• 12 Mar

    DALLA  SANTITÀ  DESIDERATA
    ALLA  POVERTÀ  OFFERTA

    Sergio Stevan

    Nella Novo Millennio Ineunte, Giovanni Paolo II ha esortato la Chiesa, in tutte le sue componenti, a prendere il largo” nel cammino di santificazione. Resta vero il fatto che il cammino di ognuno è unico e irripetibile, e che le vie della santificazione personale sono diverse. Tuttavia a ognuno è chiesto di affrontare queste vie nella verità di un cammino graduale, che conosce le sue tappe e le accetta con pace: tappe che aiutano ad aprirsi a una disponibilità sempre più profonda attraverso l’opera dello Spirito in noi.
Ci lasciamo condurre, nella nostra riflessione, anzitutto dal cammino di vita di Pietro, così come emerge dalle pagine della Scrittura; e poi da un testo di padre Michel Rondet s.j., apparso diversi anni fa su una rivista francese. Il senso del nostro itinerario è così sintetizzato dall’autore: «Se si volesse descrivere con una formula il percorso globale della crescita spirituale, si potrebbe dire che essa va sempre dalla santità desiderata alla povertà offerta».

    Cominciando dalla Galilea. Il desiderio di essere santi

    L’inizio del nostro cammino nasce dall’invito che troviamo nella Scrittura: «Siate santi perché io il Signore, Dio vostro, sono santo»; «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». La vocazione alla santità, dono che ognuno di noi ha ricevuto, è la meta di ogni credente: appartenere radicalmente, in una sempre più intima conformazione, al Signore.
Ci sembra improrogabile la richiesta di Giovanni Paolo II: «È ora di riproporre a tutti con convinzione questa “misura alta” della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione».

    Chi parte nutre, in genere, l’entusiasmo di sentirsi pronto a qualunque sacrificio, disposto ad affrontare qualunque impresa. Ed è giusto che sia così. È l’ora dell’innamoramento, del desiderio infuocato che spinge ad affrontare il cammino, anche senza avere certezze sul come il Signore voglia condurvi.
«Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono».

    Ci aiuta in questo senso l’esperienza di Pietro che, pieno di fiducia nella Parola, non ha esitato neppure un minuto a prendere il largo e a buttare le reti per la pesca, nonostante la fatica di aver lavorato tutta la notte e la frustrazione di non aver pescato nulla.
Pietro incontra la parola di Gesù, ne sperimenta tutta la potenza avvolto dal suo fulgore. In forza di questa esperienza, il pescatore di Galilea è pronto a lasciare tutto per seguire Gesù e assomigliare un po’ a lui. E né affetti, né lavoro, né prospettive lo trattengono da questo slancio generoso: lo Spirito del Signore è capace di farci superare delle tappe che noi mai avremmo pensato di poter superare.
«Se la nostra fede non ha trasportato le montagne, ci ha fatto però vivere delle scelte generose. Qualcosa della novità evangelica si è manifestata in noi. Una primavera di grazia e libertà ci ha fatto credere che potremo procedere senza tener conto della fatica e della polvere dei cammini, dell’incertezza di vie sconosciute, di orizzonti avvolti nella nebbia».

    Agli inizi della chiamata troviamo tutto l’entusiasmo di chi ha bene in mente dove arrivare e cosa fare, anche perché il Signore indica la sua meta a chi vuole sinceramente seguirlo. In questa “stagione della vita“, si ha l’impressione che la chiarezza nell’ideale da perseguire sia la garanzia della riuscita in cui la buona volontà e la grazia di Dio saranno gli strumenti infallibili della realizzazione dell’ideale:  Se Dio mi vuole così (e io so bene come Dio mi vuole!), Egli saprà anche rendermi tale. .. e io, che so con certezza a quale ideale sono chiamato a tendere, non mi potrò sbagliare.
Non che tutto il cammino che si ha davanti sia perfettamente chiaro in ogni suo passo, naturalmente. È chiara la meta. È nitido l’ideale, limpido il valore in gioco: quello di diventare discepoli dell’unico vero Maestro. Sarebbe come vedere da lontano una cima da scalare, ma sconosciuto il sentiero che si dovrà percorrere. Tuttavia non c’è incertezza che trattenga chi è spinto dal desiderio della sequela: sia come sia, il percorso sarà coraggiosamente compiuto e la vetta felicemente raggiunta.

    Prendiamo l’esempio del giovane Francesco d’Assisi: da poco incamminatosi sulla via del Vangelo, gli capita di leggere il passo in cui Gesù invia i suoi discepoli a predicare, spogli di ogni sicurezza materiale, nutriti solo di povertà radicale. Affascinato, conquistato da questa prospettiva, che sente risuonare nel profondo di sé, può esclamare «con l’anima inebriata d’ineffabile letizia: “Questo io desidero, questo è ciò che io bramo di fare con tutto il cuore!”». 
Infatti, senza pensare ad altro che alla meta, senza altro considerare che i passi del Maestro, «si toglie immediatamente i calzari dai piedi, lascia il bastone, getta con disprezzo la borsa e il denaro e, contento d’una sola tunica, butta via anche la cintura, prendendo per cingolo una fune». Francesco desidera essere tutto di Cristo. La paura e la prospettata durezza del cammino non trovano posto in lui dove mettere le radici.

    Salire a Gerusalemme. La scoperta della realtà

    La vicenda di Pietro prosegue e passa attraverso quel sano realismo che lo denuda di ogni idealismo senza radici e di ogni illusione di perfezione: egli arriva a constatare che, in lui, ci sono fragilità e debolezze insospettate. E magari difficilmente superabili.
«Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: ”Anche questi era con lui”. Ma egli negò dicendo: “Donna, non lo conosco!”. Poco dopo un altro lo vide e disse: ”Anche tu sei di loro!”. Ma Pietro rispose: “No, non lo sono!”. Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”. Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”. E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltato si, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito, pianse amaramente».

    Pietro non si ritrova più nel sogno e nell’entusiasmo degli inizi.
Le sue tre risposte sono una graduale resa alla propria dolorosa sconfitta e alla consapevolezza della crisi profonda che attraversa la sua identità.
«Non lo conosco!»: non è questi il Gesù che ha scelto di seguire, non lo avrebbe seguito se avesse saputo che a questo sarebbe arrivato.
«Non lo sono!»: se Gesù non è colui che ha scelto di seguire, Pietro non è più se stesso, e la sua identità non è più ormai quella di prima. Anche l’ideale che ha coltivato in precedenza, di essere simile al Maestro, non lascia traccia in lui. Pietro non è più l’uomo di prima, né il suo ideale corrisponde più a quello di prima.
«Non so quello che dici», perché, non sapendo più chi sia, egli non può in verità mettersi in relazione con gli altri.
Pietro si ritrova a non essere quell’uomo che pensava di essere. In effetti non lo sarà mai.
In fondo l’ambiguità è in ogni uomo ed è vero che «noi facciamo il male che non vorremmo e non facciamo il bene che vorremmo».

    La tentazione a questo punto subentra insidiosa: tornare indietro. Pensare, con una certa amarezza e scoraggiamento, che si è andati in cerca di cose superiori alle proprie forze. «Abbiamo sognato, ci siamo sbagliati, dobbiamo riconoscerlo umilmente, non guardare più le vette che non sono alla nostra portata ed accontentarci di gestire al meglio le nostre debolezze e le nostre fragilità, ormai ben conosciute!». Eravamo convinti di camminare per salire le alte vette della santità e ci accorgiamo di essere ancora fermi, di non essere ancora partiti.
«Spesso Dio avrà permesso che il peccato ci apra gli occhi: un’infedeltà più forte, un ripiegamento egoista sono venuti a rompere l’immagine troppo positiva che noi ci eravamo costruiti di noi stessi». 
Il nostro castello interiore, sontuosamente costruito sul nostro ideale di sequela, segretamente convinto di impeccabilità, crolla e va in rovina sotto i colpi devastanti dell’ormai evidente debolezza.
E non si tratta dell’esperienza di un momento soltanto.

    Pietro aveva già dovuto fare i conti con la sua reale distanza dall’ideale evangelico quando, nei pressi di Cesarea di Filippo, aveva dovuto sentirsi rivolgere da Gesù quella tremenda ingiunzione: «Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Si può, dunque essere in cammino per le vie del Regno e nel cuore appartenere ancora al mondo. Forse che generosità ed entusiasmo non siano sufficienti a «rinascere dall’alto?».

    L’aver ricevuto lo spirito del Risorto non metterà Pietro al riparo da ricadute dolorose a causa dei suoi limiti: anche dopo la Passione di Gesù e la sua glorificazione rimane timoroso e in soggezione davanti a una parte della Chiesa di Gerusalemme, lasciandosene condizionare fino al punto da scordare la vita dell’autentico Vangelo. Non è forse il solito Pietro? Sempre di nuovo costretto a fare i conti con la sua umanità claudicante e non pienamente trasfigurata dallo Spirito.

    Ritornare in Galilea. La seconda chiamata

    Eppure Gesù Risorto si era trovato davanti un Pietro completamente rinnovato.
«Talvolta ci sembra che Dio ci attenda nelle nostre sofferenze e nei nostri fallimenti. In realtà molto spesso sono questi i soli mezzi che gli lasciamo per proporsi a noi, le sole fessure nella muraglia costruita intorno al nostro essere, l’unica possibilità che gli diamo, dopo il crollo dei nostri progetti e programmi, di condurci a ritrovare noi stessi di fronte al desiderio di essere pienamente e di vivere intensamente».

    La misericordia di Dio attendeva Pietro nella casa del sommo sacerdote dove – dopo un pianto amaro – il pescatore sa accogliere con umiltà la rivelazione della sua infedeltà; la tenerezza di Dio gli apre degli orizzonti più grandi e più belli del suo iniziale entusiasmo e dei suoi stessi sogni.

    «Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Gli disse di nuovo: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene”. Gli disse: “Pasci le mie pecorelle”. Gli disse per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene?”. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi“. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”». Nell’espressione di Pietro: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene», è nascosta tutta la grande scoperta della sua vita interiore: non sarà mai il perfetto discepolo, che forse aveva sognato di diventare, ma potrà per grazia di Dio diventare quel povero che non ha da offrire a Dio che le sue mani vuote.
Come Teresa di Lisieux: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere». A questo punto si tocca nella nostra vita che veramente «nulla è impossibile a Dio».

    Quando Pietro accetta la sua povertà e riscopre un nuovo volto di Dio, avviene nella sua vita una sorta di seconda chiamata: non per nulla Gesù lo chiama con il nome di un tempo (Simone, non Pietro). Come a dire: oggi si ricomincia, si torna in Galilea, a quella prima pesca straordinaria, al termine della quale mi sei venuto dietro; si torna al nome che avevi allora, e che io stesso poi ti avrei cambiato. Ora che ti sei conosciuto per quel che sei, e non per quel che vorresti essere, puoi davvero cominciare a seguirmi.
«Seconda chiamata: chiamata a scoprire la tenerezza e la gratuità dell’ amore di Dio per quei peccatori che siamo noi. Chiamata ad accogliere la potenza dello Spirito che trionfa nella nostra debolezza, che non è soltanto quella del credente esiliato in un mondo ostile, ma anche quella del peccatore che scopre in se stesso fragilità e consenso dinanzi alla tentazione».

    Ed ora che Pietro non può dire più nulla e non si azzarda, alla luce della sua povera storia, a promettere qualcosa al Signore, questi lo riconferma nella sua missione e gli rivolge ancora una volta l’invito: «Seguimi».
Pietro, con umiltà, riparte dalla consapevolezza che la santità non consiste nello sforzo teso a essere quel discepolo che aveva sognato di diventare fin dagli inizi, bensì nel lasciarsi condurre, ormai, da un Altro.

    «È nella scoperta e nell’umile accettazione del suo essere peccatore che troverà la forza di diventare per i suoi fratelli la “pietra” su cui la loro fede potrà appoggiarsi». La tensione a misurare da sé la propria giustizia o il livello del proprio peccato conduce l’anima a raggomitolarsi su se stessa. La grazia spinge invece ad accettare con serenità e libertà la propria condizione di limite e di innegabile distanza dall’ideale un tempo coltivato: il povero, che si offre a Dio nella lucida e serena consapevolezza della propria povertà, manifesta il dinamismo dello Spirito del Risorto.

    Così dice Teresa del Bambino Gesù a questo proposito: «All’inizio della mia vita spirituale, verso l’età dai tredici ai quattordici anni, mi chiedevo ciò che più tardi avrei avuto da acquistare perché credevo che mi fosse impossibile capire meglio la perfezione; ho riconosciuto ben presto che, più si va avanti su quel cammino, più ci crediamo lontani dalla meta, così ora mi rassegno a vedermi sempre imperfetta, e trovo in ciò la mia gioia». E, tra i padri del deserto, il grande Matoes era solito dire: «Quanto più l’uomo si avvicina a Dio, tanto più si vede peccatore… Quand’ ero giovane, dicevo fra me: “Forse faccio qualcosa di buono. Ma ora che sono invecchiato, vedo che non ho in me nessuna opera buona”». Anche Francesco d’Assisi è condotto dallo Spirito del Signore per le vie durissime dell’accettazione della sua povertà: «Anch’io per lungo tempo non ho capito. Mi son dibattuto nel buio come un povero uccello nella pania. Ma il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell’uomo e la sua maturità consistono anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell’accettare con gioia la realtà, tutta la realtà. L’uomo che vagheggia il suo ideale, rimane chiuso in se stesso. Egli non comunica veramente con gli altri, né prende conoscenza dell’universo. Gli mancano il silenzio, la profondità e la pace. La profondità dell’uomo non è altro che la sua disposizione ad accogliere il mondo. […] Penso che è difficile accettare la realtà. In verità, nessuno l’accetta in blocco. Noi aspiriamo sempre ad aggiungere, in qualche modo, una spanna alla nostra statura. È questo il fine di quasi tutte le nostre azioni. Anche quando si crede di operare per il Regno di Dio, non cerchiamo che di farci più grandi, fino al giorno in cui, sconfitti, non ci rimane che questa sola smisurata realtà: Dio esiste. Allora scopriamo che Lui solo è Onnipotente, che Lui solo è santo, che Lui solo è buono. L’uomo che accetta questa realtà e se ne compiace, trova in cuor suo la serenità. Dio esiste, ed è tutto». La tua cella, la tua vita più ordinaria, feriale, nelle sue ripetitività e consuetudini più radicate, nelle relazioni più scontate, nelle azioni e nei compiti più normali. La tua cella: il tuo cuore, la tua identità profonda così come è, non come vorresti che fosse, non come ti intestardisci a sognarla o a pretenderla. Così come è, come gradualmente, con meraviglia e con amarezza, lo scopri di giorno in giorno.

    Proposta di un itinerario spirituale

    Come, concretamente, passare dalla santità desiderata alla povertà offerta? Tre passi potrebbero aiutarci a vivere questo itinerario spirituale.

    Dio ci aspetta nell’oggi

    C’è una forte tentazione nella vita di ognuno: quella di rifuggire dalla quotidianità per attendere l’eccezionale.
«Attendiamo l’eccezionale per convertirci e talvolta ce la prendiamo con Dio per il fatto che non ce ne offre nella nostra vita, persuasi che altrove o domani saremo diversi. È oggi che Dio ci aspetta, che Egli si presenta alle nostre esistenze, con una presenza umile e discreta che dobbiamo imparare a riconoscere». Se abbiamo il coraggio di rileggere la nostra vita ci accorgiamo che Dio lo abbiamo incontrato o ritrovato proprio là dove non ce lo aspettavamo affatto. È stato così anche per i Santi che «hanno riconosciuto le loro debolezze e fragilità ma più ancora Dio presente sul loro cammino e questo quotidiano che pareva loro banale ha assunto una dimensione nuova». Di Antonio, il padre dei Padri del deserto, gli antichi dicevano che «aveva gli occhi degli angeli, attraverso cui si vede Dio e si coglie la sua luce»,  ma è proprio nella quotidianità più ordinaria che il Signore chiede di essere cercato. «Va’, rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa», diceva un altro padre del deserto.

    Incontrare il Dio assente

    La nostra preghiera conosce prima o poi la notte, l’impotenza. «Dio non lo si incontra veramente se non attraverso la sua assenza».  Anche Gesù ha fatto, nella sua vita terrena, questa esperienza e noi che vogliamo essere suoi discepoli, cioè coloro che ripercorrono le sue tracce, non possiamo certo evitarla.
Su un graffito ritrovato sul muro di una cantina di Colonia, dove erano rimasti nascosti alcuni ebrei durante l’ultima guerra mondiale, si leggeva: «Credo nel Sole, anche quando non splende, credo nell’ Amore, anche quando non lo sento, credo in Dio, anche quando tace».
Anche nella notte ci è chiesto di camminare: aggrappandoci alla Croce di Gesù, che diventa la nostra forza, fonte di luce e consolazione nella notte.
Dobbiamo augurarci continuamente ciò che l’inno ambrosiano, il Christe cunctorum, fa cantare: «Siano i giorni lieti e calme le notti». È un invito ad avere una fiducia grande nel Signore perché custodisca i nostri cuori nella sua pace, preservandoci dal male, dalla paura, dalla tentazione. I giorni e le notti del nostro spirito devono essere vissuti con la certezza del salmista: «Tuo è il giorno, Tua è la notte». È Lui il Signore di ogni istante e di ogni avvenimento della nostra vita.

    Siamo forse capaci di gestire molte cose, di avere in mano molte situazioni, ma nella preghiera tutto questo è impossibile. Nella preghiera occorre solo riconoscere che tutto viene da Dio.
«Se vogliamo essere fedeli alla chiamata evangelica a perseverare nella preghiera, a fare delle nostre esistenze una supplica incessante, una lode ed un’azione di grazie continue, scopriamo presto che dobbiamo rimetterci totalmente allo Spirito che, solo, può pregare in noi la preghiera di Gesù ben al di là di ciò che noi possiamo dire o fare». Accade così che lo Spirito del Signore ci fa sperimentare la verità di queste parole: «I periodi di aridità non sono infruttuosi, perché in quei momenti la preghiera tende a essere meno egoista, più incentrata in Dio. Stiamo imparando, come diceva Teresa d’Avila, a cercare il Dio della consolazione, e non le consolazioni di Dio. […] L’aridità purifica la nostra fede e il nostro amore, anzi scopriamo, perseverando nella preghiera, che l’aridità è la condizione migliore per consentire al Signore di trasformarci, di modellarci secondo il modello di Gesù».

    Non conta più ciò che sento, conta anzitutto ciò che credo. Conta prima di tutto Colui a cui mi affido. Il Signore c’è; la mia fede è il luogo dell’incontro con Lui. La mia fede, non il mio sentire: la mia donazione a Lui, scelta e riscelta, non la mia sensibilità immediata.
Chiederò con umiltà e determinazione che la mia sensibilità sia gradualmente modellata dalla fede, e non viceversa: abitare nel buio attendendo la luce e scrutandone le tracce che mi tengano desto.

    La Chiesa ha il nostro volto

    Un terzo passo nella linea di questo cammino di spirituale spogliazione è quello dell’accettazione del volto contraddittorio della Chiesa: «Anche la vita ecclesiale è  per noi un cammino di autentica povertà. Anche là, il reale ci spoglia dei nostri sogni per aprirci al Cristo presente dove due o tre sono riuniti nel suo nome». Partiti con il desiderio di amare e servire la Chiesa quale corpo di Cristo risorto, il volto della Chiesa ci si è via via rivelato nei suoi caratteri di «inestricabile mescolanza di santità e peccato». La gioia di cercare Dio nelle membra della Chiesa ha lasciato il posto all’amarezza della constatazione della sua distanza dallo splendore delle nostre attese a suo riguardo. Ma «da parte nostra non si tratta di giudicare circa le debolezze e le infedeltà della Chiesa: noi amiamo il suo volto povero perché Dio nella sua misericordia e tenerezza, l’ama come ama il nostro». Accettare il mistero della Chiesa santa e peccatrice.

    Lasciare che lo Spirito conformi il nostro cuore insicuro a quello di Dio, volontà d’amore che non ci rinnega mai. «Dio non partecipa i nostri timori, né la nostra fierezza, né la nostra impazienza. Egli sa aspettare come Dio solo sa aspettare. Come sa farlo soltanto un padre infinitamente buono. Egli è longanime e misericordioso. Nutre sempre qualche speranza, fino alla fine. Poco gli importa che mucchi di rifiuti invadano il suo campo e che non sia bello a vedersi, se poi, alla fine gli sarà dato di raccogliere, più grano che zizzania… Dio sa di poter trasformare col tempo della sua misericordia, il cuore stesso degli uomini».

    Offre la sua povertà anche chi accetta umilmente di dover portare con pace il peso di qualche durezza ecclesiale, di qualche limite oggettivo, anche di qualche peccato e scandalo, confidando nella pazienza attiva e trasformante del Padre, che tutto accoglie per tutto trasfigurare e rinnovare… a suo tempo.

    Conclusione

    «Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa, ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati, che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende Amore: da tutti, dovunque si trovino; da tutti, di ogni condizione, professione o mestiere. Perciò la vita normale, ordinaria, poco appariscente, può essere mezzo di santità […] tutte le strade della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo». Non c’è vero cammino nello Spirito al di fuori dell’ordinarietà, dello “scandalo della banalità”, come l’ha definita qualcuno.

    D’altra parte i Padri ammonivano che dove c’è ricerca della novità, non c’è spazio per il progresso spirituale.
Cercare Dio nel profondo dell’ordinario, lasciandosi spogliare di tutto ciò che non è desiderio di Dio, secondo l’espressione di san Giovanni della Croce.
«Bisogna semplicemente spogliarci di tutto. Far piazza pulita. Accettare la nostra povertà. Rinunciare a tutto ciò che pesa, perfino al peso dei nostri peccati. Non vedere altro che la gloria del Signore e lasciarcene irradiare. Ci basta che Dio esista». Così liberati da ogni peso e preoccupazione, il nostro cuore aspira a una santità che coincida con il volere di Dio.
Il Signore ci conceda di lasciarci condurre con serenità e fortezza per le vie nascoste di questa spogliazione.

    Posted by attilio @ 14:43

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