura dei suoi figli (cfr Lc 15), di cui non si deve e non si può avere paura. Ci ha insegnato a rivolgerci a lui con la semplicità dei bambini (Mt 5,15) perché Egli conosce e ha cura di ogni sua creatura (Mt 6,25-31; Lc 12,6). È esattamente il contrario di un padre-padrone perché la sua paternità è viscerale, compassionevole, mai possessiva anzi desiderosa di promuovere la vera libertà dei figli.

    L’aggettivo “nostro” nel Pater riportato da Matteo è riferito ovviamente a Dio (“di noi”) e non sta ad indicare certamente possesso: Egli è il nostro Dio e noi siamo il suo popolo. Si tratta di un’appartenenza reciproca che ci è stata offerta gratuitamente nell’Alleanza: Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio (Ap 21,7).

    La paternità di Dio si esprime al plurale perché il suo amore è per tutti. Egli invita gli uomini a percepirsi e raccogliersi da fratelli in un’unica famiglia, questa è una dimensione fondamentale della richiesta del Regno invocato dalla preghiera del Pater (Mt 5,44-45). Un “Nostro” che è riferito in primo luogo a quella realtà sacramentale del Regno già presente che è la Chiesa, famiglia di Dio. 

    Una ulteriore sfaccettatura dell’aggettivo “nostro” è che il Pater è la preghiera che ci fa passare dall’inizio alla fine dal Tu al Noi; constatiamo infatti che nella prima parte al centro vi è un Tu: il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà, e nella seconda parte predomina il noi: da a noi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non indurre noi in tentazione, libera noi dal male. Siamo figli, un unico corpo, un’unica famiglia, fratelli e sorelle raccolti attorno a Cristo che crea tra noi legami più forti di quelli del sangue (cfr Mt 23,8). Mette in luce che l’essere suo popolo è una immensa e gratuita degnazione da parte di lui senza alcun nostro merito, cosa che impedisce di trasformare la grazia dell’elezione in spirito di gretto settarismo.

    Infine, sempre Matteo, inserisce l’espressione “che sei nei cieli” comunissima al tempo del giudaismo. Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice: “Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele e il Padre suo che è nei cieli”.

    Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo a loro inaccessibile che rievocava il mistero, la trascendenza, l’infinito. Nella loro cosmologia il cielo appariva loro come una realtà solida sulla quale sta il trono di Dio, la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo (cf Sal 2,2s; 104,2; Gb 1,6-12). L’espressione “che sei nei cieli” sta dunque ad indicare la totale trascendenza di Dio, il suo mistero inaccessibile, ma non la sua lontananza! Dio è vicino e lontano, Padre e Signore. Il credente unisce confidenza e timore, familiarità e obbedienza. Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre” può generare un certo disagio: un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile. Tuttavia nella fede siamo chiamati a conciliare questi due aspetti di Dio: la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa. E’ un mistero di amore che ci avvolge e che nello stesso tempo ci trascende. E ancora: “che sei nei cieli” è richiamo a Dio come Creatore divenendo  invito a scorgere in ogni cosa un suo dono.

    Sono cieli, che un tempo chiusi, sono ormai spalancati da Gesù (“si spalancarono i cieli” Mt 3,16) a tutta l’umanità perché in lui cielo (Dio) e terra (umanità) sono ormai eternamente riconciliati. Paolo può dire: Il Padre ci ha fatti sedere (ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora) nei cieli in Cristo (Ef 3,6). Il peccato ci aveva allontanato da questi cieli, ma essi sono ridiventati la “nostra patria”. Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2). La nostra conversione non è altro che un ritorno al cielo di Dio dove finalmente l’umanità sarà unica famiglia raccolta nella casa del Padre.

    Meditatio

    Psicologi e sociologi affermano che la nostra società ha rifiutato la presenza e il ruolo del padre per cui si è parlato per la cultura occidentale di una sorta di “morte del padre”. La sua figura legata ad ogni forma di autorità è stata infatti rifiutata – anche violentemente – a partire soprattutto dagli anni ’60 perché avvertita come un ruolo bloccante e frustrante della spontaneità della vita. Si è visto nella figura del “padre” l’avversario-padrone da combattere in quanto rappresentante di tutti i condizionamenti e alienazioni e si è rivendicato, in una società improntata sull’ideologia radicale che rivendica un’autonomia assoluta (fonte di ogni relativismo) il diritto da parte di ognuno di decidere della sua vita, senza riferimento a nessun “padre”, come meglio crede: anche per quanto riguarda la morte. Anche l’ingegneria genetica – quando ha prescisso dal “padre” rivendicando una sua autonomia da ogni valore di riferimento, è entrata talvolta in un gorgo delirante di onnipotenza, dando luogo ad esistenze che alla loro origine mancano del volto del padre-madre. Anzi questo “padre-madre” anonimo è contrassegnato inevitabilmente da una maschera di morte (per ogni embrione fatto crescere molti altri sono lasciati morire!). La conseguenza è che ci troviamo ad aver a che fare sempre più, soprattutto nell’ambito delle nuove generazioni, con un uomo orfano, solo, sperduto, senza radici, frutto unicamente del caso e perciò incapace di affermare la propria identità e dignità più profonda. La vita, propria e altrui, non avendo significato non vale nulla: il quattordicenne può sparare benissimo al barista per non pagare il conto di 20 euro, o se ammalati ci si può gettare dal balcone perché tanto non c’è nessun padre che abbracci e consoli.  La conseguenza è che nell’ “altro” che mi sta di fronte spesso non si è più capaci di vedere il dono di un fratello o di una sorella da accogliere e amare perché parte di me, della mia vita e della mia storia. L’“altro”, spesso anche all’interno della famiglia, è tutt’al più un “qualcuno”, o forse “qualcosa” da sfruttare se debole, da cui sbarazzarsene se dà fastidio, o da cui difendersi se troppo forte perché minaccia la mia libertà. La nostra è così una società di orfani e di figli unici: senza famiglia, senza padre/madre e perciò senza fratelli né sorelle!

    Questa “orfanezza” invece di spingere alla ricerca del volto del vero padre sembra premere in un parossistico tentativo di spegnere solo l’angoscia che da questa assenza deriva: piccoli orizzonti individuali o incontri racchiusi nel “tutto e subito” di piaceri passeggeri e fine a se stessi, ossessioni  di incontri “virtuali” (più si è meglio è!) che vorrebbero rappresentare quella casa in cui toccare con mano il calore dell’affetto e dell’abbraccio che tutti vorrebbero e che, invece, si rivelano come case fredde e anonime che non riscaldano mai a sufficienza il cuore e in cui, nel riflesso del monitor, è sempre e solo il proprio volto a specchiarsi.

    Tutto questa cultura ha inciso fortemente e negativamente anche sul pensare Dio e Dio come Padre. Lo spauracchio di Dio non funziona più per obbligare i più a stare “in casa”, e il “buon Dio”al massimo è utile per le donne e i bambini. Il giovane e l’adulto non ha bisogno di un “Padre”, può rischiare benissimo da sé la vita che sente solo sua. Tutt’al più può far riferimento a una religiosità vaga e universale, ad un cosmo divinizzato… in cui non ci si sente minacciati nella propria indipendenza e autonomia perché non mi interpella chiamandomi per nome.

    Questi sono alcuni tra i tanti motivi dell’allontanamento dalla chiesa, la casa della famiglia di Dio, soprattutto da parte delle nuove generazioni. La religione del Padre è rifiutata o, il che è peggio, lascia completamente indifferenti.  Lo scrittore E. Hemingway scriveva in uno dei suoi “49 Racconti” una parodia del Padre Nostro: O nulla nostro che sei nulla, / sia nulla il tuo nome / nulla il regno tuo / e sia nulla la tua volontà / così in nulla come in nulla/. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano / Ave, nulla, pieno di nulla, / il nulla sia con te”.  Sono parole estremamente drammatiche che risuonano in un buio vuoto colmo di assurdità, ma quanto mai rappresentative della nostra epoca.

    Questa mala comprensione di Dio non è altro che frutto del peccato, del lasciar continuamente insinuare nel cuore il sospetto di un Dio geloso che non vuole il bene e la gioia delle sue creature: Giovanni Paolo II scriveva nella sua enciclica “Dominus et Vivificantem”: “Lo spirito delle tenebre (Ef 6,12) è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e prima di tutto come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che “sin dall’inizio” dev’essere considerato come nemico dell’uomo e non come Padre. L’uomo viene sfidato a diventare l’avversario di Dio” .  Ma se Dio che dovrebbe essere mio Padre mi è nemico, come allora posso fidarmi del fratello che mi sta accanto? Come è possibile “metter su famiglia” sia nel senso dello sposarsi come dell’entrare in una comunità cristiana o religiosa? 

    È urgente mettere in atto quella nuova evangelizzazione, desiderio profondo di tutta la Chiesa, capace di annunciare il vero volto del Padre rivelatoci da Gesù. Non è che forse in verità si rifiuti un’immagine caricaturale che di Dio era stata data e che forse la stessa Chiesa in tanti modi aveva avvallato allontanandosi dalla rivelazione biblica? O ancora: quanto le esperienze negative che tanti hanno fatto e fanno nell’ambito delle proprie relazioni familiari hanno influenzato in modo negativo anche il loro rapporto con Dio Padre (e con la Chiesa)?

    Questo Padre-Abbà di certo non possiede le caratteristiche frustranti che vengono rifiutate dalla nostra cultura. Gesù ci rivela un Dio-Abbà-papà che è garante e fonte di vera vita e libertà per tutti i suoi figli e che desidera fortemente che tra loro si instauri l’autentica fraternità, una sola famiglia, racchiusa nel suo progetto sin dal principio”, inaugurata da Gesù con la Chiesa e che è promessa per tutta l’umanità alla fine dei tempi: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente che usciva dal trono: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro” (Ap 21,2-3).

    L’“Abbà” di Gesù non è certo un padre-padrone geloso della vera libertà dei figli, anzi egli la promuove continuamente in tutti i modi, correndone tutti i rischi e anche perdendoci (cfr la parabola del “figlio prodigo e del padre misericordioso Lc 15). I tratti del volto di questo Dio-Abbà, che si manifestano nell’umanità di Gesù suo Figlio, sono caratterizzati dalla tenerezza, dalla compassione, dalla misericordia, dal perdono, da un amore gratuito senza “se” e senza “ma”.

    La preghiera del Padre Nostro ci propone in sintesi tutto questo come programma non solo di preghiera ma anche di vita. L’orazione del Signore ci fa uscire dal rischio di una religiosità falsa caratterizzata dall’intimismo e individualismo: davanti al Padre, anche nel segreto della nostra stanza (cfr Mt 6,6), Gesù ci insegna a portare non solo noi stessi ma anche tutti coloro per i quali egli ha offerto se stesso. Il Catechismo afferma che “i battezzati non possono pregare il Padre “nostro” senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo diletto. L’amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo” (2793). “Pregando il Padre Nostro ci collochiamo sicuramente nell’ambito della preghiera di Gesù, la sua grande preghiera sacerdotale, nella quale lui stesso chiede al Padre che tutti siano “una cosa sola”, come lui è “una cosa sola col Padre” (cfr Gv 17,21).

    In famiglia pregare insieme il Pater significherà allora riconoscere gli uni di fronte agli altri – genitori e figli – in una comune professione di fede la comune paternità di Dio da cui procede ogni paternità e questo riconoscimento sarà garanzia di libertà, di dignità e responsabilità vicendevole. In una comunità cristiana e religiosa significherà riconoscere che si è “famiglia” nella misura in cui non si cerca anzitutto di trovare punti di convergenza in se stessi, nei programmi o nelle simpatie vicendevoli,  ma unicamente nella fede in Cristo che ci raccoglie nella sua famiglia: “la Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato “il primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29 ), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo (Cf Ef 4,4-6)” (CCC 2790). Ci si riconosce figli di un unico padre e fratelli tra noi non per legami di sangue (motivazioni umane), ma per una “consaguineità” di fede ancor più profonda di fede nel Signore Gesù. “Chi fa la volontà del Padre, questi è fratello, sorella e madre” (Mt 12,50).

    Come sono tristi e controtestimonianti comunità grette, chiuse, divise, fredde incapaci di trasmettere una minima esperienza di Dio-Abbà! Come non chiedere allora al Signore che le nostre comunità sappiano dare testimoniare al mondo del nostro essere “famiglia di Dio”, fratelli tra noi, in cui tutti possano sperimentare l’accoglienza, l’abbraccio, il calore, la misericordia del comune Padre-Abbà? Che l’uomo “orfano” e vagabondo solitario nel mondo possa trovare finalmente una casa in cui scoprire che c’è un Padre desideroso di far festa con tutti i suoi figli. 

    Oratio

    Non dire: Padre se ogni giorno non ti comporti come un figlio.
    Non dire: nostro
       se vivi isolato nel tuo egoismo.
    Non dire: che sei nei cieli   se pensi solo alle cose terrestri.
    Non dire: Sia santificato il tuo nome
       se non lo onori.
    Non dire: Venga il tuo regno,   se lo confondi con il successo materiale.
    Non dire: Sia fatta la tua volontà
       se non l’accetti quando essa è dolorosa.
    Non dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano
       se non ti preoccupi di chi non ha nulla da mangiare.
    Non dire: Rimetti a noi i nostri debiti
       se conservi rancore verso tuo fratello.
    Non dire: Liberaci dal male
       se non prendi posizione contro il male.
    Non dire: Amen
       se non hai inteso e non hai accolto   la Parola del Padre Nostro.

     

     

     

  • 03 Dic

    Una comunità che si costruisce a partire dalla Parola
    e attorno alla Parola:  Atti 2,42-48

     

     a cura di p. attilio franco fabris

    E’ il testo noto come “primo sommario” sulla prima comunità cristiana.

    Ci domandiamo: da dove procede questa comunione?  Dal versetto introduttivo ci viene la risposta: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”.

    Sono le “quattro fedeltà” della comunità cristiana primitiva. Esse sono in un rapporto funzionale tra loro: l’ascolto dell’insegnamento apostolico, l’unione fraterna (koinonia) , la frazione del pane, la preghiera.

    Anzitutto un primo dato: la koinonia, l’unione fraterna, nasce dall’ascolto della Parola. La comunità non nasce da sentimenti, propositi, progetti… ma dall’ascolto! Si tratta di una comunione che Dio stesso, attraverso la sua Parola, imbastisce, intesse tra noi. La Parola è una forza che esplica sulle nostre esistenze un’azione attraente e aggregante. Una forza che non illumina solo l’intelligenza, ma tocca il cuore e muove le volontà, innescando un processo di aggregazione che struttura, fra coloro che la ascoltano, relazioni nuove.

    E’ questo ascolto-incontro-con-Dio-mediato-dalla-Parola che fa di noi Chiesa in senso neotestamentario.

    Ci sono infatti diverse forme di aggregazione-comunione dal punto di vista religioso e sociale. Ma non sono comunità neotestamentarie, ovvero Chiesa, senza ascolto della Parola.

    Ecco dunque un criterio importante: possiamo dirci comunità evangelica quando le persone si raccolgono attorno alla Parola. E’ la Parola che chiama e che fa Chiesa (“ekklesia” da “kaleo” – chiamare)  a questa Parola siamo chiamati a rispondere.

    E’ una Parola dunque che ci prende, ci raccoglie, ci mette insieme. Per che cosa? Per continuare ad ascoltare quella Parola e vivere di quella Parola.

    Alcuni potrebbero obiettare: “La comunità in senso evangelico è una comunità di fede! “. Certo lo è. Ma lo potrebbe essere ancora in senso teista, non avendo preso ancora piena coscienza del suo essere comunità cristiana. “Come fai a dirlo?”. Si potrebbe rispondere: dal semplice fatto che la sua esperienza di fede non si fonda prevalentemente sull’ascolto della Parola. Nel migliore dei casi accanto ad altre iniziative, progetti, ecc… si pone anche qualche momento di ascolto della Parola che non è certamente centrale. (cfr la difficoltà dei centri di ascolto nelle parrocchie). Dal punto di vista biblico invece sarebbe naturale dire: “Apparteniamo tutti al gruppo di ascolto, perché l’ascolto della Parola è il fondamento del nostro essere comunità, è l’attività fondamentale che tutti condividiamo. All’interno di questa attività ci ripartiamo i compiti e le funzioni richieste dalla vita comune”.

    Nella vita religiosa non siamo stati educati a questo costruire la comunità attorno all’ascolto concreto (tempi, spazi…) della Parola. Domandiamoci come è maturata la nostra vocazione religiosa e sacerdotale. Certamente la Parola è entrata e ha fatto la sua parte. Ma possiamo affermare che la Parola era ed è realmente il centro di tutto? Probabilmente no: e si tratta di una constatazione di tipo socio-pastorale e di tipo socio-religioso.

    L’ascolto della Parola è ad un tempo ascolto personale e ascolto comunitario. Ma l’ascolto vero e proprio che fonda l’esperienza di fede di tipo biblico, non è quello individuale, ma quello comunitario. Occorre essere almeno in due! (cfr Mt 18,20).

    La condivisione della Parola consente allo Spirito di manifestare con intensità, a coloro che si raccolgono intorno ad essa, la presenza del Signore.

    Perché il Signore Gesù assicura la sua presenza in mezzo a coloro che si radunano nel suo nome? Rispondiamo: perché allora la coscienza di coloro che coltivano l’ascolto della Parola, diventa sensibile alla presenza del Signore. La presenza del Signore non si manifesta “quoad se” perché c’era già; essa si manifesta “quoad audientes”, nel senso che coloro che praticano l’ascolto della Parola, finalmente la percepiscono. Ciò che educa il cuore, la coscienza di coloro che ascoltano, a percepire la presenza di Dio, è la Parola stessa.

    L’ascolto della Parola passa attraverso quello che potremmo chiamare il “circuito” dell’ascolto.

    Quali sono le fasi di questo circuito?

    Rm 10,14 ci dice che l’ascolto parte se c’è qualcuno che parla nel nome del Signore. E’ necessario che qualcuno parli: la tradizione biblica lo chiama “profeta” ovvero colui che si fa servo della Parola e non si vergogna delle cose che ha da dire, e parla faccia a faccia con i suoi interlocutori.

    Quindi perché l’ascolto della Parola di avvii ci vuole qualcuno che ci venga incontro con franchezza, per dirci: “Ho qualcosa da dirti da parte del Signore. Vuoi ascoltare?”.

    Questa Parola non si accontenta di istruire, esortare, annunciare. Il profeta fa ben altro. Interroga, dialoga con chi lo ascolta. Cosicché proprio attraverso l’annuncio (il kerigma), l’istruzione (la catechesi), e l’esortazione (la parenesi) si avvia fra chi annuncia, chi porge la Parola, e chi ascolta un dialogo imbastito dalla Parola. Il filo conduttore di questo dialogo con sono le idee, i propositi, i sentimenti, ma è la Parola che il profeta propone e con cui il suo interlocutore, ascoltando, interagisce. Questa Parola filtra e ricicla tutti i nostri vissuti.

    Ne segue che il dialogare fra di noi, frutto esso stesso dell’ascolto, è un dialogare continuamente con quella Parola in nome della quale ci stiamo incontrando. Le nostre Parole divengono un’eco (le risonanze) della Parola ascoltata.

    Dunque alla fase della “datio verbio” deve seguire la “redditio verbi”. Io ti porgo la Parola, tu cosa mi dici? Cosa ti suggerisce la tua coscienza? Così la Parola viaggia, da coscienza a coscienza, va e viene, viene e va, come la spola di un fuso, come la navetta di un telaio,  e tesse le relazioni nuove che fanno la comunità. Questo processo non è altro che la condivisione della Parola. Per definire  la quale potremmo usare l’espressione “fractio verbi”.

    La condivisione della Parola genera comunione: Una comunione che non è frutto di sapienza umana, di intese umane, ma è frutto della Parola, attraverso la quale il Signore ci mette insieme, accomuna, le ga intreccia, annoda fra loro le nostre vite. Le relazioni che nascono dall’ascolto della Parola sono estremamente forti e significative. Perché? Perché in quanto generate dal sacramento della Parola sono delle relazioni “sacramentali”. L’altro diviene necessario: “Io non posso ascoltare la Parola da solo: ho bisogno di te. Tu hai bisogno di me: Abbiamo bisogno di essere comunità-Chiesa”.

    La condivisione della Parola generando relazioni di condivisione e di comunione, porta alla condivisione della vita. Se colui che con me condivide la Parola è segno vivo della presenza del Signore che parla, se io lo sono per lui, possiamo allora non mettere in comune la vita e i beni? E’ una comunione che nasce spontanea, dalla gioia dell’amore. E’ evidente: attraverso l’esperienza della sacramentalità della relazione ecclesiale passa la libertà dell’amore.

    Come chiameremo la condivisione della vita che scaturisce dalla “fractio verbi”? La chiameremo “fractio vitae”.

    La successione allora delle fasi dell’ascolto si presenta così:

    –     “datio verbi”: l’annuncio della Parola

    –     “redditio verbi”: la risonanza della Parola annunciata nelle nostre coscienza

    –     “fractio verbi”: la condivisione delle nostre risonanze

    –     “fractio vitae”: la condivisione della vita attorno alla Parola

    Solo a questo punto è ragionevole che la “fractio vitae” trovi la sua piena esplicitazione nel gesto della “fractio panis”: Luca, nella gerarchia delle “quattro fedeltà” della comunità primitiva colloca la frazione del pane al terzo posto, dopo l’insegnamento degli apostoli e l’unione fraterna.

    La tradizione cristiana definisce la frazione del pane “fons et culmen vitae christianae”: “culmen” in quanto celebra la comunione fraterna già attuale; “fons” in quanto, nella sua forza sacramentale genera ed incrementa la comunione che celebra.

    Come viviamo la “fractio panis”? Essa è segno vivo che attesta da una parte la consegna che il Signore fa di sé all’umanità, dall’altra la nostra disponibilità ad accogliere e condividere il dono di questa comunione. Una comunione che abbraccia la nostra relazione con Dio e con i nostri fratelli.

    Ora nelle nostre celebrazioni queste dimensioni sono altrettanto presenti? Non è forse che la liturgia eucaristica si presenti troppo spesso come una comunione cultuale, un rito in cui si celebra la comunione mistica fra Dio e l’uomo, e la comunione fraterna si intraveda appena? DA che cosa dipende questo? Stando a quanto detto ciò accade perché la “fractio panis” non è preceduta adeguatamente dalla “fractio verbi”. Come può una comunità spezzare il pane se prima non ha realmente spezzato la vita e come può spezzare la vita se non alla luce e nella forza della parola? Togliendo la condivisione della Parola togliamo vigore, significato, efficacia alla condivisione della vita e del Pane.

    Il Signore, fedele al suo popolo, continua a consegnarsi a noi, attraverso il pane della Parola e i segni del pane e del vino. Ma noi alla mensa della parola mangiamo poco o niente. Saltando la mensa della Parola non coltiviamo più nel Signore le relazioni fra di noi, non celebriamo adeguatamente la comunione fraterna e finiamo, senza accorgercene con lo scavalcare tutte le questioni inerenti alla nostra fraternità.

    Per Luca dunque è dall’ascolto della Parola che discende l’unione fraterna, ed è dall’unione fraterna che discende un’autentica “fractio panis”. Nell’ambito poi della “fractio panis” si svolge la preghiera. Queste “quattro fedeltà” costituiscono le tappe del processo che gradualmente aggrega e struttura la comunità primitiva.

    La carenza della condivisione della Parola rispecchia il progetto del Signore? La liturgia della Parola nell’eucarestia non ha forse assunto forse connotati solo rituali e quindi riduttivi? E questo non viene forse ad offuscare la vitalità e concretezza della celebrazione?

    Dove e come e quando l’assemblea è protagonista della preghiera liturgica? Se il principio della partecipazione del popolo alla celebrazione è uno dei sunti fondamentali riscoperti dal Concilio Vaticano II  da dove cominciare? E’ ovvio dalla liturgia della Parola. Invece generalmente è proprio qui che l’assemblea viene tagliata fuori. A volte si percepisce l’idea che l’assemblea sia protagonista nella misura in cui partecipa al ruolo del presbitero. Non è questa la strada. All’assemblea compete il suo ruolo e la sua partecipazione si attua anzitutto e prevalentemente nell’ambito della liturgia della Parola. E’ l’ascolto della Parola il luogo originario della comunione fra il presbitero e l’assemblea, fra l’assemblea e il presbitero, che si celebra poi attraverso la “fractio panis”.

    Ma sottolineamo: il problema non è se introdurre l’omelia partecipata o no. Il problema che sta a fondo è che l’assemblea sia preparata all’ascolto della Parola, sia esperta della “fractio panis”. L’omelia partecipata può essere un punto di arrivo non di partenza.

    L’assemblea deve essere educata prima e fuori della liturgia eucaristica.

    La riscoperta della centralità della Parola, e della Parola condivisa porta alla riscoperta del “dies dominici”, il giorno nel quale la comunità si raccoglie per ascoltare e celebrare il Signore.

    Se oggi nella nostra gente l’adempimento del precetto vissuto è spesso vissuto con pesantezza, o addirittura tralasciato, non è forse dovuto al fatto che la “fractio panis” ha perduto per essi la valenza di memoriale della passione e morte del Signore? E ciò è avvenuto perché è venuta meno la “fractio verbi” che doveva illustrare il significato di quel pane.

    Tirando le conclusioni di quanto accennato possiamo dire: affinché possiamo ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario che ritroviamo la nostra identità di comunità ecclesiale: ma l’identità ecclesiale dipende dall’ascolto della Parola.

    Quando la prima comunità è divenuta comunità di ascolto della Parola? Fu l’esperienza dei “cinquanta giorni” nel cenacolo nell’attesa dell’adempimento della promessa.

     

     

    Piste di riflessione

    ∑    Nelle nostre comunità si avverte l’urgenza di riscoprire al di là di programmazioni, progetti, finalità… un perno solido in cui riscoprire la nostra identità cristiana, religiosa, sacerdotale, in modo da risolvere quel disorientamento che attanaglia e rischia di bloccare tutti e tutto? Condividi  l’importanza e la centralità dell’ascolto della Parola come forza convocante e aggregante della comunità neotestamentaria, e che questa possa dirsi comunità evangelica solo nella misura in cui in essa l’ascolto abbia il primato?

    ∑    Come la tua comunità vive l’ascolto della Parola? Cosa sinora avete attuato in questa direzione? Puoi dire che questo ascolto abbia il primato su tutto, ovvero che tutto (apostolato, scelte comunitarie…) scaturisce da esso?

    ∑    Cosa concretamente suggerisci perché le comunità della nostra Provincia divengano sempre più comunità evangeliche fondate sull’ascolto della Parola ?

    ∑    In quale misura nelle nostre comunità si attua il circuito della condivisione della Parola “traditio e redditio verbi”?  Ne senti la necessità? Oppure ritieni che una comunità possa costruirsi su altri fondamenti?

    ∑    La funzione profetica a chi compete? Essa è presente nelle nostre comunità e  nella nostra provincia?

    ∑     Cosa proporresti concretamente affinchè le nostre relazioni trovino fondamento, origine, consistenza e significato a partire dalla condivisione del sacramento della Parola?

    ∑    La condivisione della vita trova il suo fondamento nella condivisione della parola. Ed è da queste due condivisioni che assume “spessore” la condivisione del pane nell’eucarestia. In quale misura nella tua comunità si condivide la Parola in vista della condivisione del Pane? Hai l’impressione che l’Eucarestia si riduca a solo gesto cultuale, che però non esprime efficacemente la comunione  tra i membri della comunità? Un gesto sacro che però scavalca le questioni inerenti alla vita fraterna?

    ∑    Cosa suggeriresti concretamente? Cosa occorrerebbe modificare?

    ∑    Nelle nostre celebrazioni avverti che è la nostra vita ad essere condivisa e spezzata alla luce della parola e nel segno vivo del pane?

    ∑     L’affermazione secondo cui per ritrovare la nostra identità di comunità religiosa è necessario riscoprire la nostra identità ecclesiale ti trova d’accordo? Quali conseguenze concrete comporterebbe l’accettare questo assunto?

     

  • 02 Dic

    Una comunità che conosce la prova: Atti 4,23-31

    a cura di p. attilio franco fabris

    Pietro e Giovanni, dopo la guarigione del paralitico alla porta bella, sono condotti dinanzi al sinedrio.

    Una situazione imprevista. Che sentimenti avranno provato i due apostoli? “Qua le cose si mettono male… Com’è andata per Gesù, così lui ha promesso che sarebbe andata anche per noi… Dobbiamo prepararci…”.

    Cosa avremmo fatto noi? Non è che forse avremmo cercato appoggi, sostenitori, non avremmo forse cercato di entrare nel “giro giusto”? Perché se se ne resta fuori niente protezioni, né… carriera.

    Luca racconta: “Appena rimessi in libertà andarono dai loro fratelli e riferirono quanto avevano detto gli anziani e i sommi sacerdoti”. I due non trovano di meglio che andare di corsa dai loro compagni, a condividere tutto: è la fraternità. Il gusto di raccontare ciò che nel Signore essi hanno vissuto. Ciò che loro hanno vissuto interessa tutta la comunità: “Erano un cuor solo ed un’anima sola”.

    La reazione della comunità è una preghiera, una supplica rivolta al Signore. Una supplica per chiedere di vivere tranquilli e in pace? No! “Ora Signore concedici di annunziare con tutta franchezza la tua parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo servo Gesù”.

    Ciò che la comunità chiede è la franchezza in ordine alla testimonianza della Buona Notizia.

    La preghiera è esaudita, essa è secondo il cuore di Dio (v. 31). Lo Spirito santo scende nuovamente e riempie tutti i presenti. Dunque questa franchezza è il dono principale dello Spirito conferito nella Pentecoste.

    Ma non era già sceso lo Spirito? Sì a Pentecoste appunto. Ma il dono di Dio non è statico, è dinamico, si rinnova continuamente quanto più il cuore si dispone a riceverlo. Il cuore si dispone a riceverlo quanto più accetta di venire sollecitato dagli avvenimenti.

    In una nuova situazione, questa volta di conflitto e di persecuzione, cosa può fare la comunità se non attingere proprio all’esperienza della pentecoste? E come? Attraverso la “memoria passionis”. Ecco il segreto di questa nuova pentecoste. Pietro e Giovanni quando raccontano le loro vicende alla comunità, la aiutano a fare la “memoria passionis”. La comunità non scappa, non impreca, non si dispera, ma nel nome del servo Gesù innalza la sua supplica a Dio per ottenere il dono della franchezza.

    Vi è una convinzione di fondo: ciò che ha toccato intimamente la persona di Gesù ora tocca intimamente la comunità dei discepoli. L’esperienza pasquale di Gesù è la chiave per comprendere quello che sta capitando.

     E questo atteggiamento apre ad una nuova esperienza della Pentecoste.

    Ma la comunità primitiva per reagire all’ostilità del sinedrio ed all’approssimarsi della persecuzione in questo modo, che cammino avrà fatto? Qual è il retroterra della comunità che si raccoglie intorno a Pietro e Giovanni ed invoca dal Signore il dono della parresia?

    La tradizione degli Atti ci suggerisce che ciò è stato reso possibile dal dono dello Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    Le nostre comunit dinanzi alle difficoltà che “strategie di intervento” ti sembra che generalmente adottino? La comunità trova nella “memoria passionis” il criterio di discernimento e di letture delle vicende che essa si trova ad affrontare (cfr Regole e Costituzioni, n.5). E’ presente questo criterio o ne usiamo altri?

    ∑    Credi anche tu che la nostra Provincia abbia bisogno di una nuova esperienza di pentecoste, in quanto anche noi stiamo attraversando situazioni conflittuali difficili? Stiamo vivendo una sorta di persecuzione che si chiama disagio, malessere profondo, sfiducia, stanchezza, pigrizia, resistenza. Tutto questo snerva, sfibra, toglie il gusto del servire il Signore. Siamo inseriti in una cultura secolarista che osteggia in diversi modi la fede. Tutto questo esige franchezza, il coraggio della testimonianza. Cosa proporremo? A quali situazioni nuove stiamo andando incontro?
    Di certo ad una situazione nella quale i credenti si troveranno in una situazione minoritaria. Torneremo nelle catacombe? Metaforicamente sì, cioè inventando e sviluppando dimensioni di vita realmente alternative.

     

  • 30 Nov

    Il vissuto della prima comunità cristiana:

    Atti 4,32-35

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

     

    Il v. 35 con parole lapidarie afferma: “veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno”. E’ un’affermazione di grandissima importanza. Veniva dato a ciascuno non secondo i suoi meriti o demeriti, non secondo il grado, il ruolo, il posto che occupa nella comunità, non secondo la sua anzianità o la sua santità, ma secondo il suo bisogno. Si tratta di una gratuità che guarda al bisogno dell’altro.

    Noi saremmo tentati di dare “secondo giustizia” il che sta a significare in base ad una giustizia puramente distributiva (a tutti in parti uguali), o in base ad una giustizia meritocratica (a ciascuno secondo il suo merito). Dare a ciascuno invece secondo il suo bisogno è un’affermazione folle!

    Allo scandalo del buon senso mondano la tradizione biblica offre l’unica risposta possibile: la vita è dono, tutto è dono…Non temere dunque di vivere la gratuità. Il Signore è fedele!

    E’ questo il compimento della promessa biblica contenuta in Deuteronomio 15,7ss. La comunità cristiana si pone come il prolungamento e l’adempimento della Legge e della Promessa. Ecco la buona notizia! Le promesse di Dio finalmente si adempiono nella comunità di Gerusalemme.

    Ma qual è il fondamento di tutto questo, di questo adempimento?

    Esso si colloca nell’esperienza battesimale (cfr v 35 dove “deporre” sta ad indicare un vocabolario battesimale che dice una comune esperienza). In Atti 4,35.37 si “depongono” i beni che si possiedono: essi sono dono di Dio.

    Allora la condivisione dei beni si radica nella condivisione battesimale dell’essere. Cioè: io non depongo i miei beni ai piedi della croce, se prima, ai piedi della croce, non mi sono deposto io stesso.

    Alcuni tuttavia commenteranno: “Mah, sarà vero? Luca non parlerà probabilmente di un ideale mai raggiunto?”. Dobbiamo rispondere: se quella di Atti 2,42-47 3 32-37 è soltanto una prospettiva ideale, e non la certezza e la speranza che l’ideale biblico della fraternità proprio nel nome di Gesù, per dono di Dio, si può realizzare, al cristianesimo che cosa resta? Per rilanciare l’ideale di Dt 15 c’era bisogno che Gesù morisse? Non valeva la pena restare ebrei? L’interpretazione riduttiva di questa testimonianza chiave degli Atti demolisce la novità della prospettiva evangelica, cioè la stessa Buona Notizia.

    In questa interpretazione ci giochiamo la nostra identità ecclesiale.

    Quella comunione instaurata nella primitiva comunità ha un fondamento. Questo fondamento è la condivisione dell’essere.

    Quando si parla di condivisione ricordiamo che il primo bene da mettere in comune è la vita. Questo vuol dire il nostro tempo, il che vuol dire un progetto di vita, il che significa giocare in questo la propria libertà.

    Ma come si fa?

    E’ un dono del Signore che scaturisce dal fare “memoria” ogni giorno della sua Passione. Quando accogliamo, ai piedi della croce, questa gratuità dell’amore di Dio, allora l’amore circola fra di noi e noi diventiamo un cuor solo e un’anima sola. Ecco il segreto della comunità cristiana primitiva, la sua “grande forza”.

    Piste di riflessione

     ∑    La primitiva comunità vive la condivisione: “A ciascuno veniva dato secondo il suo bisogno”. Si mette in atto una giustizia che va al di là dell’equa distribuzione e del merito. E’ la folla “giustizia” della croce. Nelle nostre comunità è possibile parlare di condivisione? Se sì in quale senso? Se no in quale senso?

    ∑    Il fondamento della condivisione dell’avere è la condivisione dell’essere. Il che significa disponibilità a condividere la vita, il tempo, le energie, i progetti, la propria libertà. Ti sembra che in questi anni la provincia abbia camminato in questa direzione, ovvero di una sempre maggior proposta di una condivisione dell’essere?

    ∑    Questa condivisione dell’essere scaturisce dal deporre ai piedi della croce la propria vita. E’ dunque fondamentale la “memoria passionis” affinché nelle nostre comunità scaturisca una autentica comunione di vita. Questo significa accogliere incessantemente nella nostra vita la buona notizia. La proposta del primo annuncio ha trovato concretamente spazio nella vita personale e comunitaria come richiesto dalla programmazione capitolare?

  • 29 Nov

    Una comunità con dei problemi: Atti 6,1-6

     

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il capitolo 6 ci offre un quadro della comunità primitiva. Una comunità che ha cura di tutti; ha organizzato un servizio mensa quotidiano per coloro che sono in difficoltà. E’ bello! In questa comunità la parola fraternità non è una parola vuota, non è una dimensione puramente spirituale. Fraternità significa preoccuparsi del necessario per il fratello accanto.

    Ma la fraternità non è perfetta. Il bisogno di tutti viene sì soddisfatto, ma non in maniera equa. I membri provenienti dalla diaspora, senza alcun appoggio, sono discriminati. Ciò suscita malcontento.

    E’ una questione seria, perché viene messa in gioco l’autenticità della fraternità.

    E i responsabili sono investiti in prima persona della questione: sono infatti responsabili dell’unità e della fraternità. Essi non si barricano dietro a scappatoie o autogiustificazioni del tipo: “Ma sì, va tutto bene, sì, certo, sono problemi ma l’importante è… si rimedierà…”. Non cadono nel rischio di minimizzare o di dribblare la realtà. E’ l’autorità dei fatti! La disponibilità si vede dal realismo, dalla libertà interiore, dal senso di responsabilità con cui i fatti vengono accolti e assunti.

    Spesso invece accade che di fronte alle problematiche delle nostre comunità ci accontentiamo di soluzioni di facciata, artificiali: quelle soluzioni che fanno credere di aver aver risolto il problema, mentre non è risolto nulla, perché le cause dei problemi non sono risolte. La fraternità va curata perché è una creatura di Dio, va curata con tutte le nostre forze.

    I Dodici dunque prendono atto del problema, e di questo coinvolgono tutta la comunità: avanzano una soluzione concreta. La comunità avrebbe potuto indietreggiare, giocare allo scaricabarili, delegare. Invece no: tutti si sentono coinvolti in prima persona. Al bene comune dobbiamo provvedere insieme. Si decide per l’istituzione dei sette diaconi.

    Si procede ad una elezione. Non è improvvisata. Avviene in un clima di ascolto e di preghiera, di dialogo comunitario.

    Cosa ricavarne? Anzitutto ci viene detto che i bisogni della comunità, quando vengono assunti responsabilmente da tutti, vengono soddisfatti dal Signore. La risposta che il Signore offre ai bisogni della comunità si chiama “carisma”. Ad ogni bisogno il carisma adatto. Più la comunità cresce, più aumentano i bisogni, più crescono i carismi.

    Ma perché i carismi crescano e fioriscano in seno alla comunità è necessario che i carismi esistenti siano fedeli al signore e collaborino fra di loro. L’integrazione dei carismi è condizione di fecondità della comunità, perché, attraverso questa integrazione, si realizza l’unità.

    A Gerusalemme vi fu in quell’occasione una splendida integrazione di carismi: di vertice, di base, di servizio. Da quella situazione conflittuale nacque la splendida istituzione del diaconato.

    Le imperfezioni della fraternità vanno assunte, riconosciute, ma nel Signore. In una ricerca di integrazione di carismi esse divengono sorgente di fecondità.

    Certamente oggi dobbiamo assumere molte situazioni problematiche nelle quali domandare al Signore la nascita di nuovi carismi, e questo in ordine a:

    – la definizione dell’identità ecclesiale nel mondo

    – per attualizzare la vocazione e il carisma della vita religiosa e passionista

    – per avviare iniziative apostoliche conformi alle esigenze del nostro tempo.

    Piste di riflessione

    ∑    La fraternità è un dono che va curato. Essa non è perfetta. In essa esistono difficoltà, conflitti, tensione in ordine alla sua realizzazione. Tutto questo va riconosciuto e affrontato da tutti, indistintamente, nelle modalità proprie legate alla propria funzione. Nessuno dovrebbe giocare allo scaricabarili o alla delega. Ti pare che questo accada? Avverti una corresponsabilità nell’affrontare le difficoltà della provincia e delle singole comunità?

    ∑    Le soluzioni adottate per risolvere i problemi delle nostre comunità ti sembrano appropriate? Sono soluzioni che raggiungono il cuore del problema, o sono di facciata? Puoi fare qualche esempio.

    ∑     La nascita di carismi è possibile dove i carismi esistenti sono fedeli al Signore e collaborano ed interagiscono tra loro: solo da questa mutua interazione può nascere l’apertura ad ulteriori carismi vitali per la chiesa e le nostre comunità. Esiste questa accoglienza e collaborazione fra i diversi carismi? Cosa fare per incrementarla?

  • 26 Nov

    Una consegna vicendevole
    all’iniziativa dello Spirito: Atti 13,1-5

     a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Siamo nella comunità di Antiochia.

    Gli Atti ci descrivono una comunità ricca di carismi profetici, dottorali e magistrali.

    Il testo ci racconta che durante la “celebrazione del culto del Signore” lo Spirito santo dice: “Riservate per me Barnaba e Paolo per l’opera alla quale io li ho chiamati”.

    Quale opera? Non si sa. Sicuramente a servizio dell’annuncio della buona notizia. Ma dove? Come? Quando? Questo non viene detto. Perché questa non precisazione?

    Essa fa parte della pedagogia di Dio. Infatti la tradizione biblica ci insegna che il Signore vuole educare l’uomo a camminare sulla sua parola “hic et nunc”. Del domani, domani se ne parla. Il Signore pone alla scuola dell’ascolto (cfr Gn 12).

    Il Signore chiama ad una missione senza dire ancora di che cosa si tratta, né quali saranno le modalità della sua realizzazione.

    Questo sicuramente avrà fatto problema alla comunità di Antiochia. Si sarà domandata: “Abbiamo ascoltato bene? Il Signore queste precisazioni, indispensabili dal punto di vista organizzativo, logistico, funzionale le dovrà pur dare! Se non sono ancora venute, evidentemente è perché non abbiamo ancora ascoltato abbastanza”.

    Quante incertezze nel nostro programmare. Quante  esitazioni. Dobbiamo interrogarci: certe incertezze che accompagnano i nostri discernimenti, sono dovute alla nostra sordità, o sono dovute alla pedagogia che il Signore adotta nei nostri confronti? La tradizione biblica attesta che certe cose il Signore non ce le dice di proposito, e non le dirà mai, fin quando non ci metteremo in cammino davvero. Questa fedeltà del Signore alla sua pedagogia può essere una chiave per comprendere molte delle nostre attuali difficoltà in ordine alla programmazione. Quando noi ci cimentiamo con una programmazione apostolica vorremmo vedere tutto chiaro. Questo è ragionevole. Ma rischiamo di dimenticarci della pedagogia del Signore.

    Un altro punto di riflessione è questo: perché lo Spirito non dà questa missione direttamente subito a Barnaba e Paolo? Perché la “profezia” deve passare attraverso la comunità?

    La “missio” non appartiene a Barnaba o a Paolo. Essa è della chiesa. E’ necessario che essi la ricevano dalla comunità. E’ la “missio” di tutta la comunità.

    Un terzo punto: gli Atti ci descrivono che tutto questo avviene mentre si “celebra il culto del Signore”. Cosa significa? Celebrare il culto è riconoscere la presenza del Signore nella comunità. In Israele la prima forma di culto era l’ascolto della Parola. L’ascolto è rendere culto al Signore: che nella comunità cristiana giunge al suo vertice nel memoriale eucaristico. La “fractio verbi” diviene “fractio panis”. La comunità di Antiochia è certamente una comunità in cui l’ascolto della Parola è posto al primo posto come atto di culto al Signore.

    A questa forma di culto la comunità associa il digiuno. Non è il digiuno ascetico: ma è il digiuno che richiama Israele che non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Il Signore è disposto a rispondere al bisogno dell’uomo quando l’uomo lo ascolta e cammina sulla sua parola. In questa direzione Israele riconosce che tutto è dono. Imparare a digiunare significa giungere alla libertà di spirito di rimettere tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo a Colui dal quale tutto abbiamo ricevuto, senza nulla trattenere.

    In questo atteggiamento la comunità è disposta a consegnare Barnaba e Paolo alla loro missione. E Barnaba e Paolo sono disposti a consegnarsi a ciò che il Signore domanda loro.  I due apostoli e la comunità di Antiochia si consegnano vicendevolmente all’iniziativa del Signore.

    Il tutto termina con il gesto dell’imposizione delle mani. Un gesto caro alla tradizione biblica che sta a significare l’investitura da parte della comunità per la missione richiesta dallo Spirito.

    Piste di riflessione

    ∑    la pedagogia del Signore domanda all’uomo l’affidamento alla promessa. A mettersi in cammino fidandosi della parola, anche quando il futuro appare incerto, nebuloso… Noi vorremmo però vedere subito tutto chiaro, evidente, programmato. Ti sembra che nelle nostre scelte comunitarie e provinciali teniamo presente questa pedagogia? Secondo te perché a volte poniamo resistenza ad adottarla? Perché tante incertezze nel nostro programmare? Quale atteggiamento dovrebbe assumere il prossimo Capitolo?

    ∑    La “Missio” passa attraverso la mediazione della comunità. Nessuno se la può attribuire o rivendicare. A volte invece si ha l’impressione che questo non accada. Ciascuno si appropria della Missio che ritiene sua, gestendola come bene personale in cui gli altri non hanno il diritto di interferire. E’ un  problema che può affliggere il nostro ministero apostolico. Lo avverti? Quali le cause? Quali i rimedi?

    ∑    La parola dello Spirito su Paolo e Barnaba si manifesta mentre si “celebra il culto del Signore”, ovvero mentre la comunità è protesa all’ascolto della parola di Dio. E’ solo da questo “culto” che può scaturire una parola autorevole che trascende le nostre misere visuali e orizzonti ristretti. Nelle nostre comunità le scelte da farsi scaturiscono da un ascolto della Parola o adottiamo altri criteri, quali ad esempio? E con quali frutti?

  • 25 Nov

    Barnaba e Paolo portano fatti: Atti 15,12-21

     a cura di p. Attilio Franco fabris

    All’assemblea di Gerusalemme, Paolo e Barnaba portano fatti. Raccontano ciò che Dio ha operato fra i pagani ai quali è stata annunciata la Buona Notizia. L’esperienza pentecostale della comunità di Antiochia, come la conversione di Cornelio, è un fatto indiscutibile.

    I giudaizzanti questi fatti non li hanno mai veramente “ascoltati”. Hanno la loro “forma mentis”, i loro principi che si affermano, riconfermano, rifiutando di confrontarsi con i fatti. I fatti per loro non fanno testo, perché essi sanno già come stanno le cose!

    Con questo atteggiamento è possibile attuare un autentico discernimento comunitario e apostolico?

    I fatti devono contare, perché è da questi che la verità deve scaturire. Se manca questo confronto allora inevitabilmente la verità decada ad ideologia: non c’è ascolto, non c’è libertà di spirito nel mettersi in discussione, di lasciarsi interrogare dai fatti.

    Fortunatamente i fatti, cioè la testimonianza di Paolo e Barnaba, trovano credito.

    La soluzione magica adottata è: fare sempre “come se…”.

    E’ faticoso e spesso doloroso il confronto coi fatti. La nave sta a galla, va… Sentiamo sciabordio nel fondo della stiva, ci affacciamo e ci accorgiamo che nella stiva c’è acqua! Ma la nave va… Certo, ci deve essere un buco da qualche parte, prima o poi affonderemo, ma la nave va e va… Si chiude il boccaporto e avanti! La nave intanto va, prima o poi penseremo al problema. Ma sarà troppo tardi.

    Alla fine della testimonianza di Paolo e Barnaba si alza Giacomo, responsabile della comunità di Gerusalemme, vicino al partito dei giudaizzanti. Poco dopo una lettera è inviata a tutte le comunità: chi vuole essere discepolo di Mosè continui pure a fare il discepolo di Mosè, chi vuole essere discepolo di Gesù faccia il discepolo di Gesù.

    La comunità ha partorito una grande decisione, di grandissime conseguenze pastorali. E’ un giro di boa per la vita delle comunità cristiane.

    Ma per arrivarci c’è stato bisogno di un Concilio, un capitolo. Il Signore ha suscitato persone capaci del coraggio della verità, di prendere posizione a difesa dell’originalità della Buona Notizia.

    Piste di riflessione

    ∑    In mezzo a noi i fatti trovano credito? Ovvero: abbiamo il coraggio di guardare la realtà in faccia? O facciamo gli struzzi? Sono o non sono i nostri discernimenti spirituali e apostolici viziati a monte da queste forme di ambiguità? Un’ambiguità che alla fine ci priva delle coordinate per arrivare a conoscere la verità.

    ∑    Quali “fatti” interrogano urgentemente le nostre comunità religiose e il nostro apostolato?

    ∑    Quali “fatti” vorresti che il Capitolo tenesse assolutamente presenti per il suo discernimento spirituale ed apostolico?

     

  • 24 Nov

    La lunga discussione a Gerusalemme e l’intervento di Pietro:
    Atti 15,1-12

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    Il brano riporta un momento di discernimento critico e fondamentale nel cammino della prima comunità cristiana.

    Il testo parla di “una lunga discussione”. Proviamo ad immaginarla… quando si discute c’è sempre da temere: la discussione infatti è un rischio, ovvero c’è il rischio della divisione, dello scontro. Eppure questo rischio deve essere corso. Il testo sottolinea l’aggettivo “lunga”: è importante perché ci dice la fatica nel trovare una soluzione, l’arroccarsi ciascuno sulle proprie posizioni: sembra non esserci via d’uscita.

    Il nostro quotidiano è segnato da tanti interrogativi di minor o grave importanza. Questi problemi sono spesso nascosti dietro le apparenze del quotidiano. Covano fra noi, sotto la cenere problemi terribilmente seri. Sappiamo tutti che, se li affrontiamo, c’è il rischio della spaccatura. E allora? Meglio far finta di niente! Ma questa è la soluzione che salvaguardia l’unità? Certamente no!

    Ma una di uscita c’è. E’ l’intervento di Pietro: “Dopo lunga discussione Pietro si alzò e disse…”. Se non c’è il responsabile dell’unità e del bene comune certe situazioni di confronto, di dibattito, di divisione non si possono sbloccare. Non si può pensare che su certe questioni capitali il consenso venga fuori naturalmente, spontaneamente, dalla base. L’esperienza dice che dalla base non ci si può attendere un consenso né spirituale né culturale: occorre l’intervento di colui che nel Signore, dopo un attento ascolto, si fa interprete della verità, dell’unità e del bene comune.

    La base poteva non riconoscere a Pietro questa autorità. Difatti Pietro esita, per timore della disapprovazione… ma poi prende posizione, rischia. Ciò che compromette l’unità e il bene comune è l’ambiguità, quell’ambiguità la quale si manifesta, prima che nelle scelte pratiche, nel disagio nel prendere posizione circa la verità.

    Certo, l’esperienza ci dice che non è sempre facile distinguere bene i problemi a la verità delle loro soluzioni: ma è vero che ci sono delle verità di immediata evidenza sulle quali bisognerebbe prendere posizione, e non si ha il coraggio di farlo.

    Alla fine della “lunga discussione” e dopo l’intervento del responsabile della comunità, l’assemblea tace.

    Piste di riflessione

    ∑    Hai l’impressione che su certi problemi la comunità non si interroga mai? Quale secondo te il motivo? Nella nostre comunità si ha il coraggio della discussione, anche “se lunga”?

    ∑    Quali problemi di capitale importanza, e mai affrontati decisamente, le nostre comunità e la provincia dovrebbero  coraggiosamente porsi nel prossimo Capitolo?

    ∑    Il servizio dell’autorità come attualmente è interpretato e vissuto avrebbe bisogno di essere rivisto alla luce del brano sopra meditato?

  • 22 Nov

    L’EMOROISSA

    Mc 5,25-36

    la paura di essere (diventare) se stessi

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    In ciascuno di noi esiste una dinamica di crescita, evoluzione, cambiamento. Avvertiamo una tensione interiore che ci spinge ad essere di più, di affrontare la vita con coraggio e speranza, insomma a vivere essendo e diventando sempre più pienamente noi stessi.

    Ma questo aprirsi al futuro provoca insicurezza.

    Un’insicurezza che spesso ci blocca; infatti ci poniamo in “stato di sorveglianza” del nostro io in quanto non ci fidiamo di noi stessi. Sospettiamo di noi stessi.   Questa insicurezza nasce nel profondo. Da un dettato che quasi ci precede. Esso afferma categoricamente: “Io sono fatto male, sono sbagliato; non mi posso fidare di me!”.

    Ci sentiamo inadeguati, e perciò non riusciamo ad “accettare noi stessi” nella nostra autentica realtà. E’ la sensazione di non valere nulla.

    Esistono particolari ambiti del nostro essere che possono rivelare questa sensazione.

    Quali sono le realtà di noi stessi dinanzi alle quali ci sentiamo insicuri, inadeguati?

    John Powell ne indica alcune:

    –         il nostro corpo (mi piaccio fisicamente, o rifiuto parti di me? Vorrei essere diversamente?)

    –         le nostre capacità (es. l’intelligenza,…)

    –         la nostra storia (vi sono aspetti della mia storia che non riesco ad accettare? Che vorrei cancellare e che creano in me sofferenze insanabili?)

    –         i nostri errori (gli sbagli che ho fatto tanto tempo fa come li giudico? Gli ho integrati scoprendovi un insegnamento oppure mi fanno tuttora soffrire?)

    –         le emozioni (esistono emozioni “inaccettabili” che io devo rifiutare e negare? Le mie emozioni hanno libero accesso alla mia consapevolezza?)

    Vie di soluzione generalmente ricercate

    Dinanzi al rifiuto, alla paura e insicurezza nei miei stessi confronti esistono delle soluzioni:

    • rifugiarci e aderire solamente al nostro “io ideale” rifuggendo dall’”io reale” (“vorrei essere”, “devo diventare…”, “mi costringo ad apparire…”)
    • Il ricorso a modelli ideali esterni (i miti di qualsivoglia categoria, le star, ecc.…penso, agisco, parlo, mi vesto come loro, vivo della loro ombra)
    • Il ripiegamento su se stessi e sulla propria “incapacità” e inadegnatezza nei confronti della vita: mi chiudo in me stesso, non voglio più aver a che fare con gli altri, vorrei scomparire a me stesso…

    Queste vie di soluzione provocano alla fin fine ulteriore sofferenza e  divisione interiore.

    Una sofferenza che porta a trovare sollievo in forme di appagamento artificiale: fumo, alcol, droga, sesso, lavoro, divertimenti, ecc….

    La paura e l’insicurezza non ci lasciano la libertà né di essere, né di pensare né di agire. Soffriamo ma … il più delle volte preferiamo questa situazione all’accettazione del rischio di vivere. Questa accettazione vuol dire iniziare a cambiare, e il cambiamento provoca sempre paura.

    IL BRANO EVANGELICO

    v. 24. Una gran folla segue Gesù. Lo pressa d’ogni lato. E’ una massa anonima in mezzo alla quale la donna si nasconde.

    La seguire Gesù può contenere quest’aspetto di ambiguità, di un percorso di massa. Esso rischia di offrire la scusa di evitare un confronto diretto e personale dell’incontro con Cristo.

    v. 25. Una donna malata da anni, ridotta allo stremo, povera. Una donna che non ha nome, ma che è presentata col volto del suo male, della sua sofferenza. Una donna che si vergogna della sua malattia.  L’emoraggia è una secrezione gonorreica sanguigna e purulenta della donna.

    La donna è ammalata da “dodici anni” ovvero da sempre. Dodici è il numero della totalità. Essa perde la sua vita (=sangue) lontano dal Signore, è destinata alla morte.

    La sua malattia la isola e la separa da tutti gli altri, in quanto culturalmente e cultualmente impura. Come la lebbra essa la escludeva addirittura dalla società umana. (leggi Lv 15,19-30). La sua è una femminilità in gran parte negata: tutto ciò che ha a che fare con la sessualità, è visto come sporco, come colpa…. Probabilmente preclusa al matrimonio e alla maternità. Dunque una vita segnata drammaticamente dall’esperienza della morte.

    Per questo genere di persone ogni richiesta d’aiuto è avvertita come un’onta. Occorre nascondersi, dissimulare il più possibile. Solo alla fine si manifesta il proprio male perché costretti. Ma finché è possibile all’esterno si cerca di dare una buona impressione, di risparmiare agli altri e a se stessi il confronto con il proprio male: “Se gli altri sapessero cosa accadrebbe?”.

    La sofferenza di questa contraddizione è terribile: da un alto dover dire a ciascuno con la parola e con l’atteggiamento: “Non farti troppo vicino, non mi toccare, sono impura!”. Un continuo farsi da parte, in preda al proprio senso colpa e alla propria insicurezza. E dall’altro lato vi è in lei un bisogno incessante di stare con gli altri, di essere come gli altri.

    v. 26. Molti medici! Questa donna non si è mai accontentata. Non si è rassegnata.

    E’ l’ansia della vita, la paura di perderla, che costringe l’uomo a tentare tutte le vie, ad affannarsi per trovare una soluzione alla sua paura. Ma invano! Il rimedio peggiora il male, un po’ come chi sta annegando e si agita. E quando la medicina non può far nulla…!!!??

    Risultato della sua ansia e della sua paura è la progressiva dilapidazione delle sue sostanze. Un’ulteriore esperienza di fallimento.

    Questa donna ha dovuto dare e dare… i medici sempre più ricchi e lei … sempre più povera, sola.

    Un sacrificarsi interminabile sperando di guarire affidandosi agli altri.

    Per lei ormai nulla le è dovuto gratuitamente. Neppure lontanamente passa l’idea nella sua mente che vi sia finalmente qualcuno a cui affidare la sua vita senza riserve, senza cadere in una nuova voragine di angoscia, senza dover anticipatamente “pagare” la sua prestazione.

    E’ un cerchio diabolico che sembra non doversi più spezzare. La situazione appare irrimediabile.

    v. 27aAvendo udito”: la fede procede dall’ascolto.

    Da chi ha udito? Con quali risonanze?

    v. 27b-28. Venne alle spalle di Gesù…: è convinta che basti “toccare” le vesti di Gesù per essere guarita. Ella ricerca non solo una guarigione fisica, ma una salvezza-liberazione che le permetta di riaprirsi alla vita in una ripresa della comunione con gli altri, con Dio.

    Usa il passivo: Sarò salvata. Ovvero riconosce che tale salvezza ormai non le può provenire se non attraverso un dono dall’alto. Essa si azzarda a compiere un gesto sacrilego contrastante la legge (Lv 15,19-30). Essa trova il coraggio di andare contro la legge. Di compiere un atto sacrilego.

    (Riguardo al “toccare il mantello” cfr. 3,10; 5,56).

    Vuole “toccare” ma di spalle: ha paura!  Infrange sì la legge ma di nascosto. Spera di farla franca. Non vuole scoprirsi nella sua povertà. Non vuole esporsi: è immonda. Ha paura di dire se stessa.

    A questo punto facciamo un’osservazione: questa donna pur veramente disperata avverte che in lei la paura di essere se stessa è più forte della sua stessa disperazione. Logica vorrebbe che gridasse il suo bisogno guardando in volto Gesù, ma questo non accade! Perché? Vuole il miracolo, ma strappandolo di nascosto. Ma un miracolo ottenuto così è un miracolo a metà! Non è occasione per un incontro con Dio che riapre alla fiducia nei confronti della vita, di se stessi, degli altri e di Dio stesso. La paura allora fa da padrona anche sulla sua sofferenza.

    In mezzo alla folla la donna avrà faticato a trovare un varco per avvicinarsi a Gesù (rendendo tutti immondi!).

    v. 29. la guarigione è immediata. In questo mutuo toccare e lasciarsi toccare da parte di Gesù passa un flusso d’amore capace di guarire. Dove è presente la fede la potenza di Dio si libera, non per magia, ma perché Gesù testimonia come Dio renda disponibile la sua potenza regale per coloro che credono: la fede della donna ha dunque reso possibile il dispiegarsi in lei della potenza divina che l’ha guarita. Il racconto potrebbe finire qui. La guarigione è ottenuta: Gesù continua inconsapevole dell’accaduto il suo cammino, e la donna tenendo ben nascosto il suo segreto se ne torna a casa sua, (per condividere con chi la sua gioia? Vera gioia non è l’incontro con chi ti ha salvato?) . Ma proprio qui il racconto continua, anzi è ripreso quasi daccapo. La donna ha bisogno di qualcosa di più importante, che porti a compimento quello che in lei è già in parte è avvenuto e di cui è solo segno.

    v. 30. La potenza che esce da Cristo è la sua vita. Ci dona la sua vita perdendola.

    Gesù se ne accorge ovvero è attento e partecipa con la sua compassione alle sofferenze di chi gli si accosta. Il gesto di contatto della donna è estremamente personale, carico di attese e speranze: è intenzionale e dunque estremamente personalizzato. E’ tale contatto profondo che ha reso possibile il liberarsi, per tramite di Gesù, della potenza salvifica. Si può quasi dire che la fede e la speranza della donna fanno prendere coscienza a Gesù della sua qualità di Salvatore.

    E’ l’umanità di Cristo lo strumento salvifico di Dio (Caro cardo salutis).

    La duplice presa di coscienza, di Gesù e della donna, pur diverse, hanno in comune un gioco di attività-passività che va evidenziato. Soprattutto il momento della passività segnala una “potenza” che sfugge al dominio e si presenta come una terza realtà, che li coinvolge entrambi. E’ la presa di coscienza di questa presenza-azione divina e l’aperura verso di essa che crea l’ambito di un incontro profondo tra Gesù e la donna. Questa solidarietà, da cui sono esclusi discepoli e folla, può ora divenire parola e comunicazione profonda.

    v. 31. I discepoli non comprendono perciò la domanda di Gesù. Non sanno distinguerne la verità. Sono ancora fermi all’esterno del mistero di Cristo.

    Vi sono diversi modi di toccare:  quello della folla, che solo opprime, non produce nulla, non cambia nulla. E’ un “toccare” esteriore. C’è poi un toccare possessivo che è prendere, impossessarsi.

    Ma vi è invece un “toccare” diverso che è segno rimando alla comunione e all’amore: che riconosce l’altro nella sua diversità. I discepoli non comprendono ancora questo (v 31).

    v. 32. Lo sguardo di Gesù interpella: esprime elezione, salvezza, giudizio. L’incontro con lo sguardo mette sempre a disagio, ma apre a nuovi orizzonti.

    Il dialogo dunque si instaura non senza difficoltà. Questa fatica orienta a comprendere come sia proprio nel dialogo personale, e non primariamente nella guarigione, che si ha la trasformazione più profonda.

    La domanda di Gesù è un appello personale che attende una risposta che è un esporsi, un mettersi in gioco nella relazione.

    La sua domanda è ancora come un giudizio di misericordia: vuole mostrare che lui non ha paura di lasciarsi toccare dall’impurità della donna.

    Un uomo comune al posto di Gesù sarebbe stato ben attento a tenere nascosta l’identità della donna, dovrebbe esporre questa e lui stesso al giudizio della folla.

    Gesù invece ha il coraggio di svelare l’audacia della donna. Non si vergogna di lei, e vuole che lei non si vergogni più della sua malattia.

    Il momento più coraggioso della storia di questa donna non deve passare come un gesto nascosto, un furto dissimulato. Questo incontro è uno snodo fondamentale nella vita e nel futuro di questa donna.

    v. 33. Vi è contrasto tra la paura della donna che si sente “sacrilega” e la dolcezza di Gesù che la riconsegna alla vita. La donna si presenta vergognosa e colpevole: ha infranto i limiti imposti dal tabù.

    Ma da parte di Gesù essa riceve incoraggiamento ed approvazione.

    In lei vi è un misto di gioia esplosiva e di paura. E’ la prima volta che questa donna non si sente più ferita per il fatto di essere donna.

    Questo incontro col volto di Cristo la sta liberando da ogni paura e vergogna, ella può dire ormai tutta la verità.  Ed è questa la guarigione più profonda: finalmente la libertà di essere e di dire se stessa. In Gesù si sente ormai riconciliata con se stessa e con la vita.

    Perché? L’unica forza capace di rompere questo cerchio è la saggezza dell’amore, una relazione nella quale ci si sente accolti e amati per quello che si è, indipendentemente perfino dalle questioni di purezza o impurità. Una mano che si tende gratuitamente che non chiede nulla per sé.

    La forza risanante sperimentata dal contatto con Gesù la sopraffà di gioia, si sente ormai libera dal suo incubo che per dodici anni aveva in lei bloccato la gioia del vivere. Ora il miracolo è compiuto perché finalmente Gesù ha compiuto la guarigione più importante: la liberazione dalla paura di essere se stessa.

    Questa donna è finalmente riconsegnata a se stessa in quella fiducia dinanzi alla vita alla quale anelava senza riuscire a trovarla. Finalmente può essere se stessa. L’incontro con lo sguardo di Gesù ha operato il miracolo.

    v. 34. “Figlia”: espressione di confidenza e tenerezza. Vi è ormai una profonda comunione tra lei e Gesù. E’ come una bimba che viene nuovamente alla luce, donata nuovamente alla vita.

    La tua fede ti ha salvata”: tutto il percorso compiuto dalla donna è riconosciuto da Gesù come un itinerario di fede. La fede che salva viene così svelata non tanto come un sistema di credenze o di pratiche, ma come personale e immediato coinvolgimento. E’ solo la fede che può aprire all’efficacia dell’agire salvifico di Dio

    “Va’ in pace”: non è solo augurio di benessere (“Stammi bene!”), ma proclamazione che la salvezza ha toccato questa donna, la quale è giunta di nuovo ad un’esperienza di comunione con Dio e con gli altri.

    Egli riconduce l’uomo ad una relazione fiduciosa con Dio: è una fede che risana dalla paura di Dio.

    Lo stato di Schalom definisce lo stato di integrità e di salute dell’uomo, il suo benessere.

    La “cura” è il risanamento operato dalla fede. Gesù non l’ha trasmesso come medico, ma come colui che ha risvegliato la fede in Dio, una fede capace di sciogliere l’uomo dalla voragine della sua angoscia:

    “Ciò che hai fatto –sembra dire Gesù – non era una colpa; è un segno di grande fiducia, del fatto che tu, senza domandare il permesso, hai fatto e preteso ciò di cui hai bisogno per vivere. Infatti è proprio questo che Dio desidera, e questo egli intende con “fede”: superare l’angoscia e il timore, che può rovinare e distruggere la vita portandola fino alla malattia, ed avere la certezza che Dio vuole che noi viviamo, anche se il tenore della legge sembra contraddire questa volontà: Va’ dunque, la tua fede ti ha salvata!”.

  • 04 Ott

    PIETRO CAMMINA SULLE ACQUE….LA FEDE ALLA PROVA

    Matteo 14,24-33

    di p Attilio Franco Fabris

    Apriamo una parentesi per intenderci sul significato di coscienza. Come abbiamo già sperimentato, si tratta di chiamare per nome quello che c’è dentro di noi senza darci subito un giudizio di buono e cattivo come invece spesso ci è stato insegnato. La lettura della Bibbia che fa appello alla coscienza, la lettura vissuta in modo coinvolgente, fa risuonare quello che c’è in noi e fa emergere l’appello che Dio ci fa, che è diverso dall’immagine che ci siamo fatti di lui e da quello che ci atttendiamo da lui. Il nostro è un itinerario biblico non solo perchè prende in mano testi della Bibbia (lo fanno anche i T.d.G.!) ma soprattutto perchè ci porta ad un affidamento alla parola di Dio, senza cercare altre sicurezze e garanzie. La Parola di Dio ascoltata ci rivela di volta in volta la nostra paura di fidarci di Dio e ci mette di fronte al fatto che solo lo spirito può aprirci ad una comprensione diversa della presenza di Dio nella nostra vita. Ogni itinerario biblico, quando ci si inoltra un po’ dentro, manifesta dei segreti o misteri che sembrano complicarsi piuttosto che dipanarsi. E’ invece il passo che posso fare ogni giorno. La strada si apre passo dopo passo, Dio mi domanda di passare dalle mie carestie quotidiane, dalle mancanze che condizionano la mia vita quotidiana alla pienezza del dono della vita. E’ esperienza di Esodo e di deserto, come ascoltiamo in questo Vangelo. Vivremo l’esodo dall’immagine del Padre ricevuta fin dall’infanzia per camminare verso quella conosciuta e sperimentata con l’ascolto.

    Gesù cammina sulle acque e Pietro con lui

     “Subito dopo Gesù ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre lui avrebbe congedato la folla.” (v. 22). Come prendono i discepoli questo ordine di Gesù? Quali sono le risonanze di Simone e compagni?

    Con che stato d’animo di accostiamo a queste docce fredde che spesso il Vangelo ci propone? …Già lo sapevo che la felicità non può durare. …Ma perchè non possiamo gustare il positivo della vita? …I cristiani sono sempre sfigati che non possono godere come gli altri dei loro successi? …Alla fine la lingua batte sempre dove il dente duole e così avviene in questo campo che si finisce sempre per sottolineare le cose negative. Non c’è un altro sistema?

    “La barca, intanto distava già qualche miglio da terra ed era a­gitata dalle onde, a causa del vento contrario. (v. 24) I discepoli si imbarcano. E come se non bastasse la batosta appe­na presa ecco che scoppia sul lago la tempesta. Siamo ancora in contesto di Esodo: acqua e vento.

    “Verso la fine della notte egli venne verso di loro camminando sul mare.” “Le parole “Verso la fine della notte” ci riportano ancora nel contesto dell’Esodo.  Che cosa significa “camminare sul mare”? Cioè passare sopra le onde, attraversare il mare, restando a piedi asciutti? Che cosa rappresenta il mare? Che cosa ha significato per il popolo d’Israele attraversare il Mare Rosso a piedi asciutti? Che cosa vuol significare questo camminare di Gesù sul lago per gli apostoli e per noi?

    Per cogliere bene questi significati è importante cogliere la ri­sonanza degli apostoli al vedere Gesù restare, nella notte, col vento impetuoso, sulle onde senza sprofondare.

    “I discepoli a vederlo camminare sul mare furono turbati e disse­ro: “E’ un fantasma!” e si misero a gridare dalla paura.” (v. 26) Il fantasma evoca la morte. Questo fantasma che compare è il se­gno che nel lago aleggia la morte. Nella tradizione biblica il mare è il simbolo della morte per la presenza del Leviatan: la forza della morte. Il mare ingoia e non restituisce nessuno… Qui Gesù è riconosciuto un fantasma: una forza di morte che mette terrore.

    Perché Dio è preso, normalmente, per un fantasma? Perché mi fa morire a me stesso e io non voglio morire. La paura della morte mi fa vedere Dio come un fantasma, come uno che non vuole la mia vita, che anzi vuole la mia morte, vuole il sacrificio del dover essere… Così dove Dio si presenta l’uomo grida  di terrore perché non lo riconosce come è veramente cioè colui che vince la morte, che mi fa superare la morte senza che la morte mi faccia niente: mi fa passare attraverso il fuoco senza che mi bruci e mi fa passare attraverso l’acqua senza che mi bagni!

    “Ma subito Gesù parlò loro: “Coraggio, sono io, non abbiate pau­ra”. Gesù si presenta nella sua identità, come colui che cammina sulle acque, che ha la possibilità di vincere la morte. Non c’è motivo di spaventarsi; anzi c’è motivo di rallegrarsi perché con questa capacità Gesù rimane nella sua disponibilità ad aiutarli, a libe­rarli dal pericolo sempre incombente della morte, a far sì che anche loro passano infischiarsene della morte (delle onde minac­ciose del lago) come sta facendo lui. Infatti Pietro coglie subito questa possibilità e lo prende il desiderio di fare come Gesù, di stare con Gesù sulle acque, di vincere con Gesù la morte, e quindi la paura della morte.

    “Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse “Vieni!”  (v. 28-29a) C’è sempre una Parola mi ha fatto partire, richiamo alla memoria esempi di brani del Vangelo che mi hanno fatto uscire da situazioni, ecc… Quando Gesù mi ha detto “Vieni!”

    Gesù accoglie volentieri il desiderio di Pietro di camminare sul­le acque, di vincere la morte, di non aver paura della morte. E’ venuto per questo tra gli uomini, appunto per dare loro la possi­bilità di infischiarsene della morte, e quindi di essere liberi dalla conseguente paura che rovina loro la vita. Gesù sembra dire a Pietro: “Sí, caro Pietro, sono io che cammino senza sprofondare nel mare, nella morte. E ben volentieri comando alla morte di non farti del male, perché io posso vincere la morte e come vorrei che gli uomini fidandosi di me se ne infischiassero della morte. la morte è innocua perché ci sono io a proteggerti a proteggere chiunque confida in me e non confida in se stesso: confidare in se stessi è fidarsi della paura della morte; quella paura della morte che rende insopportabile e invivibile la vita. Vieni Pietro e vedrai che anche tu puoi camminare sulla morte!”.

    “Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.” (v. 29b).

    DRAMMATIZZAZIONE SULLA SPONDA DELLA BARCA

    Risonanze di Pietro.

    Come si comporta Pietro all’invito di Gesù?

    Scende subito? Chiede qualcosa a Gesù?

    Quali risonanze ha provato sentendo il mare solido sotto i suoi piedi?

    Che cosa ha detto? A sè, a Gesù, ai suoi compagni?

    “Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affon­dare gridò: “Signore, salvami!”. (v. 30). Come mai si impaurì? Non aveva sperimentato che si poteva cammi­nare sul mare? Come mai la paura che inizialmente era stata vinta, prende poi il sopravvento?

    Eccolo, Pietro, ciascuno di noi. Diciamo che prima di tutto si FIDA DI SE STESSO. Inizia a camminare sull’acqua attratto da un’esperienza nuova e che ritiene nelle sue possibilità. Poi ad un certo punto cosa interviene? Paura di soffrire? E’ quando la fatica è tale da aumentare lo stress e possiamo riassumere il tutto quando diciamo: non ce la faccio più!

    La parola vieni può dar frutto al 30, al 60 al 100% lasciare alle persone di esprimersi…

    Cosa mi succede?

    1.         Incomincio a non aver più fiducia nelle mie possibilità.

    2.         Allora interviene il ragionamento, rapido e deciso, che lascia libera la fantasia di immaginare quello che succederà.

    3.         Aumenta la sensazione di essere incastrato in qualcosa di più grande di me. Ma guarda un po’ che amici, che compagnia mi sono trovato: mi portamo dove non ce la faccio ad arrivare. Quanto bene stavo a casa mia, con le mie sicurezze…

    4.         Una spinta forte da dentro: devi scegliere finchè sei in tempo, puoi ancora trovare una strada per fuggire dignitosamente, senza farti sorprendere dagli eventi…

    5.         Ancora la fantasia che elabora vie di fuga cercando la migliore nel più breve tempo possibile.

    6.         Mi sfogo su me stesso. Sono proprio ammalato, incapace, finito, mi faccio del male per apparire quello che la paura mi ha delineato davanti in modo così chiaro che ormai mi appare come l’unica verità.

    7.         Sposo questa mia verità e rifiuto ogni altra proposta oppure mi affido ad un altro punto di vista, che sia più libero del mio dalla paura di non farcela, che mi ridona l’oggettività e la salvezza che da solo non riesco a riconoscere presente nella mia vita.

    8.         Pietro incontra Cristo perchè impara a fuggire dalla sua paura e dal suo soffocante circolo vizioso. 

    Certamente Pietro, ad un certo punto, smette di guardare a Gesù: perché si impossessa del dono, si fa bello del dono, incomincia a confidare in se stesso… La forza che gli veniva dalla fiducia in Gesù un pò alla volta diminuisce e così cresce, invece, l’in­sicurezza, la paura; tanto che la morte attraverso la paura ri­prende il sopravvento: ecco allora che incomincia a sprofondare. Di nuovo, proprio perché viene a cadere la fiducia in Gesù, domi­na nella vita di Pietro la morte, attraverso al paura.

    Cerco ora, a partire dall’ascolto delle mie risonanze, di tradurre quella parola dura: nella vita di Pietro domina la morte. La paura della morte e inversamente proporzionale alla fiducia in Gesù. E’ la fiducia che garantisce la vittoria sulla morte e quindi sulla paura! Pietro fortunatamente ha a portata di mano Gesù, e gli è sponta­neo gridare il suo bisogno di essere salvato. In quel grido c’è il ricupero del rapporto con Gesù, il quale lo afferra e lo tira fuori dalle onde, dalla morte.

    “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.   “E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”.

    “Subito”: Gesù non attende un attimo; all’invocazione immediata­mente soccorre, senza perdere un attimo di tempo. Gesù, il Signo­re, è sempre pronto a venirci in aiuto, a liberarci dalla morte. ma rispetta la nostra libertà: ci libera solo se glielo chiedia­mo. Anzi sembra dire a Pietro: Eccomi! Sono qui. Sono sempre stato qui a tua disposizione. Perché non mi hai tenuto presente sempre? Perché hai dubitato di me? Perché hai ad un certo punto cessato di fidarti di me hai scelto di fidarti di te? Questo è avvenuto proprio per la tua poca fiducia in me!”.

    Gesù sembra qui meravigliarsi di questo atteggiamento di Pietro. Gesù, comunque, sa che Pietro, come ogni uomo, è continuamente tentato a confidare solo in se stesso. Questo è uno smacco per Gesù, per il Signore, il quale deve con­tinuamente subire questo tradimento, questo voltafaccia, questa accusa stolta e insensata dell’uomo di non essere in grado di mantenere fede al suo amore, al suo impegno di salvarci dalla morte.

    “Appena saliti sulla barca il vento cessò.” Con Gesù c’è la pace, la calma della coscienza, il riposo nella serenità di un sicuro porto tranquillo e senza sorprese, senza paure, quindi…La furia del vento, dello spirito cattivo, della paura della mor­te e delle sue conseguenze, cessa quando noi facciamo spazio a Gesù, gli affidiamo la nostra vita, lo scegliamo come nostro com­pagno di cammino.

    Comportamento di Pietro e degli altri che erano sulla barca e hanno assistito a tutta la scena.

    Pietro ha fatto un’esperienza unica: è stato immesso a far parte del potere di Gesù sulla morte e sulla paura della morte, ma il suo cuore, ancora malato di diffidenza e di paura, non ha retto agli assalti del vento, cioè dell’avversario, della paura della morte. Avrà bisogno ancora di tempo, di esperienze di dono e di falli­mento, soprattutto di interiorizzare il significato della morte e della risurrezione di Gesù, per poter aprirsi alla forza dell’a­more più forte della morte e così affrontare con fiducia e corag­gio la morte.

    CELEBRAZIONE CONCLUSIVA

    Preghiera spontanea: “Signore salvaci” con il salmo 69(68)

    Signore, pietà per la stoltezza del nostro cuore, che dopo essersi abbeverato alla fonte che sei tu, ti rifiuta per sceglie­re fontane screpolate e senza acqua. Qualcosa nasce di nuovo perchè nella vita non ci sono solo le prove, anche se quando ci siamo dentro ci sembra che dalla sofferenza non nasca niente. Ma non c’’ solo la sofferenza

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