• 16 Dic

    Thomas Merton

    PRINCIPI DI BASE DELLA
    SPIRITUALITÀ MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE a cui rimandiamo per l’approfondimento.


    Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” forse ha cessato di essere monaco.

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio.

    Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita.

    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio.

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre.


    La vocazione monastica è indubbiamente una delle più belle nella chiesa di Dio. La “vita contemplativa”, come viene solita­mente definita la vita degli ordini monastici, è una vita intera­mente dedicata al mistero di Cristo, per vivere la vita di Dio che si dona a noi in Cristo. E’ una vita totalmente abbandonata allo Spirito santo, una vita di umiltà, di obbedienza, di solitudine, di silenzio, di preghiera in cui si rinuncia ai propri desideri e alle proprie abitudini per vivere nella libertà dei figli di Dio, guidati dallo Spirito santo che parla attraverso i superiori, la regola e le ispirazioni interiori che la sua grazia ci dona. E’ una vita di totale oblazione a Dio, in unione a Gesù, che per noi è stato crocifisso ed è risorto dai morti, e che vive in noi attraverso il suo Spirito santo.

    Ma per quanto bella, semplice ed esaltata possa essere questa vita – come ci mostra la tradizione dei padri del monachesimo -, i monaci sono esseri umani, e la fragilità umana tende sempre ad abbassare e distorcere la pienezza di quanto ci è donato da Dio. Soprattutto questo è motivo di rammarico: il vedere persone piene di buona volontà e generosità che abbracciano la vita mo­nastica solo per ritrovare la loro buona volontà che si è dissipata in futilità e routine. Anziché vivere la vita monastica nella sua purezza e semplicità, si tende sempre a complicarla e a perver­tirla con i nostri punti di vista limitati o con i nostri desideri troppo umani. Si dà un’enfasi esagerata ad alcuni aspetti parzia­li della vita, sbilanciandone così l’equilibrio complessivo. Oppu­re si cade in quella miopia spirituale che coglie solo le minuzie e perde di vista l’unità organica in cui si è chiamati a vivere. In una parola, per comprendere adeguatamente le regole e le osser­vanze della vita monastica, si deve sempre avere presente il vero significato del monachesimo. Per non rimanere confusi dai mez­zi che ci sono donati, dobbiamo sempre metterli in relazione al loro fine.

    Solo alla luce del mistero di Cristo possono essere colte le grandi finalità della vita monastica. Cristo è il centro del vivere monastico. Cristo ne è la fonte e il fine. E’ lui la via del monaco, come anche la sua meta. Le regole, le osservanze monastiche, le pratiche dell’ascesi e la preghiera devono sempre essere integra­te in questa dimensione superiore. Devono sempre essere viste come parti di una realtà vivente, come manifestazioni di una vita divina e non come elementi di un sistema, semplici espressio­ni di mero dovere. Il monaco compie qualcosa di più che confor­marsi a degli ordini e a dei comandi che non riesce a capire: egli abbandona la sua volontà al fine di vivere in Cristo. Rinuncia a una libertà di livello inferiore per una superiore. Ma perché que­sta rinuncia sia fruttuosa e valida, il monaco deve essere consa­pevole di quanto sta facendo.

    Cosa cerchi?

    Se vogliamo vivere da monaci, dobbiamo tentare di capire co­sa sia effettivamente la vita monastica. Dobbiamo tentare di raggiungere le fonti da cui essa è scaturita. Dobbiamo conosce­re le nostre radici spirituali, per poterle affondare più profondamente nel terreno.

    Ma la vocazione monastica è un mistero. Non può quindi essere esaurientemente espressa in una formula chiara e concisa. E’ un dono di Dio e non la comprendiamo appena la ricevia­mo, poiché tutti i doni di Dio, specialmente quelli spirituali, hanno in sé qualcosa della sua intimità e del suo mistero. Dio si rivelerà a noi nel dono della nostra vocazione ma lo farà con gradualità.

    Non deve sorprendere se trascorriamo tutta la nostra vita di monaci approfondendo sempre più il mistero della nostra voca­zione, che è vita nascosta con Cristo in Dio (cf. Col 3,3). Se sia­mo veri monaci dovremo infatti costantemente riscoprire cosa significhi essere monaco e non esauriremo mai la pienezza di si­gnificato della nostra vocazione.

    Quando entriamo in monastero possiamo avere o non avere una precisa coscienza sul perché abbiamo lasciato il mondo. Pos­siamo dare una risposta, più o meno chiara, alla domanda: “Per­ché sei venuto qui?”. Ma questa è una di quelle domande che dovremmo porci continuamente nel corso della nostra vita mo­nastica: “Cosa stai facendo qui? Perché sei venuto qui?”. Non che sia una domanda di cui non conosciamo la risposta, ma ten­diamo a dimenticarla. È una domanda che ci mette davanti un significato e un’urgenza nuovi, man mano che avanziamo nella vita.
    Talvolta esitiamo a porci questa domanda temendo che possa minare le fondamenta della nostra vocazione. Ma è una di quelle domande che non dovrebbero mai essere eluse. Se la prendiamo seriamente, rafforzeremo la nostra vocazione. Se la eludiamo, anche con un santo pretesto, possiamo aprire la strada all’inde­terminazione della nostra vocazione. Il monaco che cessa di domandarsi: “Amice, ad quid venisti?” (RB 60,3; cf. Mt 26,50) forse ha cessato di essere monaco.

    Quali sono le risposte che diamo alla domanda: “Perché sei venuto qui?”. Noi rispondiamo: “Per salvarmi l’anima”, “Per condurre una vita di preghiera”, “Per far penitenza dei miei peccati”, “Per donarmi a Dio”, “Per amare Dio”. Sono risposte sufficientemente buone, risposte religiose, cariche di significato non solo per quanto affermano ma anche per ciò che implicano. Perché, sulle labbra di un cristiano, alcune affermazioni devo­no, alla fine, significare molto più di quanto dicono all’inizio. In se stesse sono la prova di buone disposizioni soggettive ma non portano in alcun modo a una comprensione piena della vita mo­nastica. Perché la vita monastica non è definibile soltanto dal fatto che ci consente di salvarci l’anima, di pregare, di far peni­tenza, di amare Dio. Tutte queste cose possono essere realizzate fuori del monastero e sono vissute da migliaia di persone. Il monachesimo cristiano non è neppure adeguatamente defi­nito come ricerca di perfezione. In Giappone, ad esempio, uno zen buddista può entrare in monastero per cercare una vita ritira­ta e una disciplina spirituale. Forse sta cercando la realtà più alta. Sta cercando la “liberazione”. Ora, se noi entriamo in monaste­ro per cercare la realtà più alta, per cercare la perfezione, dob­biamo nondimeno renderci conto che per noi questo significa qualcosa di più di quanto possa significare per uno zen buddista.
    La nostra vita monastica deve perciò crescere per rendere più chiara e specificamente cristiana l’idea del fine per cui lottiamo. Ha molto più senso affermare, come fa Benedetto, che noi ve­niamo in monastero per cercar Dio (cf. RB 58,7), che non affermare che veniamo per cercare una perfezione spirituale. Il fine che cerchiamo non è soltanto qualcosa di interiore a noi stessi qualche dote personale da aggiungere, qualche nuovo valore. E’ Dio stesso che cerchiamo.

    Dire: “Perché sei venuto qui?” è la stessa cosa che dire: “Che cosa significa cercare Dio? Come sai se lo stai cercando o meno? Come puoi dire la differenza tra cercarlo e non cercarlo, quan­do, di fatto, egli è un Dio nascosto, Deus absconditus?”. Quando Mosè parlò a Dio dicendo: “Mostrami il tuo volto”, il Signore rispose “Nessuno può vedermi e vivere (cf. Es 33,18-20). Ep­pure Gesù ci dice che la vita eterna è conoscere l’unico vero Dio e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3). Questa conoscenza di Dio, che è la vita eterna, non la si può ottenere con la semplice speculazione. Noi giungiamo a conoscere Dio per il fatto di essere nati da lui e di vivere in lui. Non possiamo conoscerlo veramente soltanto attraverso la lettura, lo studio e la meditazione. Possiamo arrivare a conoscere Dio solo divenendo suoi figli e vivendo come tali. “A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uo­mo, ma da Dio sono stati generati” (Gv 1,12-13).

    Possiamo vivere da figli di Dio, possiamo conoscere Dio solo se viviamo nella carità. “Amati, amiamoci gli uni gli altri, per­ché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (lGv 4,7). Ma questa carità non è il semplice amore naturale per l’altro. Non diventiamo figli di Dio per il solo fatto di vivere insieme in una società che si dedica a uno scopo comu­ne, condividendo con altri degli interessi comuni. Non fanno così anche i pagani (cf. Mt 5,46)? La carità che ci unisce è la carità di Cristo, nel senso stretto di un amore esercitato dal cuo­re di Cristo e non nel senso generico di un amore copiato dal suo. Al mandatum noi cantiamo: Congregavit nos in unum Christi amor. E’ l’amore del cuore di Cristo per noi (e non il nostro amore per lui) che ci ha riuniti assieme. Non potremmo amarlo, se egli non ci avesse “amati per primo” (1Gv 4,19). Noi diventiamo figli di Dio rinascendo in Cristo – attraverso il battesimo – e viviamo, cresciamo e portiamo frutto solo “ri­manendo in Cristo”. “Rimanete in me e io in voi. Come il tral­cio non può far frutto da sè stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me” (Gv 15,4). Arriviamo così al cuore della nostra vocazione monastica.

    La nostra vita monastica è una vita in Cristo, una vita attra­verso la quale rimaniamo in Cristo, condividendo la sua vita, partecipando alla sua azione, unendoci a lui nel suo culto al Padre. Cristo è la nostra vita. È lui il senso pieno della nostra vita, l’intera sostanza della vita monastica. Niente ha più significato, in monastero, se dimentichiamo questa grande verità centrale.

    Ma chi è Gesù? E’ il Figlio di Dio, è il Verbo che si fece carne e abitò fra noi (cf. Gv 1,14). La vita monastica, come tutta la vi­ta cristiana, la vita della chiesa, prolunga il mistero dell’incarna­zione sulla terra e ci consente di accogliere nei nostri cuori, con abbondanza, la luce e la carità di Cristo. Veniamo in monastero per cercare Cristo, con il desiderio di poterlo trovare e conoscere, e arrivare così a vivere in Cristo e per mezzo di lui. E non ap­pena incominciamo a trovarlo, incominciamo al tempo stesso ad accorgerci che stavamo già vivendo in lui e per mezzo di lui, per­ché “egli ci ha amati per primo“.

    Il Verbo si fece carne

    Tutto il significato della vita monastica scaturisce dal mistero dell’incarnazione. Veniamo in monastero, guidati dallo Spirito santo, per cercare la vita eterna. La vita eterna è la vita di Dio, donataci in Cristo. Veniamo a cercare verità. Cristo disse: “Io sono la verità” (Gv 14,6). Veniamo a cercare vita. Egli è la via e la vita. Veniamo a cercare luce. Egli è “la luce del mondo” (Gv 8,12). Veniamo a cercare Dio. In lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). In Cristo Dio si è rivelato a noi e si è donato a noi: “Il Verbo si fece carne e abitò fra noi e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).

    In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessi­mo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9).
    La domanda: “Perché sei venuto qui?” è allora la domanda di Gesù nel giardino dell’agonia: “Chi cercate?” (Gv 18,4). Cer­chiamo Gesù di Nazaret, il Cristo, il Figlio del Dio vivente, che per amore nostro discese dal cielo, morì sulla croce e risuscitò dai morti e siede, vivo, alla destra di Dio Padre, dando a noi pienezza con la sua vita e guidandoci per mezzo del suo Spirito, così che egli vive, respira, lavora, agisce e ama in noi.

    Lo scopo della nostra vita è allora crescere nell’unione con il Cristo risor­to, vivere sempre più profondamente la vita del suo corpo, la chiesa, continuare sulla terra l’incarnazione che manifesta l’a­more di Dio per gli uomini, al fine di poter condividere, con Cristo, nei cieli, la gloria di Dio. Il Verbo si fece carne. Verbum caro factum est. Questa verità è la pietra angolare della nostra vita monastica. Non è solo una ve­rità che conosciamo e sulla quale, di tanto in tanto, meditiamo. E’ una verità che deve diventare la nostra vita. L’intera nostra esistenza e tutte le nostre attività devono essere impregnate della luce che da essa scaturisce: quella luce è la stessa luce di Dio. Il Verbo è lo splendore della gloria del Padre (cf. Eb 1,3). E’ l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15) e il modello di tutta la creazione di Dio. Tutte le cose, tutti gli esseri viventi, tutta la creazione inanimata, tutti gli spiriti e le intelligenze sono creati in lui, sono sostenuti in lui, vivono in lui e per mezzo di lui. “Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili, Troni, Dominazioni, Principati e Potestà: tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col 1,16-17).
    Quando Benedetto vide tutta la creazione radunata assieme “come in un unico raggio di splendore, vide tutte le cose nella luce del Verbo, senza il quale niente è stato fatto di ciò che esiste” e che “illumina ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,3.9). Questo è il fine a cui tendiamo: vedere la gloria del Verbo incar­nato, “gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14). Cerchiamo di vedere, conoscere e amare tut­te le cose in lui: il mondo, gli angeli, i nostri fratelli, il Padre e lo Spirito santo. Questa è la risposta alla domanda: “Perché sei ve­nuto qui? Chi cerchi?”.

    Egli è il Tutto. E per poter vedere colui che è il Tutto, dobbia­mo conoscerci e trovarci in lui. Dobbiamo trovare ogni cosa in lui e in ogni cosa lui. Dobbiamo trovare il Padre in lui. Il Verbo si fece carne. Incarnazione! Egli prese per sé un corpo e un’anima umani, così che il Verbo dimorò fra noi come uomo. Il Verbo non assunse la carne per finzione, come un semplice abito che avrebbe potuto essere tolto e gettato via. Divenne un uomo. Gesù, un uomo, è Dio. Il suo corpo è il corpo di Dio. La sua car­ne è talmente colma della luce e della potenza di Dio da essere completamente e interamente divina. E questo Uomo-Dio, Gesù Cristo, è diventato per noi il nostro nuovo mondo, una nuova creazione, in cui tutte le cose devono essere “ricapitolate”.

    Dom Vonier dice: “Possono adeguatamente apprezzare l’in­carnazione solo coloro per i quali l’umanità di Cristo è la mera­viglia delle meraviglie, una superba creazione in cui ricevono il proprio essere, in cui vivono, lavorano, muoiono, in cui sperano di risorgere e in cui trovano la pienezza della divinità come quando Mosè si imbatté nel roveto ardente”. Gesù non assunse la natura umana solo al fine di morire per noi sulla croce ed elevarci al di sopra della “materia”. La sacra umanità di Cristo, che regna e agisce nei cieli, è un principio permanente di santificazione, in grado di spiritualizzare tutto ciò con cui è messa in contatto, attraverso la sua chiesa.

    Se il Verbo si fece carne e se il corpo di Cristo rimane una fonte permanente di santificazione, allora la creazione non è cattiva. Quando creò il mondo, “Dio vide che era cosa buona” (Gen 1,4.10…), perché venne creato in Cristo e prese vita per mezzo suo. Se la nostra vita è una ricerca di Gesù, il Verbo che si è fatto carne, dobbiamo prendere coscienza che non bisogna agire come i mistici pagani, che ripudiano il mondo visibile co­me una pura illusione, e come coloro che interrompono ogni contatto con le cose sensibili e materiali. Al contrario, dobbia­mo imparare a guardare e a rispettare la creazione visibile che ri­specchia la gloria e le perfezioni del Dio invisibile. La creazione visibile è mantenuta in essere dal Verbo. Ma il Verbo stesso è entrato nella creazione per esserne la corona e la gloria. Il re divino è entrato nella sua stessa creazione con un corpo che è il punto più alto di tutte le cose create. Il corpo di Cristo è qualcosa di più grande e più meraviglioso di tutta la creazione angelica, perché è ipostaticamente unito al Verbo, e Paolo ci ricorda che dobbiamo preferirlo a tutti gli angeli: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. Perché in lui abita corporal­mente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,8-9). Se pertanto cerchiamo Gesù, il Verbo, dobbiamo essere capaci di vederlo nelle cose create attorno a noi: nelle colline, nei campi, nei fiori, negli uccelli e negli animali che ha creato, nel cielo e negli alberi. Dobbiamo esser capaci di vederlo nella natu­ra. La natura non è un ostacolo al nostro contatto con lui, se sap­piamo osservarla nella giusta luce.
    La chiesa, nella sua liturgia, fa uso di elementi materiali per­ché sa che questi parlano con eloquenza di Dio: luci, incenso, abiti, musica. Soprattutto usa elementi materiali non solo come simboli ma come mezzi attraverso i quali viene direttamente ap­plicata alle nostre anime la grazia di Dio: i sacramenti. Il Verbo che si fece carne continua a rendersi presente nel suo perfetto sacrificio, sotto le specie consacrate del pane e del vino. Se dobbiamo vivere da cristiani, quali membra del Verbo in­carnato, dobbiamo ricordare che la stessa vita dei nostri sensi è stata elevata e santificata dalla grazia di Cristo; dobbiamo impa­rare a usare i nostri sensi per vedere, udire e apprezzare gli aiuti sacramentali alla santità che la chiesa ci dona. Di qui il ruolo dell’arte, del canto, e così via, come componenti della liturgia. Dobbiamo saper usare la nostra immaginazione quando leggia­mo le Scritture. Dobbiamo far eco agli esseri viventi e a quelli inanimati, che proclamano tutti la sapienza e la gloria di Dio, loro creatore. Dobbiamo, prima di tutto, guardare tutte le cose materiali al­la luce del mistero dell’incarnazione. Dobbiamo avere rispetto per tutta la creazione, perché il Verbo si è fatto carne.
    Ci è possibile rispettare le cose umili e materiali perché la chiesa, il corpo di Cristo, resta in mezzo al mondo per santifi­carlo e spargere su ogni cosa la potenza delle benedizioni di Dio. Paolo dice: “Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si accoglie con rendimento di grazie. Per­ché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera” (1Tm 4,4-5).

    Il monaco, uomo di preghiera, deve imparare che attraverso le sue preghiere, attraverso la benedizione che la presenza di un monastero riversa tutt’attorno, il mondo viene santificato e av­vicinato a Dio. Deve gioire per il fatto che attraverso la sua unio­ne nascosta con Cristo permette a ogni cosa di farsi più vicina al proprio fine ultimo e di dar gloria al proprio creatore.

    Il monaco deve guardare alla comunità monastica come a Cri­sto, presenza visibile e vivente nel cuore della sua creazione, presenza che benedice il paese circostante e tutte le cose che i monaci toccano e usano, portandole a unirsi a noi nella lode a Dio attraverso il suo Figlio incarnato. Le cose materiali che ci circondano sono sante a causa dei nostri corpi, i quali sono san­tificati dalle nostre anime, che a loro volta sono santificate dalla presenza del Verbo che le inabita. L’universo creato è un tempio di Dio, e il nostro monastero è come se ne fosse l’altare, la comunità il tabernacolo; e Gesù stes­so si rende presente nella comunità, offrendo il suo culto d’amore e di lode al Padre e santificando le anime e tutte le cose.

    Ne consegue che nella vita monastica i nostri sensi sono edu­cati ed elevati, non certo distrutti. Ma questa educazione necessita una disciplina. Se i nostri occhi devono essere gli occhi dell’“uomo nuovo” (Cristo), non devono più guardare alle cose con i desideri e i pregiudizi dell’“uomo vecchio”. Devono essere pu­rificati dalla fede, dalla speranza e dall’amore. Mentre mortifica i nostri sensi, l’ascesi monastica fornisce loro una vita nuova in Cristo, così che impariamo a vedere, udire, sentire, gustare… come Cristo, e perfino i sensi vengono allora spiritualizzati.

    La parola della croce

    Quanto è stato detto non è che un’introduzione al vero mi­stero della nostra vocazione monastica. Dio creò il mondo e vide che tutte le cose erano buone, perché sussistevano nel Ver­bo. Il Verbo si fece carne e dimorò fra noi, e noi abbiamo visto in lui la gloria di Dio (cf. Gv 1,14). Ma basta questo? Se così fosse, allora l’uomo non dovrebbe far altro che seguire i propri istinti naturali, usare delle cose create, e con facilità e sponta­neità troverebbe la via che porta a Dio. Ma non è così.

    Vi sono molti ostacoli alla “spiritualizzazione” della nostra vita. Per di­ventare “uomini nuovi” dobbiamo lottare, combattere e anche morire.
    Siamo uomini decaduti, e il mondo con noi. L’uomo e il mon­do sono stati resi schiavi dal principe delle tenebre, e sono af­fondati nell’errore e nel peccato. Ora, il peccato ha precluso la possibilità all’uomo di ritrovare la via verso Dio.
    Sebbene gli attributi di Dio siano chiaramente visibili nella creazione, l’uomo, precipitato nelle tenebre per colpa propria, non riconosce più Dio. “Sebbene conoscessero Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma han­no vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa, perché mentre si dichiaravano sapienti, sono di­ventati stolti” (Rm 1,21-22).
    Il Nuovo Testamento ci mette continuamente in guardia con­tro la stoltezza di un tipo di contemplazione e di ascesi pura­mente umane, che generano un’illusione di santità e di sapienza ma non possono unirci a Dio né con lui riconciliarci. L’ascesi umana e le tecniche mistiche non possono salvarci dai nostri peccati. Ci tengono lontano da Dio e anzi ci separano ancor più, perché la loro illusione genera in noi una falsa fiducia e un falso orgoglio. Sono centrate sull’uomo, non su Dio; mirano a glorifi­care l’uomo, non Dio. Paolo, nella Lettera ai Romani, dopo aver additato i misteri pagani e gli altri riti, quindi la legge e l’ascesi dei giudei, escla­ma che niente di tutto ciò può liberare l’uomo dal peccato e ri­conciliarlo con Dio. Per dimostrarlo, egli cita le parole dei salmi, che così spesso cantiamo:

    Giudei e greci, tutti sono sotto il dominio del peccato, come sta scritto: Non c’è nessun giusto, nemmeno uno, non c’è sa­piente, non c’è chi cerchi Dio! Tutti hanno traviato e si sono pervertiti; non c’è chi compia il bene, non ce n’è neppure uno. La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. I loro piedi corrono a versare il sangue; strage e rovina è sul loro cammino e la via della pace non conoscono. Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi (Rm 3,9-18; cf. Sal 14,1-3; 3,10; 140,4; 10,7; Is 39,7-8; Sal 36,2).

    Paolo conclude: “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rm 3,23). E l’Antico Testamento ci parla di un mondo che nella sua malvagità reca dolore a Dio, al punto che Dio minaccia di distruggerlo:

    Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: Sterminerò dal­la terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito di averli fat­ti (Gen 6,5-7).

    Parole come queste imprimono una tremenda urgenza alla no­stra ricerca di Dio, di Cristo. Noi cerchiamo il Verbo incarnato non solo quale creatore e modello di tutte le cose, ma soprattut­to quale redentore, quale salvatore del mondo.
    Il monaco deve sempre essere consapevole che senza Cristo non vi sarebbe salvezza, felicità, gioia, perché l’uomo sarebbe irrevocabilmente separato da Dio, che è la fonte della vita e del­la gioia. Deve comprendere, soprattutto, che senza Cristo assolutamente inutile è lo sforzo umano di piacere a Dio. L’uomo non può salvarsi da solo, senza Cristo, per quanto eroici possano essere i suoi sacrifici. Ma una volta che si guarda al sacrificio della croce come alla nostra vera salvezza, allora anche il più pic­colo atto di carità diviene prezioso e ha valore agli occhi di Dio: perfino un bicchiere di acqua fresca (cf. Mt 10,42).
    Il monaco deve essere consapevole della santità infinita di Dio e dell’offesa che il peccato reca a tale santità. La consapevo­lezza della santità di Dio e dell’offesa del peccato ci danno il ti­more di Dio, che è il principio della sapienza (cf. Sap 11,10); senza di esso non possiamo incominciare a pregare come la chie­sa vorrebbe che facessimo, perché non abbiamo un vero senso delle realtà spirituali. Nello stesso tempo, però, dobbiamo avere una fiducia sconfinata nella croce di Cristo.

    Ecco, dunque, la nostra situazione: senza Cristo siamo com­pletamente separati da Dio, non abbiamo accesso a lui, se non attraverso i riti della religione naturale che non possono, da soli, salvare le nostre anime (ma sappiamo che, per i meriti della pas­sione di Cristo, Dio donerà la sua grazia a chiunque agisce fa­cendo quanto può per vivere secondo la luce della propria co­scienza). Con Cristo e in Cristo, tutta la nostra esistenza è tra­sformata e santificata, e i più piccoli atti d’amore hanno il loro valore di espiazione del peccato.

    Abbiamo bisogno di un salvatore nel quale rinascere a vita nuova, per salire al cielo. Dio ha tanto amato il mondo da darci il suo Figlio come salvatore (cf. Gv 3,16). Quanto più apprezzia­mo questo fatto, quanto maggiore è la nostra riconoscenza e fiducia, tanto più entreremo nella conoscenza di Dio in Cristo e lo serviremo con tutto il cuore. Gesù disse: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il ser­pente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,13-15). Tutti gli uomini hanno bisogno di un salvatore e tutti lo han­no ricevuto in Cristo, che è morto affinché tutti possano essere salvati. Tutti “sono giustificati gratuitamente dalla sua grazia per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù” (Rm 3,24).

    Chi, dunque, cerchiamo in monastero? Non solo Dio, nostro Padre e creatore, perché anche se lo cerchiamo non possiamo trovarlo senza Cristo. Cerchiamo Cristo, nostro salvatore e re­dentore, nel quale siamo riconciliati con il Padre. O meglio, cer­chiamo il Padre in lui, perché, come dice Paolo: “Dio ha real­mente riconciliato a sé il mondo in Cristo” e Cristo “è morto per tutti, perché tutti coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui, che è morto ed è risuscitato per loro” (2Cor 5,19.15). Noi cerchiamo Cristo crocifisso quale nostra redenzio­ne, nostra forza, nostra sapienza, nostra vita in Dio (cf. 1Cor 1,23-24.30).
    Questo non lo possiamo pienamente comprendere se non comprendiamo l’amore e la compassione di Cristo per noi, verso la nostra debolezza. Erano i pelagiani che vedevano la croce solo come una sfida e un’ispirazione, non come una forza, una fonte di vita e di energia. Cristo non è semplicemente un sublime eroe che dobbiamo imitare con ogni sforzo; egli è un salvatore amore­vole disceso al nostro livello per donarci la sua forza. Egli ha vo­luto identificarsi con la nostra debolezza nel Getsemani e sulla croce.

    Noi cerchiamo Gesù non solo come salvezza individuale, per­sonale, ma come salvezza e unità di tutto il genere umano. La solidarietà originale dell’uomo, da cui dipende la nostra piena felicità e realizzazione, è stata distrutta dal peccato, e l’uomo non può trovare pace e unità in se stesso, o nella società, finché non si è riconciliato con Dio in Cristo. Cristo è la nostra pace: con gli altri, con noi stessi, con Dio. Lo cerchiamo perciò come il salvatore del mondo, il principe della pace, colui che ristabili­rà l’unità del genere umano nel suo regno di pace.
    La redenzione che Gesù è venuto a portare è stata offerta a tutti attraverso la sua morte in croce: noi riceviamo la nostra re­denzione morendo e risorgendo misticamente con lui; poiché uno è morto per tutti, allora tutti sono morti” (2Cor 5,14).

    Il monaco che prega nel timore di Dio e lo ringrazia per l’infi­nito amore con cui ha mandato suo Figlio per redimerci, prende coscienza non solo che Gesù è morto per lui individualmente, ma è morto per tutta la chiesa; che ha amato la chiesa ed è venuto per unire tutto il genere umano a Dio in un’unione di spirito con il Padre, in se stesso: “Cristo ha amato la chiesa e ha conse­gnato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5,25-26). Questa è “la parola della croce“. Essa è “stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che sono salvati per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18). Questa parola è il cuore di tutta la nostra vita di preghiera e di penitenza.

    Se comprendiamo queste cose, comprenderemo l’ufficio divi­no e capiremo per cosa stiamo pregando. Nei salmi non faccia­mo che contemplare, nel mistero, la grande realtà della nostra redenzione in Cristo. Noi ringraziamo continuamente Dio per quella redenzione, e intercediamo per la chiesa intera e per colo­ro che non conoscono Dio. Supplichiamo Dio di perdonare il peccato e di salvare coloro che sono immersi nelle tenebre del peccato. Supplichiamo di poter giungere tutti alla visione della sua gloria, così che il suo Cristo possa essere glorificato in noi.
    Inoltre comprendiamo come sia Gesù stesso, che prega in noi, a continuare, attraverso il nostro ufficio divino, la sua opera di redenzione del mondo. Nell’ufficio, e soprattutto nell’eucari­stia, il monaco è unito a Gesù salvatore.

    Figli della risurrezione

    Cristo, morto sulla croce e risorto dai morti, “non muore più” (Rm 6,9). Siede alla destra del Padre ed è diventato per noi uno “spirito datore di vita” (1Cor 15,45). Come Adamo, plasmato dalla mano del creatore, doveva esse­re il capo del genere umano e il primogenito della vita naturale, così Cristo, quando entrò nella sua gloria per mezzo della risur­rezione, divenne il capo di un’umanità nuova, unita a lui in un unico corpo mistico e vivificata dal contatto con la sua sacra umanità, ora divenuta uno “spirito datore di vita”. Ciò equiva­le a dire che l’umanità del Verbo, il quale regna nei cieli come “Cristo” o “Unto” del Padre, invia nelle nostre anime e nei no­stri corpi lo spirito divino.

    La nostra vita monastica non consiste solamente nell’avere Gesù come salvatore da ringraziare e adorare, come presenza esterna a noi: è una vita costantemente nutrita dal contatto spi­rituale con l’umanità glorificata di Cristo salvatore – vivente in noi attraverso la sua grazia, che è il principio della nostra vita so­prannaturale -, “spirito datore di vita”.

    Il nostro punto di contatto con il Salvatore risorto è la fede nella sua croce. Attraverso la fede noi sottomettiamo interamen­te le nostre menti e i nostri cuori a lui e alla carità, forza della vita divina. La carità diviene allora il principio di una nuova laboriosità, quella delle opere buone, per mezzo delle quali servia­mo il Dio vivente; siamo allora “purificati dalle opere morte (Eb 9,14), e le cose che facciamo acquistano un carattere total­mente nuovo e spirituale in Cristo. Esse danno gloria a Dio, edi­ficano il corpo di Cristo e ci procurano una crescita nell’unione con lui, che è la nostra santità.

    Il contatto con l’umanità risorta di Cristo è la vera santità. Crescere nella santità è crescere nella nostra unione con il Cristo risorto. Ma Cristo vive e agisce nella sua chiesa. Crescere nell’u­nione con la chiesa, partecipare più profondamente alla vita di preghiera della chiesa, alla sua vita sacramentale, alle altre sue attività, ci offre una più intima partecipazione alla vita, al pen­siero e alla preghiera di Cristo stesso. La vita di un monaco è im­mersa nelle profondità della vita della chiesa in Cristo. Il mona­co è essenzialmente un vir ecclesiae.

    La nostra vita spirituale è la vita dello Spirito di Cristo nella sua chiesa. E’ la vita che fluisce dal contatto con Cristo quale “spirito datore di vita”. Avere una vera vita spirituale è allora pensare, amare e agire non soltanto come Cristo avrebbe agito in una siffatta situazione, ma come realmente agisce, attraverso la sua grazia, in noi, in questo preciso momento. E’ vivere e agire con il pensiero della chiesa, che è il pensiero di Cristo.

    In altre parole, la nostra vita in Cristo non si riduce a un’imi­tazione esterna, a una riproduzione morale del modello offertoci da Gesù negli evangeli. Non si tratta semplicemente di legge­re una “Vita di Cristo” e poi, con le nostre forze, con la nostra ingegnosità e con la nostra buona volontà, di mettere in pratica, umanamente, ciò che leggiamo. Tali sforzi sono necessari, ma finché non raggiungono un piano totalmente soprannaturale re­cano poco frutto al nostro spirito.
    La nostra vita in Cristo, le nostre azioni in Cristo sono quelle in cui Cristo, vivente in noi mediante la sua grazia, ispira il nostro pensare e il nostro agire attraverso gli impulsi del suo santo Spirito di amore, che sgorga dalle profondità della nostra anima.
    Parlando di questa vita spirituale come sapienza divina, Paolo afferma che non possiamo conoscere le cose di Dio finché non riceviamo lo Spirito di Dio, che ci dona un profondo discerni­mento dei segreti nascosti nel pensiero e nella volontà di Dio (cf. 1Cor 2,9-12). Essere così edotti e mossi dallo Spirito santo è avere “il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16). Ma la sapienza dello Spirito che ci dà “il pensiero di Cristo” è del tutto opposta all’altra sapienza, la sapienza della “carne” e dell’ “uomo natura­le” che “non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giu­dicare solo per mezzo dello Spirito” (1Cor 2,14).

    Gesù aveva insistito sulla necessità di rinascere alla vita dello Spirito, perché “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63). “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6). E Paolo aggiunge: “Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nel­la sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna” (Gal 6,7-8). Siamo dibattuti in un aspro conflitto tra la carne e lo Spirito. Gesù ci ha liberati dal peccato ma non dalla debolezza e dalla concupiscenza della carne. Dobbiamo riprodurre nella nostra vi­ta la croce di Cristo, cosicché, morti sacramentalmente al pecca­to attraverso il battesimo e la penitenza, possiamo dunque met­tere a morte il peccato nella nostra carne frenando i nostri desi­deri malvagi e le cattive inclinazioni. Questo è il fondamento dell’ascesi monastica.

    Pertanto, tutta la vita monastica implica un obbligo a disci­plinarci e a rinunciare a noi stessi al fine di vivere nello Spirito di Cristo e per mezzo suo. La vita ascetica è a un tempo posi­tiva e negativa, ma è l’elemento positivo il più importante. Paolo riassume tutto il significato dell’ascesi cristiana in frasi come questa; “Camminate nello Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,16). Si osservi che dapprima dice: “Camminate nello Spirito”; è il lato positivo dell’a­scesi. La parte negativa segue come logica conseguenza, come effetto immediato: “non sarete portati a soddisfare i desideri della carne. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, cam­miniamo anche secondo lo Spirito (Gal 5,24-25). Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la car­ne per vivere secondo la carne; poiché, se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,12-13).
    Si noti l’espressione “debitori verso la carne”. La carne è co­me un usuraio: ci dà un poco per poi prenderci tutto, e costante­mente aumenta la presa su colui che è in suo potere, esigendo una sottomissione servile sempre maggiore.

    Ma cosa intende Paolo per “opere della carne”? Quando la Bibbia parla di carne e di spirito, non intende opporre nell’uo­mo l’elemento materiale a quello spirituale, come se il corpo fos­se cattivo e solo l’anima fosse buona. L’uomo intero è “carne” se il suo corpo e le sue passioni egoistiche dominano la sua anima. L’uomo intero è spirito se la sua anima è soggetta allo Spirito di Cristo e il suo corpo è soggetto alla sua anima. Vivere “nello Spirito” non significa perciò vivere senza un corpo. Si­gnifica soffrire la tentazione e la prova. Significa fatica e tutte le normali condizioni della vita dell’uomo sulla terra. “L’inclinazione della carne è morte” (Rm 8,6) e ci porta a ogni genere di peccato. Non solo ai peccati della sensualità e della passione carnale, ma anche ai peccati contro la fede: stre­goneria, magia, superstizione, idolatria; soprattutto ai peccati contro la carità, peccati che ci dividono dai nostri fratelli: invi­dia, inimicizia, gelosie, dissensi, fazioni, divisioni, odio e perfi­no omicidio (cf. Gal 5,19-21). Le opere della carne maggior­mente sottolineate da Paolo sono quelle che dividono il corpo di Cristo in fazioni: “Dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana?” (1Cor 3,3). Così anche Giacomo: “Se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica” (Gc 3,14-15).

    I farisei erano asceti, eppure le loro erano “opere morte”: essi vivevano “nella carne” ed erano nemici della croce di Cristo. L’azione dello Spirito santo nella nostra vita produce gioia e pace, ci unisce ai nostri fratelli, e, per poter far questo, lo Spiri­to ci insegna l’obbedienza e l’umiltà. Ciò spiega la grande im­portanza di queste fondamentali virtù nella regola di Benedetto. Nello studio e nell’osservanza della regola dobbiamo prendere coscienza che la funzione di queste virtù non è tanto quella di acquistare meriti per le nostre anime ed esercitarci nell’autodi­sciplina, quanto piuttosto di unirci a Cristo nel suo corpo, la chie­sa. Sono virtù senza le quali non possiamo cominciare a osserva­re il suo comandamento di “dimorare in lui”.

    L’ascesi benedettina, fatta di silenzio, solitudine, umiltà, la­voro manuale, preghiera liturgica, è tutta tesa a unirci al Cristo mistico e agli altri nella carità, e il suo scopo è condurre le no­stre anime a essere totalmente guidate dallo Spirito santo. La via benedettina dell’umiltà nella vita comune è precisamente la via migliore per aiutarci a “camminare nello Spirito”. Lo stesso Be­nedetto lo afferma (cf. RB 7,67-70). Se seguiamo il nostro legislatore monastico, gusteremo il frut­to dello Spirito che è “carità, gioia, pace, pazienza, benevolen­za, bontà, fede, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

    Nella sua regola Benedetto mostra chiaramente che tutto lo scopo della vita benedettina è formare Cristo in noi, permettere allo Spirito di Cristo di compiere, nelle nostre esistenze, azioni degne di Cristo. Noi imitiamo la sua obbedienza e la sua umiltà quando, come lui, possiamo dire in verità: “Sono venuto non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha manda­to” (Gv 6,38; cf. RB 7,31-33, secondo gradino dell’umiltà). Riviviamo la sua passione quando, come lui, ci facciamo “obbe­dienti fino alla morte” (Fil 2,8; cf. RB 7,34, terzo gradino dell’umiltà), quando sopportiamo ogni cosa con pazienza e perseve­ranza per amor suo (cf. RB 7,35-43, quarto gradino dell’umiltà) e quando, come il nostro divin Salvatore, siamo ridotti a nulla, “un verme e non un uomo” (Sal 22,7; cf. RB 7,51-54, settimo gradino dell’umiltà). Dopo aver asceso tutti i gradini dell’umil­tà, il nostro cuore sarà svuotato del proprio io, e Dio stesso pro­durrà la somiglianza di Cristo in noi per azione del suo Spirito, che porta gioia e consolazione in ogni aspetto della vita monasti­ca: è la delectatio virtutum che “il Signore si degnerà di mostra­re, con l’azione dello Spirito santo, nel suo servo ormai purifica­to dai vizi e dai peccati” (RB 7,70).

    Posted by attilio @ 18:18

Leave a Comment

Please note: Comment moderation is enabled and may delay your comment. There is no need to resubmit your comment.