• 08 Giu

    MATURAZIONE UMANA e VITA RELIGIOSA

     

    La favola delle tre lingue

    La favola delle tre lingue è una bella immagine della maturità umana. Vorrei riportarla qui perché nella figura del papa, cioè il Santo Padre, è sintetizzata la maturità umana e spirituale.

    C”era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un solo figlio; questo figlio era anche sciocco e non riusciva a imparare niente. Allora suo padre gli disse: «Ascolta, figlio mio: qualsiasi cosa io faccia, da qualunque parte io cominci, non riesco a ficcare nien te nella tua zucca. Tu devi andartene da qui: io ti affiderò a un maestro famoso e ci proverà lui».

    Il giovane fu mandato in una città straniera e rimase presso il maestro un anno intero. Trascorso que­ sto periodo, tornò di nuovo a casa e il padre gli disse: «Allora, figlio mio, che cosa hai imparato?». «Padre, ho appreso l”abbaiare dei cani». «Santo cielo! », sbottò il padre, «è tutto qui quello che hai imparato? Allora ti mando in un”altra città da un altro maestro».

    Il ragazzo fu condotto altrove e anche presso questo maestro rimase un anno. Quando tornò, il padre gli chiese di nuovo: «Figlio mio, che cosa hai imparato?». Ed egli rispose: «Padre, ho imparato il lin­ guaggio degli uccelli». Allora il padre si arrabbiò e disse: «Sei un buono a nulla, hai passato del tempo prezioso senza imparare niente; non ti vergogni di comparire davanti a me? Ti manderò da un terzo mae­ stro ma, se non imparerai niente nemmeno questa volta, ti disconoscerò».

    Il figlio rimase un anno anche presso il terzo maestro e quando ritornò a casa e il padre gli chiese: «Fi­ glio mio, che cosa hai imparato?», il figlio rispose: «Caro papà, quest” anno ho appreso il gracidare delle rane». Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò attorno a sé la sua corte e disse: «Questo ragazzo non è più mio figlio, io lo ripudio e vi ordino di portarlo fuori nel bosco e di togliergli la vita». I suoi sudditi lo condussero fuori ma, nel momento in cui avrebbero dovuto ucciderlo, si mossero a compassione e lo lasciarono andare. Cavarono gli occhi e tagliarono la lingua a un capriolo per portar li al vecchio a testimonianza dell” esecuzione dell” ordine.

    Il giovane continuò a vagare e dopo qualche tempo giunse in un castello dove chiese di essere alloggiato per la notte. «Sì», disse il castellano, «se vuoi pernottare laggiù, nella vecchia torre, va” pure. Però ti avverto: c”è il pericolo di lasciarci la pelle perché è pieno di cani randagi che continuano a latrare e ulu­ lare tutti insieme e a una cert’ora devono poter disporre di un essere umano che azzannano subito». Per questo motivo tutta la zona era nel dolore e nel lutto, ma nessuno riusciva a risolvere la situazione. Però il giovane non ebbe paura e disse: «Lasciatemi andare giù dai cani e datemi soltanto qualcosa da poter gettare loro; a me non faranno niente». Poiché non voleva nient’ altro, gli diedero del cibo per quegli ani­ mali selvatici e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani non gli abbaiarono contro, gli si fecero attorno muovendo le loro code in segno di benvenuto, mangiarono ciò che egli pose loro davanti e non gli torsero neanche un capello.

    Il mattino successivo, con grande stupore di tutti, egli riapparse sano e salvo davanti al castellano e disse: «I cani mi hanno spiegato nella loro lingua perché hanno preso dimora lì e fanno danni nel territorio. Sono vittime di un incantesimo; devono custodire un grande tesoro che sta giù nella torre e non avranno pace finché questo non verrà tolto da lì; dai loro discorsi sono anche riuscito a capire come ciò potrà avvenire». Allora tutti quelli che stavano ascoltando si rallegrarono e il castellano disse che lo avrebbe adottato come figlio se avesse portato felicemente a termine l”impresa. Egli scese di nuovo e, poiché sapeva che cosa doveva fare, agì conseguentemente e portò su un forziere ricolmo d”oro. A partire da quel momento nessuno sentì più il latrato dei cani randagi; erano spariti e tutta la regione era stata liberata dalla piaga.

    Qualche tempo dopo gli venne in mente di andare a Roma. Cammin facendo, passò davanti a uno stagno sulle cui rive c”erano delle rane gracidanti. Egli ascoltò e, comprendendo ciò che dicevano, divenne pensieroso e triste. Finalmente arrivò a Roma proprio nel momento in cui era da poco morto il papa; i cardinali erano molto dubbiosi in merito al successore da designare. Alla fine si misero d”accordo che avrebbero scelto come papa colui che fosse stato oggetto di un segno prodigioso di Dio. Proprio nel momento in cui avevano preso questa decisione, entrò in chiesa il giovane conte e improvvisamente due colombe bianche come la neve, volando, andarono a posarsi sulle sue spalle. Gli ecclesiastici riconobbero in questo il segno divino invocato e, seduta stante, gli chiesero se accettava di diventare papa. Egli era indeciso e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe gli dissero che avrebbe potuto farlo per cui alla fine rispose: «Sì». A quel punto lo unsero, lo consacrarono e così si era avverato ciò che aveva sentito durante il viaggio dalle rane e che lo aveva tanto costernato, cioè che sarebbe diventato il Santo Padre. Dopo di ciò dovette cantare messa e, sebbene non sapesse nemmeno una parola, le colombe che continuavano a rimanere sulle sue spalle gli suggerirono tutto all” orecchio.

    Sì, la favola ci fa anche capire che cosa comporta il cammino di maturazione per gli uomini e le donne consacrate. Anzitutto devono liberarsi dalle aspettative del padre. Il figlio del conte non apprende ciò che vorrebbe il padre, ma quello che gli è congeniale. Si reca da tre maestri diversi, scelti dal padre, che però evidentemente non gli insegnano ciò che secondo questi è fondamentale. Maestri stranieri in città straniere lo iniziano al mistero della vita. Il figlio deve staccarsi completamente dal padre e questo processo è come un itinerario di morte e di rinascita per il figlio. Poiché viene cacciato via con violenza dal padre, si mette in cammino e percorre la propria strada nella vita.

    La prima condizione per maturare umanamente nella vita consacrata è l”uscire da casa. Da questo punto di vista, è certo che gli ordini religiosi hanno finora aiutato molti a liberarsi dalle aspettative dei ge­ nitori. Si pone comunque l”interrogativo se non abbiano sostituito le aspettative dei genitori con quelle del monastero. In tal caso non si ha processo di maturazione. Oggi ci imbattiamo in un altro problema serio: i giovani e le giovani entrano in un ordine religioso prima di avere completato il distacco dalla fa­ miglia. Quando poi, attraverso la vita religiosa, si liberano dai legami parentali e trovano se stessi, la­ sciano la comunità e seguono la loro strada.

    Analogamente, gli ordini religiosi dovrebbero essere all”altezza del compito svolto dai tre maestri che hanno insegnato al giovane conte il linguaggio dei cani, delle rane e degli uccelli. A questo dovrebbero servire i “maestri” e le “maestre” esistenti negli ordini religiosi: guidare i novizi a scoprire nel proprio cuore il linguaggio di Dio. In altre parole: invece di porre attenzione alle nuove aspettative della comunità religiosa o a quelle familiari dei genitori, si tratterebbe di saper percepire Dio nella propria interiorità, di scoprire in sé il “maestro interiore” che guida al proprio centro personale e libera dalla consuetudine a cercare soltanto maestri esterni a sé. Così gli ordini religiosi adempirebbero la funzione svolta da quei tre maestri nelle città straniere, che hanno reso capace il giovane di percepire la volontà di Dio in quelle tre lingue e conseguentemente di seguirla fino al raggiungimento della piena maturità umana e spirituale (la figura del papa). Il cammino percorso nella vita religiosa potrebbe allora condurre la singola persona a quella forma che Dio le ha riservato, alla sua im magine unica e insostituibile di Dio. Ma – sia nella favola, sia nella vita religiosa – questo itinerario non è indolore. Il dolore della separazione è paragonabile alla morte della vecchia identità per trovare quella nuova identità che ci spetta per volontà di Dio.

    Qual è il nesso con il linguaggio delle tre specie di animali citati nella favola? Il latrato dei cani designa il linguaggio delle passioni, la voce dei problemi, delle malattie, dei conflitti, delle situazioni insolute. Il gracidio delle rane simbolizza la voce dell”inconscio, il messaggio dei sogni. E il linguaggio degli uccelli indica la conoscenza, la sapienza dello Spirito. Ma, evidentemente, non si può apprendere questo linguaggio dello Spirito se non si conoscono gli altri due.

    Il latrato dei cani conduce il giovane a scoprire il tesoro, il suo vero Sé, l”immagine che Dio aveva ab­ bozzato per lui ma che rimaneva sepolta sotto l”im magine puramente mondana e le aspettative conven­ zionali del padre. I cani che abbaiano furiosamente diventano per il giovane delle guide generose che non tacciono e non si tranquillizzano finché lui non ha ca pito quale tesoro esse nascondano. La loro voce è tanto forte proprio perché fino a quel momento la sua esistenza aveva soltanto sfiorato la sua vera natura. E proprio nel luogo nel quale essi latrano – giù in fondo, nella torre dell”inconscio (ancora) oscuro – giace sepolto il tesoro del suo vero Sé.

    Il gracidio delle rane gli preannuncia ciò che accadrà. Le rane stanno a indicare i presentimenti inte­ riori che a volte s”impadroniscono di noi e simbolizzano i sogni che ci indicano la strada del nostro fu­ turo. Spesso questo linguaggio apparentemente assurdo delle rane sembra non avere nessun rapporto con la nostra vita concreta, ma d”un tratto si verifica ciò che loro ci avevano predetto per mezzo di imma­ gini e di sensazioni.

    E il linguaggio degli uccelli guida il figlio del conte alla meta che non si era scelto da sé ma alla quale, seguendo la loro voce, capisce di essere stato destinato. Le colombe che si posano sulle sue spalle visibilizzano il segno che i cardinali attendevano. Esse spingono il giovane ad accettare un incarico che a lui appariva eccessivo. Il papa non rappresenta qui un concetto gerarchico, ma è immagine dell”accompagnatore spirituale, della persona che è diventata in tutto e per tutto spirituale, tanto da poter fare da guida ad altri. Analogamente, anche la figura del re presente in molte favole non rappresenta un concetto politico ma l”immagine della completezza umana. In quanto tale, la figura del papa può essere un simbolo per il religioso o la religiosa che vivono la loro spiritua lità in modo maturo e possono accompagnare altri nel loro cammino spirituale.

    Il messaggio della favola contiene quindi anche questo: noi diventiamo persone veramente spirituali so­ lamente se prima abbiamo imparato il latrato dei cani e il gracidio delle rane e ci liberiamo di tutte le fi­ gure paterne e dei loro messaggi per incamminarci sulla nostra strada. Qui di seguito vogliamo descrivere i luoghi (oscuri) nei quali attendono i cani latranti per guidarci al tesoro nascosto.

    La relazione con i sentimenti e i bisogni

    Si tratta in primo luogo di relazionarci in modo maturo con i nostri sentimenti e le nostre passioni. Dio ci parla anche attraverso i sentimenti. Non possiamo né svalutarli né ignorarli. Tutto ha un significato. Il problema è soltanto quello di capire quale messaggio ci recano e in quale direzione ci vogliono trasformare. Il fine è sempre la scoperta dell”immagine di Dio che è in noi. Possiamo interpretare le passioni come cani che abbaiano furiosamente perché vogliono condurci al tesoro nascosto nella nostra torre. Proprio lì dove sento latrare dentro di me c”è anche un tesoro. Per maturare in modo globale devo allora cominciare a comprendere la lingua dei cani che latrano.

    Le voci dei miei cani che latrano

    I religiosi, gli spirituali soggiacciono spesso al pericolo di pensare che il linguaggio di Dio si apprende esclusivamente dalla Sacra Scrittura, attraverso la liturgia e la preghiera. Perciò, in linea di massima, non abbiamo molta dimestichezza con il latrato dei cani. Ma Dio mi parla anche per mezzo dei cani che latrano in me. Per loro tramite mi indirizza verso la mia realtà individuale. E io non potrò arrivare a Dio se evito la mia realtà. A questo proposito, gli americani parlano di spiritual bypassing, di “deviazione spi­ rituale”. Con questo intendono dire che qualcuno, con la meditazione o altre pratiche religiose, non affronta la realtà dei propri pensieri e dei propri sentimenti e crede di poter arrivare a Dio evitando di guardare in faccia se stesso. I monaci dei primi secoli continuano a richiamare la nostra attenzione sul fatto che la strada per giungere a Dio ci fa passare attraverso l”incontro sincero con noi stessi. Incontrare Dio non significa assolutamente diventare soltanto un tutt”uno con lui e riposare in lui, ma comprende anche l”essere trasformato da Dio in quanto creatura umana in cammino. Ma Egli può trasformare solamente ciò che io gli porgo.

    Per molti religiosi anziani l”educazione nel noviziato è avvenuta in modo diverso da quella indicata nel primo monachesimo. Qualche decennio fa si era soliti sorvolare sulla realtà dei nostri sentimenti, biso­ gni e passioni. Ciò significava spesso reprimere e ignorare questi aspetti. Ma non si riesce facilmente a spegnere ciò che si reprime; il rimosso continua ad agire nascostamente in noi, perlopiù in modo distruttivo. Se io reprimo le mie sensazioni e i miei bisogni, se non offro loro uno spazio per uscire allo scoperto, premeranno per essere vissuti segretamente, avranno un dinamismo loro proprio – spesso incontrollabile – e arriveranno al punto da dominarmi completamente e irresistibilmente. Se, per esempio, io non ammetto la mia collera e le proibisco di esprimersi, questa troverà le scappatoie per insinuarsi in tutte le mie manifestazioni vitali. Quando tutti i conflitti leali e qualsiasi litigio sono tabù, la conseguenza può essere che in convento regni un”atmosfera di aggressività.

    Il monachesimo primitivo insegna a porsi lealmente di fronte alle proprie passioni e ai propri bisogni, senza giudicarli. Dio può modificare soltanto ciò che noi onestamente ammettiamo e affrontiamo. Si riconoscono i religiosi e le religiose non trasformati dal fatto che non sanno padroneggiare le loro esigenze ma, al contrario, sono da queste dominati, sono particolarmente aggressivi e suscettibili, insoddisfatti di se stessi e di buona parte di ciò che li circonda. Perdono la capacità di scorgere ciò che potrebbero positivamente modificare e trasformare. Non avendo investito fantasia ed energia a questo scopo, restano intrappolati nel circolo vizioso del ruolo della vittima. Poiché utilizzano tutte le energie solo per se stessi, in quanto l”insoddisfazione divora un”infinità di energia vitale, non rimane loro la forza per essere produttivi verso l”esterno.

    Le scappatoie segrete

    Particolarmente critica è, nei conventi, la considerazione delle esigenze. Il nobile ideale di molte comunità è: semplicità. Chi vuole vivere conformemente a questo ideale deve di conseguenza reprimere le proprie esigenze. Dato che anche le religiose e i religiosi più pii sono comunque esseri umani, questo comporta che i bisogni vengano vissuti in segreto o in modo indiretto e che non siano riconoscibili subito in quanto tali. Non vengono ammessi. Nei conventi ci sono cuoche e cuochi che potrebbero raccontarci come tante sorelle e tanti fratelli compensino di nascosto i loro bisogni proprio attraverso la cucina: quante eccezioni vengono richieste, perlopiù dissimulandole con motivi di salute, perché non si avrebbe il coraggio di ammettere apertamente le proprie esigenze. Sotto l”apparenza di uno stile ascetico di vita affiorano dei desideri che difficilmente si potrebbero avvertire in condizioni normali. Questi religiosi considerano il convento come una grande madre provvidente che deve dare tutto. E reagiscono con grande suscettibilità se una richiesta viene respinta.

    Esperienze analoghe vengono fatte da cellerari ed econome, fratelli e sorelle che sborsano il denaro dalla cassa. Anche lì si evidenziano esigenze che non sono affrontate ed espresse apertamente, bensì vissute in segreto sotto l”apparenza di una giustificazione razionale. E quelle persone che lavorano di meno generalmente hanno maggiori esigenze. Necessitano di più denaro di altri per i desideri più disparati. Poiché non sono motivati nel lavoro e non cercano soddisfazione in esso, devono riempire lo spazio vuoto soddisfacendo i loro desideri. Nella vita religiosa non hanno mai avuto a che fare con denaro proprio, pesonalmente guadagnato, non hanno mai avuto la responsabilità o corresponsabilità delle faccende economiche, per cui si comportano al riguardo in maniera infantile. La “grande madre” deve soddisfare ogni desiderio. Oppure: il bisogno di ricevere denaro viene abbastanza spesso vissuto sotto la forma di un costante ricorso al medico. Ma naturalmente non lo si ammette e si nasconde il bisogno dietro la malattia. Maturità nella vita religiosa?

    L’infermità secondo s. Benedetto

    È più matura la considerazione dei bisogni descritta da Benedetto nella sua Regola e similmente rintracciabile anche in Agostino e in altri fondatori di ordini: «Si faccia come è scritto: “Si provveda a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,35). Con questo non intendiamo che si facciano differenze di persone (Rm 2,11) – non sia mai! – ma che si usi riguardo all”infermità: e così chi può fare con meno, ringrazi Dio e non si crucci; chi ha bisogno di più si umilii per l”infermità e non s”inorgoglisca della misericordia: e così tutte le membra saranno in pace. Soprattutto poi non si manifesti per qualunque motivo, in qualunque parola o segno, il male della mormorazione. Che se qualcuno vi sarà colto sia sottoposto a severa punizione» (Gregorio Magno, 177).

    Per Benedetto l”ideale è che ci accontentiamo di poco. Chi riesce a farlo deve esserne riconoscente. Chi invece ha delle necessità, deve comunicarle con grande umiltà. Deve ammettere i propri bisogni e non mai scherarli dietro una pretesa per nascondere il proprio stato di necessità. La consapevolezza dei propri bisogni è segno di maturità. In primo luogo devo ammetterli e poi potrò decidere liberamente se preferisco rinunciare o se intendo concedermi il soddisfacimento di un bisogno. Rinuncia e soddisfacimento sono entrambi importanti. Chi non sa rinunciare non svilupperà mai un io forte e maturo. Chi invece avverte un” esigenza e non si concede mai nulla corre paradossalmente il pericolo di essere dominato dai suoi bisogni repressi e mai soddisfatti. Una persona siffatta perde abbastanza spesso il buon umore, diventa severa e brontolona perché non concede nulla nemmeno agli altri. Benedetto ha in mente questo genere di lavativi quando si esprime così duramente contro il brontolio. Lagnarsi è negare la vita. Si rifiuta di assumersi la responsabilità della propria vita e si addossa agli altri la colpa della propria miseria. I brontoloni e i criticoni sono persone che non riescono a riconciliarsi con la realtà della loro vita terrena, sostengono tristemente degli ideali infelici e affrontano la realtà che non corrisponde alle loro aspettative e illusioni con un atteggiamento di rifiuto e rancore. Il mormorìo corrode l”anima, la indebolisce, la fa ammalare e la priva della gioia di vivere. Il lagnarsi, che evidentemente costituiva un problema nei monasteri già all”epoca di Benedetto, è un segno di immaturità umana. Si deduce con chiarezza che perfino per Benedetto è impossibile costituire una comunità con individui di questo tipo. Perciò egli vuole estirpare alle radici la mala pianta del mormorìo. Solo così può crescere una comunità matura nella quale ciascuno concede qualcosa all”altro e ognuno si rapporta in modo maturo con i propri bisogni.

    A che cosa mi serve la collera?

    La maturità richiede che io faccia i conti con il mio risentimento, la collera, la gelosia, l”aggressività. In taluni conventi soffia un vento particolarmente aggressivo. Basta un”osservazione e subito l”altro si inalbera. Oppure nei dialoghi in refettorio si coglie un” atmosfera di tensione latente e si fanno spesso delle battute a spese di altri. Si avvertono tangibilmente i colpi dell” aggressività repressa, sparati in ogni direzione. Ma l”ideale della vita religiosa non consente un comportamento apertamente aggressivo e allora i propri sentimenti “negativi” non vengono affrontati. Ma ciò che non può venire alla luce cerca e trova sicuramente delle scappatoie.

    L”aggressività latente può essere espressione e segno di frustrazione o di carenza di affetto. Ma può anche essere motivata dal non avere ancora trovato la relazione giusta con la propria aggressività. L”aggressività vuole regolare il rapporto tra vicinanza e distanza. È sempre un campanello di allarme avvertire in me delle spinte aggressive, è un segno che ho bisogno di maggiore vicinanza o maggiore distanza. In talune comunità religiose si vive a contatto troppo stretto. L”ideale comunitario prevede che si faccia tutto e sempre insieme, ma una tale modalità di vita può comportare delle pretese esagerate e produrre un”inutile aggressività. In questo caso, l”irritabilità e l”aggressività rivelano chiaramente l”esigenza di maggiore distanza per poter vivere bene in comunità.

    Se vivo insieme ad altre persone, è naturale che dovrò confrontarmi con il risentimento e l”aggressività. II che può rappresentare certamente una possibilità per conoscermi meglio. Può capitare che mi irriti per aver dato agli altri troppa confidenza, consentendo loro di farsi troppo vicini a me. A quel punto ho bi­ sogno di un maggiore spazio di libertà oppure devo prendere interiormente le distanze – almeno tempo­ raneamente – dai miei confratelli o dalle mie consorelle. In ogni caso si tratta di assumere attivamente e consapevolmente il proprio risentimento. Normalmente l”irritazione ha in sé l” impulso a cambiare qualcosa. Vorrei, per esempio, organizzare meglio in comunità qualcosa di ben preciso. Oppure il risentimento mi dice con chiarezza che dovrei (finalmente) parlare con quel confratello, con il quale mi arrabbio continuamente, per chiarire che cosa non va.

    Spesso il risentimento verso gli altri rivela anche le mie ombre.  Io scopro quello che non voglio ammet­ tere come esistente in me stesso. Questo sentimento può allora diventare un”importante fonte di cono­ scenza di sé e uno stimolo a muovere qualcosa in me o negli altri. Se io non riesco a cambiare me stesso o l”altro, ho comunque ancora la possibilità di correggere almeno il mio punto di vista o il mio atteggiamento. Il risentimento può spingermi per esempio a liberarmi del potere e dell”influenza che l”altro ha su di me. Posso dirmi, per esempio: «Non rendo onore all”altro continuando a pensare a lui. Non è nemmeno così importante per cui io debba occuparmi sempre di lui. È un suo problema se arriva troppo in ritardo. Non può farmi arrabbiare per questo motivo». L”altro ha su di me sempre e soltanto quel potere che io gli riconosco. È dunque solamente mia la responsabilità e mio è il compito di fare in modo che l”irritazione, la collera e l”aggressività diventino una forza propulsiva invece di dominarmi e paralizzarmi. La collera può diventare una fonte di energia del tutto positiva, un utile stimolo a vivere la mia vita, a prenderla in mano e ad assumermi la responsabilità di agire secondo i miei desideri e le mie attitudini.

    Il cammino di maturazione non passa attorno alla mia ira, ma la attraversa. Non si tratta di recidere le passioni, ma di trasformarle in modo che mi siano utili, che diventino una sorgente di forza e di gioia di vivere. Matura non è la persona priva di aggressività, ma quella che non si fa travolgere e che in essa vede un potenziale di energie positive, un terreno di coltura per il suo progetto di vita. I monaci dei primi secoli dicono che la forza della collera deve servire per difendersi dalle tentazioni istintuali, cioè dallo sti­ molo a mangiare continuamente, dalle fantasie sessuali o dalla voglia di spendere.

    A che cosa mi serve la sessualità?

    Per noi uomini e donne consacrate è importante anche saper gestire la nostra sessualità. In una tavola rotonda tenuta da Durckheim, una suora aveva dichiarato di non avere problemi relativamente alla propria sessualità perché l”aveva messa sotto ghiaccio. E Dùrckheim le aveva risposto: “E si vede! Ma, attenzione, perché lì si conserva fresca». Non si tratta di eliminare la sessualità, bensì di urilizzarla per sé come sorgente di spiritualità, di vivacità e di gioia di vivere. La sessualità è il cane che, abbaiando, vorrebbe condurmi a scoprire il tesoro nascosto nella mia torre interiore. Non devo rinchiuderla e congelarla in questa torre perché, così facendo, potrei perdere il mio calore, la mia carica affettiva e la mia umanità. Oppure potrei sentirmi tagliato fuori dalla vita. E vivrei continuamente nel timore che i cani possano irrompere e scorrazzare senza freni. Sarei sempre tormentato dall” angoscia dei desideri in agguato, che potrebbero cogliermi di sorpresa.

    Una monaca raccontava che non si fidava ad abbracciare un sacerdote che le piaceva perché con quel­ l”atto la sua sessualità avrebbe potuto attivarsi e sornmergerla. Ma con questa paura sulle spalle, non rimane che soffocare sul nascere ogni germe di energia sessuale e vietarsi qualsiasi gesto di tenerezza, sia pure il più piccolo, e la sessualità insita anche in una donna consacrata non riesce a trasformarsi in forza ablativa, in espressione di affettività. È naturale che in ogni abbraccio tra un uomo e una donna entri in gioco anche l”energia sessuale. Ma, se è vero che in un abbraccio io avverto sensibilmente e consciamente la vicinanza, questo non significa in nessun modo che esso segnerà l”inizio di una relazione sessuale. La paura e la fantasia di quella monaca sono piuttosto segni di energia accumulata, repressa e quindi predominante.

    A Walter Lechler, medico specialista,  sta molto a cuore che nelle sue cliniche si pratichi il contatto fisico per fare sperimentare ai pazienti che la vicinanza non significa ancora, e per un periodo di tempo prolungato, un contatto sessuale. Oggi abbiamo bisogno di una nuova cultura dell”affettività e della tenerezza: ci libererebbe dall” ossessione della genitalità. Le donne e gli uomini non sposati non devono reprimere la loro sessualità; potrebbero invece contribuire a vivere una spiritualità pervasa dalla forza dell” éros e sviluppare una cultura della relazione interpersonale uomo-donna in cui non è in gioco il dominio bensì una tensione rispettosa e feconda tra i due sessi e un erotismo che da epoca immemorabile è stato – senza alcun problema – il fattore basilare della cultura.

    Ma in alcune comunità religiose è proprio inutile cercare una cultura della tenerezza perché a malapena ci si saluta con una stretta di mano. Nella tradìzione benedettina si usa salutarsi augurando la pace, ma anche lì si ritiene che sia già un progresso darsi la mano. In altre comunità viene praticamente a man­ care la possibilità di esprimere in modo naturale, cioè fisicamente, la prossimità all”altro. Non si tratta soltanto della tenerezza nella relazione interpersonale, ma anche del rispetto e della delicatezza verso le cose. Nell”attenzione che abbiamo per gli utensili, gli abiti o la macchina da scrivere si rivela senz’ altro se permettiamo alla nostra energia erotica e sessuale di permeare tutte le nostre manifestazioni vitali. Una sessualità non integrata emerge spesso dal modo brutale in cui trattiamo le cose. A volte c”è da spaventarsi e proprio nei conventi per la brutalità con cui vengono trattati gli attrezzi e i libri dei canti, ma anche per la durezza verso se stessi e verso gli altri.

    Una sessualità coscientemente e amorevolmente integrata si esprime nella cultura della vita, nel senso della festa, nel modo di sistemare e abbellire la camera, nell” attenzione per le cose quotidiane. Dal mo­ do in cui una comunità celebra le proprie feste si comprende se le persone che in essa vivono hanno fantasia e forza erotica da spendere per una cultura del l”affettività e della tenerezza, se hanno integrato la loro energia sessuale o se tutto questo non viene mai messo a tema e l”atmosfera è sterile. Dovremmo riscoprire l”erotismo e la sessualità in quanto forze dello spirito. Nella storia della mistica vediamo che la sessualità è la vera e propria fonte della spiritualità. L”energia sessuale costituiva per i mistici uno stimolo a trascendere se stessi e a diventare un tutt”uno con Dio nell”estasi dell”amore. L”integrazione della sessualità nel nostro cammino spirituale e umano ci inviterà a non sentirei soddisfatti perché conosciamo e adempiamo a ordini e regole e viviamo correttamente. La vocazione più profonda della vita consacrata consiste piuttosto  nel vederci e amarci come siamo, creature umane fatte di anima e di corpo,  nel superare il nostro piccolo lo e  nell”abbandonarci tra le braccia di Dio.

    In Evagrio Pontico (ca. 346-399) è ancora possibile avvertire come i monaci di quel tempo fossero af­ fascinati dalla loro dignità consistente nel poter pregare e, pregando, diventare tutt”uno con Dio, nell”es­ sere assunti nella comunione d”amore del Dio trino. Non si tratta di “toccare con mano” la sessualità, ma di lasciarsi trascinare da questa nell”amore di Dio. Per i monaci dei primi secoli la sessualità era una forza che spingeva verso Dio. Allora la vita religiosa offre la possibilità di trasformare la sessualità in spiritualità, se la accettiamo e la prendiamo sul serio. Nella storia della spiritualità, il celibato è stato certamente causa e sprone a non accontentarsi di un cristianesimo tiepido e borghese ma a continuare a tendere verso Dio, con passione e in modo sempre nuovo. Anche oggi gli ordini religiosi avrebbero il compito di vivere la tensione tra éros e mistica e di tener desta la Chiesa. La trasformazione della nostra sessualità, voluta da Dio, in spiritualità impegnata può tuttavia avvenire solo a condizione che ci riconciliamo e facciamo amicizia con la nostra sessualità, solo se sappiamo viverla armoniosamente e non la rinchiudiamo nella torre per paura dei cani che latrano, impedendole di parlare. La sessualità terrà desto il nostro desiderio di Dio, che anche nell”amore e nell”estasi coniugale rappresenta il terzo, misterioso e indicibile. Questo desiderio ci fa cantare con il salmista: «O Dio, tu sei il mio Dio, all”aurora ti cerco, di te ha sete l”anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz”acqua» (Sal 63,2).

    La malinconia e la depressione dell” anima

    Le depressioni sono un tema ricorrente anche nei conventi e nei monasteri. Qui bisogna distinguere tra quella che è una vera e propria malattia – cioè la depressione endogena che si può trattare solo con i far­ maci  e le depressioni reattive per mezzo delle quali rispondiamo ai lutti e ai traumi emotivi. A volte le depressioni fanno seguito anche a esaurimento interiore o ambientale. Non si ha più la forza di far fron­ te alle esigenze della vita quotidiana perché sono   eccessive oppure perché non siamo più collegati con la nostra fonte interiore di energia. Tra le persone di vita consacrata, le depressioni possono inoltre aver origine nella conseguente repressione della sessualità, che è senz”altro una forza vitale decisiva. In altre situazioni le depressioni sono anche il risultato di reazioni immature a delusioni e frustrazioni.

    Alcuni si deprimono se il superiore o la superiora non rivolgono loro la parola abbastanza spesso o non li considerano sufficientemente, quando cioè si sentono trascurati – come forse accadeva molti anni prima con il padre o la madre. Osservano con precisione quante volte e per quanto tempo i superiori parlano con i singoli confratelli o consorelle e, se ritengono di non essere altrettanto oggetto di attenzione, diventano gelosi o cadono in depressione. È chiaro che si tratta di comportamenti immaturi, di tendenze infantili a punire la madre o il padre che si occupano troppo poco del bambino.

    Altri religiosi vanno subito a terra con il morale se vengono criticati da un confratello o da una consorella oppure se in comunità ci sono delle tensioni che disturbano o addirittura minacciano di distruggere la felicità e l”armonia del loro paradiso infantile. Altri ancora cadono in depressione perché non si sentono considerati quali essi sono oppure perché non si fidano di mostrarsi come realmente sono. Altri infine vanno in depressione perché hanno paura di non essere all”altezza di fare ciò che viene loro richiesto. E la depressione è spesso conseguenza del perfezionismo: ci si deprime perché non si è perfetti come si vorrebbe o si ritiene di dover essere, perché non si corrisponde alle fantasie di onnipotenza dell”infanzia.

    Qui si pone il problema di come convivere con stati d”animo depressivi. Anzitutto, la malinconia può essere certamente anche fonte di creatività, come ha dimostrato Romano Guardini che per un certo periodo della sua vita ha sofferto di malinconia. Secondo lui, la malinconia richiama la depressione dell”anima. È vero che la depressione può fiaccare e diventare un”afflizione. Se però io mi rassegno al fatto di essere sensibile e continuamente soggetto a depressione, allora posso rendermi sensibile anche ai problemi altrui e la depressione può diventare anche fonte di matura zione. È però indispensabile che io entri nel pozzo della mia depressione, più o meno come fa Goldmarie nella fiaba Frau Holle. Finché la protagonista di questa favola continua a lottare contro la rassegnazione e la depressione, rimanendo in superficie, finisce sempre più nel vortice delle pretese eccessive. Quando invece si decide a saltar giù nel pozzo, atterra su un prato fiorito. È dall”interno che le cose si rivelano nella loro multiformità. E la depressione si trasforma in un mondo colorato.

    Mi spiego: non basta un pio tentativo di scacciare la tristezza e la malinconia, dicendoci che non possiamo essere tristi perché Dio ci ama. Nel momento della depressione questa misura non serve per uscirne. lo devo scendere nella mia tristezza, ammetterla, provarla fino in fondo; solo allora può succedere che questa si trasformi da sé, che toccato il fondo della tristezza io avverta una pace profonda. Improvvisamente scopro la profondità della vita, avverto la gravità dell”esistenza. Ma questa scoperta non mi rende infelice perché mi sento a contatto con il segreto della vita, con il segreto del mio vero Sé, con il segreto di Dio. Sul fondo della mia tristezza misuro la mia profondità e mi sento a casa. Se mi espongo ad essa, mi concilio con essa, la tristezza può diventare sorgente di preghiera e/o di nuova forza e creatività. Qualcuno sfugge alla tristezza tuffandosi nelle varie attività. La sua vita potrebbe però diventare più profonda e più colorata se si concedesse anche il tempo per la tristezza e la malinconia che affiorano in noi e che chiedono di essere vissute.

     

     

     

     

     

     

     

     

    Posted by attilio @ 15:04

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