• 18 Feb

    di p. Attilio Fabris 

     TRACCE DI STORIA

    Con la scoperta a fine ‘800 del mondo sino allora sconosciuto e inesplorato dell’inconscio della psiche umana si aprirono orizzonti nuovi di lettura ed interpretazione dell’uomo. Sembrò, alla luce delle teorie psicanalitiche, di poter finalmente far luce e chiarezza in quelle dimensioni che sino allora erano state per lo più riservate alla competenza della sfera religiosa.
    Si andava incontro a due equivoci fondamentali.

    Il primo equivoco stava nella confusione e identificazione della dimensione psichica con quella spirituale: parlare di anima equivaleva a parlare di psiche.  La conseguenza fu che lo psicanalista veniva a soppiantare il confessore o  “direttore spirituale” in quanto la cura dell’anima coincideva con la cura della psiche. Così il fenomeno religioso insito nella natura umana veniva totalmente e sbrigativamente ricondotto e ridotto a semplici dinamismi, tensioni e pulsioni umane.
    Orgogliosa di questa autonomia la psicologia si staccò nettamente e si contrappose nettamente ad ogni interferenza con la religione arrivando a infelici e reciproci rifiuti e condanne. Dopo questa prima fase si passò nei primi decenni del secolo scorso ad una sorta di compromesso basato per lo più su un reciproco disinteresse, una sorta di separati in casa.
    La religione a sua volta accusava la psicologia di operare un indebito riduttivismo, di inalberare lo stendardo della “psicologia senz’anima”.

    Il secondo equivoco stava nel fatto che da entrambe le parti si cadeva nel trabocchetto che conduceva al vicolo cieco e insolubile di un’inevitabile dualismo di stampo cartesiano.
    Da un lato – quello della psicologia – si voleva prendere in considerazione e ipotizzare un uomo chiuso in se stesso e tutto determinato dai suoi bisogni (e in questo caso non aveva senso parlare di un’insita apertura dell’uomo al Trascendente).
    Dall’altro lato – quello della religione – si cadeva in una rivendicazione, dettata per lo più dalla paura della critica distruttiva, di una vita spirituale estrinseca da tutti i fattori e dinamismi umani e psichici.Ovvio che tale dualismo costringeva come inevitabile conseguenza ad impossibilità di incontro e di dialogo.
    Ultimamente il panorama della ricerca psicologica (pensiamo alla logoterapia di V. Frankl, alla nascita di psicologie umanistico-esistenziali) e nello stesso tempo un cambiamento dell’orizzonte culturale dettato dalla crisi delle scienze umane sta lentamente portando sia il mondo degli psicologi come quello dei teologi e degli operatori pastorali ad un incontro e dialogo del tutto nuovi, sino a giungere in taluni casi ad una vera e propria collaborazione.
    La vera psicologia sta prendendo sempre più coscienza della sua impossibilità di offrire quelle risposte ultime e di senso che solo un discorso spirituale può affrontare: essa molto spesso giunge (o aiuta a giungere) ad un confine che non le appartiene più.
    La religione prende sempre più atto che nel fatto religioso intervengono necessariamente dinamismi psichici che possono sostenere o talvolta ostacolare una matura esperienza religiosa.

    Oltrepassata la contrapposizione o sovrapposizione indebita si inizia ad accettare da ambo le parti che l’uomo non può essere “ridotto” a puri bisogni e dinamismi biologici e psichici, e dall’altro che la vita spirituale agisce necessariamente nell’umano (gratia supponit naturam) e in quanto tale si incarna nello psichismo dell’uomo, ovvero proprio nei suoi bisogni e nelle sue dinamiche interiori.
    Non ha più senso perciò voler separare questi vari elementi quasi che l’uomo fosse una sorta di giustapposizioni di vari strati. L’uomo è un tutt’uno! (sarebbe da rivalutare in tal senso tutta l’antropologia biblica) e in quanto tale il fattore psichico e quello spirituale vanno intesi come “bipolarità”, nella quale i due poli non sono contrapposti, ma interagiscono dando vita ad una tensione in cui entrambi i fattori costituiscono un unico vissuto. Ed è ovviamente auspicabile che entrambi funzionino al meglio possibile!
    Si comprende allora che non si tratta più con supponenza da ambo le parti di voler ricondurre tutto allo psicologico o allo spirituale come se l’uomo fosse tutto angelo o tutto bestia. Il dualismo cartesiano, almeno in teoria, sembrerebbe e dovrebbe essere ormai decisamente superato. Dunque se si agisce con verità, correttezza e autentica professionalità il dialogo e la collaborazione sono di fatto possibili, anzi auspicabili se da entrambi le parti si riconoscono e accettano le reciproche competenze senza indebite invasioni di campo. 

    INTERAZIONE NECESSARIA 

    Si tratta ora di abbozzare alcune idee circa le linee concrete di dialogo e collaborazione tra i due campi di competenza.
    uesto dialogo e collaborazione tra i diversi operatori divengono in qualche modo necessari quando una persona domanda di essere accompagnata psicologicamente o spiritualmente, ovvero fa ricorso all’operatore psicologico o pastorale.
    Mi soffermo ovviamente su quest’ultima relazione. Un tempo essa si identificava con l’incontro col confessore o col cosiddetto “direttore spirituale”.  Oggi in verità si preferiscono altre denominazioni per indicare quest’ultimo ruolo, volendo togliere l’impressione di una sorta di indebita – e  rischiosa – “direttività” a cui forse un tempo si faceva fin troppo ricorso. Oggi si preferisce parlare perciò di di “accompagnatore spirituale”, “consigliere spirituale” o “guida spirituale”.
    Quali i punti di incontro e di competenza tra lo psicologo e la “guida spirituale”?
    Si tenga anzitutto presente che sia lo psicologo che la guida spirituale usano il medesimo strumento della parola e della relazione. Da qui la possibilità della confusione o di indebite interferenze. Ma pur usando il medesimo strumento i due ruoli e servizi possiedono caratteristiche molto diverse.
    La diversificazioni stanno:
    – nell’obiettivo che ci si prefigge, (per la psicologia è aiutare la persona a funzionare correttamente a livello psichico nel rapporto con sé, con gli altri. Per la religione sta nel favorire la persona ad aprirsi all’esperienza del trascendente e alla ricerca di senso nella propria vita)
    – sul tipo di rapporto tra i due interlocutori,(per la psicologia esso si struttura su una dinamica tra medico e cliente che retribuisce il servizio richiesto, per la religione esso si costruisce su una dinamica di tipo fraterno e gratuito)
    – nelle disposizioni interiori che li animano, (per la psicologia la disposizione è professionale medica per la religione cristiana essa è pastorale spirituale)
    – nell’ambito in cui il discorso si muove, (per la psicologia l’ambito è quello dell’esplorazione e guarigione del mondo immanente psichico; per la psicologia cristiana l’ambito è spirituale ovvero il vissuto interiore spirituale. E in tal senso l’incontro si struttura in una relazione non a due come con lo psicologo ma a tre in quanto sia la persona che richiede aiuto, sia l’operatore hanno come riferimento il Trascendente)
    – nel luogo stesso in cui si svolge l’incontro (per la psicologia l’ambito è quello clinico-ospedaliero-ambulatoriale per la religione cristiana l’ambito è generalmente quello ecclesiale).
    Tener sempre presente da ambo le parti queste diversificazioni è importante per non ingenerare deleterie confusioni che alla fine vanno a discapito della persona e del servizio da lei richiesto.
    Certamente quando la guida spirituale intraprende il suo servizio pastorale di ascolto e accompagnamento spirituale necessariamente entra – come si è sopra ricordato – anche nell’ambito dello psichico, non ne può rimanere fuori. In tal senso la sua azione ha sempre indirettamente un risvolto curativo sulla psiche umana se ben condotto. La stessa cosa dotrebbe avvenire anche in sano accompagnamento psicologico.
    La guida spirituale che accompagna la persona all’incontro con il Trascendente e a strutturare la vita tenendone conto non può ignorare tutte quelle componenti umane che interferiscono, facilitano od ostacolano questo obiettivo. Emergono in tal modo aspetti conflittuali o addirittura nevrotici nel qual caso si necessita – se gravi – la collaborazione e il supporto in ambito competente psicoterapeutico o psichiatrico.
    Non mancano poi casi (e sono la maggior parte!)  in cui si domanda alla guida spirituale la soluzione di problematiche che non sono di sua competenza: sofferenze psichiche e talvolta psichiatriche sono spesso comunicate al confessore o al sacerdote. Tali persone caricano spesso di significato religioso problemi e sofferenze che sono di tutt’altra natura ovvero legate al loro vissuto psicologico malato. Ovvio allora che l’operatore pastorale attento, trovandosi di fronte a tali situazioni, aiuti queste persone a rivolgersi alla competenza dello psicologo o dello psichiatra. In questi casi da parte dell’operatore pastorale non solo è saggio ricorrere alla psichiatria e/o psicoterapia, ma addirittura doveroso (il che purtroppo – occorre riconoscerlo non accade – provocando talvolta danni notevoli!).
    D’altro lato però accade, e forse più di quanto si vorrebbe ammettere, che delle persone facciano ricorso allo psicologo o allo psichiatra per problematiche che se ascoltate attentamente oltrepassano la sofferenza psichica, andando molto più in profondità e domandando risposte che le scienze umane non sono in grado di offrire: ricerca di senso, esperienza di vuoto, insoddisfazione… forse rappresentano sofferenze più spirituali che psichiche (se è vero come affermava Jung che “dopo i quarantenni ogni disagio psichico è in realtà un disagio spirituale”!). E come possono la psicologia e la psichiatria  offrire autentiche soluzioni e risposte a tali disagi che in realtà sono domande di natura essenzialmente spirituale?
    Non sarebbe allora altrettanto doveroso da parte dello psicologo-psichiatra demandare alla competenza del religioso l’aiuto su questo versante?
    In molti casi un auspicabile lavoro di èquipe faciliterebbe in tal senso sia gli operatori psichiatrici come quelli pastorali andando a beneficio della totalità della persona stessa alla quale i loro servizi sono diretti. Si tratterebbe in tal senso di ricercare una interdisciplinarietà capace di co-agire in vista della crescita ed equilibrio della totalità della persona e non solamente di un polo!.
    Questa interazione a mio parere è purtroppo ancora carente e vista in modo sospettoso. Occorrerà camminare e sperimentare molto in tale direzione anche se non mancano giù ora tentativi coraggiosi.
    Ci auguriamo in un futuro non troppo lontano che, pur attraverso una chiara e indispensabile distinzione di piani, si possa cooperare in sinergia al fine di aiutare l’uomo di oggi a recuperare tutte quelle necessarie dimensioni che atrofizzate portano solo a squilibri e dunque a sofferenza

    LA  CONDIZIONE. UN‘ANTROPOLOGIA CONDIVISA 

    Vi è comunque una condizione previa e fondamentale sulla quale non si può assolutamente sorvolare perché si possa attuare questa sinergia in modo positivo: è necessaria la condivisione sempre da ambo le parti di una fondamentale visione antropologica.
    Questo concretamente comporta da un lato che il medico riconosca l’apertura alla trascendenza come costitutivo alla pienezza dell’essere umano e dall’altro che l’operatore pastorale riconosca la validità e talvolta la necessità di un intervento previo o concomitante specificatamente medico nel suo intervento spirituale riconoscendo che esso si incarna anche nella psiche del paziente.
    Dove mancasse questa reciproca stima e riconoscimento si darebbe adito da entrambi le parti solo a doppi messaggi talvolta contraddittori che andrebbero a discapito, a volte in forma grave, della persona sofferente.
    Concludendo occorre poi accennare come non è più possibile parlare, in una cultura ormai variegata, di apertura al religioso in senso generico.
    Oggi il rischio della psicologia è di guardare alla religione in senso per lo più “funzionale” (Allport-Vergote), ovvero in un suo utilizzo pseudo-religioso di stampo new o nest-age.  Occorrerà perciò tenere presente che la proposta religiosa cristiana si caratterizza per una sua antropologia ben specifica che la differenzia nettamente da altre proposte religiose. Lo psicologo che desidera operare in rapporto al fattore religioso non può tralasciare quest’aspetto nei confronti della persona che domanda il suo aiuto.
    Ma qui il discorso si amplia ulteriormente aprendosi su un orizzonte di riflessione molto vasto forse ancora tutto da esplorare.

     Bibliografia

     S. Fromm-Reichmann F.: Principi di Psicoterapia, Feltrinelli, Milano  1976
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    Nathan T-Stengers, Magia, ed Boringhieri, Torino
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    Posted by attilio @ 09:02

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