• 20 Nov

    La problematica dell’ascolto nella s. Scrittura

     a cura di p. Attilio Franco Fabris su appunti di p.Virgino S. sj

    L’esperienza di fede di tipo biblico si impernia sulla Parola. Una Parola incarnata che è mediata dagli uomini.

    Riconosciamo in quest’esperienza religiosa il primato che viene dato alla PAROLA.

    Ma parlare di primato della Parola comporta il parlare del primato dell’ASCOLTO.

    Sempre l’incontro con la Parola diviene esperienza di ascolto. Ma un ascolto che non è anzitutto interiore, spirituale (troppo si è dato adito a tale interpretazione!), ma un ascolto che è “acustico”, che interessa anzitutto l’organo fisico dell’udito.

    Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto. Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. (Dt 6,3-4). Il testo riassume l’atteggiamento di Israele nei confronti di Dio nell’unica raccomandazione: “Ascolta… Schemà’ Isra’el”.

    Perché devo ascoltare la Parola?

    Perché l’uomo non vive di solo pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Perché per vivere l’uomo ha bisogno della Parola come del pane: “Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,3; cfr Pr 9,1-5; Sir 24,18-20; 51, 23-24; Am 8,11-12; Gv 6,68).

    La tradizione biblica afferma che l’attività essenziale del Dio di Israele è quella di parlare: Dio disse… (cfr. Gn 1,3…).

    Cosa significa che Dio “parla”?

    Un Dio che vuole parlare dovrebbe scandalizzarci, meravigliarci. Perché la potenza di Dio desidera manifestarsi attraverso la sua parola?

    Per intanto sottolineiamo che: se l’attività principale del Dio biblico è quella di “parlare” allora l’attività essenziale dell’uomo, sua creatura, è quella di “ascoltare”. Se no allora per chi e a chi Dio parlerebbe?

    Facciamo attenzione alla valenza del verbo ascoltare che in senso biblico va inteso in senso allargato: dialogare, collaborare, entrare in comunione di vita. E’ la valenza del verbo “Schemà”: sentire, prestare orecchio, accogliere, acconsentire, essere docile, lasciarsi persuadere, mettere in pratica, obbedire. La stessa parola obbedienza deriva dal latino ob-audire: dall’ascolto alla persuasione, dalla persuasione alla docilità, dalla docilità all’obbedienza.

    Per l’uomo l’essere fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio (Gn 1,26 ss) comporta il riferimento alla parola: l’uomo è tale in quanto abilitato da Dio al parlare e all’ascoltare. E’ la Parola che abilita alla parola l’uomo stesso, rendendo capace di “inter-loquire/dialogare” con il Creatore. Questa capacità di interloquire con Dio colloca l’uomo nel mondo in una situazione del tutto privilegiata e singolare in rapporto a tutto il resto della creazione (cfr. Gn 1,26-28; 2,8.15.19-20).

    Quando la tradizione biblica ribadisce incessantemente il fatto che Dio “parla” cosa vuol significare? Si vuole affermare che Dio desidera essere comunione, comunicazione, interazione. Dio crea perché vuole costituirsi interlocutori, partners, amici realizzando con loro un’esistenza di comunicazione, collaborazione, condivisione, comunione.

    Tutto questo suppone da parte dell’uomo la capacità di ascoltare la Parola che Dio sempre per sua iniziativa gli rivolge, di risponderle.

    Davar: parola/fatto

    Alla ricchezza semantica del verbo “shamà” corrisponde l’altrettanta ricchezza del termine “davar”: parola” e “dibber”: dire.

    Davar però non significa solo “parola” bensì anche “fatto, accadimento, evento”.

    Se “davar” oltre che parola significa “fatto”, essa può essere oltre “fatto” anche “parola”. 

    Noi occidentali facciamo fatica a cogliere il nesso tra queste due valenza.

    Noi tenderemmo istintivamente a privilegiare l’accezione di “davar” come “parola”: nella cultura biblica questo è impossibile: tra i due significati ci è un’inscindibile interazione (cfr. Dei Verbum, 2ss).

    Per capire meglio bisogna partire dal fatto che le culture antiche riconoscevano il valore dell’uomo a partire dal valore della sua parola. L’uomo – per esse- è la sua parola, si misura sulla sua parola.

    Per analogia: l’unica parola che ha veramente il massimo valore è quella di Dio, in quanto infallibile e vera: fa quel che dice e dice quel che fa.

    In Israele l’uomo vero non è il chiacchierone e neppure uno che tace. E’ piuttosto uno che ascolta e pensa molto, e che quando parla pesa, pondera le sue parole. Quando parla sa quel che dice, manifesta senza paura la verità del suo cuore, e si assume la responsabilità delle sue parole. Ciò che dice è e ciò che dice fa. (cfr. Sir 21,25-26; 27,5-6… Mt 5,37).

    Questo substrato antropologico ha fatto sì che Israele si sia trovato un giorno a fare i conti con la serietà della “Parola” di Dio mediata dall’incontro con i mediatori di cui Dio stesso si è servito. Una parola che si presenta sovrana della storia, in grado immancabilmente di fare quel che dice. Questo incontro ha fatto sì che si applicasse a Dio l’antropomorfismo del suo “parlare” all’uomo. Dio di per sé non “parla”, ma gli uomini sì.

    Dunque la riflessione teologica di Israele sull’operatività della Parola suppone l’esperienza dell’incontro con questa stessa parola nella storia mediata dai servi della Parola.

    Ma l’incontro con la Parola per l’uomo diviene scontro in quanto è inevitabile che la Parola debba fare i conti con la diffidenza e la sfiducia da parte dell’ascoltatore.

    Teniamo presente che il punto di arrivo dell’ascolto non si risolve infatti in qualche azione isolata e puntuale, ma piuttosto richiede un atteggiamento permanente, un modo diverso di stare al mondo, che può essere riassunto con l’espressione: “Cammina davanti a Dio, con lui, sulla sua Parola” (cfr. Gn 17,1; Mi 6,8).

    Il servizio della Parola

    Parlare di primato della Parola significa “dire la Parola” e dunque del “servizio della Parola”. Infatti non c’è Parola se non c’è parola (cfr. Rm 10,14).

    Il Dio della rivelazione biblica parla agli uomini servendosi della mediazione di altri uomini.

    A questo punto possiamo già ricavare due coordinate fondamentali dell’esperienza religiosa di tipo biblico e che scaturiscono proprio dal primato della parola:

    1. la centralità del servizio della Parola
    2. la centralità dell’ascolto.

    Quando si parla di “servizio della Parola” occorre parlare di una molteplicità di servizi.

    Infatti questo servizio abbraccia una grande varietà di forme che vanno dalla più semplice ed elementare divinazione (es. il consulto degli “urim”) a quella più raffinata che è la “profezia”.

    L’A.T. presenta almeno sei tipi diversi di servizi e relativi mediatori:

    –         l’angelo del Signore o di Dio

    –         il sacerdote

    –         il veggente (ro’eh)

    –         il visionario (horeh)

    –         l’uomo di Dio

    –         il profeta (navì)

    Quest’ultimo è il termine più usato (più di trecento volte) ma è alquanto generico. Navì è “colui che parla davanti” ovvero che ha il coraggio di dire in faccia le cose come stanno (cfr. 1Re 22; 2Re 5); ed è “colui che parla in vece e in nome di un altro”. Tali valenze comportano un raggio alquanto allargato di tale servizio alla Parola.

    La pedagogia della Parola

    L’intento fondamentale della Parola, a cui spetta sempre l’iniziativa, è quello di porsi al servizio dell’uomo proponendogli un rapporto di comunione e collaborazione (è il tema fondamentale dell’Alleanza).

    Ma nel perseguire questo intento la Parola incontra grandi ostacoli: anzitutto la paura e la diffidenza dell’uomo nei riguardi di Dio; vi si aggiungono inoltre l’incredulità, lo scetticismo, il sospetto. Il tutto in qualche modo “avvalato” “giustamente” dalla kenosi con cui la Parola generalmente si manifesta.

    Cosa ne segue?

    Che la Parola non può fare breccia nel cuore dell’uomo se non conquistando anzitutto la sua fiducia.

    Come raggiunge questo obiettivo?

    Mettendo anzitutto in conto queste resistenze e sviluppando al fine di superarle una sua pedagogia che prevede un suo accostarsi all’uomo non in modo casuale, irruente, improvviso, violento ma al contrario in modo graduale, progressivo, ovvero proporzionato alla capacità e alla disponibilità all’ascolto dell’uomo stesso.

    Potremmo enucleare in sei tappe tale pedagogia adottata dalla Parola

    1. l’iniziativa della Parola. E’ lei che cerca l’uomo rassicurandolo: “Non temere!”
    2. Offerta della solidarietà di Dio al fine di realizzare la vita dell’uomo.
    3. Dialogo con l’incredulità dell’uomo, persuasione circa l’affidabilità della proposta.
    4. Indicazione di una via e dei mezzi al fine di verificare tale affidabilità.
    5. Se l’uomo accetta: offerta della propria guida e accompagnamento: “Io sarò con te”
    6. Compiuta la verifica nuovo invito alla collaborazione in funzione della sua vita per una realizzazione ancora più ampia.

    Tale pedagogia la possiamo chiamare: pedagogia della promessa.

    Infatti quando la Parola si presenta all’uomo gli si fa incontro come una promessa per la sua vita.

    Si tratta di una promessa unilaterale, gratuita, incondizionata, attraverso la quale Dio offre all’uomo di porsi al servizio della sua vita. Dio in cambio non chiede nulla, non pretende di insegnare nulla (non fa la predica!), né lo esorta ad alcunché. Domanda solo fiducia.

    Non è questa già una buona notizia?

    L’ebraico non conosce il termine “promessa”. In tutti i testi questa valenza è sempre resa con la parola “davar”.

    Infatti, come abbiamo visto, la pregnanza di davar “parola-fatto riportata a Dio indica una davar che immancabilmente produce, effettua quel che dice, ovvero costituisce già attuale il futuro che annuncia. Tale pregnanza esime dalla ricerca di un vocabolo specifico per “promessa”.

    Affermare che la parola si presenta all’uomo come promessa comporta un’importante conseguenza:

    l’uomo non può dare fiducia alla parola fintanto che non ne sperimenta, almeno in parte, l’affidabilità ovvero l’adempimento.

    La Scrittura testimonia che il più delle volte l’uomo non giunge a dare fiducia alla parola, al profeta, a Dio se non dopo averlo messo alla prova secondo le indicazioni della Parola stessa, verificandone così l’autenticità e l’attendibilità.

    Ovvero l’uomo biblico non giunge alla fede, se non sperimenta il già ( è la promessa innesco/caparra). Il che non esclude, anzi è in vista, del non ancora, ovvero un successivo rilancio per un’ulteriore promessa ancor più vasta (la promessa maggiore).

    La pedagogia della parola nell’AT mira a condurre l’uomo ad una fiducia assoluta nella promessa, tale da far un giorno a meno della rassicurazione dell’adempimento parziale storico (cfr. il sacrificio di Isacco Gn 22).

    La fiducia pura nella promessa è il modello della speranza biblica. Paolo la chiamerà: “speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).

    Il Kerigma

    Che nome daremo a tale servizio della Parola? Un servizio che asseconda la pedagogia della Parola stessa al servizio dell’uomo?

    Tale servizio nella tradizione biblica si chiama: Kerygma.

    Tale servizio si presenta perciò come il fondamento per ogni ulteriore servizio della Parola: ovvero come fondamento della catechesi e della parenesi.

    Concludendo

    Al termine di queste nostre riflessioni possiamo così giungere a specificare alcune coordinate essenziale su cui si struttura l’esperienza biblica e il servizio della Parola che ad essa fa riferimento:

    1. 1.      la centralità del servizio della Parola
    2. 2.      la centralità dell’ascolto
    3. 3.      la centralità della promessa
    4. 4.      la centralità dell’adempimento (anche parziale)
    5. 5.      la centralità del kerygma come servizio della Parola/promessa
    6. 6.      la dipendenza delle altre forme di servizio alla parola del Kerygma.

    Posted by attilio @ 13:39

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