• 25 Feb

    LA FAME DEL POVERO,

    IL FOLLE AMORE DI CRISTO

    Dio nutre il suo popolo durante tutta la marcia nel deserto. E’ la lezione della storia.  Una lezione fonte di speranza.

    “Allora essi mormorarono contro Dio dicendo: « Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?”.

    Ecco, egli percosse la rupe e ne scaturì acqua, e strariparono torrenti.

    «Potrà forse dare anche pane preparare carne al suo popolo? ».…

    Dio comandò alle nubi dall’alto e aprì le porte del cielo; fece piovere su di essi la manna per cibo e diede loro pane del cielo.

    L’uomo mangiò il pane degli angeli, Dio diede loro cibo in abbondanza.  Scatenò nel cielo il vento d’oriente, fece spirare l’australe con potenza.

    Su di essi fece piovere la carne come polvere, e gli uccelli come sabbia del mare; caddero in mezzo ai loro accampamenti, tutto intorno alle loro tende.

    Mangiarono e furono ben sazi, li soddisfece nel loro desiderio “

    (Sal 77,19-20.23-29).

    Per l’uomo la fame è sempre una prova; per Dio è un’occasione per dimostrarsi misericordioso.

    Se la fame infatti, causa di rivolta, dev’essere combattuta come un male, deve anche disporre l’uomo all’intervento di Dio. E’ la sua ambiguità.

    Ecco perché Dio da una parte dà da mangiare all’affamato, ma dall’altra non ama i ben pasciuti.

    Perciò fa nascere e rinascere continuamente in noi la fame.

    Fame della parola

    Il popolo di Dio ha conosciuto un’avventura straordinaria, ore gloriose: l’uscita dall’Egitto, l’alleanza, la manna nel deserto, l’entrata nella terra promessa.  Per Israele è la gioia, l’esultanza, ma anche la dimenticanza, la stabilità, l’organizzazione. E’ la ricchezza, la vita degli affari.  E tanto peggio per gli altri, per i poveri soprattutto che vengono maltrattati, disprezzati, sfruttati.

    Ma Dio continua a vegliare.

    Farà sorgere dei profeti dal pugno di ferro, dalla parola tagliente. Moltiplicherà le prove… Dovrà essere ridotto alla più nera miseria, prima che se ne renda conto e che il suo cuore sia disposto finalmente all’intervento del Signore.

    Finalmente il popolo si scuote e piange al ricordo del grano perduto, dei vigneti e delle ficaie distrutte (Os 12,11.14).

    Nuovamente Dio lo sedurrà riconducendolo nel deserto (Os 2,16).

    Nuovamente il popolo conoscerà la fame « non fame di pane, né sete di acqua, ma di udire la parola di lahvè » (Am 8,11).  Questo significa aver fame e sete di Dio:

    Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio!

    L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente; quando verrò e vedrò il volto di Dio? (Sal 41,2-3).

    Questa fame e questa sete saranno vive soprattutto nei poveri, i trascurati, i deboli, gli individui costretti a curvare la schiena sotto il destino o la prepotenza della ricchezza, i distrutti dal dolore, i prigionieri (cfr. Is 61,2).

    Al contrario gli individui ben pasciuti, i grassoni non conoscono i morsi lancinanti della fame.  Sono troppo ricchi, troppo soddisfatti: non è possibile far presa nella loro vita.  Per i poveri invece Dio è la speranza, che non sarà mai delusa:

    Il Signore è il mio pastore,

    non manco di nulla;

    su pascoli erbosi mi fa riposare,

    ad acque tranquille mi conduce.

    Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,

    per amore del suo nome.

    Davanti a me tu prepari una mensa,

    sotto gli occhi dei miei nemici;

    cospargi di olio il mio capo.

    Il mio calice trabocca (Sal 22,1-3.5).

    Come si vede Dio non disprezza l’uomo disprezzato, né disdegna la povertà del povero: al contrario:

    I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: « Viva il loro cuore per sempre! » (Sal 21,27).

    Proprio per i poveri JHWH preparerà:

    un convito di carni grasse, un convito di vini speciali, di gustosi grassi, di vini raffinati (Is 25,6).

    Per partecipare a questo festino c’è una sola condizione: la fame, la sete, la disperazione.  Niente altro.  Perché il festino è gratuito:

    Orsù, tutti voi assetati venite all’acqua;

    anche se non avete denaro venite lo stesso.  Comprate del grano e mangiate, senza denaro, e, senza pagare, acquistate vino e latte (Is 55,1).

    In realtà «Dio sazia di beni gli affamati, e rimanda a mani vuote i ricchi» (Lc 1,53).

    Tutto ciò avrà la sua più esplicita verifica nell’Eucaristia: che non è per i soddisfatti, ma per i poveri, gli storpi, gli zoppi, la plebaglia che Cristo invita al banchetto di nozze.  Egli è venuto per loro, è il messia dei poveri (Lc 1,53), per soddisfare la loro fame e la loro sete (Lc 6,21), per disporre il loro cuore alla parola di Dio (Mt 4,4), alla speranza, alla sua stessa vita, in comunione col Padre (Gv 4,32ss).

    Naturalmente un po’ alla volta. Perché anzitutto bisogna nutrire il corpo, far nascere il desiderio: soltanto allora i cuori saranno disponibili.  E Gesù fa proprio così nel vangelo: non brucia le tappe.  Altrimenti uno finirebbe coll’accettare passivamente la cosa, cadendo in una forma di alienazione che finirebbe coll’opporsi a Cristo.

    Pane per le folle

    Cristo ha pietà delle folle affamate.  Sempre la stessa carica di umanità.

    «Vedendo le folle ne ebbe pietà, perché erano stanche e abbattute come pecore senza pastore» (Mt 9,36; cf Mc 6,34).

    E un po’ più avanti:

    «Ho pietà di questa folla, perché da tre giorni sono con me e n:)n hanno da mangiare» (Mt 15,32; cf Mc 8,1-3).

    Gesù sente pietà delle folle. In Cristo si tratta di una forza amorosa profonda, si direbbe istintiva, che nasce dall’intimo del cuore, e si traduce in interventi operativi che rendono possibile all’uomo l’uscire dalla propria miseria e gli fanno raggiungere pienamente quella libertà di cui aveva bisogno.  Per Cristo la pietà è sempre un amore attivo ed efficace.

    Di fronte alla folla è mosso da due motivi: anzitutto perché è una folla stanca e sfiduciata, disorientata e sperduta; e poi perché è una folla affamata e assetata. Si tratta cioè di una folla che cerca disperatamente un cibo materiale e un senso alla propria vita.

    La fame degli uomini si manifesta su questi due piani: la parola e il pane, e Gesù risponde ad entrambi.

    Nel racconto della prima moltiplicazione dei pani nel deserto

    (cf Mt 14,13-21; Mc 6,30-34; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15),

    di fronte ad una folla numerosa ma disorganizzata, quasi pecore senza pastore, il primo atteggiamento di Gesù è di istruirla.  Di questo hanno bisogno: bisogno di parola, una parola che diventi nutrimento e permetta ad un popolo di prendere coscienza della propria realtà.

    Questa parola rivela il significato della vita e crea valori, questa parola dà unità: è una parola creatrice di un popolo.  Finora esisteva una folla che si ritrovava senza ordine, senza guide e senza un capo.

    Ora diventa possibile nutrire questa folla immensa bene ordinata con «cinque pani e due pesci».  Gesù alza gli occhi al cielo e pronuncia la benedizione. I pani vengono spezzati e distribuiti dai discepoli.

    «Tutti ne mangiarono e furono saziati, ed essi raccolsero gli avanzi»: dodici canestri o sette sporte colme di pani e di pesci.  La folla era di quattro o cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

    Tutte queste precisazioni sono importanti.  Se da una parte esse mostrano all’evidenza che ci muoviamo in un clima di miracolo, dall’altra parte dimostrano l’incidenza della parola sulla folla, l’azione dei discepoli, la chiara volontà del Signore di costituire un popolo.

    Soprattutto, con il valore simbolico di cui sono cariche, aprono le prospettive su un’altra realtà: quale sarà poi ampiamente sviluppata nella letteratura patristica.

    La parola è nutrimento. Essa è indispensabile. Dispone i cuori allo Spirito, all’azione del Signore: preparandoli a ricevere un cibo veramente nutriente.  Questo cibo è stato infatti preparato per gli affamati.  E tuttavia, in modo ancora più decisivo, si tratta di un cibo inesauribile: di un cibo cioè che è stato preparato non per gli invitati di un solo giorno.  Esso è destinato anche a coloro che verranno in seguito, come pure agli estranei.

    Qui cogliamo il simbolo degli avanzi, le sette sporte o i dodici canestri di pane.  Perché raccogliere questi avanzi se non perché anche altri hanno fame, perché anche altri devono approfittare di questa moltiplicazione?  La cosa è importante.  La parola del Signore ha bisogno di espandersi. Il pane del Signore dev’essere condiviso fraternamente con tutti.  La tavola del Signore non è riservata, ma preparata per tutti.  L’allusione contenuta nel racconto della moltiplicazione non lascia dubbi.  Ritroveremo questo gesto nell’ultima Cena.  E’ il gesto fondamentale di ogni Eucaristia (“per voi e per tutti”).

    La marmaglia alla tavola del Signore


    Ciò che abbiamo detto ci permette di capire due cose molto importanti, sottolineate del resto dallo stesso Signore, nel vangelo: gli invitati alle nozze; la chiamata dei poveri.

    Il Signore invita tutti al banchetto.  Alcuni rifiutano: non hanno tempo, sono troppo occupati.  Gli affari urgono. L’invito li infastidisce.

    Ci sono cose più urgenti e più importanti.  E poi non sentono nessun bisogno di quel pranzo.

    Ce ne sono però degli altri che non hanno ricevuto nessun invito; e che sono convinti che ciò dipenda dal fatto che non ne sono degni. I banchetti non fanno per loro: non hanno titoli per cose simili: e in ogni caso si sentirebbero a disagio.  Ecco, proprio costoro il Signore manda a cercare: proprio la marmaglia.

    « Presto, va’ per le piazze e per le vie della città e conduci qua poveri, storpi, ciechi e zoppi… Va’ per le strade e lungo le siepi e costringili a venire, affinché la mia casa sia piena » (Mc 14,21-23).

    La lezione è importante.  Non dovremo dimenticarla!  L’Eucaristia acquista significato solamente per l’affamato, perché solamente lui è capace di accogliere l’invito del Signore.

    L’Eucaristia non dev’essere confinata nelle chiese per un popolo d’élite, ma dev’essere accessibile al povero.

    E siccome ci sono dei limiti a prima vista invalicabili, essa deve soprattutto presentarsi come un gesto d’amore, come un atteggiamento umano per l’immenso numero di coloro che, per capire il gesto del Signore nella sua creazione o nella sua Eucaristia, hanno bisogno di verificare, di toccare direttamente, di risentire nel loro cuore, attraverso la testimonianza di coloro che si proclamano cristiani e che celebrano il Signore, la verità del gesto compiuto.  Perché, dopo tutto, la verità di Cristo passa attraverso l’autenticità della compartecipazione alla vita.

    E’ necessario che l’Eucaristia sia anzitutto il sacramento della fraternità: la verifica quotidiana, incarnata nelle situazioni più banali della realtà umana, dell’amore di Cristo per tutti noi, così come viene celebrato nell’azione liturgica.

    Del resto, il richiamo al povero è un preciso appello alla fede e alla comunione.  Sappiamo benissimo che Cristo fa tutt’uno con l’affamato, il disgraziato, il prigioniero… Cristo si identifica nel povero, e perciò nel povero si fa presente e noi lo raggiungiamo:

    Poiché avevo fame e mi deste da mangiare.

    Avevo sete e mi deste da bere.

    Ero pellegrino e mi ospitaste, nudo e mi rivestiste,

    infermo e mi visitaste

    carcerato e veniste a trovarmi (Mt 25,35-36).

    Pane per lo straniero

    La seconda moltiplicazione dei pani (Mt 15,32-39) assomiglia moltissimo alla prima.  Certamente dipendono entrambi da un’unica tradizione, diversificatasi poi secondo gli ambienti o i testimoni che l’hanno riferita.  Ma non è qui il punto, bensì nel valore e nel significato di alcune differenze.  Come ad esempio l’occasione che provoca la pietà di Gesù.  Mentre nel primo racconto si trattava di una folla di poveracci, qui si parla di una folla che segue Gesù da tre giorni e che non ha da mangiare. E’ una folla sfinita dal cammino e attanagliata dalla fame, che non potrà più andar avanti senza venir meno dallo sfinimento.  Gesù ne ha pietà e decide di sfamarla con pane e pesce.

    Marco inserisce un altro particolare interessante: « Alcuni di loro vengono da lontano » (Mc 8,3).

    Ora sono sfiniti: non puoi non intervenire. In una prospettiva neotestamentaria è un preciso richiamo ai pagani, a coloro che sono lontani e ai quali bisogna portare la buona novella; a coloro che non fanno ancora parte del gregge e che non hanno sentito la parola.  Del resto si tenga presente che Marco scrive il suo racconto in ambiente pagano.

    Per quanto riguarda il rapporto del racconto con l’Eucaristia, è interessante notare un piccolo dettaglio lessicale. Mentre durante la prima moltiplicazione Gesù pronuncia la benedizione sul pane (eulogein), qui rende grazie (eucharistein). Come si vede, sono esattamente i due termini usati poi nel racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.  Al momento della Cena, in Matteo e Marco Gesù pronuncia la benedizione (eulogein) sul pane; mentre in Luca e Paolo rende grazie (eucharistein).

    Notiamo poi che questo intervento del Signore in favore dei poveri s’iscrive in un contesto pasquale (cfr. Gv 6,4).  Preannuncia quindi un’altra cosa.  E Gesù ne approfitta per mettere in chiaro di essere venuto per tutti: ebrei e pagani.  Così comincia a preparare gli spiriti ad accogliere la prodigiosa novità, il cibo immortale, fonte di vita eterna, il pane di Dio, che viene dal cielo e dà la vita al mondo (Gv 6,33).

    E’ facile capire la reazione della folla: « Signore, dacci questo pane per sempre ». Allora, fra lo sbalordimento generale, Gesù dichiara:

    « lo sono il pane di vita.  Chi viene a me non avrà più fame, e chi crede in me non avrà più sete » (Gv 6,35).

    Naturalmente si tratta della fede in Cristo: ma, del resto, solamente questa fede è capace di ricevere e far proprio l’incredibile dono del Signore:

    lo sono il pane di vita.

    I padri vostri hanno mangiato nel deserto la manna e sono morti;

    questo è il pane disceso dal cielo affinché lo si mangi e così non si muoia mai più. lo sono il pane vivo, disceso dal cielo.

    Chi mangerà di questo pane vivrà in eterno.  E il pane che io darò,

    è la mia carne per la vita del mondo.

    Se ciò scandalizza, poco importa:

    In verità, in verità, vi dico:

    Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non ne berrete il sangue, non avrete la vita in voi.

    Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.

    E io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

    Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda.

    Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv 6,48-56).

    Ecco, qui trova la sua collocazione l’Eucaristia: al termine della più straordinaria avventura vissuta da Dio col suo popolo, un’avventura che trova in Cristo la sua perfetta e totale espressione; al termine inoltre del cammino di Cristo nella condizione carnale e temporale, durante la quale ha sperimentato tutto il peso del peccato dell’uomo, tutta la sua sofferenza e miseria, tutta la sua sete di speranza e di vita.

    In questo momento essa assume tutto il suo significato: essa è un gesto d’amore che s’iscrive per sempre nella vita degli uomini, attraverso la materialità del pane e dei vino, in forza del quale Cristo sarà per sempre presente in mezzo ai suoi come viatico nel cammino.  In un contesto pasquale che Giovanni ha cura di sottolineare

    «Prima della festa di Pasqua, Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine » (Gv 13,1):

    cioè fino all’espressione massima dell’amore.  L’Eucaristia s’iscrive appunto in questa logica dell’amore che trova la sua autentica verità nelle forme estreme della donazione, che porta Cristo a donarsi totalmente agli uomini con la sua morte in croce come espressione somma ed ultima dell’amore salvifico.  Un amore in forza del quale non la morte ma la vita ha l’ultima parola.  Una vita sanzionata dalla risurrezione di Cristo.


    LA FAME DEL POVERO, IL FOLLE AMORE DI CRISTO


    * Per l’uomo la fame è sempre una prova: per Dio un’occasione per dimostrare la sua misericordia. E’ la situazione critica in cui l’uomo versa nel suo pellegrinare nella vita. Dio cerca di far nascere sempre in te la fame. Cfr:  Sal 77

    * Questa fame e questa sete sono vive nei poveri, in coloro che sanno di non poter appoggiarsi unicamente su se stessi, in coloro che sono provati dal dolore. Al contrario i “ben pasciuti” non conoscono la fame. Sono ricchi e soddisfatti: non è possibile far presa sulla loro vita. Cfr: Sal 22; 2127; Is 25,5ss; Is 55, 1; Lc 1,53

    * Gesù sente compassione per le folle affamate e stanche che lo seguono. Una folla che cerca un cibo materiale e un senso alla propria vita. Gesù risponde ad entrambi queste necessità dell’uomo Cfr: Mt 9,36; Mc 6,34; Mt 15,32; Mc 8,1-3

    * Le folle che seguono Gesù sono composte di poveri, peccatori, prostitute, lontani . Sono costoro che maggiormente aprono il cuore, nella loro necessità, alla parola di speranza che esce dalla bocca di Cristo. L’eucaristia non è per un’elite, ma per un popolo di poveri. Cfr:  Mc 14,21-23

    * A tutti Gesù si presenta come il “pane di vita” capace di soddisfare ogni fame Cfr:  Gv 6,48-56

    * Tutto questo in un contesto di amore, che si fa dono, capacità di compassione. E’ questo l’ambito “pasquale” dell’eucaristia: un dono che può iscriversi solo in una logica di amore Cfr: Gv 13,1

    Posted by attilio @ 14:33

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