• 27 Dic

    André Louf

    LA VITA CONTEMPLATIVA

    Tratto da: André Louf, LA VITA SPIRITUALE – ed. Qiqajon, Comunità di Bose – a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    Trent’anni di aggiornamento hanno permesso alla vita con­templativa maschile di comprendere meglio se stessa e di rendersi più leggibile agli altri. La sua struttura esteriore si è tra­sformata, alcune osservanze sono state semplificate, alcuni ritmi allentati: nell’insieme si è verificato un ritorno al gusto dell’es­senziale.

    Il cambiamento più importante, però, è avvenuto all’interno dei cuori. Se il contemplativo continua sempre a rallegrarsi, per quanto indegno ne sia, di aver ricevuto il dono di quella che nor­malmente si è convenuto di chiamare la “parte migliore”, egli la inquadra ormai diversamente. Men che mai è tentato di farsi avanti nella chiesa, ai primi posti, per così dire. Egli ritrova il suo vero posto, quello del pubblicano dell’evangelo, proprio in fondo, e si unisce alla sua invocazione – abbi pietà di me, pecca­tore – che Benedetto gli ha affidato come formula della preghie­ra perfetta e continua. Egli è stato condotto a questo da un’e­sperienza approfondita della sua vocazione alla contemplazione. Ma in cosa è consistita questa esperienza?

    Un posto in fondo alla chiesa, dicevo, e tuttavia sempre al cuore della chiesa, ora più che mai. E in primo luogo là dove la chiesa, al seguito del popolo ebraico nel suo esodo, e del suo Mae­stro Gesù durante il suo digiuno, si ritrova sempre, nel deserto, nel luogo delle sue origini, là dove Dio la convoca “per parlarle al cuore … e per fidanzarla a sé per sempre” (cf. Os 2,16.22). Nei suoi contemplativi, incessantemente in ascolto della Parola e da essa quotidianamente rigenerati, la chiesa, anche se rivolta al mondo e pienamente inserita in esso, si trova nel contempo sempre addossata al deserto. Questo dialogo amoroso tra la chie­sa e il suo Sposo, al quale alcuni sono votati in modo esclusivo, è la sola cosa che le garantisca l’autenticità del suo messaggio.

    Perciò l’ascolto assiduo della parola di Dio, nella liturgia ce­lebrata in comune o in quella liturgia privata che è la lectio divina, è ormai divenuta l’occupazione principale del contemplati­vo, la sorgente alla quale egli alimenta la sua preghiera. Parola ascoltata, amorosamente ruminata, pazientemente assimilata, e che finisce per ripercuotersi in azione di grazie, in lode e in­tercessione, a volte anche in condivisione con quelli che vengo­no a richiedergli una parola. Il contemplativo è la Parola dive­nuta preghiera.

    E’ una strada lunga, perché questa vita nel deserto e questo esodo non sono di tutto riposo. Come Gesù, il contemplativo è stato condotto nel deserto per esservi tentato dal divisore. Non vi è altra porta d’accesso alla contemplazione cristiana, ed essa è particolarmente stretta. La prima prova gli viene proprio dalle condizioni di quel deserto che si è generosamente scelto creden­do di trovarvi la via sicura per il suo scopo, cioè le diverse forme di quella che tradizionalmente viene chiamata ascesi: il digiuno, le veglie, la solitudine, il silenzio.

    Queste pratiche ascetiche esistono in molte altre religioni, ma non ci si inganni su questo punto: alla luce dell’evangelo e nella persona di Gesù cambiano completamente di significato. Esse non facilitano più nulla, e ancor meno possono meritare, ciò che può essere solo un dono assolutamente gratuito dell’Amore. Es­se ormai servono solo a una cosa – quella che il novizio meno si aspettava – a scavare sempre di più l’abisso della sua totale po­vertà davanti all’offerta di Dio. Ben lungi dal fornire l’occasio­ne per uno sfoggio di abnegazione, l’ascesi cristiana è destinata a divenire il luogo della sconfitta del contemplativo, dove solo la grazia di Dio trionfa, mettendo in evidenza la radicale debo­lezza dell’uomo nella quale può finalmente dispiegarsi la poten­za della grazia. Il contemplativo finisce per sperimentare molto concretamente fino a che punto tutte le sue buone opere non siano altro che miracoli della grazia.

    Non vi è via più dolorosa e che sottoponga a una spoliazione più radicale: quella dell’umiltà evangelica. Molti contemplativi si fermano per strada ritenendo che la loro supposta virtù sia in­compatibile con un tale abbassamento ai propri occhi, e a volte anche agli occhi degli altri. Tuttavia non vi è altra via che que­sta, dove il contemplativo impara che non è migliore dei suoi fratelli, che è un peccatore perdonato quanto e più di loro, e che, per poter accedere alla contemplazione in modo forse più agevo­le rispetto ai suoi fratelli, deve raggiungere coloro ai quali Gesù ha promesso che avrebbero preceduto tutti nel suo regno. Egli diventa così la chiesa dell’umile e gioioso pentimento.

    Umiltà tanto più radicale in quanto tocca il contemplativo fin nel desiderio stesso che costituisce il cuore della sua vocazione, quello di vedere e di conoscere Dio. Un Dio che sembra nascon­dersi nell’inguaribile debolezza che egli vive, che si sottrae co­stantemente a una tale povertà. Un Dio che sembra così lonta­no, un Dio che, in certi momenti, gli sembra come “morto”, inesistente, un miraggio, proiezione all’infinito dei propri desi­deri.

    Il contemplativo si trova allora nel cuore del suo deserto, o della sua notte oscura, e anche del mistero di Gesù: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Notte che può essere breve, ma che a volte si prolunga, apparentemente senza fine, a discrezione della grazia di Dio, a misura di ogni vo­cazione individuale. Più di ogni altro credente il contemplativo diventa allora un “esperto in ateismo”. Crede? Forse… ma senza credere, a lui sembra. Non ci capisce più niente, salvo una cosa: che il Dio al quale pensava di credere non era che un semplice idolo, più o meno inventato da lui, o forgiato da una cultura an­cora vagamente impregnata di cristianesimo; e che il vero Dio, il Dio di Gesù Cristo, è completamente altro e verrà altrove; e so­prattutto che egli non deve più cercare di raggiungerlo con i suoi sforzi, ma che basta attenderlo senza stancarsi, e lasciarsi affer­rare da lui, nell’ora che a lui piacerà.

    E’ in questo abisso dell’umiltà, come lo chiamava Ruusbroec, che si può verificare il miracolo, che Dio diventerà “percepibile dal suo cuore”, che a poco a poco egli potrà “gustare fino a che punto il Signore è dolce”. Più che mai il contemplativo diventa allora parte della chiesa che intravvede già un poco le gioie del cielo. “Ma di notte”, come diceva Giovanni della Croce, o me­glio, di notte in notte e di chiarore d’aurora in chiarore d’aurora, quasi incollato alla parola di Dio, lampada sui suoi passi, e dol­cemente sedotto da essa, come dalla stella del mattino, finché il pieno sole non venga a inondare della sua luce la chiesa intera.

    Di quest’avventura spirituale resta da sottolineare un ultimo elemento – e non secondario, perché io parlo qui a nome delle famiglie religiose -: essa si svolge in una comunità di fratelli, una comunità che diventa così forzatamente nel contempo scuo­la di umiltà e via di contemplazione. Come pretendere infatti di amare Dio senza amare i propri fratelli? Schola caritatis, scuola dell’umile amore e scuola di contemplazione, la comunità con­templativa si presta così a diventare, a Dio piacendo, una mi­cro-chiesa che Dio si è scelto e che offre a se stesso, perché vi sia celebrato già un inizio delle nozze tra suo Figlio e la sposa che egli si è riscattata. E Dio la offre anche al mondo, affinché essa lasci intravvedere, in una specie di anticipazione, quella che sarà la nostra comune gioia per i secoli.

    In conclusione, vorrei ancora suggerire alcune complicità esi­stenti tra la vita contemplativa, così intesa, e certe sfide rivolte alla chiesa di oggi.

    Nell’essere semplicemente quello che è, senza pretendere di più, la vita contemplativa può risvegliare, nel credente come nel non credente, il desiderio di comunione con Dio che sonnecchia nel suo cuore.

    Purificato dai suoi falsi dèi, il contemplativo si sente vicino a tutti coloro che sono nel dubbio e in ricerca, e particolarmente a coloro che si credono atei.

    Egli è vicino in modo particolare ai peccatori, tentati di spro­fondare nella disperazione, e che spesso vengono a bussare alle sue porte, perché egli ha una qualche esperienza della misericor­dia sconvolgente di Dio, e sa che il gioioso pentimento è l’unica strada per conoscere fino a che punto noi siamo amati, per il peccatore come per il giusto.

    La vita contemplativa può attestare l’esistenza di una “tecni­ca”, se mi perdonate la parola, propriamente evangelica al servi­zio della contemplazione, che deve esser conosciuta e vissuta per se stessa prima di poter dialogare utilmente con altre tecni­che non cristiane.

    Questa vita è una meravigliosa scuola di discernimento nella quale, nel corso dell’avventura contemplativa, s’imparano a ri­conoscere le vere consolazioni dello Spirito al di là di tanti altri desideri che si agitano nel cuore. Essa costituisce anche un pos­sibile spazio di dialogo fra la tradizione spirituale della chiesa e certe acquisizioni delle scienze umane.

    Infine, è per eccellenza un luogo ecumenico nel quale i cercatori di Dio delle tradizioni cristiane d’occidente e d’oriente pos­sono incontrarsi e, al di là delle barriere teologiche, comunicare fra loro. Ma questo vale anche per i cercatori di Dio e i mistici di tutte le religioni non cristiane.

    Per terminare: due apoftegmi moderni.

    Un monaco ortodosso visitando una trappa confessava di avervi scoperto “un angolo di ortodossia nella chiesa latina”. Meglio ancora: un giovane mu­sulmano, trovandosi recentemente nella stessa situazione, con­fessava: “Ho finalmente trovato dei veri musulmani”.


    Posted by attilio @ 11:01

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