• 21 Ott

    ALCUNE COSTANTI SPIRITUALI NELLE
     TRADIZIONI ESICASTE D’ORIENTE E OCCIDENTE


    André Louf



    Dagli Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa – sezione russa – Bose, 20-22 settembre 2001 ed. QIQAJON Comunità di Bose (traduzione dal francese di Laura Marino), a cui si rimanda vivamente per gli approfondimenti sul monachesimo russo e sull’esicasmo.

    Quando all’inizio del V secoloalcuni reclusi appartenenti al celebre monastero dell’ abate Serido, situato in quella che diventerà la famosa “striscia di Gaza”, si rivolsero al loro padre spirituale, il non meno celebre “Grande Anziano” di nome Barsanufio, chiedendogli d’intercedere presso Dio affinché allontanasse la spada della sua collera, pronta a colpire un mondo resosi colpevole, l’Anziano svelò loro i nomi dei tre uomini di Dio, ancora in vita, la cui preghiera sosteneva il mondo intero ed era capace di allontanare il flagello della collera divina: Ci sono tre uomini perfetti davanti a Dio che hanno superato la misura umana … E stanno ritti sulla breccia … grazie alle loro preghiere Dio castigherà con misericordia … Sono Giovanni a Roma, Elia a Corinto e un altro nell’eparchia di Gerusalemme.

    Roma, Corinto, Gerusalemme, tre grandi centri cristiani che a quell’epoca dominavano la totalità dell’oikouméne di lingua greca. La chiesa universale, così come appariva a quel tempo ai cristiani palestinesi, si reggeva in piedi grazie alla preghiera dei tre giganti dell’esicasmo, che non erano ancora separati da alcuna barriera ecclesiastica. Da oriente a occidente, passando per Gerusalemme – da sempre la culla e il cuore della cristianità – questi uomini di Dio si conoscevano e si riconoscevano. Erano coscienti di esser figli di una stessa tradizione spirituale, i loro itinerari erano simili, e il loro ministero nella chiesa identico.

    La presente relazione vorrebbe rapidamente evocare alcune costanti di tale tradizione che a quel tempo era comune, ma che presto si scinderà in due tronconi, ognuno dei quali evolverà per suo conto parallelamente all’altro, spesso ignorandolo completamente, e nondimeno entrambi rimarranno straordinariamente simili fino ai nostri giorni. Meraviglia della chiesa di Cristo, che a un certo livello di profondità è sempre rimasta indivisa, nonostante le apparenze, e che lo è ancora certamente anche oggi! Sta a noi prenderne coscienza.

    L’esposizione verterà soprattutto su un confronto tra il linguaggio e tra le modalità con le quali dalle due parti è stata organizzata la vita pratica per favorire l’esperienza interiore, e tutto questo in una prospettiva in qualche modo sincronica. Nell’ultima parte, le conclusioni saranno illustrate dalla presentazione simmetrica di due illustri figure.

    Precisiamo anzitutto che cosa intenderemo qui per esicasmo. Non il celebre movimento ‘esicasta” difeso da Gregorio Palamas, che ha animato la teologia e il monachesimo di Bisanzio nel XIV secolo e che con la complicità di un monaco greco disperso in occidente fu all’origine di un lungo malinteso, ma quell’insieme di tradizioni spirituali, costituito da insegnamenti nel contempo teorici e pratici, la cui origine risale ai primi monaci, e che non ha altro scopo che di condurre il credente a un unione intima con Dio, nel deserto o nel mondo. Scopo che ricevette spesso il nome di “preghiera continua o ininterrotta“, come riflesso dell’imperativo di Paolo: “Pregate incessantemente” (1Ts 5,17).

    La tradizione esicasta

    Cominciamo con il delineare i tratti più importanti di questa tradizione, la sua fisionomia. Eccone dunque alcuni – scelti tra molti altri sui quali una breve esposizione non può soffermarsi – che ci serviranno da filo conduttore. Li enumero in ordine sparso:

    un luogo solitario; in questo luogo solitario, la ricerca della hesychia, bezmolvie in slavo ecclesiastico, in latino quies oppure otium, cioè il riposo, la quiete o l’ozio; poi la krypté melète”, o érgon noeròn, per gli slavi umnoe delanie, in latino meditatio o ruminatio, cioè il lavoro o fatica interiore, o anche meditazione; quest’ultima sfocia nella preghiera chiamata monològhistos, in latino iaculatoria, che si può tradurre con preghiera semplice o preghiera di una sola parola, o anche giaculatoria; e questa ben presto diventa l’equivalente della preghiera adiàleipte, in latino indisrupta, cioè della preghiera incessante.

    Emerge chiaramente che se la vita detta esicasta è costituita anzitutto da un’intensa attività interiore, che in qualche modo sfugge a ogni riferimento visibile, ciò non significa che non richieda, specie per i principianti, un quadro esteriore preciso e perfettamente riconoscibile, i cui elementi si ritrovano ovunque identici, anche se da una tradizione all’altra può variare il peso che ciascuno di essi ha singolarmente. E’ questo quadro esteriore l’elemento che permette di riconoscerle uno status particolare all’interno della variegata gamma delle vocazioni monastiche. Accanto ai monaci esicasti che si ritiravano nel deserto, ci sono sempre stati anche monaci urbani che abitavano nelle città, monaci eruditi particolarmente dediti allo studio delle scienze sacre, monaci più specificamente legati alla persona di un vescovo – si potrebbero chiamare “monaci da cattedrale”, più tardi saranno i canonici, in occidente – senza dimenticare l’impressionante schiera di monaci missionari, in occidente come in oriente. Si può dunque constatare come il ventaglio monastico sia ampio, e gli esicasti non ne rappresentino che una parte, probabilmente minoritaria, ma che è sempre esistita e sussiste ancora oggi: in oriente vengono chiamati esicasti, in occidente contemplativi. E di loro che d’ora in poi parleremo.

    Sia gli esicasti sia i contemplativi affondano le radici nei deserti dell’Egitto, della Palestina e dell’Asia Minore del IV secolo, come in una terra nutrice. Sono i “santi padri, nostri predecessori“, ai quali si farà ovunque appello con un’unanimità impressionante. Ancora nel IV secolo Benedetto, per citare solo lui, sostenendo che la sua Regola costituiva soltanto un modesto manuale per principianti, rimanda i suoi monaci alle “doctrinae sanctorum Patrum” che possono servire loro da segnavia per il cammino successivo, se aspirano a raggiungere “le più alte vette di dottrina e di virtù“. Egli è pienamente cosciente che questi segnavia e la loro fonte si trovano in oriente. Del resto come dimenticare che nel XII secolo Guglielmo di Saint-Thierry saluterà la ricomparsa in occidente di una formula anacoretica di tipo lauriota come l’orientale lumen, la luce dell’oriente? “L’antico fervore dell’Egitto nella vita religiosa” – spiega – i fratelli certosini si apprestano a portarlo “nelle tenebre dell’occidente e nei freddi delle Gallie, cioè l’esempio della vita solitaria e il modello della vita celeste, in altri termini la vita “esicasta”.

    La storia di questa forma di vita è stata ripercorsa molte volte, ad esempio da padre Hausherr per la tradizione bizantinae da padre Jean Leclercq per la tradizione latina. Sarebbe inutile riprenderla qui. In un primo momento mi limiterò a mettere in rilievo qua e là alcuni elementi di base paralleli, prima di soffermarmi più da vicino su due esicasti quasi contemporanei, degli anni intorno al 1500, uno in Russia, san Nil Sorskij, l’altro nell’Italia rinascimentale, il beato Paolo Giustiniani.

     Il primo elemento che accomuna tutti gli esicasti è la scelta di un luogo solitario e tranquillo. Separazione dal paese, dai parenti, dalla comunità cristiana, ritiro nel deserto, in un sepolcro abitato dai demoni, o in un luogo solitario ancor più distante, chiamato “deserto interiore“, sono le tappe dell’itinerario di solitudine di Antonio, che la Vita scritta da Atanasio autentifica a nome dell’episcopato e propone come esemplari per tutti i suoi discepoli. Semplice contadino copto, Antonio viene raggiunto nel deserto da un esponente della cultura bizantino-romana, un frequentatore abituale della corte imperiale, Arsenio. Pur riconoscendosi un esperto di letteratura sia latina sia greca, quest’ultimo confessa d’ignorare persino l’alfabeto della vita solitaria, che è venuto a imparare da questi rozzi monaci d’Egitto. Di lui Gregorio Magno avrebbe potuto ripetere ciò che scrive di Benedetto quando abbandona gli studi per ritirarsi nel deserto: che era scienter nescius et sapienter indoctus, consapevolmente ignaro e sapientemente sprovvisto della scienza del mondo“. La formula esprime il paradosso di ogni vocazione esicasta: le forze contrastanti che in essa si affrontano, le scelte che impone, la nuova sintesi instancabilmente ricercata.

    Dunque è proprio una scienza nuova quella che Arsenio viene ad apprendere nella solitudine. Nessun altro monaco si spingerà, nel rigore della separazione dal mondo e dai fratelli, fino al punto in cui si spinge Arsenio, cosa che lo fa diventare, a tutte le latitudini, la figura emblematica della vita esicasta. Ma è meglio rivolgersi a lui per conoscere le motivazioni di una simile scelta, che verrà ripresa da tutta la tradizione. Un apoftegma ne riassume l’essenziale. A un fratello che si meravigliava di vederlo fuggire gli altri e correre verso la sua cella dopo ogni sinassi, Arsenio replicò: “Dio sa che vi amo, ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti (gli angeli) non hanno che un desiderio, mentre gli uomini ne hanno molti. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini“. Arsenio è l’uomo che ha un solo desiderio, quello di essere incessantemente con Dio. E’ il desiderio dell’amore spinto all’estremo: non lasciare mai la presenza del Prediletto.

    E’ anche l’unico criterio veramente convincente che Giovanni Climaco ricorderà a proposito di coloro che “assetati dell’amore di Dio, e trovando in questo amore delizie e dolcezze ineffabili, sposano, se così si può dire, quella santa solitudine“.  Per loro sposare la solitudine è sposare Dio. In occidente gli autori ripeteranno innumerevoli volte una sentenza che Ambrogio aveva preso da Cicerone: “Non sono mai meno solo di quando sembra che io sia solo“. Il solitario vive in compagnia di Dio, e Dio gli tiene compagnia incessantemente.

    Questa solitudine può assumere svariate forme. Essa presuppone un luogo lontano dal mondo abitato, spesso un vero e proprio deserto. Antonio aveva in un primo tempo optato per un sepolcro, che aveva fama di essere un covo di demoni, ma l’immagine del sepolcro attraverserà le epoche in una forma spiritualizzata, e la solitudine dell’eremita finirà per essere paragonata al sepolcro pasquale di Cristo in attesa della resurrezione

    Se l’ambiente circostante è adatto, una grotta sul fianco della montagna può offrire tutta la solitudine desiderata. In tutta la cristianità non si contano le grotte – dagli eremi rupestri della Cappadocia, fino a quella che secondo la leggenda Maria Maddalena avrebbe scoperto sul fianco della Sainte-Baume, in Provenza, nelle quali si custodisce il ricordo di qualche celebre solitario.

    Nel XV secolo Paolo Giustiniani, sul quale ritorneremo, abbandona il grande monastero che aveva accolto la sua professione monastica, per rifugiarsi con alcuni compagni in un gruppo di grotte e qui iniziare la sua riforma esicasta. Ma sarà soprattutto la cella individuale, isolata all’interno di un edificio, o un insieme di celle disperse attorno a un oratorio, ad assicurare l’intimità ricercata dal solitario. Per gli eremiti occidentali la parola latina cella permette un facile gioco di parole, cella-caelum, al quale molti si abbandonano. Ricordiamo soltanto Guglielmo di Saint-Thierry che, nella sua Lettera d’oro, indirizzata ai certosini, scrive:  Dato che nella cella si ha un continuo dedicarsi ad azioni celesti, il cielo le diventa vicino, non solo perché la loro somiglianza fa dell’una il sacramento dell’altro, ma anche a causa del tenero amore che regna nell’una come nell’altro, e per il simile effetto dell’opera dei due; né ormai lo spirito che prega o anche l’anima che esce dal corpo trova lunga e difficile la via dalla cella al cielo. Dalla cella infatti si sale sovente al cielo.

     Il culto della cella sarà all’origine della “reclusione“, fenomeno che si ritrova in tutta la cristianità ma che in occidente riceve uno statuto quasi ufficiale tra il XIII e il XVI secolo, momento in cui è straordinariamente fiorente, tanto da divenire quasi di moda. La reclusione è già menzionata nella Regola dei Solitari, documento che con tutta probabilità risale alIa fine del IX secolo e che è opera di un certo Grimlaico. I reclusi si chiudono “come in una prigione” per piangere i propri peccati ma soprattutto per essere vicini a Dio: “Più sono lontani dal mondo – dice la Regola – “più sono vicini a Dio”  e possono quindi tendere verso le gioie alle quali aspirano: “Essi tendano incessantemente la parte più elevata del loro spirito (acies mentis) alle realtà che desiderano raggiungere, la beatitudine della vita eterna“.

    A partire da quel momento le testimonianze si moltiplicano. Nel XII secolo, quando la lingua inglese è ancora balbettante abbiamo già una Ancren Riwle, una “Regola per recluse“. Un contemporaneo e compatriota, Aelredo di Rievaulx, abate cistercense e più favorevole alla vita cenobitica, deve tuttavia una parte della sua celebrità alla sua Lettera a una reclusa che espone dettagliatamente le diverse occupazioni, di giorno e di notte, e lo spirito che deve animarle. Stessa preoccupazione in un contemporaneo, il certosino Bernardo di Portes, nella lettera che indirizza a un recluso. Ma è nell’ambito dell’eredità di Romualdo, e in particolare dei monasteri che formano la congregazione nata dal deserto di Camaldoli, che la prassi della reclusione viene istituzionalizzata. Uno dei più antichi consuetudinari, opera del beato Rodolfo e approvato nel 1085, prescrive la reclusione a tutti i fratelli per tutto il tempo di Quaresima e dl Avvento. Non dovranno uscire dal loro eremo, eccetto tre o quattro, ma rimanere presso l’oratorio per adempiere il dovere dell’ufficio. La prassi viene ulteriormente precisata e si apre una possibilità per la reclusione perpetua con la riforma del beato Paolo Giustiniani, alla fine del XV secolo. Ecco come quest’ultimo presenta tale decisione: Se qualcuno è incline a più alta contemplazione, e desideroso di un luogo di più grande e più sicura solitudine si impegna con ogni cura … a non frequentare la gente del mondo, ma addirittura si astiene dalla stessa convivenza solita con gli altri fratelli eremiti. Solo chi si ritira così può dire di aver abbandonata ogni terrena preoccupazione. Costui non sarà mai preoccupato sul modo di avviare e condurre la sua vita … Si concede a chi desidera vivere da recluso, in disparte da tutti gli altri, una determinata cella con un piccolo orto. Qui egli può rimanere per un tempo prestabilito o, se vuole, anche per sempre senza mai più uscirne. Gli sarà portato con diligente sollecitudine dai fratelli eremiti tutto ciò che è necessario sia per il corpo sia per lo spirito; gli saranno offerti opportuni aiuti e sollievi, in modo che, sciolto e libero da qualsiasi altra preoccupazione, possa in tutta comodità (comodissime) attendere soltanto a Dio.

    Come si può constatare, il deserto camaldolese è costituito da due specie di eremiti: gli uni che si dicono aperti, in latino, si spostano e sono visibili; gli altri, reclusi, restano fissi stabilmente nella propria cella, dalla quale escono solo una volta l’anno, durante la settimana santa e per il giorno di Pasqua. Il consuetudinario del deserto precisa il compito specifico di queste due categorie: 

    –  Per chi è eremita aperto: essere ben disposto a servire gli eremiti reclusi.

    –   Per gli eremiti reclusi: pregare per quelli aperti.

    –  Per chi non è recluso: avere in venerazione la perfezione della reclusione e, nei limiti del possibile, imitarla.

    –  Per chi vi sia una volta arrivato: custodirla diligentemente ed esser fedele in tutto.

    Di questa pratica straordinaria è Bernardo quello che dà l’unica motivazione accettabile, quando parla di un recluso che quadam se cella pro amore Dei ex proposito incluserat.

    Qualunque forma essa assuma in concreto, il fine della solitudine è indicato dal termine greco hesychia, in siriaco selyo, in latino quies. Il termine greco significa piuttosto “calma“, il termine siriaco “interruzione del lavoro” – a rigore vorrebbe dire “disoccupazione” -, il termine latino “riposo.

    L’italiano, come il francese, deve affrontare qui un piccolo problema di traduzione. Da un lato, volendo tradurre i participi presenti hesychàzontes in greco e quiescentes in latino, si ha qualche imbarazzo a chiamare i monaci di oggi dei “riposanti“; dall’altro il termine che sarebbe più confacente, “quiete“, quiétude in francese, malauguratamente si è trovato coinvolto nel XVIII secolo in una controversia le cui tracce non sono ancora completamente scomparse dal vocabolario spirituale moderno. Quanto al termine “quietismo“, che sarebbe l’esatto corrispondente di “esicasmo, esso sembra, almeno per il momento, inadeguato; di fatto è un termine che viene usato solo in senso peggiorativo, riferito a correnti più o meno eretiche e condannate al loro tempo. Tuttavia pare sia venuto il momento di utilizzare di nuovo, senza timore di malintesi, come traduzione della parola quies, il bel vocabolo quiete che fu così a lungo il termine preferito dagli autori monastici. Quanto al movimento cui si riferisce, utilizzeremo il termine greco esicasmo, oggi abbastanza conosciuto nei nostri ambienti, o vita contemplativa: due espressioni quasi equivalenti.

    L’esicasta è dunque alla ricerca di calma, di pace, di quiete. Una quiete che è anzitutto esteriore: quella dell’ambiente in cui vive. Benché gli antichi ignorassero i disturbi sonori di tutti i tipi di cui sono teatro le città moderne, non per questo erano meno sensibili al benché minimo rumore che potesse turbare il raccoglimento. Viene in mente il grande Arsenio, disturbato dal fruscio delle canne agitate dal vento, e che aveva confessato come persino il canto di un passerotto gli togliesse la pace durante la preghiera: una reazione che molti eremiti sicuramente non condividerebbero. Oltre all’allontanamento dai rumori, la solitudine assicura anche l’assenza di preoccupazioni e di notizie, così come dell’andirivieni di visitatori, che non farebbero che alimentare la curiosità dell’esicasta.

    Infatti l’importante non è tanto il fatto di poter usufruire di un ambiente tranquillo, ma di possedere la quiete interiore in un quadro di vita che non le sia di ostacolo. Traendo le conclusioni di una lunga citazione di Isacco il Siro, Nil Sorskij nella sua Regola porta il contributo della propria esperienza circa il danno che può causare all’anima del contemplativo la conversazione, anche se viene avviata per motivi lodevoli. Egli confessa: Conosciamo per esperienza quanto Isacco ci dice. Al termine di queste conversazioni, anche se ci sembrano buone, ci ritroviamo con l’animo turbato e queste cose si agitano involontariamente dentro di noi. Le parole superflue, anche se brevissime, con i parenti e le persone che amiamo, ci emozionano e impediscono la custodia dello spirito e la rappacificazione interiore

    La custodia dello spirito, o del cuore, e la rappacificazione interiore, sono due espressioni, qui in slavone, che individuano la stessa operazione interiore, nel profondo del cuore dell’uomo, che normalmente coinvolge tutta l’attività del solitario: krypté meléte, umnoe delanie, l’opus absconditum, l’opera, o la meditazione, o l’occupazione nascosta – le denominazioni sono molteplici – che ha luogo invisibilmente nell’intimo del cuore, e che è appannaggio dell’esicasta. Rivolgendosi ai suoi fratelli certosini, Guglielmo di Saint-Thierry l’aveva descritta in questi termini: “Agli altri spetta credere, sapere, amare e riverire Dio, ma a voi assaporare, comprendere, conoscere, gustare“.

    E in modo ancora più esplicito: Questo il santo commercio delle celle ben ordinate, la venerabile cura, l’ozio solerte, il riposo (quies) operoso, la carità ordinata, il conversare in mutuo silenzio, e, nell’assenza dell’altro, il godere reciprocamente ancor più di lui, … vedere nell’altro ciò che è da imitare, e in se stessi nient’altro che da piangere.

    Perciò non sorprende che l’edificio nel quale si pratica la ricerca di tale quiete da essa riceva il nome. Presso i bizantini il monastero più strettamente votato alla sola hesychia si chiamerà hesychastérion, letteralmente “casa del riposo“. Ma l’occidente latino non è da meno. Diverse abbazie ricevono nomi come “Buon riposo” o “Nostra Signora del riposo”. Una certosa nel Delfinato adotta, probabilmente senza saperlo, l’esatto equivalente del termine bizantino, e ha conservato fino a oggi – attualmente vi risiede una comunità carmelitana – il bel nome di Domus Repausatorii, Il Riposorio“. Così ci sarà anche un eremo francescano in Umbria che sarà battezzato “del Buon Riposo“. Siamo in un’epoca nella quale si può constatare una vera e propria invasione esicasta, perché va davvero chiamata con questo nome nel mondo religioso latino.

    Un culmine di questa aspirazione alla quiete si presenta ai nostri occhi nell’occidente dei secoli XI e XII.  Bernardo parla di amica quies, che noi potremmo tradurre con “Donna Quiete“. Essa è infatti per i monaci di quell’epoca ciò che Donna Povertà rappresenterà ben presto per i figli di san Francesco. Per giustificare questo amore di predilezione essi si affrettano a cercare la quies nelle Scritture. Così compilano liste di citazioni scritturistiche che, con l’aiuto della traduzione latina della Bibbia, serviranno a fare l’elogio della quiete e di coloro che la amano.

    Una prima citazione è quella di un versetto dell’Ecclesiastico (24,11): In omnibus requiem quaesivi, “In ogni cosa ho cercato il riposo”. Da essa partirà un cistercense del XII secolo, Guerrico d’Igny, per l’elaborazione di un piccolo trattato sulla quiete, esteriore e interiore, e sui suoi frutti, che non dispensano comunque il monaco dal restare disponibile per il lavoro, qualora glielo si richieda, giacché si può trovare la quiete etiam in labore, anche lavorando.

    Un altro versetto della Bibbia citato molto di frequente è Isaia 66,2 secondo la traduzione della Vetus Latina, il che farebbe pensare che gli autori non l’abbiano ricordato in seguito alla loro lectio personale, ma che l’abbiano copiato dopo averlo letto dall’uno o dall’altro: “Su chi mi riposerò (requiescam) – è Dio che parla – se non sull’uomo umile, in quiete (quietus), e che trema davanti alle mie parole?“. Già Origene, conosciuto in occidente nella traduzione di Rufino, aveva applicato questo versetto al riposo dello Sposo nel suo Commento al Cantico dei cantici.  Lo si ritrova un po’ ovunque nei principali padri latini: Ambrogio, Agostino, Gerolamo, ma sembra sia stato Cassiano il primo a collegarlo espressamente all’ esperienza monastica, applicandolo alla stabilità esteriore del monaco necessaria a quella tranquillità senza la quale il suo cuore non può divenire dimora dello Spirito santo. Lo stesso versetto di Isaia viene spesso associato a una parola di Cristo quando è il momento di ricordare quella che tutti gli autori considerano come la principale virtù del solitario, l’umiltà: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo (requies) per le vostre anime” (Mt 11,29).

    Altro testo biblico: spesso le biografie mettono in bocca al solitario che si rallegra per la scoperta di un luogo in disparte, adatto al suo ritiro, il versetto 14 del Salmo 131: Haec requies mea!, Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò, perché l’ho desiderato” sono, ad esempio, le parole che pronuncia una monaca nell’atto di entrare in reclusione, secondo un rito di cui possediamo un resoconto dettagliato in una lettera di un certo Guiberto, priore benedettino a Gembloux, nel X secolo. Lo stesso versetto di salmo appare sulla bocca di santa Valdetrude, in una circostanza simile, all’inizio dell’XI secolo.

    C’è un altro testo biblico, continuamente citato, che associa solitudine e silenzio. E’ un passo delle Lamentazioni (3,28): Sedebit solitarius et tacebit quia levabit se super se, “il solitario siederà [si noti il vocabolo tipicamente esicasta: essere seduti], custodirà il silenzio, e s’innalzerà al di sopra di se stesso”. Già Cassiano l’aveva ricordato per descrivere la via degli eremiti contrapponendola a quella dei cenobiti, e lo si ritroverà nei primi autori della fondazione eremitica di Grandmont.

    Questo ideale del riposo non si riferisce soltanto all’ambiente circostante, esso mira a far dimorare l’anima nel riposo interiore, presso Dio. E’ nel cuore del monaco che si deve edificare una cella, una casa, un tempio, un Santo dei santi, un altare, dal quale la preghiera finirà per innalzarsi ininterrottamente. A quell’epoca si sviluppa in occidente tutta una letteratura, i cui titoli parlano da soli: De domo interiori, De eruditione hominis interioris (La formazione dell’uomo interiore), De atrio interiori, che esaltano l’interna consolatio, il “silenzio della quiete interiore“, la “tranquillità del cuore e l’assenza di occupazioni di uno spirito che riposa in quiete“, e il cui fine è quello d’insegnare all’anima a “riposarsi interamente in se stessa attraverso l’amore“, tota per amorem intus requiescit. Già da soli questi trattati avrebbero potuto fornire ampio materiale per la costituzione di una Filocalia latina.

    Ma l’amore per la quiete si spinge ancor più lontano. Tra l’XI e il XIII secolo imperversa tra le diverse osservanze e famiglie monastiche una specie di “santa rivalità”, che si può qualificare esicasta, nel senso che ciascuno rivendica per sé quello che sembra essere diventato il marchio dell’autenticità monastica. E’ monaco colui che si vota alla quiete. E non soltanto i solitari o i reclusi. Certo, questi ultimi sono gli specialisti, ma i cenobiti non vogliono essere lasciati indietro. Già da tempo l’ideale della quiete ha oltrepassato le mura degli eremi per irrompere nelle abbazie cenobitiche più celebri dell’epoca. Ci si mette a gareggiare in esicasmo. La competizione verte su chi può presentare i titoli migliori per meritare tale aggettivo.

    Si pensi, ad esempio, a Pietro il Venerabile che sottopone fraternamente a Bernardo la sua perplessità nei confronti del lavoro dei campi che i fondatori di Citeaux hanno nuovamente introdotto tra le prassi monastiche. A tale scopo Pietro invoca, forse con una punta di malizia, l’autorità spirituale di uno dei passi più esicasti” di Giovanni Cassiano, in cui quest’ultimo critica apertamente i monaci agricoltori che durante la mietitura dissipano all’aria aperta tutti i vantaggi che avrebbe dovuto procurare loro la grandissima lontananza da ogni abitazione. Allusione che non mancava di arguzia e la replica cistercense non si farà attendere. Guerrico d’Igny, in un testo che abbiamo già citato, cerca di dimostrare che il cistercense può praticare la quiete anche quando lavora: Etiam cum laborat quiescit.

    Alcuni anni più tardi, un altro monaco di Cluny, Pietro di Celle, farà onorevole ammenda: Vera quies, scrive, est in Ordine cisterciensi. La vera quiete si trova dai cistercensi. E commenta: “Dove trovare più silenzio, digiuno, meno preoccupazioni mondane, e dunque più contemplazione e santa quiete?”   Sancta quies!  C’è già tutto in queste due parole.  Bernardo probabilmente non se la prende tanto con Pietro il Venerabile come talora si è preteso. Egli è pienamente disposto a congratularsi con i monaci benedettini per una quiete che egli giudica ammirevole, e perfino con i monaci di Saint Denis, qualche anno dopo aver loro aspramente rimproverato un clima dissipato: “Ora invece il silenzio è ininterrotto e il perenne riposo da ogni chiasso di faccende mondane obbliga a meditare sulle cose del cielo“, al punto che ormai gli angeli stessi si uniscono a questi quiescentes, a questi monaci “nel riposo”, a questi esicasti in fondo, e aleggiano su di loro.

    Emerge bene da questi testi che la rivalità a proposito delle osservanze tra monaci neri e monaci bianchi, nel XII secolo, non costituiva che la parte meno gloriosa, e talora la più meschina, di una disputa che si potrebbe quasi chiamare “disputa esicasta”, ma in questo caso in un senso diverso da quello che prevarrà un po’ di tempo dopo in Grecia. Perché qui nessuno mette in dubbio il primato della quiete, e ognuno pretende di esserne il discepolo più fervente.

    Di tale quiete nella mia esposizione posso toccare solo gli aspetti più esteriori: la solitudine, la tranquillità, la cella, la reclusione, la clausura. Ma bisognerebbe anche parlare del frutto che essa dà interiormente: la quiete del cuore. Anche e soprattutto qui, noi potremmo scoprire un parallelismo straordinario tra i padri dell’oriente e quelli dell’occidente: l’umiltà e la frantumazione del cuore, condizioni assolute per affrontare la quiete senza rischi; una preghiera che sgorga dalla ruminazione della parola di Dio, e che si semplifica a poco a poco fino a diventare la ripetizione di un solo versetto biblico o di una sola parola, il Nome di Gesù; le lacrime, segno che una soglia interiore è stata varcata; tutto questo sfocia in una libertà spirituale che si affranca dai regolamenti provvisori, e in una conoscenza – una sapida scientia, un sapere che sa gustare, attinto nel liber experientiae, nel libro dell’esperienza – che conosce e sente al di là delle parole e delle sensazioni, e infine in un’intercessione che abbraccia l’intero universo.

    Il beato Rodolfo, legislatore dei solitari di Camaldoli, si chiede: Chi potrebbe raccontare adeguatamente le opere che i fratelli di questo deserto sono soliti praticare senza tregua? I colpi della disciplina, le lacrime abbondanti, le innumerevoli metanie [metanea in latino: sic], i gemiti che vengono dal cuore, la recitazione ininterrotta dei salmi, le frequenti preghiere, le sante veglie e le lotte che i fratelli ingaggiano con il diavolo, senza parlare di altre virtù che Dio solo conosce? 

    E tutto questo a lungo termine  – se Dio lo vuole, come scrive un altro solitario – per giungere alla vera contemplazione, ove “essi si trovano immersi nell’abisso della santa divinità e dell’eterna verità, e sono in grado di fissare le verità soprannaturali della fede, l’ordine delle cose da credere e la disposizione della gerarchia celeste, ben più chiaramente e con più certezza di quanto non potrebbero fare per mezzo della scienza scolastica”.

    Chi parla così? Pensate di aver sentito una replica di Gregorio Palamas alle argomentazioni di Barlaam? No, si tratta di Dionigi il Certosino, un autore particolarmente fecondo del XV secolo. Con tutta probabilità Palamas avrebbe detto la stessa cosa di lui. Che peccato che questi due autentici esicasti non abbiano potuto incontrarsi al momento opportuno!

    Due riformatori della vita anacoretica: Nil Sorskij e Paolo Giustiniani

     Per completare il nostro giro di esplorazione dei tesori esicasti delle nostre due tradizioni ci soffermeremo per un breve istante sull’opera e l’insegnamento di due riformatori della vita anacoretica, che furono quasi contemporanei, intorno al 1500: san Nil Sorskij nella Russia del nord e il beato Paolo Giustiniani nell’Italia del rinascimento.

    Non è stato Nil a introdurre in Russia la tradizione esicasta: com’è stato dimostrato dalle ricerche di Prochorov sul contenuto delle biblioteche dei monasteri russi, intorno al 1400 gli autori classici dell’esicasmo – Giovanni Climaco, Isacco il Siro, Simeone il Nuovo Teologo e Gregorio il Sinaita – vi erano già ben rappresentati. E’ nel monastero di Kirill di Beloozero, dove Nil fa i suoi primi passi nella vita monastica, che deve averli conosciuti. Alcuni anni dopo, quando questa corrente sembra indebolirsi, Nil e i suoi discepoli tentano di modificare il corso degli eventi, dapprima con un pellegrinaggio a Costantinopoli e al Monte Athos, forse anche in Palestina.

    Nonostante le controversie politico-ecclesiastiche nelle quali Nil viene coinvolto suo malgrado, e dalle quali prende sempre più le distanze, la sua principale e unica preoccupazione, in fondo, come ha mostrato bene Fairy von Lilienfeld, è la restaurazione della spiritualità esicasta, e non tanto della dottrina in sé, quanto delle prassi che la determinano: “Una forma di vita, un modo di essere al cospetto del Dio vivente“. Dalla sua fondazione Nil vuole accuratamente eliminare tutte le occupazioni che nei grandi monasteri finiscono per ostacolare l’unica attività importante, l’opera interiore del cuore, e ristabilire tutti gli elementi dei quali sa per esperienza che le sono propizi. Come Giovanni Climaco, Nil Sorskij opta per la formula lauriota – che chiama la “via regale” – cioè un piccolo gruppo di eremiti che vivono in celle separate attorno a un anziano. Queste celle devono essere costruite a una certa distanza l’una dall’altra, affinché gli abitanti non possano sentire i loro vicini. Solo l’eremo più vicino deve essere visibile, gli altri restare nascosti “a causa della foresta molto alta e degli arbusti tra una cella e l’altra“.

    D’altronde è severamente vietato abbattere alberi nei dintorni dello skit, per rispettare la separazione dal mondo esterno e dagli altri fratelli. Gli eremiti lavorano con le loro mani per assicurarsi il sostentamento, evitando il lavoro dei campi, giudicato fonte di eccessiva dissipazione per il raccoglimento interiore. Si deve evitare di incrementare le attività di tipo economico, anche qualora siano svolte per poter distribuire elemosine: un punto che doveva essere molto delicato e non immediatamente evidente per tutti, perché Nil si sente in dovere di moltiplicare le testimonianze patristiche in questo senso. Si deve allontanare dallo skit tutto quello che provoca rumore e schiamazzo; non ci saranno quindi “né bestiame, ne asini, nè servitù, ne persone a carico, né parenti“. Allo stesso modo gli edifici, compreso l’oratorio, devono essere spogli. Viene tolto tutto ciò che è superfluo. Si stabilisce di acquistare ciò che si deve comprare all’esterno senza ricercatezze e al prezzo più conveniente. Per contro si attribuisce grande importanza al lavoro dello spirito. Non si devono accogliere candidati che non sappiano leggere e scrivere. La copiatura dei manoscritti e anche la loro correzione per comparazione occupano i fratelli che ne sono capaci, e vengono praticate anche da Nil in persona. Il contenuto della biblioteca dello skit si arricchisce d’altronde rapidamente: i maestri dell’e­sicasmo, Giovanni Climaco, Efrem e Isacco il Siro vi figurano evidentemente in buona posizione, mentre non c’è nulla di Gregorio Palamas, assente anche dall’opera di Nil.

    Il ritmo della preghiera di ogni fratello deve essere improntato a una grande libertà spirituale. Le pannychìdes o vsenòscnye, veglie che durano tutta la notte, celebrate in comune, non devono superare due notti alla settimana, e in esse il canto viene ridotto alla sua espressione più sobria, dal momento che la pesantezza di un certo apparato liturgico, inevitabile in una grande assemblea, non si adatta all’opera della preghiera che si compie nel segreto.

    Nel resto della settimana l’anacoreta prega da solo, alternando lettura dei salmi e della Scrittura, preghiera di Gesù e momenti di raccoglimento silenzioso, a seconda delle inclinazioni che sente e che con attenzione discerne nel proprio cuore. Il secondo capitolo della Regola di Nil costituisce a questo proposito un importante direttorio della preghiera esicasta, che si evolve dall’umile ripetizione di determinate formule fino a quella preghiera che non è più preghiera perché è al di là di ogni preghiera, secondo l’insegnamento di Isacco il Siro, abbondantemente citato in tutto questo passo.

    Nil Sorskij rappresenta uno dei culmini della tradizione esicasta bizantino-slava. La sua iniziativa sarà uguagliata soltanto da Paisij Velickovskij e dai suoi discepoli, due secoli dopo.

    Rimanendo sempre alla fine del XV secolo, lasciamo ora le foreste della Russia del nord e ci spostiamo sulle cime degli Appennini, nel cuore della Toscana, in Italia. Paolo Giustiniani nasce a Venezia in una famiglia patrizia, nel 1476. Molto tempo della sua giovinezza viene dedicato agli studi, dapprima nella stessa Venezia, e poi nella celebre Università di Padova, dove egli si appassiona allo stoicismo di Seneca e Cicerone, prima di diventare uno degli esponenti più maturi dell’umanesimo italiano. A poco a poco, dopo molti studi e letture, e anche soggiorni nell’isola di Murano la cui solitudine e tranquillità già lo attiravano, egli scopre Cristo e vorrebbe consacrargli la propria vita. Da quel momento la Bibbia e i padri occupano la sua attenzione. La sua perfetta conoscenza del greco gli permette di leggere Basilio e Gregorio di Nazianzo sui testi originali. Nel 1507, sulla soglia della trentina, la scelta è fatta: sarà monaco ed eremita. Per individuare un luogo dove stabilirsi egli decide – dettaglio importante – d’intraprendere un viaggio in oriente. Percorre Creta, Rodi, la Grecia, la Siria e la Palestina e soggiorna per qualche tempo a Gerusalemme, prima di rientrare a Venezia a fine anno. Ma è in Italia che concretizzerà le sue aspirazioni. Nel 1510 si presenta come novizio nella famiglia camaldolese, che conosciamo già per la sua prassi della reclusione, la cui ispirazione risale a quel gran fondatore di eremi che fu Romualdo nell’XI secolo. Il luogo, situato a 1100 metri di altitudine, è ancora oggi uno dei paesaggi monastici più impressionanti, predestinato dalla natura, si direbbe, per il raccoglimento esicasta.

    Gli inizi sono ricchi di consolazioni. Giustiniani ha finalmente trovato quello che la sua Regola chiamerà “la soavissima pace della vita solitaria”.  Ne decanta le delizie con accenti lirici. Si rivolge alla solitudine come a una persona, le scrive delle lettere: essa è la sua sposa, la sua Donna, ed egli supplica Dio che gli conservi i suoi abbracci: Oh solitudine, che apporti all’uomo vivente in questa carne una partecipazione delle ebbrezze divine! … Oh solitudine che non sei abbastanza conosciuta se non da quelli che ti conoscono per esperienza! … Tu unisci per sempre l’anima a Dio creatore … come tra gli abbracci di una sposa amatissima, e la fai deliziare delle parole divine come dei baci di un tenero sposo.

    Fin dal noviziato Giustiniani tuttavia nota i punti deboli dell’istituzione così come si era allora sviluppata. In particolare, l’incomprensione e le tensioni che erano frequenti fra l’eremo e il monastero cenobitico, situato duecento metri più in basso, incaricato di accogliere nei primi tempi i candidati alla vita eremitica. Non appena emessi i voti, Giustiniani, la cui cultura umanistica e patristica superava di gran lunga quella dei suoi confratelli, fu posto a capo dell’eremo e si trovò immerso in difficoltà continuamente insorgenti, che derivavano da uno statuto inficiato da una serie di ambiguità. Cominciò allora a migliorare le condizioni materiali necessarie alla vita di solitudine. Fu costruito un muro di cinta che doveva delimitare la clausura, ed egli stesso dichiarò guerra a un amministratore del terreno che non si faceva scrupolo di disboscare e tagliare quegli alberi che avrebbero dovuto garantire la solitudine. A questo scopo furono presi molti provvedimenti. Da quel momento ci vorrà un permesso esplicito del capitolo anche solo per abbattere un pino. Ogni anno ne verranno piantati quattro o cinquemila, e si vigilerà affinché né uomini né animali arrechino danno alla foresta. Spiega Giustiniani: L’aria del bosco, le sue ombre, la varietà di fiori che ricoprono il suolo, le sorgenti e i ruscelletti che sorgono e scorrono dappertutto, il lieto canto di tanti uccelli, niente di tutto questo può turbare un’anima tranquilla e, se essa fosse triste, ritroverebbe la gioia.

     I rapporti con i secolari vengono ridotti allo stretto necessario. Non si deve esercitare nessun mestiere che richieda l’aiuto di persone esterne. Non si distribuiscono elemosine e non si accolgono ospiti, due opere di misericordia di cui s’incaricano a nome degli eremiti i cenobiti insediati più a valle. Nessun secolare può penetrare all’interno dell’eremo, e persino gli animali – i mezzi di locomozione dell’epoca – non possono dimorarvi stabilmente. Le costruzioni devono essere povere e semplici, spoglie di ogni superfluo. Si devono sempre rifiutare lasciti o eredità, per evitare l’ansia che spesso provocano simili donazioni.

    Purtroppo le energie che Giustiniani dispiega per riformare le condizioni esterne della quiete non faranno che inasprire i rapporti con i fratelli cenobiti e il loro superiore. Otto anni dopo aver accettato il priorato, egli ritiene di dover rinunciare alla sua carica e lasciare Camaldoli, con grandissimo rammarico suo e dei suoi fratelli. Si ritira quindi in un piccolo eremo, composto di grotte scavate e sistemate sul fianco della montagna, nelle Marche di Ancona. Là egli passa gli ultimi otto anni della sua vita, esaudito nelle sue aspirazioni; è allora che può esultare: Dio lo ha richiamato a negotiis ad otium, dagli affari del mondo all’assenza di occupazioni.

    Da quel momento vengono assicurate le condizioni esteriori dell’hesychia, ciò che Giustiniani chiama l’exterior conversatio, le osservanze; ma queste ultime hanno un senso solo se favoriscono l’interior cultus, che è una delle traduzioni latine possibili della krypté meléte, del lavoro interiore o condotto nel nascondimento. D’altronde Giustiniani sa, in sintonia su questo punto con tutta la tradizione, che questo lavoro è di gran lunga il più importante. Nei primi documenti di Camaldoli egli aveva potuto leggere nella Regola del beato Rodolfo che talora accade che coloro che minus agunt in corpore, plus operantur intentione, quelli che praticano meno ascesi corporale sono più attivi per la contemplazione“.

    La povertà, soprattutto dei luoghi, non lascia più a desiderare. Giustiniani è persino obbligato a tendere discretamente la mano presso gli amici benestanti, pur dicendo di essere “tanto contento di questa ricca povertà e povera ricchezza, come se io avessi un mondo di ricchezze“.

    Se il nostro beato è ormai adeguatamente munito del necessario per consacrarsi al lavoro interiore del cuore, resta tuttavia da menzionare l’esistenza di un altro pilastro di quella quiete interiore, sul quale egli ritorna di frequente. Non basta che un alto bosco ceduo di pini e un muro di clausura impediscano al solitario di vagabondare all’esterno, è necessario anche che egli si sforzi di restare tranquillo e in pace all’interno del suo eremo. Gli anziani insistevano sulla posizione seduta del solitario, applicando così il versetto già citato di Lamentazioni 3,28: Sedebit solitariur et tacebit. È importante che il solitario non si metta a vagabondare da una stanza all’altra, né da un’occupazione all’altra quando si trova nel suo eremo. Al contrario “si sforzi di rimanere anche in cella fermo allo stesso posto, di darsi per quanto è possibile a una stessa attività“. Giustiniani si ricorda di certi eremiti che “stando in cella tutto il giorno sono come agitati da un certo impulso del demonio e da uno spirito di evasione, allora vanno in diversi luoghi di lavoro e in una stessa ora incominciano e lasciano vari lavori“. A solitari di tal genere la cella ben presto appare come un carcere e offre numerosi motivi di afflizione. “E come il mare spinge presto alla riva un cadavere, così l’eremo respinge, come un morto, l’eremita inquieto, presto lo vomita come un cibo inutile“. Giustiniani confessa di aver spesso imparato questo per esperienza, perché “un cadavere – aggiunge – cioè un uomo morto nel cuore, in un luogo santo e in una terra santa non può durare“.

    Il laborioso ozio della cella consiste anzitutto nella frequentazione assidua della Bibbia e dei padri, alla quale l’ampia cultura umanistica che gli è propria lo ha preparato. Giustiniani rivela di avere ormai cinque ospiti che condividono con lui la solitudine: sono Basilio, Cipriano, Atanasio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Altrove confida di essere occupato nella lettura di sant’Efrem in greco. Desidera che quelli che si candidano a vivere con lui, nessuno dei quali può essere accolto se non sa leggere, abbiano una preparazione analoga. Vuole anche che alcuni, se possono, imparino le lingue antiche ancora in uso al suo tempo in certe chiese cristiane che ha conosciuto in oriente, e tra queste menziona le chiese degli abissini (l’etiopico), dei georgiani, dei maroniti (il siriaco) e degli armeni. Tutti gli studi non proibiti dalla chiesa possono essere praticati nell’eremo, fermo restando il criterio che le lettere profane devono servire a una migliore conoscenza delle lettere sacre, e che a un certo punto il solitario potrà farne a meno e trovare la sua gioia solo nella Bibbia e nei padri.

    L’organizzazione della biblioteca è oggetto di una cura particolare. Si deve fare attenzione a comprare ogni anno nuovi libri, per una somma di almeno dieci scudi d’oro. Giustiniani stesso paga di persona. Egli si annota passi di Origene, Rufino, Eusebio di Cesarea, Cassiano, e dello Pseudo-Dionigi. Traduce persino in italiano un opuscolo attribuito a Basilio. L’unico scopo di tutto questo è sempre la preghiera che, in una forma o nell’altra, dovrà occupare tutto il tempo del solitario, dato che propria est eremitarum institutio ut orationi incumbant.

    Tuttavia non vuole prescrivere momenti prefissati per l’orazione, abitudine che si era affermata negli ordini latini più recenti, in quanto, secondo Giustiniani, non era questo il modo di procedere degli antiquiores patres. E perché? In questo modo “volevano far capire abbastanza chiaramente – spiega – che, come l’uomo materiale ha bisogno di respirare per vivere, così l’uomo nel suo spirito ha continuamente l’opportunità, anzi il bisogno della preghiera”. Essa tende dunque a diventare ininterrotta. Quando sono liberi, gli eremiti sono in preghiera, ma secondo modalità che ciascuno può scegliere sulla base delle proprie inclinazioni: Anche se ha la mente occupata in altri pensieri e ha tante distrazioni, non tralasci di recarsi al luogo di preghiera e, in ginocchio davanti a un’icona di Cristo, … a seconda della propria devozione si fermi là per la durata dello stesso tempo, pienamente convinto che tale perseveranza gli verrà accreditata come preghiera.

    La liturgia viene notevolmente modificata in confronto alle celebrazioni dei grandi monasteri. Fin dall’inizio della sua fondazione le eucaristie sono rare, soltanto nelle domeniche e nelle solennità. Quanto a Giustiniani, non vuole diventare prete. Le processioni, frequenti nei monasteri di allora, vengono soppresse. Quando di domenica e nei giorni di festa gli eremiti che non sono reclusi si radunano per celebrare l’ufficio canteranno i salmi scandendoli e lentamente, con gran cura, senza mai affrettarsi, ma trattenendosi un poco e meditandoli rispettando i punti e gli intervalli, come dice il Profeta:”Cantate i salmi con sapienza”, o anche: “Salmeggerò con il mio spirito e il mio intendimento”. Sarà severamente proibito cantare in falsetto o facendo vocalizzi, . .. ma si eseguirà recto tono la melodia della voce intermedia … Più che cantare gli eremiti devono piangere.

    Lo scopo è evidente: la preghiera comune non deve sconfinare nel tempo destinato alla preghiera personale. Giustiniani si rifiuta esplicitamente di tratteggiare un metodo di preghiera a uso dei discepoli. Ogni metodo sarebbe destinato a restare esteriore ai gemiti che lo Spirito già proferisce nel cuore dell’orante. Inoltre con un metodo la preghiera rischierebbe di snaturarsi, di diventare una semplice lettura, una meditazione o anche uno studio. E l’impulso divino stesso “che mentre all’inizio sembrava aver qualcosa di violento, ora diventa in certo modo connaturale, e il piacere spesso provato … attira sempre più fortemente, diminuendo alquanto la pena che si prova ad arrivarvi“.  Abbiamo visto sopra come il fervore di certi fratelli per questa preghiera solitaria li autorizzasse a chiedere con insistenza la grazia di una reclusione temporanea o perpetua.

    Ma una vita di questo tipo, a prima vista orientata esclusivamente all’unione con Dio, non può meritare l’accusa di disinteresse nei confronti dei fratelli che sono nel mondo? Nelle diverse tappe della sua vita, quando gli eventi lo portarono a scegliere nuovamente la sua strada o a precisarne l’orientamento, questo umanista illuminato si pose spesso tale problema. E si rendeva perfettamente conto che lo stesso interrogativo era presente nel cuore di quelli che vivevano con lui, e a volte saliva fino alle loro labbra. A esso egli rispose in diversi modi. Anzitutto personalmente, dedicandosi in maniera particolare all’intercessione, non solo per amici e parenti, ma per tutte le grandi intenzioni della chiesa. Egli le enumera in uno dei soliloqui che ci ha lasciato: tutte le miserie materiali e spirituali del mondo intero, tutte le grandi cause della chiesa, e in particolare la conversione dei turchi musulmani e l’unione delle chiese. Queste ultime intenzioni erano probabilmente legate al ricordo del suo viaggio in oriente, e forse al concilio di Firenze, del quale Giustiniani deve aver sentito parlare. Ma c’è anche un altro argomento che gli sta a cuore. Se Cristo ha chiesto ai suoi discepoli di annunciare il regno, allora condurre vita eremitica è un modo di farlo, e forse, egli pensa, uno dei più efficaci: Lasciare la patria, abbandonare le ricchezze, gli onori e le dignità, abitare poveri e disprezzati nelle solitudini, praticare le austerità dell’eremo, … che cosa è altro questo se non gridare ai mondani con tutte le nostre azioni: quanto siete pazzi, quanto siete ciechi voi! … Dico che nell’epoca nostra non vi è modo più vero e più efficace, per annunciare il regno di Dio, di quello di farsi religioso … Malgrado il silenzio della tua lingua, tutta la tua vita e tutte le tue azioni, tutta la tua persona annunzia il regno di Dio.

    Un’ eredità comune?

     Spero che questo confronto per sommi capi delle nostre due tradizioni sia stato sufficiente a metterne in rilievo lo straordinario parallelismo: sia l’oriente sia l’occidente conoscono un proprio “esicasmo”, dotato di tratti specifici, ma che mettono a maggior ragione in luce la comune ispirazione.

    Ci sono diverse spiegazioni di questo fatto. La prima è da ricercarsi a livello delle fonti comuni. Abbiamo potuto spesso rilevare fino a che punto i monaci occidentali e orientali intendessero dipendere dagli antiqui Patres, dai padri antichi. In particolare, per quanto riguarda l’occidente non andrebbe mai sottovalutata la lettura quotidiana e pubblica, voluta da Benedetto, di alcune pagine di Giovanni Cassiano o degli apoftegmi. Tutto il monachesimo latino è stato così plasmato sul modello dei padri del deserto, i cui racconti e le cui gesta hanno finito per costituire gli archetipi dell’inconscio monastico collettivo. Ora, questo inconscio era chiaramente di tipo esicasta. Man mano che i testi greci saranno tradotti in latino, verranno adottati senza problemi, e anzi con vivo desiderio, dai monaci d’occidente. Da questo punto di vista, la diffusione degli scritti di un Giovanni Cassiano o delle Vitae Patrum lo conferma.

    E’ stato studiato di recente un altro caso, forse ancor più sorprendente: si tratta dell’opera di Isacco il Siro, questo “Principe dell’esicasmo”, se mai ce ne fu uno! Un fratello del monastero di Bose, Sabino Chialà, si è dedicato alla ricerca di tutte le citazioni di un’antica traduzione latina delle opere di Isacco, soprattutto nella letteratura dei movimenti di riforma della vita religiosa, nella penisola italiana dal XIII al XV secolo. Il risultato è particolarmente interessante. Gli spirituali francescani si rifanno a Isacco il Siro per dare fondamento alla povertà di san Francesco. Ha un ruolo importante in autori come Bonaventura e Angelo Clareno. Quest’ultimo pare l’abbia letto in greco. Le opere di Isacco si trovano nell’abbazia di Santa Giustina di Padova, centro importante di riforma benedettina. Stranamente, ingannati da un testo di Gregorio Magno che conosce un certo monaco di nome Isacco, del quale dice che è di origine siriaca –  e che fondò una comunità eremitica presso Spoleto, o Monteluco, verso la fine del V secolo –  quelli che citano Isacco il Siro attribuiscono la sua opera a quest’ultimo, chiamato Isacco di Spoleto, evidentemente in modo erroneo. Ma l’importante qui è che i lettori di Isacco il Siro appaiono così poco disorientati dai contenuti della sua opera che un Ambrogio Traversari, generale dei camaldolesi e celebre teologo e patrologo, mettendo le mani per puro caso su una versione greca dei suoi scritti nella Biblioteca Vaticana, in una lettera esprime meraviglia di apprendere così che il famoso Isacco, che lui credeva di Spoleto, sapesse scrivere anche in greco! Si può trovare divertente il candore scientifico del grande Traversari. Esso prova comunque che a quell’epoca l’occidente latino aveva perfettamente assimilato la dottrina di Isacco il Siro, consentendo, se così si può dire, di naturalizzarlo “latino”.

    Della notorietà, che conobbe a quel tempo l’opera di Isacco, sussiste una testimonianza pittorica toccante. Nell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, altro celebre centro di riforma monastica, e precisamente nel luogo dove anticamente si trovava il capitolo e ogni sera si leggeva una pagina di Cassiano o delle Vite dei padri del deserto, oggi si può ancora contemplare un affresco che risale al 1440, che rappresenta un’imponente galleria di quegli antichi padri, tra i quali compare il nostro Isacco in mezzo ad altri celebri monaci dell’oriente: Pacomio, Paolo di Tebe, Onufrio, Giovanni Climaco.

    Ritornando un istante al nostro beato Paolo Giustiniani, va notato che la biblioteca di Camaldoli possedeva anch’essa due esemplari delle opere di questo abba Isacco. Per chi conosce la fame insaziabile con la quale il nostro beato divorava tutto ciò che gli capitava sotto mano di letteratura ascetica antica, non c’è alcun dubbio che si sia precipitato su quegli scritti, tanto più che portavano un titolo per lui allettante: De’ contemptu mundi, “Il disprezzo del mondo”.

    Conclusione

     Ascoltando la presentazione in parallelo della forma dello skit di Nil Sorskij e dell’eremo di Camaldoli, non si può non esser rimasti colpiti da alcune somiglianze non soltanto nei principi di fondo della loro impresa, ma anche in certi aspetti concreti della sua realizzazione: insistenza sull’assenza di secolari; amore per la sobrietà liturgica che arriva fino a una certa diffidenza per i canti troppo complicati; disposizione delle celle, lontane le une dalle altre per non essere uditi dal vicino; assenza di lavoro dei campi; cura che si dedica alla copiatura delle fonti letterarie dell’esicasmo, e anche alla loro correzione o traduzione, e preoccupazione di incrementare la biblioteca; preminenza dell’ascesi interiore sulla mortificazione corporale; e perfino amore per gli alberi e i boschi ad alto fusto, nei quali entrambe le tradizioni vedono una protezione provvidenziale per la loro solitudine.

    Di fronte a questo straordinario parallelismo, al di là della somiglianza delle architetture, e di prassi, testi e spiritualità così concordanti, più in profondità rispetto alle strutture sacramentali – la cui comunione resta sempre dolorosamente ferita -, abbiamo forse potuto percepire uno spessore di vita e di verità: la vita dello Spirito che soffia dove vuole, e la verità al di là di tutte le nostre verità parziali, che è la Verità stessa, il Cristo ieri, oggi e a venire, il Cristo in oriente e il Cristo in occidente, il Cristo che è anche nel più profondo del nostro cuore.

    “Giovanni a Roma, Elia a Corinto, e un terzo nell’eparchia di Gerusalemme”, diceva Barsanufio indicando le tre colonne che a quel tempo sostenevano la chiesa universale. Permettetemi un ultimo parallelismo, che prendo da Bernardo di Chiaravalle. Questi si chiede – in un testo poco conosciuto, perché scoperto solo di recente – quale sia il posto dei monaci nel corpo di Cristo, la chiesa, e assegna loro il ventre, spiegandone così il motivo: Il ventre è considerato vile … I monaci e gli eremiti, che il mondo disprezza, sono il ventre della chiesa. Essi ricevono Il cibo spirituale della dottrina. Sono sostegno della chiesa, e loro simbolo è Mosè che prega sul monte, Samuele che dorme nel tempio, Elia che dimora nel deserto. Essi somministrano i succhi spirituali ai superiori e agli inferiori. Ad essi conviene quanto è stato detto: “L’umanità vive grazie a pochi; se non ci fossero quelli, il mondo perirebbe o per un fulmine o per lo spalancarsi della terra”.

     

     

    Posted by attilio @ 15:10

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