• 28 Apr

    PARLARE DI DIO OGGI: COME?

    di p. Attilio Franco Fabris

     

    Quando ci si pone la domanda di “quale Dio” vogliamo parlare, se ne forma implicitamente un’altra:” esiste quel Dio di cui vogliamo parlare?

    Le due domande sono inseparabili, esse sono tra loro strettamente interdipendenti. Perché?

    La ragione è che alla domanda dell’esistenza di Dio  si risponde (positivamente o negativamente) in base all’immagine di Dio che si possiede.

    Questa constatazione è importante anche per chi è chiamato ad annunciare.

    E’ esperienza costante la fatica del dire Dio, e questo quasi sicuramente perché di lui si hanno immagini troppo sbiadite, frastagliate, annebbiate, forse minacciose. Penso che occorra prendere in esame serio le proprie immagini di Dio, perché il più delle volte esse contengono elementi troppo eterogenei e magari contrastanti: ne risulta un Dio enigmatico che risulta poco amabile.

    Immagini che di conseguenza certamente non affascinano l’annunciatore per primo e di conseguenza gli uditori.

    Venendo meno la spinta a parlare di Dio, ci si ripiega allora ad accontentarsi di un parlare del “‘sacro’ oggettivo e generico: parola di Dio, sacramenti, nuovissimi, comandamenti, morale…

    Eppure di Dio si deve parlare. Ma come?

    Gli uditori infatti attendono una parola che dia vitalità al loro credere, che spinga non a confrontarsi con idee o con verità, ma ad incontrarsi con una persona.

    Per noi cristiani questo è possibile, non è un’utopia, perché Dio si è rivelato. Cristo è l’ ‘esegesi’ del Padre. Una rivelazione questa nella quale siamo invitati ad entrare e a penetrare sempre più, perché è Lui, Dio, che ci invita a conoscerlo: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi…” (Ebr 1,1).

    Partire dalla fede

    La fede donata è il punto di appoggio dal quale è necessario partire per intraprendere la conoscenza di Dio.

    Fede intesa come luce che illumina ed è illuminata dal mistero: “Dio vi conceda uno spirito di sapienza e di rivelazione per una conoscenza più profonda di lui” (Ef 1,17).

    Lo Spirito che scruta il mistero di Dio è lo Spirito che ci è stato donato, colui che immette il dinamismo nella nostra fede il quale ci spinge ad avanzare sempre più in là nella conoscenza di Dio, senza arrestarci dinanzi alle prime immagini acquisite di lui.

    E’ questa una esperienza da attuare. Ora nell’annunciatore non si può prescindere da questa sua soggettiva esperienza, non si può dare un annunzio esclusivamente del dato oggettivo rivelato. La fede è comunicata attraverso una testimonianza.

    Esiste quindi una circolarità fra credo confessato e vissuto: circolo ermeneutico tra rivelazione storica fatta a tutti e rivelazione individuale.

    Vero annunciatore di Dio è colui che ha ascoltato e risponde alla parola che poi dovrà annunciare.

    PARTIRE DALL’ESPERIENZA

    La conoscenza oggettiva è a disposizione di chiunque, non quella soggettiva. Essa rientra nel dinamismo della grazia.

    Ma è questa esperienza che vivifica la conoscenza oggettiva (fides quae et qua creditur).

    E sulla base di questa simbiosi l’annuncio si riveste di determinate caratteristiche: a ciascuno è dato di conoscere e testimoniare un dato particolare del mistero, egli renderà esplicito un aspetto di una totalità che nella sua infinitezza rimane in-comprensibile.

    Questa differenza va accolta come dono dello Spirito nella sua varietà di espressioni di un unico mistero

    E’ DIO CHE SI RIVELA

    Ovviamente l’annuncio non è ridotto a comunicazione di esperienze soggettive.

    La religione ebraico-cristiana crede in un Dio che, nel suo amore, ha voluto parlarci di se stesso.

    E’ questa verità di fede che sorregge l’annuncio e l’esperienza. Se ciò non fosse esso sarebbe ridotto a comunicazione di dati teorici oppure di un ventaglio di esperienze perlopiù contraddittorie.

    In base a ciò riteniamo fondamentale che l’annuncio ritorni continuamente alla rivelazione che Dio ha fatto di sé. Allora la predicazione diviene testimonianza di questa passione del Dio che si comunica alle creature

    Alcuni dati rivelati appaiono particolarmente fondamentali in questo senso.

    L’Incarnazione

    Affermiamo nella fede che il Figlio di Dio, la seconda persona della ss. Trinità, si è fatto uomo.

    Questo fatto lo riceviamo dalla testimonianza dell’autocoscienza di Gesù di Nazaret.

    Se questa coscienza è vera, come afferma la fede, allora la persona di Gesù è la fonte della conoscenza di Dio. Allora non è più possibile parlare di Dio prescindendo da Gesù.

    Il vangelo non può essere accostato come “‘prontuario’ di verità o di predicabili, ma come fonte che ci permette di accostarci all’umanità di Gesù rivelatrice di Dio. E’ la sua umanità l’ ‘immagine visibile’ del Dio invisibile. Ogni atto della vicenda di Gesù di Nazaret è rivelazione del mistero divino. ‘Se il soggetto di ogni azione di Gesù di Nazaret è il Figlio eterno, allora ogni atto di quest’uomo è rivelazione del mistero divino. In Gesù di Nazaret… si offre il volto umano di Dio… L’umano è pienamente assunto e radicalmente valorizzato nella storia del Figlio dell’uomo”’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    Dio si rivela nell’umano: ed è la novità della rivelazione cristiana.

    Gesù è anche il Rabbi, il Maestro, che ci parla di Dio. Il suo annuncio si riassume nel proclamare il “‘Regnare di Dio’, nell’affermare la vittoria di Dio sulle potenze del male.

    Il suo è un evangelo di una liberazione definitiva ed universale. Il Regno che con lui già possiede l’inizio e che attende alla fine dei tempi il suo pieno compimento.

    Gesù ci rivela anche che questo Dio che regna, ha un nome nuovo: Abbà. Un Dio che ama paternamente ogni uomo, soprattutto il povero e il peccatore. I cieli con Gesù si aprono su un Dio che non incute più paura, ma che accoglie l’umanità in un abbraccio di misericordia e di comunione di vita.

    La Trinità

    Alla nostra predicazione manca una vera prospettiva trinitaria. Secondo il teologo Moltmann il nostro annuncio è ancora troppo costituito da ‘un monoteismo solo debolmente cristianizzato… che Dio sia uno e trino sembra irrilevante tanto per la dogmatica che per l’etica… In realtà i cristiani vivono quasi fossero soltanto monoteisti’.

    In effetti spesso si pensa Dio in termini di uno e quindi solo. Si parla anche linguisticamente più di Dio che di Trinità.

    E’ facile comprendere come un’esperienza di Dio Trinità verrebbe moltissimo in aiuto a recuperare un giusto rapporto con il divino, facendoci superare la paura.

    Infatti un Dio solo ci appare temibile, enigmatico, chiuso in se stesso, estraneo alla nostra esperienza più determinante che è quella del dialogo e della relazione. L’annuncio trinitario viene a rompere definitivamente questa immagine della divinità; essa invece ci rivela un Dio che è comunione, relazione, dialogo, eterno gioioso di tre persone. In Dio vi è un Io, un Tu, un Noi.

    Importante per l’uomo è che davanti a tale rivelazione egli non si sente più estraneo, schiacciato, estraneo, ma anzi chiamato per vocazione ad entrare e a partecipare di questo flusso eterno di amore.

    Un ulteriore aspetto di tale discorso è la necessità di recuperare la dimensione trinitaria nella vicenda terrena di Gesù. Se vi è Trinità, allora in questa storia è implicata sempre la relazione col Padre e lo Spirito. Essi la vivono con Gesù. Padre e Spirito ‘non sono spettatori estranei della storia del Verbo fatto carne: essi la vivono con lui… Tutta la storia di Gesù è rivelazione della storia trinitaria di Dio… In Gesù si rivela contemporaneamente il volto trinitario di Dio e il rapporto del mondo al Padre’ (B. Forte, Gesù di Nazaret).

    La Croce

    La croce assume tutto il suo scandalo se si accetta che essa sia toccata a Dio, e quindi all’intera Trinità. Essa è ‘passione’ di Dio.

    Di solito nella predicazione la lettura viene fatta dal basso: la via crucis dell’innocente che sale il Calvario per offrire il suo sacrificio a Dio: il padre ne resta fuori commosso o adirato a seconda delle teologie.

    Ora, in una visione trinitaria della storia di Gesù, si considera la via crucis del Padre che scende sul Calvario per offrire, attraverso il Figlio crocifisso, il suo perdono e la sua comunione di vita all’uomo peccatore.

    L’apostolo Paolo associa sempre la sua predicazione della croce alla rivelazione di Dio, e pensa la croce in riferimento al Padre: “Ma Dio ci dà prova del suo amore per noi nel fatto che, mentre ancora eravamo peccatori, Cristo morì per noi” (Rm 5,8); “Lui, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo diede in sacrificio per tutti noi, come non ci darà in dono insieme a lui tutte le cose?” (Rm 8,32)..

    Dio si rivela nell’impotenza, nel suo prender parte alla sorte degli ultimi; ed è quindi un Dio che si lascia coinvolgere nella sofferenza dell’uomo.

    L’evangelo della grazia

    La predicazione dovrebbe testimoniare ‘l’evangelo della grazia’” (At 20,24).

    Questa grazia, che lungo il corso della storia è stata fatta oggetto di interminabili diatribe e dispute teologiche, ha perso nella predicazione il suo carattere di annuncio gioioso.

    Essa è stata circondata dalle siepi spinose e precauzionali dei se e dei come, che finiscono solo per inaridire l’annuncio di un Dio folle di amore, di un Dio che si dona subito, totalmente, eternamente, gratuitamente..

    Il nostro discorso sulla grazia ha dato adito all’immagine di un Dio che bisogna comprare (anche se a prezzi stracciatissimi… e siamo ben lontani dalla “grazia a caro prezzo di D. Bonhoffer!), e quindi di un Dio banale e umiliato.

    La sovranità di Dio si manifesta nel suo dono che attende il dono, la grazia, dell’uomo: una risposta di fede amorosa e gratuita, mai comprata!

    In questa risposta l’uomo è assolutamente libero da costrizioni, in quanto Dio stesso lo pone in uno spazio di piena libertà.

    Purtroppo per tanti credenti il fatto, o la pratica religiosa, consiste in un ‘ dare qualcosa a Dio ‘, un ‘fare qualcosa per Dio’ al fine di avere ricompensa. Al discorso della grazia si è sostituito un discorso mercenario: in quanto Dio stabilisce le regole del gioco senza coinvolgersi, e sta all’uomo il decidere sul da farsi.

    Certo, non si tratta di negare il premio al bene, ma di sganciarlo dalla pretesa di diritto di comprare nei confronti di Dio la salvezza.

    Il Dio rivelato da Gesù è un Dio che salva. Il suo agire nella storia è sempre e soltanto salvifico: ‘Piacque a Dio buono e sapiente rivelare se stesso e far conoscere il disegno della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo… e nello Spirito santo hanno accesso al Padre… Con questa rivelazione il Dio invisibile, nel suo immenso amore, parla agli uomini come ad amici” ‘ (DV 2).

    ALCUNE PISTE

    Riferimento alla sacra Scrittura

    Il ritorno alla Bibbia invocato dal Concilio Vaticano II a poco servirebbe se non contribuisse a far rivedere l’immagine di Dio.

    Preghiera, prassi sacramentale, predicazione, devono continuamente rifondarsi su quel Dio che si rivela nella storia descritta nelle pagine della Scrittura.

    Si ha l’impressione che la predicazione e la prassi liturgica viaggino piuttosto in senso perlopiù orizzontale, o tuttalpiù tentino qualche sporadico slancio verso l’alto ma senza convinzione ed entusiasmo.

    Si è forse incapaci di scorgere la presenza di Dio nella storia, e non si possiedono i parametri per leggere l’esperienza di Dio in noi.

    Oltre il moralismo

    Sembra prevalere ancora il ‘Cosa devo fare?’, ovvero l’interesse operativo nel fattore religioso. Il discorso morale ha ancora, nonostante tutti gli sforzi, la predominanza, questo dando sempre per scontato che chi si accosta al discorso religioso il vangelo sia già noto.

    Occorre sempre ricordare che l’aspetto morale è importante, ma sempre subordinato al discorso della grazia, questo affinché non si rischi di restare ancora senza il vangelo della grazia di Cristo.

    Nella predicazione bisogna tornare all’annuncio di questo evangelo.

    Parlare di Dio da credenti

    La fede in Cristo ci presenta il Dio di cui parlare. Ma come parlarne?

    Anzitutto occorre parlarne da credenti: ‘Ho creduto perciò ho parlato’ (Sal 116,10); ‘Anche noi crediamo e perciò parliamo’ (“2Cor 4,13).

    Come Chiesa e come annunciatori si parla di Dio non solo perché ‘si sa’, ma perché questo ‘sapere’ scaturisce e si fonde sulla e nella fede.

    La parola che viene annunciata ad altri è anzitutto una parola rivolta prima a se stessi. Io sono il primo destinatario e il primo uditore della parola che annuncio agli altri.

    E la fede di chi annuncia si alimenta del rapporto con Dio nella preghiera. E’ lì che si radica la missione. Un annuncio privo di questo dinamismo interiore si riduce a comunicazione di dati oggettivi, privi del sostegno fondamentale della testimonianza.

    Raccontare Dio

    La passata predicazione si dilungava a parlare di Dio attraverso i suoi attributi (onnipotenza, eternità, giustizia, onnipresenza…). Ma questo approccio al discorso su Dio, benché giusto filosoficamente, è tuttavia insufficiente. Il Dio della scrittura è colui che si rivela nelle sue opere salvifiche.

    Nella bibbia non si parla in modo astratto degli attributi di Dio, essi emergono lungo la storia e sono da questa raccontati.

    Teniamo presente che la traduzione in storia degli attributi di Dio è operazione che egli stesso ha già compiuto.

    Questa metodologia di Dio dovrebbe essere seguita dalla predicazione. L’uomo si domanda se Dio esiste, se è amato da lui: la sacra scrittura risponde più volentieri al passato, raccontando. Il regno di Dio lo si racconta perché esso consiste nel suo operare.

    Evangelizzare Dio

    Forse sarebbe il caso di domandarsi sinceramente se la nostra predicazione riguardante Dio suscita lode e ringraziamento (ovvero è ‘buona notizia’), oppure lascia ancora adito all’inquietudine e al disagio.

    E’ un dato di fatto che da un lato Dio è predicato nello stesso tempo come bontà e giustizia, perdono e punizione, colui che distribuisce grazie ma anche disgrazie, colui che è presente ma anche assente… Se le cose stanno così è chiaro che l’uditorio finisca col trovarsi dinanzi ad un Dio imprevedibile ed inaffidabile.

    Nel profondo viene avvertito come essere ambiguo.

    Riconosciamo che questo sospetto  e questa diffidenza è uno dei frutti del peccato. La colpa originaria ha distorto l’immagine di Dio. Ma la grazia dell’evangelo dovrebbe farci recuperare in Cristo la sua giusta immagine.

    L’annuncio di Dio deve essere sempre ‘buona notizia’. Dio è Abba’, ed è solo questo e non un’altra cosa contemporaneamente.

    “Per un uomo religioso è insopportabile un Dio che non sia innanzitutto colui che ricompensa e castiga… L’inclinazione naturale dell’uomo è quella di non credere in un Dio come quello rivelato da Gesù, la cui giustizia e potenza sono soltanto di amare” (Six).

    Dio prova pietà e sofferenza per il peccatore, non desiderio di punirlo. La punizione del peccato è già racchiusa  nella sua natura di assenza di bene.

    Conclusione

    L’immagine di Dio in noi è sempre in mutamento. E’ immagine viva, chiamata a crescere ( o destinata per vari motivi a deformarsi sempre più sino ad essere rigettata).

    Sarà importante tenere presenti due aspetti.

    Il primo è che in quest’opera di riscoperta dell’immagine di Dio non siamo solo noi ad operare, ma anzitutto la grazia dello Spirito di Cristo che ci insegna le cose di Dio.

    Il secondo è che la nostra immagine è guida al nostro rapporto con Dio, ci fa strada nella preghiera e nell’azione.

    E proprio nella preghiera e nei sacramenti tale immagine viene incessantemente elaborata e rielaborata.

    Colui che parla veramente di Dio parla di ciò che ha ricevuto come dato di fede  e che ha accolto e assimilato nella propria esperienza.

    Posted by attilio @ 17:58

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